Giugno 6, 2024

133 thoughts on “LETTERATURA E OBESITA’: KADDISH di Francesca Mazzucato

  1. Intanto ribadisco i miei ringraziamenti alla Azimut e a Francesca Mazzucato per la “concessione” in esclusiva per Letteratitudine delle prime pagine del libro.

  2. Questo post è molto importante perché segna il “ritorno al commento” di Francesca Mazzucato.
    Nei due anni passati, Francesca, per una serie di motivi, aveva deciso di non lasciare più commenti nei blog. Nemmeno nel suo.
    Ringrazio ulteriormente Francesca e chiedo a voi amici di Letteratitudine di accoglierla con particolare calore.

  3. Mi permetto di riproporre qui di seguito gli “spunti per il dibattito” indicati sul post:

    1. Interagiamo con Francesca Mazzucato, che parteciperà al dibattito (ponetele domande sul libro)

    2. Discutiamo sulla piaga dell’obesità (cosa ne pensate? Siete d’accordo sul fatto che qui in Italia non si presta la dovuta attenzione a questo problema?)

    3. Budapest (la conoscete? Ci siete mai stati? Provate a verificare se le vostre impressioni su questa città combaciano con quelle della Mazzucato e della protagonista del libro.)

    4. Imre Kertész, premio Nobel per la letteratura 2002 (lo conoscete? Lo avete mai letto?)

  4. A proposito di obesità…
    su Repubblica di oggi è uscito questo articolo:
    —-
    —-
    Finalmente si capisce perché non sempre dieta e palestra sono efficaci: “Le cellule grasse sono immortali”. Ecco perché è difficile perdere peso
    Aperta la strada a un nuovo modo di guardare all’obesità

    di SARA FICOCELLI

    CHI FIN da sempre ha qualche chilo di troppo e non riesce a perderlo può mettersi l’animo in pace: le cellule adipose sono immortali. O meglio: muoiono, ma subito vengono rimpiazzate da altre dello stesso tipo. Una ricerca svedese pubblicata su Nature afferma, infatti, che il numero degli adipociti, ovvero le cellule di grasso, rimane costante nell’organismo di un adulto per tutta la vita.

    Le cellule che muoiono vengono subito rimpiazzate. Secondo Kirsty Spalding, del Karolinska Institute di Stoccolma, che ha studiato campioni di grasso prelevati attraverso la liposuzione sia da persone grasse che magre, il numero degli adipociti rimarrebbe lo stesso anche in adulti che sono diventati magri dopo aver perso parecchi chili. Un risultato che lei e i suoi colleghi spiegano con il fatto che il livello di obesità è stabilito sia dalla combinazione tra il numero delle cellule di grasso e la loro grandezza, sia dallo stato degli adipociti, che nel corso della vita subiscono delle modificazioni a seconda della quantità di grasso assunta con il cibo.

    “Questa scoperta – spiega Claudio Taboga, medico specialista di Endocrinologia presso il dipartimento di Nutrizione clinica dell’Ospedale di Udine – accorcia le distanze tra l’obesità cosiddetta ipertrofica, cioè dovuta all’aumento del volume cellulare, e quella iperplastica, cioè dovuta all’aumento del loro numero. Secondo questa ricerca, il substrato anatomico resterebbe invariato ed è questo il motivo per cui per certe persone è così difficile dimagrire. Ogni cellula occupa uno spazio ben preciso e quando ci sono problemi di numero è difficile ottenere perdite di peso significative, ma con un trattamento ad personam ci sono possibilità di miglioramento. Non dimentichiamo – conclude – che l’obesità non è mai una condizione unitaria, la tipizzazione del paziente è fondamentale”.

    Sebbene il numero degli adipociti rimanga costante durante tutta l’età adulta, ci troviamo di fronte, spiega la professoressa Spalding, ad un processo dinamico di morte e rinascita, in cui cellule grasse “vive” rimpiazzano quelle “morte” con un tasso del 10 per cento circa l’anno. Il numero di tali cellule nel nostro corpo resterebbe quindi sempre identico, anno dopo anno, dall’adolescenza all’età adulta. Una scoperta che fa pensare che la differenza del numero di cellule di grasso tra le persone obese e magre si stabilisca durante l’infanzia e rimanga tale per tutta la vita. Sfiancanti ore di palestra, diete dimagranti, pasti saltati e creme brucia-grassi: sarebbe perciò tutto inutile, o quasi.

    La ricerca suggerisce però domande interessanti: cosa determina il numero di cellule grasse nel corpo di una persona? Quando esattamente si stabilizza questo numero? C’è un modo per intervenire e ridurre questa quantità? E si potrebbe tentare di far morire queste cellule prima che altre rinascano? La comunità scientifica americana si è subito dimostrata entusiasta della scoperta, cogliendone tutte le potenzialità. “Questa notizia apre la strada a un nuovo modo di guardare all’obesità – sintetizza Lester Salans, della scuola di medicina Mount Sinai di New York, mentre secondo Jeffrey S. Flier, ricercatore della Harvard Medical School, dietro di essa c’è “tutto un sistema che aspetta solo di essere esplorato”.

    La scoperta è stata fatta studiando i livelli degli isotopi radioattivi trovati all’interno delle cellule di grasso di persone che hanno vissuto durante il breve periodo della “Guerra Fredda”, quando, tra il 1955 e il 1963, sono stati fatti diversi esperimenti nucleari. La prova che gli adipociti morti verrebbero sostituiti con altri nuovi è stata fornita dall’analisi dei tessuti di persone le cui cellule grasse si erano rinnovate prima di quel periodo. Queste persone avevano assorbito radioattività solo successivamente, dimostrando come le cellule fossero state ricostituite.

    Già Jules Hirsch, della Rockefeller University di New York, aveva cercato di spiegare perché per certe persone fosse così complicato perdere peso, a differenza di altre, e le sue conclusioni si erano avvicinate molto a quelle dei suoi colleghi svedesi. Ma gli studi a un certo punto si arenarono. La domanda, allora come oggi, era comunque sempre la stessa: cosa regola questo processo? E qualche possibilità di intervenire?

    (5 maggio 2008)
    fonte: http://www.repubblica.it/2007/12/sezioni/scienza_e_tecnologia/obesita-aumento/cellule-grasse-immortali/cellule-grasse-immortali.html

  5. Buon pomeriggio Massimo
    e buon pomeriggio a chiunque passerà a lasciare un commento, una riflessione o una traccia di pensiero.
    Lasciami dire solo che sono onorata dell’ospitalità di Letteratitudine nell’occasione dell’uscita di questo romanzo, e sono contenta di tornare a commentare. Qui, i commenti sono contributi, allargamenti, affluenti che “aprono” le pagine” lasciando che il libro davvero conduca verso tante strade diverse. E’ un’impostazione contemporanea, importante. Sono anche lieta che siano a disposizione parti di testo per chi magari potrà essere incuriosito

  6. A mio parere in Italia del problema dell’obesità se ne parla molto, purtroppo però se ne parla male. In merito non esiste un’educazione generale e capillare che contrasti i nuovi input della società contemporanea, e ad aggravare ulteriormente la situazione troviamo troppo spesso sulle riviste articoli disinformativi e fuorvianti che portano gli incauti ed i disperati (e di queste due categorie ne siamo purtroppo pieni) a credere che basti ingozzarsi di un alimento piuttosto che di un altro per poter ridurre il proprio peso e continuare la propria vita sedentaria. Tali credenze vengono alimentate sulla base di studi scientifici autorevoli ma esageratamente ingigantiti da titoli che sembrano promettere miracoli. Nella analisi approfondita si scopre infine che l’alimento all’attenzione degli studiosi può solo “lievemente” giovare al metabolismo.
    Purtroppo i metodi per combattere e prevenire l’obesità, in una società come la nostra, sono “troppo faticosi” per le nostre stanche membra e i nostri irrefrenabili appetiti. E’ molto più allettante ascoltare quello che si vuole sentire: dimagrire mangiando.

  7. ho letto le prime pagine del libro. molto belle. bravissima, francesca mazzucato.
    alle domande non saprei rispondere. però a budapest mi piacerebbe andare.

  8. Sono felice che le prime pagine piacciano. Spero che chi leggerà tutto il romanzo possa amarlo dalla prima all’ultima pagina.
    Parto da qui, Budapest perché. Budapest è una città che ha conosciuto grandezze e cadute, Budapest è una città che ha vissuto il declino, la dittatura, la povertà, la censura. Budapest è stata definita “La Parigi dell’Est” per la mania che abbiamo sempre di avvicinare le cose a quello che conosciamo meglio. A Budapest la protagonista fa un viaggio, un viaggio di “de – construzione”
    Non il solito viaggio di formazione, il viaggio che apre, che porta nuove esperienze. No. Un viaggio che aggiusta, che placa, che seda

  9. Imre Kertész è lo scrittore ungherese premio Nobel per la letteratura nel 2002. La scrittrice-obesa protagonista, che si sente in declino, che si sente sorprassata, travolta, fuori da tutti i giochi, consapevole della caducità della fama e delle lusinghe ma anche avvilita da certi risultati del suo lavoro, da come si è evoluto ed è diventato “l’atto dello scrivere” nel contemporaneo, questa protagonista attraverso la grande e sofferta letteratura di Kertész, e insieme attraverso paesaggi e suggestioni budapestine, ritrova una strada che porta in un solo posto: Il valore della letteratura. Il senso alto e fondamentale dello scrivere.

  10. Budapest e Kertész sono fondamentali per la vicenda. Altrimenti lei affogherebbe. Forse sepolta da questo corpo fuori da tutti i canoni, disarmata e avvilita da questa attività, per lei elemento fondamentale, per lei vitale, la scrittura, diventata per tutti e per nessuno. Cos’è la scrittura? Si domanda. Cosa vuol dire essere scrittore? Ormai è un guscio vuoto, qualcosa deprivato di senso. Chi è che non scrive? Lei vive questo “impoverimento” o, se si vuole questa “mutazione” del ruolo dello scrivere, sul suo corpo. Su di lei. Sulle sue smagliature sui sui chili di troppo.
    Perché ho scelto di narrare di una scrittrice obesa? Perchè ,davvero, è raro : una scrittrice obesa va contro ogni convenzione, è aperta a ogni schermaglia, a ogni sfida e può mostrarsi insolente fin che vuole ma perderà sempre. Ecco, una scrittrice obesa è una perdente e io ho sempre scritto di perdenti.

  11. Adesso devo uscire e rientrerò stasera.
    Ma prima di andare via un paio di domande.

    Francesca, per ambientare il libro a Budapest hai effettivamente visitato la città, o ti sei affidata allo studio di testi (o magari forme nuove di viaggio… penso per esempio a google maps o a google earth) ?

  12. Caro Massimo questo spazio rende i libri dei veicoli. Li fa brillare. Questo spazio riesce in qualcosa di raro, ma non lo dico per fare un inutile minuetto. Riesce a dare valore. Valore sul serio, lontano da ogni sollecitaizone ombelicale. Il libro diventa causa e pretesto. Pretesto per parlare di tante cose, divenda un libro zattera, un libro che semina una scia di pollicino. Se uno lo ha letto, bene, se no è lo stesso. Gli spunti diventano tema, gli spunti si fanno elemento fondante.

  13. Seguo ormai da anni il lavoro di Francesca Mazzucato, e le devo tantissimo anche in termini di scrittura, di quello che ho imparato della Scrittura e della Letteratura leggendo, studiando i suoi libri, i suoi articoli, le sue pagine, Lei. Credo che un libro su una scrittrice obesa sia, prima di tutto, qualcosa di estremamente nuovo. Non ricalcato su niente, non codificato, non asservito al consumo, alle vendite, ma un’espressione di letteraria sincerità, di sincerità intellettuale e artistica, direi. Ho letto di questo libro solo le parole scritte qui sopra, ma già dal momento in cui ho sentito di cosa parlava mi è venuta “l’acquolina in bocca”. Ho sentito come un dolore, uno strappo. E ho pregustato quello che Francesca Mazzucato avrebbe potuto creare, plasmare, da un tema del genere. So già che sarà un capolavoro. E leggendo l’abstract qui sopra ne sono ancora più convinta. Raccontare. Leggere. Scrivere. Sono valori, sono necessità, sono talenti – anche leggere, sì, saper leggere -, sono doni che chi li possiede ha il dovere, e spero anche il piacere, di coltivare. Francesca Mazzucato è una scrittrice. Prima di tutto. Una scrittrice coraggiosa, capace di mettersi continuamente in gioco. Di non sedersi su risultati e riscontri già ottenuti. Di rischiare la “fama” già ottenuta per rimanere fedele al suo progetto di scrittura. E io l’appoggio totalmente, mai per partito preso, ma sempre saggiando, e studiando, quello scrive. Ti chiederei: quanto dolore, quanto coraggio, quante lacrime ci sono volute per pensare, prima che scrivere, questo libro?
    Grazie, Francesca.

  14. Oh ho vistiato davvero. Qui http://www.flickr.com/photos/francescamazzucato/sets/72157601521228750/
    c’è un set di fotografie che ho fatto la prima volta. Certo poi ci ho lavorato attorno attraverso approfondimenti, attraverso libri, altre foto di amici trovati su Flickr che mi hanno fatto “vedere” i posti dove volevo che pulsassero le storie, dove volevo che la mia narrazione prendesse vita. Sono però dell’idea che si possa scrivere di un libro anche senza andarci.

  15. Cosa vuol dire essere scrittore? Ormai è un guscio vuoto, qualcosa deprivato di senso.
    Francesca, già questa tua frase meriterebbe un dibattito a parte.
    Il personaggio del tuo libro – se non sbaglio – pensa che essere scrittori, oggi, sia (appunto) “un guscio vuoto, qualcosa deprivato di senso”.
    E questa è una frustrazione che si aggiunge a quella dell’obesità.
    Ma Francesca Mazzucato cosa pensa?
    Anche per te esser scrittori, oggi, è “un guscio vuoto, qualcosa deprivato di senso”?

    Rivolgo la stessa domanda a tutti.

  16. Che piacere trovarti in questa piazza virtuale, Antonella. Grazie. C’è voluto dolore, certo, molto anche. Soprattutto il coraggio di mettere a nudo meccanismi consolidati, antiche paure, fragilità. Questo è stato davvero diffficile. Ma, man mano che accadeva, appogiandomi a Kertész come a una stampella, mi sentivo più leggera, mi sentivo meglio. La scrittura, presa sul serio, molto sul serio, non smette mai di avere una funzione catartica,importante. E, come dice il mio amico Nick Flynn, scrittore americano che insegna creative writing , se c’è dolore, disagio, si può sperare di aver scritto qualcosa di buono. Altrimenti è difficile. Non so se ha ragione. In parte credo di sì-

  17. Grazie mille per i complimenti, Francesca… ma basta. Altrimenti gli altri amici del blog cominceranno (giustamente) a prendermi in giro.
    Ma grazie. Davvero.
    🙂

  18. Buongiorno a tutti,
    In primis segnalo questa recensione di Franchi al libro di Francesca:
    http://www.lankelot.eu/index.php/2008/04/30/mazzucato-francesca-kaddish-profano-per-il-corpo-perduto/#comment-28553
    Ho ricevuto da pochi giorni il libro ed ho iniziato a leggerlo.
    Ciò che mi ha colpito, ancora una volta, è, prima della storia raccontata, la scrittura di Francesca, la padronanza del linguaggio e la prosa straordinaria.
    Venendo al libro, premesso che non l’ho ancora terminato, vorrei fare qualche domanda a Francesca, in attesa che risponda a quelle di Massimo.
    Fin dalle prime pagine, oltre alle condizioni della scrittrice obesa si legge una forte critica al mercato editoriale italiano, quanto c’è in questo di autobiografico?
    Inoltre mi ha colpito la scelta dell’editore, perchè proprio Azimut?
    Budapest: cosa rappresenta questa città per te?
    Francesco

  19. Buongiorno a tutti,
    Ho ricevuto da pochi giorni il libro ed ho iniziato a leggerlo.
    Ciò che mi ha colpito, ancora una volta, è, prima della storia raccontata, la scrittura di Francesca, la padronanza del linguaggio e la prosa straordinaria.
    Venendo al libro, premesso che non l’ho ancora terminato, vorrei fare qualche domanda a Francesca, in attesa che risponda a quelle di Massimo.
    Fin dalle prime pagine, oltre alle condizioni della scrittrice obesa si legge una forte critica al mercato editoriale italiano, quanto c’è in questo di autobiografico?
    Inoltre mi ha colpito la scelta dell’editore, perchè proprio Azimut?
    Budapest: cosa rappresenta questa città per te?

  20. Un saluto a Jean de Luxembourg, Antonella Lattanzi, Francesco Giubilei e Maria Consoli.
    Grazie per i commenti e per gli spunti.

    Adesso devo andare. Vi ritroverò stasera.
    Buona prosecuzione.
    Grazie ancora, Francesca.

  21. Vorrei fare un parallelo tra due libri di Francesca.
    Il primo è Kaddish e il secondo è il primo racconto di “Magnificat Marsigliese”.
    Il primo libro parla di obesità, il secondo racconto di anoressia.

  22. Velocemente, dopo con più calma.
    Io per me stessa spesso ho usato questa metafora tra scrittura e mangiare, anche tra scrittura e lettura, tra corpo di carne e corpo della parola. Mi ricordo che nella vecchia pagina di presentazione di kataweb scri vevo di me solo: “onnivora”. Il che è vero per entrambe le questioni – cibo e scritture varie.
    E c’ anche questa faccenda dell’uso della parola e del corpo in eccesso come difesa dall’altro, come distanza che attutisce e rende difficile la relazione, vi si frappone spacciandosi per materia comunicante. Ma poi dipende, dipende se questa materia riesce a comunicar eo meno. Alle volte. Alle volte affatto.

    Sotto altro profilo però, non si può scotomizzare la natura socioeconomica dell’obesità e del suo diffondersi, al punto che no non è più un semplice contraltare dell’anoressia, nello stesso segno patologico. Come spesso clinicamente era prima. Perchè l’obesità è un problema delle classi sociali svataggiate, esposte a un’economia di mercato che non difende la salute dei cittadini, impreparate davanti alle aggressioni pubblicitarie. Con la tremenda aggravante fisiologica della traduzione in dato genetico in brevissimo tempo. L’alimentazione sbagliata si converte in corpo malato. Malato, ma non necessariamente con l’anima malata come letteratura vuole. Bambini grassi che mangiano merende a strafogo, e che giocano contenti, che sono felici e che a dodici anni avranno già problemi endocrini ecardiocirloatori.
    Scappo
    A dopo.

  23. Anch’io devo uscire ma tengo care le tue domande Francesco.
    Voglio ripondere per bene e con calma: Ci tengo a parlare di mercato editoriale, e anche di Azimut. Solo una cosa al volo, ad Azimut ho trovato un vero editor. Non lavoravo con un VERO editor da tanto tempo. Un editor che entra in perfetta sintonia e segue le tracce della storia che si vuole narrare è fondamentale. Non c’è scrittore senza editor, vero. Ho un debito immenso alla volontà, in Azimut di contribuire con me a dare forma alla storia, al lavoro sul libro fatto con meticolosa attenzione, amore e rispetto per le intenzioni dell’autore.
    Era un’emozione, e il bisogno di venerare un grande autore. Era un libro dove volevo mettere a nudo qualcosa di profondo, anche un quadro secondo me desolante di ciò che vuol dire scrivere, oggi. Di tutta la voglia che c’è di sentirsi esistere scrivendo, del credere che farlo sia per tutti, una parola senza angoli, un niente, scrittore. Tutti possono scrivere, che sarà mai? Questo è un bene se è un meccanismo di democrazia, di libertà d’espressione. Ho rispetto di questo, anzi. Ma se diventa un ansioso tentativo di travalicare tutto per arrivare alla”visibilità”, se si scrive non per il valore dell’atto stesso, per la scrittura e solo per la scrittura, ma per cercare il pezzo mancante, per sedare la voglia bramosa di essere speciali, allora è un guaio. Inoltre siamo un paese dove alla gente il libro arriva sempre meno, quasi per niente.

  24. Sono una delle prime fortunate persone che hanno letto (avidamente, per quanto abbia cercato di impormi uno”slow reading”, e poi, di nuovo, quasi interamente, con più calma) il Kaddish.
    Parlarne per me è spinoso, dal momento che dopo aver conosciuto la Mazzucato scrittrice, da qualche tempo conosco anche Francesca umanamente. Il rischio in questi casi è che chi legge un commento positivo storca il naso e pensi “si vabbè, è scontato che tu ne dica bene”. Legittimo porsi dei dubbi (anche se, ripeto, io e Francesca Mazzucato non andavamo nella stessa scuola nè frequentavamo le stesse compagnie da adolescenti: io ho voluto conoscerla spinta dalla lettura di quanto lei aveva scritto) però, almeno qui, in “casa Maugeri” mi concedo di sbilanciarmi un po’, avendo apprezzato la serietà dei “commentatori abituali” in molte occasioni.
    Kaddish per il corpo perduto parla di obesità, (e lo fa in modo spietato, senza un briciolo di autocommiserazione, sebbene la narrazione sia in prima persona), ma non solo.
    Parla di un vuoto grande, di un’assenza mutilante, di un cratere aperto e della ricerca ossessiva, compulsiva quasi sempre, di colmarlo. Accettando tutto, non negando mai un sì, a fronte di offerte amorose, lavorative, umane. Sì alla proposta di partecipare a un talk show di quart’ordine, sì a una notte di sesso, sì a una convivenza improponibile, sì a tutto, come se negarsi potesse mettere a rischio la propria stessa esistenza. Paura e rabbia, e riempire il corpo per sentirsi più calde, più vive, più accudite, riempirlo fino all’orlo e oltre, fino a danneggiarlo, a slabbrarlo, a fiaccarlo, a eroderlo.
    In queste pagine dolenti, a tratti feroci, a tratti invece blandite da una sorta di fluida dolcezza io ho sentito, forte, il grido della protagonista che batte i denti (e si riempie di consolazioni estemporanee e spesso nocive) per la paura di scomparire, di essere dimenticata, di lasciare un vuoto e una macchia di olio da motore (come quello lasciato dal padre nel garage della casa condivisa) di andarsene non amata, non pianta, non all’altezza delle aspettative, quasi con un piccolo sospiro di sollievo da chi resta.
    Ripeto, è un libro davvero doloroso e forte.
    La scrittura della Mazzucato sa incantare, come sempre (come mi sembra emerga chiaramente da queste prime pagine) ma l’ho trovata meno “pirotecnica” del solito, più asciutta, più precisa e densa.
    Io vi ho letto, in questo, una scelta precisa, legata a questa particolare storia, più che una maturazione stilistica, però, dal momento che non ho ancora avuto occasione di parlare con Francesca Mazzucato del suo libro (che ho letto in questo lungo ponte primaverile, in parte a Trieste, città che ricorda Budapest in quella patina un po’ opaca di “antichi fasti” in declino) ne approfitterei per chiederle se si ritrova, in quello che dico sul mutamento nel suo stile, e come ha vissuto questa particolare scrittura.
    Per ora. 🙂

    sabrina

  25. Un paese che non legge, sempre più impoverito. I consumi culturali sono la prima cosa che viene tagliata. Nel frattempo, tutti scrivono. L’implosione appare quasi consequenziale. Oppure, la necessità di reinventare nuove formule, nuovi modi, di andare insieme al libro, starci attorno, aprirlo, mai chiuso, mai marmoreo, fare del libro un veicolo di suggestioni, qualcosa che lo travalica. Senza, sia chiaro, ritenerlo superato. Mai lo sarà. Possiamo arrivare a un punto zero, ma la letteratura ha una funzione vorei dire “sacra”. Come lo intendeva Elias Canetti. E gli scrittori importanti vanno venerati. Lo dico sempre.

  26. anche a me viene più facile immaginare una scrittrice anoressica, piuttosto che una scrittrice obesa.
    Soffriamo dello stereotipo delle scrittrici veline o cosa?
    La scrittura della Mazzucato è davvero ottima. le faccio anch’io i complimenti.

  27. Ho letto le prime pagine di questo romanzo, ho letto altri romanzi di Francesca Mazzucato. Una scrittura coraggiosa; il suo modo di comunicare agli altri attraverso un pensiero audace, il dolore di ferite mai rimarginate. Certo, Budapest è un luogo adatto a questo dolore.
    Anche l’obesità, immagine di sofferenza che trabocca incontenibile, è un pretesto per raccontare il dolore. In maniera straodinaria, quasi palpabile. Il dolore che si fa carne sotto le dita. Congratulazioni, Francesca. Il suo romanzo avrà successo, ne sono sicura. Grazie.

  28. Io credo che ci sia un forte legame tra essere scrittori e bulimia.
    Tra essere scrittori ed essere voraci.
    Perchè la scrittura si alimenta di ferite e imperfezioni. Di vite che cercano una risposta. Che scavano domande e – forse – le trovano in posti sbagliati, nell’appagamento momentaneo del cibo (un sollievo e un ristoro che può essere anche dell’anima – se non possiede, se non sa possedere – e non solo del corpo).
    Bulimia non è fame. E’ incapacità di chiedere altrove. Di afferrare la strada giusta o la domada giusta.
    E di sapere dare le risposte.
    Ecco perchè chi vive sulla pelle e incisa nella bocca dello stomaco una mancanza può trovare sollievo nella scrittura così come nel cibo.
    Può sentire che – forse – uno sbocco al morso che ti afferra c’è. E non è un sapore. Non è solo un gusto. E’ un modo, assediato a bisogni, di vivere la vita.
    @ Francesca Mazzuccato: io ho letto con commozione le sue pagine. E sento che la bulimia è – soprattutto – un arrendersi a un immediato – liberatorio – sospiro. A un miraggio che , per un attimo, comunica un’illusione. A un graffio – e profondo – dello spirito.

  29. Per ora desidero solo ringraziare Massimo Maugeri e Francesca Mazzucato.
    Questo post è bellissimo!

  30. un giorno una scrittrice anoressica mi ha detto da un letto di ospedale ‘il corpo ha ragione, solo, io non gliela do’. non dare ragione al proprio corpo. è quello che anche un’obesa fa, nonostante tutto. sono solo due modi diversi di non ascoltarlo, il corpo, di dar retta invece alla testa. un tabù insomma assoluto, quello dell’obesità, che con audacia, perchè è questa la parola, francesca mazzucato infrange. entra nelle pieghe di quello che non si vuole vedere, sentire, capire. di ‘un corpo trascurato e straniero’ come definisce quello della sua obesa. soprattutto straniero. perchè quando il corpo è lontano da noi o noi da lui, è questo quello che può succedere. gli obesi sono anche un’icona di qualcosa che vogliamo a tutti i costi scacciare dalla nostra mente, perchè ci ricorda noi stessi. opulenza. dolore. vergogna.

  31. Premetto che, a differenza di molti di quelli che hanno commentato finora, se escludiamo il blog Book and Other Sorrows e non più di due o tre racconti inseriti in antologie collettive, non avevo mai letto nulla di Francesca Mazzucato. E forse è proprio per questo che tanto mi ha colpita il suo ultimo romanzo.

    La scrittura, prima di tutto.

    La prosa di Francesca è avvolgente – sì, è questo l’aggettivo che secondo me definisce nel modo più preciso il modo in cui io ho percepito la sua prosa, almeno quella del Kaddish. Mi è piaciuto molto, per esempio, il suo periodare ricco, quasi barocco, capace di ampliarsi e moltiplicarsi (c’è una frase, mi pare, in cui si fa riferimento alle parentesi, alla necessità di aprire continue parentesi), e l’ho trovato segno innanzitutti coraggioso (in un periodo in cui si opta fin troppo facilmente per una prosa stringata, asciutta, a volte pure troppo) e di una padronanza non tanto della lingua (quella è una cosa che do per scontata) quanto del ritmo narrativo che non mi pare un talento tanto diffuso tra i romanzieri contemporanei italiani.

    La stratificazione, poi. Sì, perché il Kaddish è un libro fatto di tanti strati, strati che si sovrappongono, che a volte di accavallano, ma sempre lucidamente.

    Tra gli strati che più mi hanno colpito e toccato, c’è sicuramente quello che riguarda il precariato, il precariato intellettuale. Un tema attuale, scottante se vogliamo. E credo che, in questo, il Kaddish possa raccogliere, in qualche modo, la pesante eredità di un libro miliare come La vita agra di Bianciardi (e chissà se Francesca lo ha letto, lo ha meditato).

    C’è poi quel rapporto padre-figlia che, spesso (troppo spesso?), la narrativa pare se non dimenticare almeno accantonare, perché le autrici (non solo quelle italiane ma anzi soprattutto quelle straniere) sono tutte prese dall’altro rapporto, quello madre-figlia (qualcuno ha scritto che i romanzi di donne ruotano tutti, inevitabilmente, intorno a quel tema) e che è qui sviscerato in maniera profonda e non banale (i riferimenti a GG sono illuminanti).

    Amo poi, in modo forse eccessivo, la narrativa in un certo senso metaletteraria e il Kaddish (con il suo legame con Imre Kertész) ne è un esempio fulgido. Anch’io, come la narratrice del Kaddish, frequento generalmente altre letterature, quelle occidentali di matrice anglosassone e ancor di più francese, ma questo libro mi ha anche fatto venire voglia di leggere qualcosa del Nobel ungherese.

    Ecco, ho scritto un commento lunghissimo, temo. Eppure mi sono limitata a esprimere un’opinione (pure superficiale) solo su alcuni degli aspetti di questo libro che mi hanno smosso qualcosa.

  32. Carissimi,
    grazie. Grazie prima di tutto a Massimo, per la sua passione, e l’ospitalità. Lui sa quanto -quanto- sia importante per me e per Azimut essere qui.
    Grazie poi a Francesca. Per averci scelto e dato fiducia. Per essersi fidata. Per averci regalato un’opera che -sarò di parte, ma non troppo- non esito a definire una delle migliori, se non proprio la migliore, tra quelle pubblicate dall’esordio.
    Sto leggendo piano piano i commenti. E ho già in mente qualcosa da dire 🙂

  33. Ho avuto modo, alla Fiera della piccola e media editoria di due anni fa, di conoscere la Azimut. Grazie a Francesca. E capisco fino in fondo la scelta di Francesca di consegnare il suo libro nelle mani di Guido e dei “suoi”. La scrittura, se la si ama, la si consegna solo a coloro che possono valorizzarla, e non a chi la violenterebbe. Concordo con Francesca, quella dell’editor è una figura fondamentale che, quando non c’è, anche a me manca moltissimo. Bastipensare all’esordio di Tondelli, o a quello di Kerouac.
    Ti ringrazio anch’io, Massimo, per le bellissime domande, i bei post, e gli allettanti spunti che nascono dal tuo blog.
    A presto!

  34. Antonella, come stai? Grazie davvero per le tue parole. Ma piuttosto, ti avevo mandato il libro, non l’hai ricevuto?

    Avrei voluto dire varie cose, ma sono stato bruciato da Chiara, che il Kaddish lo conosce bene quanto me, se non di più, e che ha sollevato alcuni interessanti spunti di discussione ulteriore.
    Prima di tutto sul linguaggio: ecco, quando con Francesca si parlava di una pubblicazione, io le chiesi un’unica cosa: che scrivesse con la sua scrittura più profonda, quella che sa colare.
    Penso che questo Kaddish vada letto, per la prima volta, quasi solo per assaporarne i suoni.

    Ah, tra le altre cose, quanto sono orgoglioso di pubblicare un libro dove si parla di precariato intellettuale, e di molti movimenti e fenomeni dell’editoria di oggi…

  35. Francesca Mazzucato,
    una donna straordinaria in un’epoca che va al contrario.
    Leggendo le prime pagine del romanzo qui riportate, mi colpisce la sua bellezza narrativa, la profondità e sincerità dei suoi commenti su se stessa. Immagino che vorrebbe vivere in una realtà nella quale l’esteriore non avesse risalto; purtroppo questa realtà non esiste; proprio oggi non esiste, quando solo la figurina slanciata e senza forme definite ma lasciate immaginare dalla fantasia fertile degli uomini attraverso una moda eccentrica e fantasiosa per coprire ciò che non c’è, viene riconosciuta e ricercata.
    Il corpo snello, il sederino piatto, il seno piccolo da dar l’impressione di non esistere, se non fosse che il capezzolo lo mostri e delinei come un frutto non ancora maturo, da divenire, forse più tardi, in un tempo anche lui da definire, sono segni che la sessualità per produrre non ha senso e scopo.
    Oggi ci divertiamo, con tutto ciò che la nostra fantasia, diventata morbosa come se fosse arrivata alla fine della sua creatività ingegnosa ma pura e sensata, ci offre senza il timore di dover sostenere impegni superiori alla nostra capacità di affrontarli.
    Viviamo in una civiltà al tramonto, che ha abbandonato il percorso naturale, perché costretta a ragionare e accudire prima di tutto la propria individualità, minacciata dalla concorrenza spietata e calcolatrice di un sistema che si regge solo attraverso la volontà di una casta, arrivata al potere senza possedere i requisiti che garantirebbero la consolidazione di una società solidale.
    Francesca Mazzucato è prima di tutto una scrittrice sensibile e con molte qualità, una persona che è cosciente del suo stato fisico e cerca di superare il suo disagio con lo scriverne sopra.
    Il romanzo è una critica ai metodi spettacolari, ma proprio per questo ingiusti perché non educativi e formativi, praticati dalla commercializzazione dei media, giornali, film e della moda.
    Vorrei consigliarle di rimanere se stessa, perché solo così sarebbe autentica ed ammirabile per chi abbia ancora il senso per il vero, cioè ciò che definisce la propria vita.
    Su Budapest, posso dire che l’ho conosciuta nel 1975, avendoci lavorato per più di un mese.
    Allora, notavo nella gente che incontravo una forte nostalgia dei tempi passati; erano tempi gloriosi e riecheggianti nelle memorie degli anziani.
    I giovani erano delusi e i loro sguardi smunti. Non credo che oggi la situazione sia diventata migliore.
    Alcuni sono stati capaci di arricchirsi con il cambiamento e lo mostrano con orgoglio e senza ripensamenti morali, mentre la maggior parte della popolazione soffre sotto l’enorme costo della vita, sempre in aumento, e si sentono traditi e sfruttati ancor più di prima.
    L’Ungheria è sempre stata il paese con la più alta percentuale di suicidi in Europa; su questo fattore si potrebbe fare un’analisi.
    Sull’obesità:
    ritengo che vada combattuta con sistemi istruttivi e formativi, dando risalto alla necessità di vivere per scoprire se stessi, tenuto nascosto dalle costrizioni di un mondo artificiale e per questo ingannevole.
    Ognuno ha la libertà di essere quello che vuole, ma la società intera è chiamata a educare e formare i cittadini, opponendosi ai criteri dettati puramente dal credo di poter far soldi a scapito della loro salute ed equilibrio psichico e spirituale.
    Saluti
    Lorenzo

  36. Rieccomi. I commenti sono carichi di suggestioni davvero importanti. Vorrei rispondere a Sabrina

    Sì, in qualche modo lo stile, la cifra narrativa è cambiata. Un pochino, diciamo, ma certo è mutata. Accade spesso per ragioni indipendenti dalla propria volontà, a volte perché leggendo e scrivendo e limando, e facendo leggere il lavoro muta. Io non facevo leggere, se non a libro finito.
    Ho amato aspetti del mio stile, che in alcuni libri è stato enormemente influenzato da uno scrittore che ho molto letto e molto amato, Harold Brodkey, definito il Proust Americano, morto nel 1996. Di lui mi hanno formato e colpito tanti romanzi, in particolare Amicizie Profane. Di quel libro, i critici americani stessi che hanno incensato Brodkey più volte scrissero:” CI volevano un bel po’ di tagli” Io non ero di quell’avviso. Anzi. Il linguaggio di Amicizie Profane è stato la mia scatola magica, il luogo delle meraviglie.
    L’ho assorbito, lo percepito e ha per forza agito nel mio scrivere.
    Però i tempi mutano e mutano certe esigenze.
    Ho cominciato a far leggere e qualcuno, persone care e vicine, mi diceva che c’erano cose belle e altre “ridondanti”. Lo sapevo. Io amo, amerei la ridondanza. Come i flashback. Cose fuori moda che appesantiscono.

    Nel Kaddish lo racconto del mio amore per i flashback. Ma la densità è divenuta necessaria. L’impasto diverso, meno, appunto, “pirotecnico”. Solo qualche volta. In questo ha contato Kertész, hanno contato altre letture che mi hanno mostrato altre strade( e quante strade mostrano le letture, se si è fortunati, quante direzioni) e, non vorrei ripetermi, ma il lavoro, serio e meditato con Guido Farneti di Azimut.

    Lui prima si è innamorato dell’idea, e questo non è stato poco, non poco davvero: una cosa voleva ,la mia scrittura “colante”. Ok, gli ho detto, e gliel’ho proposta. Colante, forse anche bruciante, dolente e perdente.

    Lui si è messo a impastare con me. Lui si è messo a lavorare con me, abbiamo scelto, meditato, limato.
    Inevitabilmente questo ha influito e pian piano la tentazione ” ridondante” si presenta meno spesso. La domino, la controllo di più.
    E poi forse doveva essere, un cambiamento. La scrittura ha queste bizzarrie, prende queste strade.

  37. A Chiara vorrei dire intanto grazie. Per tante cose. Come si vede il periodare non ha comunque perso la sua caratteristica per una persona che si avvicina ai miei libri per la prima volta. E ne sono contenta. Credo che qualcosa di fondamentale ci contraddistingua e questo può e deve evolversi, raffinarsi, limarsi, ma non può e non deve storpiare la sua natura.

    Chiara evidenzia una cosa che mi preme molto. Il precariato intellettuale. Così rispondo anche a Francesco, almeno in parte. Di questo parla anche Kaddish. Queste tristi considerazioni della protagonista, questo suo vivere esperienze al limite del grottesco per mantenere un brandello di visibilità ( La partecipazione alla deprimentissima Abbiategrasso Tv ad esempio, e ho preso un paese a caso eh, non so neanche se esiste), queste cose fanno parte di uno status.
    Chi vive di scrittura o scritture vive male, fa fatica. Come chi vive con vari lavori nell’editoria.
    Non c’è, a mio parere, proprio a causa dell’implosione del mercato, un reale rispetto del lavoro culturale.

    C’è a certi livelli, in certi casi. Si e no poi. Altrimenti ci sono spesso umiliazioni, fatiche, si arranca, si resta in bilico. Questo mi premeva che venisse sottolineato perché si parla di enormi e drammatici problemi del mondo del lavoro. Ed è giusto, giustissimo

    Ma il lavoro intellettuale e creativo non è un privilegio di suo e quindi “indegno di dignità”. Il lavoro intellettuale e creativo è doloroso, faticoso, pesante, carico di un possibile logoramento. Si lavora sempre, si scrive sempre, si studia sempre. Il precariato è enorme e spesso sono gli stessi scrittori, scriventi, traduttori, ecc, che si svalutano, che accettano di fare lavoro gratuito, che si prestano a cose che dovrebbero rifiutare.
    Torna la bulimia. il bisogno di afferrrare tutto. Occorre esserci in qualche modo. Gli scrittori in questo modo sminuiscono il loro lavoro, sminuiscono il valore della loro figura professionale. Perché é anche un lavoro. E comunque è un’attività che deve essere tutelata.

    Anzi, ogni attività che compiamo è in qualche modo “sacra”. Fondamentale. Importante. Sembra che non si debba parlare della difficoltà di essere scrittori professionisti o operatori nell’editoria a vario livello perché è di suo un privilegio.

    Io desidero che questo libro dolente, attraverso anche la “metafora” dell’obesità e della disperazione della protagonista, sia anche un alto canto, un kaddish( nell’ultima pagina, proprio l’ultima, prima dei Debiti c’è un “Kaddish”vero e proprioche è invocazione e canto per la letteratura e per quello che può e deve fare) sulla fatica e sui problemi di chi ogni giorno ha a che fare con la scrittura.

    Inoltre il tema della precarietà del lavoro è un tema attorno a cui ruoteranno altre cose che usciranno in futuro e anche un progetto a cui ho iniziato a lavorare da un po’.

  38. Trovo che l’intervento di Lorenzo Russo sia un contributo di enorme interesse e che fornisca elementi importantissimi per capire meglio l’Ungheria. Inoltre invito a riflettere , e molto su questa affermazione

    “Viviamo in una civiltà al tramonto, che ha abbandonato il percorso naturale, perché costretta a ragionare e accudire prima di tutto la propria individualità, minacciata dalla concorrenza spietata e calcolatrice di un sistema che si regge solo attraverso la volontà di una casta, arrivata al potere senza possedere i requisiti che garantirebbero la consolidazione di una società solidale”

    Io lo farò di certo.

  39. Scrive Giulia Belloni:

    “un tabù insomma assoluto, quello dell’obesità”
    e ha ragione. Il tabù per eccellenza. Lo coglie Giulia, e come con tanti altri tabù sui quali ho scritto in passato, non è stato facile per niente.

    E credo di avere, con questo libro e con questa storia, dolente ma anche spero spudorata e anche immaginifica e contemporanea, aggiunto solo un piccolo tassello.
    Di obesità, di corpi differenti, di possibili misure diverse, di corpo grande da “abitare” senza disagio, si deve parlare ancora, e non poco.

  40. @Francesca, il tuo periodare non credo che potresti mai perderlo o snaturarlo perchè ti appartiene, persino quando chiacchieri al telefono apri e chiudi incisi. E quel che è prodigioso è che non perdi mai il filo! 🙂
    La pagina di cui parli, quella in corsivo in fondo al libro è spettacolare, a proposito. Emozionante e fondamentale, da riscrivere a mano all’inizio di ogni taccuino di scrittura.

    Aggiungo alla riflessione sul Kaddish uno spunto, una frase trovata su un altro libro che stavo leggendo prima che il tuo libro mi arrivasse e che ho interrotto e ripreso poi. La frase l’ho incontrata in questo poi e mi ha colpita come un’eco, come un richiamo. O, almeno, così è arrivata a me.
    La frase l’ha scritta la filosofa Claudia Card.

    “L’attenzione ha per l’anima la stessa funzione che l’aria, l’acqua e il cibo hanno per il corpo: la tiene in vita. Perderla può essere più demoralizzante che perdere il controllo… l’invisibilità determina la morte per mancanza di attenzioni.”

    Forse la scrittura può essere vista come un atto di resistenza a questa morte?

  41. @ Guido Farneti
    Grazie a te per essere qui, Guido. “Azimut” sta lavorando benissimo e – mi pare – che ne stiamo già vedendo delle belle. Complimenti a te e all’intero staff di Azimut per l’ottimo lavoro.
    Conosciamo bene le difficoltà a cui deve andare incontro la piccola editoria. Sono tante e c’è un solo modo per cercare di superarle: puntare sulla qualità.
    Bravi!

  42. @ Francesca
    Riferendoti a Guido hai scritto: “Lui si è messo a impastare con me. Lui si è messo a lavorare con me, abbiamo scelto, meditato, limato.
    Inevitabilmente questo ha influito e pian piano la tentazione ” ridondante” si presenta meno spesso. La domino, la controllo di più.”

    Quello che hai scritto è bellissimo, perché dimostra tanta umiltà da parte tua. Soprattutto se consideriamo la tua storia e la tua esperienza nel campo della scrittura.
    Credo che l’umiltà sia una dote essenziale, anche tra gli scrittori. Purtroppo non tutti hanno l’intelligenza di esercitarla. Credo che qualcuno sia troppo impegnato a costruirsi la torre di polvere da cui predicare.
    Grazie Francesca. È una bellissima lezione, questa.

  43. Del resto credo che un buon editor debba fare da specchio allo scrittore. Uno specchio che non dev’essere deformante, ma sincero.
    Credo che Guido sia un buono specchio.

  44. @ Francesca (e a tutti)
    Un po’ off topic, ma fino a un certo punto.
    Ho sempre pensato (è una mia personale convinzione non da tutti condivisa) che la scrittura debba mettersi al servizio della storia. E dunque può capitare che certe storie richiedano un “tipo” di scrittura anziché un’altra.
    Poi, certo, lo stile di uno scrittore – alla fine – si riconosce sempre.
    Chi è d’accordo con me?

  45. Chiudo (per stasera) con questa considerazione.
    Credo anch’io che questo romanzo sia uno dei migliori di Francesca. Lo dico (e mi sbilancio un po’) anche se per il momento ho letto solo un terzo delle pagine del testo (vi dirò meglio in seguito).
    Una cosa è certa. Questo “Kaddish” è un ottimo esempio di metanarrativa (non ce ne sono tantissimi, di validi, nella letteratura italiana recente).

  46. Innanzitutto saluto tutti. Un vivo complimento. Ci sono molti spunti interessanti e fertili di riflessioni. Questo è un pregio raro. Un pregio che va in primis all’autrice, inevitabilmente, a Francesca Mazzucato. Il valore di un autore è infatti anche la sua capacità di indurre a riflettere e discutere. Di creare quel che aziendalmente si definirebbe come “brainstorming”. Un pò più letterariamente si potrebbe definire come seme dal quale nasceranno poi molti fiori.

    A prescindere da questo vorrei tentare qualche riflessione così, a braccio, da intendersi come semplici domande rivolte alla Mazzucato. Premetto anche che non ho letto il volume in questione e mi baso solamente su quanto riportato in questa pagina ora… alle dieci e mezza di sera…

    Scorrendo le righe riportate dal libro devo dire mi è venuto un dubbio che poi, leggendo i commenti in primis dell’autrice, un poco mi è stato confermato. La domanda che sorge da questo dubbio è: il libro parla di grasso oppure parla dell’umano di questa donna che sta al di là, come parte malata, di tutti i nostri schemi, anche di quelli che consideriamo come “oltre gli schemi” ma che in realtà abbiamo già da tempo assorbito… ?

    Perché gli elementi, pochi lo so, che saltano alle dita sono i seguenti, ovviamente a mio opinabilissimo avviso:

    1) la scrittrice si sente estranea alla società in cui vive in quanto è grassa

    2) il grasso dell’autrice è in contrapposizione con l’anoressia che, a ben vedere, non ci è più così scandalisticamente estranea ma anzi ci è familiare, attraente. La ragazza dall’estrema magrezza è quasi sempre una modella e della modella mantiene in qualche modo i caratteri sessuali della bellezza, pur perduta. Mentre la donna grassa non ha caratteristiche sessuali attraenti per cui è CONCRETAMENTE oltre i nostri schemi.

    3) per il discorso appena fatto la scrittrice grassa si è appesa ad avventure sessuali che in qualche modo la facessero rientrare nello schema della nostra società. La nota sul seno grosso credo palesi bene questo particolare.

    4) la scrittrice grassa in qualche modo non soffre della sua grassezza in sé, della sua caduta artistica in sé, ma soffre drammaticamente della sua alienazione dall’umano. La scrittrice cerca la sua umanità e in questa ricerca perde, decade, da questo il contesto decadente della città di cui si parla. Il grasso della scrittrice grassa è, per sintetizzare, il brutto che disumanizza nella visione che ne ha la società (come detto l’anoressia invece mantiene, pur assurdamente, qualche mnemonico carattere sessuale per cui ha una disumanizzazione quasi inferiore)

    5) la scrittrice grassa non ha come solo ostacolo alla sua umanità il grasso, che la rende brutta e inumana agli altri, non è solo il suo aspetto fisico che diviene barriera contro la sua ricerca dell’umano… anche il fatto d’essere scrittrice diviene un elemento negativo e ulteriormente disumanizzante. Perché ad essere integralmente precisi la scrittrice non pare ESSERE una scrittrice ma FARE la scrittrice. Quando scrive lascia in qualche modo incompleto e distaccato, insoddisfacente, il suo lavoro da se stessa. Questo perché la scrittura non intacca il suo essere e pertanto diviene un’attività simile a quella di un ufficio. Va, scrive, lascia. La scrittrice FA la scrittrice. Ma non lo è, o almeno non lo è in quel preciso momento di caduta personale. Pertanto l’umano è sempre più lontano, sempre più distaccato.

    Cosa sta cercando questa scrittrice grassa? Sta odiando il proprio grasso, la propria caduta artistica, oppure sta cercando se stessa?

    Giro la domanda, chiedendo se non è questo il fulcro di quanto riportato in questo spazio (ripeto che non ho letto il libro): la questione non è forse che abbattuti tutti e dico proprio tutti i nostri schemi mentali, culturali, e sociali (fra questi il sesso), abbattuto il valore di una falsa letteratura che non vede “uomini/autori” ma “uomini che fanno gli autori”…. abbattuto tutto ciò che noi artificiosamente crediamo importante e vitale e fatte cadere tutte le nostre impalcature artificiali… si va cercando cosa rimane dell’uomo (“uomo” inteso come essere umano, ovviamente) ?

    Alessandro Canzian

  47. @ Massi: non solo credo che la lingua debba mettersi a servzio della storia, ma anche che – in un certo senso – debba imprimerle una voce.
    E che questa voce debba poi interpretare.
    Saper cambiare registro, avere una sorta di mallebilità camaleontica rispetto alla natura di ciò che si narra, ai personaggi che si mettono in scena, fa dello scrittore quasi un attore che sa vivere tutto, apprendere da tutto, respirare in tutto, anche in ciò che per assonanze caratteriali non sente vicino a sè.
    Altrimenti narrare sarebbe sempre e solo un modo per autocelebrarsi, per non dismettere i propri panni, per non riconoscersi mai – neanche un po’ – nell’umanità che ci circonda.

  48. Vedo ora il post di Simona e vorrei dare un’ulteriore nota, se possibile.

    “La scrittura al servizio della storia” credo sia un dato di fatto che poi misura la professionalità dell’autore/trice.

    Quando si parla di poesia questo elemento è palese, ma anche la narrativa ha una sua poetica e in molti strumenti si allinea con la poesia.

    In poesia la “forma” di un testo è di fatto un testo a parte che poi allinearsi od essere complementare al significato del testo stesso (la vecchia questione significante/significato).

    In narrativa, nella prosa, alla fin fine la questione è la stessa: una storia d’amore leggera non può essere narrata come la storia di una scrittrice obesa che cerca la sua umanità (se è questa la questione, vedi mio post sopra).

    Se poi abbiamo un autore che scrive solo romanzi d’amore allora si che è semplice e comprensibile la sua riconoscibilità.

    Ma quando abbiamo un autore che spazia, per ricerca personale, da un argomento all’altro, ecco allora che il lettore non può aspettarsi (e non deve pretendere) una modalità narrativa sempre uguale a sé perché altrimenti non avremmo crescita.

    E anzi l’abilità del lettore diviene la sua capacità di trovare il filo conduttore tra i vari cambiamenti formali.

    Che, attenzione, a mio avviso spesso rappresentano il vero esito dell’autore oltre ciò che sostanzialmente scrive.

    Alessandro Canzian

  49. Così, io ho provato a mettere ordine alle “mie” impressioni sul Kaddish.

    «La vita è un loop, una continua elaborazione di frasi simili da spargere in giro variando solo qualche parola». Lo è anche la scrittura? Sì, a volte, quando diventa esercizio sterile e formale, quando l’inchiostro è puro pigmento non contaminato da viscere e umori. Di certo non è il caso della scrittura di Francesca Mazzucato, di certo non è il caso di Kaddish profano per il corpo perduto che, come l’autrice stessa dichiara, nasce da un grumo e racconta di una frattura.

    Nel breve spazio di una torrida estate, una telefonata, un incontro, chiacchiere agevolate da un vinello che scende leggero, un ritorno a un passato lontano, forse neanche troppo, a un compagno un tempo amato e amante, che si appresta a partire, ad andare in vacanza, che lancia una proposta repentina, miracolosamente accolta.

    Budapest, la meta: una città che è un crogiolo (di storie, culture, tradizioni, etnie, odori, sapori), una città che di fratture ne ha vissute, e tante, terribili, fratture non ancora sanate, non ancora ricomposte (ma è possibile ricomporre le fratture? e se sì, non c’è sempre una cicatrice, una linea imperfetta a ricordare, a renderne presente, sempre, il ricordo, il segno?), ancora visibili.

    Il corpo, è questo il fulcro attorno al quale ruota il romanzo. Non un corpo qualsiasi, non un corpo adatto, con il codice a barre perfetto e nitido. Questo corpo è assolutamente inappropriato, a tratti sconveniente: è enorme, ingombrante, debordante. È un corpo obeso. Di più, è il corpo di una scrittrice obesa imprigionata in un mondo popolato e dominato da scrittrici anoressiche.

    In un ambito precario, che rappresenta forse la quintessenza della precarietà di questa nostra epoca dove niente è certo, dove niente è durevole, dove niente è dato ma solo temporaneamente concesso, nell’ambito di quella che un tempo era la cultura e che oggi, più prosaicamente, è solo l’editoria (fatta di scrittura, di traduzione, di recensioni-marchette) un corpo come questo fa sempre più fatica a trovare spazio: deve sforzarsi di adeguarsi ad aree create a uso e consumo di taglie small, se non extra-small, deve cercare di celarsi, occultarsi il più possibile, nel tentativo di mimetizzarsi, di sparire, per non creare disagio, fastidio, disgusto.

    Eppure «non sempre le imperfezioni creano solo disturbo. Possono anche creare meraviglia. Singolari, speciali meraviglie». È questo il caso di Kaddish profano per il corpo perduto: un romanzo stratificato come il corpo che racconta e che lo impregna e lo pervade. Non si tratta però di adipe ma di ricordi, influenze, dolori e consapevolezza.

    Dalla frattura si parte, alla frattura si arriva, attraverso un viaggio inatteso, improvviso e sorprendente, un viaggio che è reale, concreto e insieme metaforico.

  50. Tantissimi i temi, tantissimi gli spunti.
    Getto un pò di pensieri sparsi anch’io.
    Dell’obesità, penso come Chiara. Anzi, della bulimia.
    Una grassezza, tra l’altro, spiegata e raccontata nel libro, negli strati che si sommano, nelle sue cause e nella nascita. Una grassezza scudo e punizione per molte cose.
    Una grassezza-simbolo, contraltare della società dove forma e sostanza si mescolano perdendo le proprie peculiarità. Dove, e qui vengo a un commento lasciato più sopra, non è che si voglia fare gli scrittori (anzichè esserlo): semplicemente, lo si deve fare, per essere considerati.
    Perchè la scrittura, in sè, ha poca cittadinanza. Senza un corollario di protagonismo.
    E in questo lo splendido anticonformismo del Kaddish. Che, come una preghiera -quale è- non si interessa di alcuna convenzione e procede sul proprio binario, verso la sua funzione, scavando a fondo per sublimare la protagonista, la scrittrice -e il lettore, oso dire. Una scrittrice che prega e racconta, solo per -non so quanto volutamente, o inconsciamente- penetrare il nucleo di una sofferenza esistenziale. Di cui la grassezza, appunto, è stata sfogo.

    Mh, mi sono inerpicato in un ragionamento non so quanto comprensibile 🙂 dunque risparmio altre elucubrazioni.

    Aggiungo solo che, Massimo, sì, senza dubbio la scrittura deve essere al servizio della storia, con due piccoli distinguo:
    1 amo ferocemente il saper riconoscere uno stile, uguale pur se sempre diverso.
    2 a servizio in che modo? magari anche per ossimori o straniamenti, no? Voglio dire, esistono regole di scrittura secondo le tematiche. Bene, ingoiamo queste regole per riformularle nostre e solo nostre.

    Da ultimo, adoro il KAddish perchè mi ricorda un libro che ho sempre ammirato. “Perturbamento”, di Thomas Bernhard. Il lungo soliloquio(preghiera? ricordo? racconto?) di un principe, che abbraccia e centrifuga tutto ciò che del mondo si può dire.

  51. E aggiungo: Perturbamento viene indicato come un romanzo di formazione. Sì, ma una formazione non del protagonista, bensì del lettore.
    E così il Kaddish, dove le due formazioni si mescolano.
    Quando una storia, un libro, uno scritto, che potrebbero essere definiti “solipsistici”, in realtà escono dal loro sentiero per assumere una cifra universale
    questa è Letteratura. Quella che spazza via tutto.

  52. Buona giornata a tutti.
    Credo che potrò tornare a commentare solo nel pomeriggio (lo farò riprendendo molti degli spunti offerti dai vostri interventi, compresi gli ultimi due di Guido).
    A dopo, allora. E grazie.

  53. Buon giorno a tutti.
    Volevo lasciare alcune considerazioni su Imre Kertész.
    Lessi ‘Liquidazione’ in un periodo di strappi e in un certo senso è stato proprio questo romanzo che mi ha aperto la mente, sciolto dei nodi.
    Kertész scrive di Auschwitz perché è lì che si sono ossidati tutti gli elementi centrali alla sua pulsione narrativa, perché Auschwitz è dolore quanto disperazione quanto voragine nera e infinitamente buia dentro cui si cade e, pur rimanendo in vita, si è anche un po’ morti, si resta là pur camminando su altre strade.
    Kertész insegna a disgregare le strutture, a mantenere potente e intensa una storia, una narrazione intaccando però la rigidità tradizionale delle strutture stesse.
    In ‘Liquidazione’ il lettore sa dove sta andando segue Keserù (direttore editoriale decadente e alla deriva – non a caso- che vive dentro una sua ‘liquidazione’ editoriale ma anche culturale), ma anche Sara (l’amante – moglie di un amico di B che è un scrittore geniale quanto altalenante, sofferente) e Judit (la prima moglie di B). Il lettore li segue e insieme a loro ‘entra ed esce’ tra registri, strutture narrative, tra scritture teatrali quanto epistolari quanto poetiche. E forse quasi non se ne rende conto. Nel senso che è tutto ‘così naturale’, sequenziale, sorseggiare piano l’uno poi l’altro e ancora.
    [segue]

  54. ‘ADAM Nessuno può revocare Auschwitz, Judit. Nessuno, e non conta nessuna autorizzazione. Auschwitz è irrevocabile.
    JUDIT (sempre più disperata) Io sono stata lì. Ho visto. Auschwitz non esiste.
    ADAM (si avvicina a Judit, l’afferra forte per le spalle) Ho due bambini. Due bambini che sono per metà ebrei. Che non sanno ancora nulla. Dormono. Chi racconterà loro di Auschwitz? Chi di noi dirà loro che sono ebrei?
    JUDIT (sottovoce, quasi scongiurando) E se non glielo dicessimo?
    CALA IL SIPARIO
    (pag.109)
    ‘Odiavo il fatto di essere ebrea, e avrei odiato ancora di più il fatto di negarlo. Soffrivo di vere e proprie nevrosi, come tanti altri, e proprio come questi altri, anch’io vedevo l’unica via d’uscita nell’abitudine. Ma accanto a B. imparai che ciò non era sufficiente.’- pag.98 – (dalla lettera di Judit al nuovo marito)

    Morire è facile
    la vita è un immenso campo di concentramento
    che Dio ha messo su per gli uomini sulla terra
    e che l’uomo ha poi sviluppato
    sino a farlo diventare un campo di sterminio per l’uomo
    Suicidarsi corrisponde
    a fregare quelli che stanno di guardia
    scappare disertare e di quelli che rimangono
    sghignazzare contenti
    In questo grande lager della vita
    […]
    qui ho imparato che la ribellione è
    RESTARE IN VITA
    (pag.55-56)

    Dunque, stralci poetici quanto linguaggio epistolare quanto frammenti di dialoghi teatrali e ovviamente narrativa pure. Tutto in unico testo che non è però ‘pesante’. La lettura è immediata, scivola. La lunghezza adeguata anzi, forse un tantino ‘meno’. Il lettore arriva in fondo e ne vorrebbe ancora, un’appendice, un prologo, un ‘qualcosa’ da continuare a leggere o che magari chiarisca (a me è successo).
    [segue]

  55. Perché la straordinaria grandezza di Kertész è la stratificazione. I simboli, i significati, i sensi ‘celati’ sono sparsi, disseminati dentro una trama tutto sommato semplice. Non è l’originalità della storia nuda e cruda, l’elemento con cui Kertész vuole colpire, attirare l’attenzione. E’ tutto ciò che sta dietro a quella trama, che ‘richiama’ anche in corso di lettura.
    Kertész è un abile giocatore, secondo me. Mescola i personaggi, varie le importanze, sposta gli assi temporali ma soprattutto i registi. E lo fa come io preparo il caffè la mattina presto. Con naturalezza e semplicità.
    Penso che la lettura di almeno un libro di questo autore possa essere illuminante per molti. Anche se di ‘talune tematiche’ forse si preferirebbe leggere poco. Auschwitz è un personaggio ingombrante e onnipresente. Eppure anche dentro questo ‘buco nero’ che assorbe e annulla, anche lì dentro c’è qualcosa che vale la pena di afferrare.

    ‘ Il sopravvissuto costituisce, nel suo sistema, una specie a parte. – continua -, una sorta di specie animale. Secondo lui siamo tutti sopravvissuti, e ciò determina il nostro mondo concettuale perverso e atrofizzato. Auschwitz. E poi questi quarant’anni alle nostre spalle. Diceva di non aver trovato ancora una risposta precisa a qust’ultima deformazione della sopravvivenza – cioè a questi quarant’anni. Ma la stava cercando, e ormai era assai prossimo a trovarla.’ (pag.24) (il dialogo è riferito a B.)
    [segue]

  56. Concludo con una nota di personale attaccamento all’autore.
    La presenza continua e potente di Auschwitz, i cambi di registro, gli scavi tra dinamiche culturali quanto simboliche; tutto in Kertész può portare il lettore a trascurare i sentimenti. Sembra quasi che per lungo tempo non ci sia posto per ‘certi’ sentimenti. L’amore tra tutti. Keserù era amico di B ma non ne capisce il suicidio. Judit ha amato molto B ma alla fine si sono comunque separati. Anche Sara gli vuole bene ma restano comunque distanti, come se ad amplesso concluso avessero esaurito gli argomenti di conversazione.
    Sembra.
    Ma in mezzo a una narrazione che è anche denuncia sociale, intellettuale; i sentimenti grandi e potenti ci sono e questo me lo ha fatto apprezzare ancora di più. Perché certe volte non c’è bisogno di abbondare con le parole, di affogare nei preludi. Bastano poche, sapienti righe.

    ‘Tra le fiamme la scrittura si faceva incandescente:
    … sulla base dell’autorizzazione che mi viene da quanto ho vissuto e sofferto, per te, e soltanto per te, revoco …
    E’ sempre colpevole chi rimane in vita. Ma saprò sopportare la ferita.
    (pag.108)

    Eccola dunque, una delle più grandi dichiarazioni d’amore. B che ‘revoca’ tutto ciò che Auschwitz rappresenta alla sua amata Judit, per sempre.

    Liquidazione
    di Kertész Imre
    (Feltrinelli, 2005), isbn: 88-07-01673-7
    Titolo originale: Felszámolás
    Traduzione di Antonio Sciacovelli
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    Barbara Gozzi

  57. Tornando al romanzo della Mazzucato, io lo sto leggendo proprio in questi giorni.
    E vorrei lasciare qui alcuni appunti che non hanno pretese. Sono appunti in corso di lettura, imperfetti e per ora senza visione d’insieme’ ma comunque spunti di riflessione.
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    “ Siamo noi che scriviamo, va detto, malati. Lo siamo tutti in qualche forma, se la patologia non si trova sui manuali, occorrerà segnalarlo… […] E senza scrittura non potremmo vivere e lo sappiamo. Sappiamo che è così e basta.” (pag.11)

    La scrittura dunque come linfa vitale nel senso più letterale possibile. La scrittura che è forma espressiva, è esternazione di qualcosa che da dentro ‘deve’ uscire. La scrittura come canale, flusso unilaterale quanto meno nella sua prima fase, di stesura iniziale. ‘Un vomitare’ parole, concetti, storie e sentimenti che ‘è’, esiste insomma e in quanto tale non può essere dimenticato, zittito troppo a lungo o annullato.

    Dentro al romanzo si insinuano anche le ‘paure’. A pagina 55 c’è una partenza. Le paure che rendono fragili ma che sono anche un elemento distintivo, una caratteristica radicata quanto familiare al personaggio. Paure che forse la scrittura lenisce ma che quando si presentano sono insistenti, dominanti. E sono anche paure, secondo me, che alla fine entrano nella scrittura e a tratti rendono più doloroso il percorso ma più vero e pulsante il risultato.
    [segue]

  58. Nel romanzo le annotazioni, gli spunti sul ‘post scrittura’ sono numerose (che sono certo anche denunce sul mondo dell’editoria, sul trattamento riservato alle storie ‘dopo’). C’è un passaggio in particolare che mi sembra molto rilevante. A pagina 42 la protagonista ammette che ci sono delle regole per entrare in questo ‘mondo’ solo che lei non le conosceva quando ha iniziato e le sembra che tutti i libri che ha scritto dopo (oltre dieci) non siano stati altro che mosse sbagliate, un giocare per perdere in un certo senso. Mi ha colpito questo passaggio perché mi ha subito ricordato un altro testo che ho letto da poco il cui senso – in effetti – è lo stesso. Ovvero ‘La mossa del matto affogato’ di Roberto Alajmo. Nel romanzo di Alajmo il protagonista ha altre mire, si occupa di teatro ma non di scrittura quindi le ‘sue’ mosse mirano ad altro (alla conquista del potere, del denaro, di quella posizione che lo fa sentire ‘vincente’ e quindi temuto quanto coccolato e ricercato…) eppure anche in questo romanzo, piano piano, mossa dopo mossa, il protagonista subisce il peggiore degli scacchi, si affoga da solo in pratica. E nelle parole della Mazzucato, in quelle che mette in bocca alla protagonista mi sembra che il sapore sia lo stesso. Un riconoscere che nonostante il tempo trascorso, i tentativi e la voglia di ‘far parlare’ certe storie che non sono omologate ma sono le ‘sue’ storie. Insomma. In questo percorso ha totalmente trascurato quelle regole che invece nel romanzo riconosce, perché ‘quelle’ regole servono – di solito – a portarti più lontano, a entrare nel patinato mondo delle ‘grandi’ distribuzioni, si diventa ‘scrittori ricercati’ chiamati qui e là, perfino nella tivvù nazionale. E sono regole implacabili, che non lasciano spiragli. O così o niente. Il peso prima di tutto. E qui si sprecano i riferimenti. ‘Le scrittrici XXS e viso bambino’ scrive spesso la Mazzucato. Ecco dunque la rappresentazione di queste regole del mondo editoriale moderno. Ma non solo. E’ anche una questione di argomenti. C’è un dialogo tra la protagonista e l’amico con cui partirà che ne chiarisce il senso. Lei ha sempre cercato di scrivere di qualcosa che sentiva vicino, di importante per lei, che ‘sentiva’ importante. Errore imperdonabile. Bisogna scrivere di qualcosa che interessi la gente, di ‘vendibile’ insomma, che abbia un potenziale tra i lettori che dovranno poi comprare (e a certi livelli anche molto). Eccola dunque, la denuncia. Il riconoscere dinamiche distorte già nell’approccio ai testi e al loro valore. Ecco perché le scrittrici under trenta taglia XXS sono ovunque e sanno anche come muoversi. Le regole, sono sempre loro, che dettano i ritmi. Chi vince e chi perde. Dentro o fuori.
    [segue]

  59. Sul tema del ‘cibo’ e dei ‘vuoti’ si potrebbe scrivere molto rispetto al libro della Mazzucato. Moltissimo e comunque io sono ancora in ‘corso di lettura’.
    C’è in ogni caso questo concetto che mi sembra centrale.
    I vuoti arrivano. Esistono.
    Sono assordanti e debilitanti.
    Allora la protagonista corre a colmarli e lo fa da una parta attraverso la scrittura, parole su parole per tamponare l’emergenza. Dall’altra attraverso il cibo, il masticare cercando il senso di appagamento e benessere che colma ‘quel dolore’ che precede l’abbuffata. E’ un rituale, si potrebbe dire. Qualcosa che permette alla protagonista di proseguire, di non rimanerne schiacciata, di smettere (anche se per poco) di stare così tanto male da perdere la rotta. Dinamiche così, in realtà, sono molto comuni ai disturbi alimentari in generale. Alla bulimia quanto alla c.d. ‘fame nervosa’. Nell’anoressia (che nel romanzo è più una contrapposizione) il fenomeno è contrario. Massimo controllo, ferrea disciplina e forza che arriva proprio quando si riescono a controllare quelle pulsioni naturali che inducono ad alimentarsi.
    [segue]

  60. ‘Tutto è ricarcabile’ affermerà a un certo punto la protagonista ‘ il reload è sempre possibile’ (intorno a pagina 27). Anche questa è una dinamica che meriterebbe osservazioni approfondite. Viviamo in un mondo di ricariche. Quasi tutto si può riportare alla condizione iniziale, prima del consumo insomma. Tutto tranne i sentimenti, forse e il corpo. Consumiamo, a volte, perché ci fa sentire sicuri, e magari felici (o così crediamo) e lo facciamo quasi con leggerezza perché è tutto sommato facile e alla portata di tutti. I centri commerciali sono il paradiso di questa pulsione. Ma nell’osservazione della Mazzucato io ci ho sentito tanto vuoto attorno, è un notare un comportamento che non lascia niente, che resta fine a se stesso, un dare e avere sterile e che impone loop continui per non sbilanciare la situazione.
    ——–
    Barbara Gozzi

  61. Auguri a Francesca Mazzucato per questo nuovo bellissimo libro. Le prime pagine sono davvero belle e le ho lette con gusto.
    Credo che l’obesità crei disagi maggiori rispetto all’anoressia. L’anoressia risponde, purtroppo, ad esigenze di canoni esteci pur deprecabili. L’obesità no.
    Entrambe sono dannose alla salute.
    Però è anche vero che l’anoressia, forse, affonda le radici nei problemi psicologici in maniera maggiore dell’obesità.
    Credo.
    Un po’ di confusione, sì.
    Smile

  62. Annotazione a parte.
    Gli appunti di cui sopra sul romanzo della Mazzucato sono solo annotazini mie, da lettrice, analizzatrice nonché assorbitrice di realtà e parole.
    Non c’è sudditanza.
    Non rappresentano il ‘saldo’ di nulla.
    Non sono telecomandati o forzati dal buonismo del ‘ti conosco per cui ci vado morbida’.
    Tanto volevo precisare, poi ognuno è libero di credere in quello che vuole.

    Barbara

  63. Salve a tutti.
    Di Kertész ho letto “Essere senza destino”.
    Risfogliandolo, le sottolineature, ora sottili, ora marcate fino a divenire veri e propri solchi neri con pretese di immortalità mi dicono che la parte che mi colpì maggiormente fu quella in cui il protagonista racconta il campo di sterminio una volta tornato a casa. Un dialogo surreale, fra gente che non parla la stessa lingua, il tentativo di raccontare l’impossibile accaduto. I percorsi al di fuori dell’ovvio o dell’immaginabile, la gradualità della consapevolezza di quel che stava vivendo,il trascorrere del tempo ad Auschwitz, la noia persino, la fame, la nostalgia. Spiegare tutto questo in una lingua che sembra non avere le parole a chi sembra non avere mezzi per comprendere.

    Due passi:

    “Non era il mio destino, eppure l’ho vissuto – e non capivo come potessero non concepire che io, adesso, volevo farne qualcosa di questo destino, che dovevo ancorarlo, agganciarlo a qualcosa, che non potevano dirmi semplicemente che era stato un errore, un incidente, una specie di sbandata o magari che non era affatto accaduto.”

    “Non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sua l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento, che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno.
    Sempre che me lo chiedano. E se io, a mia volta, non l’avrò dimenticata.”

    Due esplosioni nella mia testa: la felicità ad Auschwitz e orrori fra virgolette.

  64. Non ho mai letto alcunché d’interessante, a livello narrativo, sull’anoressia.

    Del 2005, in Italia arrivato solo nel 2007, Feed, regia di Brett Leonard, sceneggiatura di Gregg Leonard. Un film interessante che ci porta nel mondo non troppo lontano dal nostro quieto vivere che è quello dei Feeders e dei Gainers. A tratti grottesco, alcune scene un po’ splatter: ma il risultato finale è d’effetto, che fa riflettere sull’obesità, sulle implicazioni sociali e politiche che conducono all’obesità, e non solo. Da vedere.

  65. Ciao a tutti.
    E grazie ancora a Massimo Maugeri. Rispondendo a Guido: come ho scritto a Francesca, il libro è arrivato a Bari ma io sono a Roma quindi non l’ho ancora avuto. Me lo porteranno a Torino per la Fiera del Libro. Questi Francesca li chiamerebbe “circoli virtuosi”. Un grazie enorme a tutti, credo che quanto si sta dibattendo sul libro di Francesca faccia bene a ognuno di noi. QUesta è Letteratura. Dolore, amore. Vita.

  66. ci vuole coraggio a scrivere un libro come quello, sì. è la prima cosa che ho pensato. l’ho detto a francesca: è un libro spudorato. parla di odori, di smagliature, di rutti, di sudore, di cibo che resta impigliato nei denti, di alito mattutino, di vomito, del cibo spinto dentro la bocca con le dita, che sopisce, che lenisce ansia e angoscia. fa paura. lo leggi e hai voglia di chiudere, per la paura di caderci, in quel gorgo, talmente è vero. un libro che non si ferma davanti alla rappresentazione della debolezza. la protagonista talvolta è patetica eppure è dignitosa, a volte mi ha disturbata altre l’ho sentita pure troppo vicina, è un personaggio del tutto esistente, tangibile, tutt’altro che una figurina, c’è con tutta la sua carne e si fa sentire, ti riesce a pesare addosso. un libro che parla così della scrittura, della delusione del mondo culturale contrapposta all’amore folle per la letteratura avulsa da qualunque establishment a farle da contorno, è un libro senza trucchi, sincero fino a spaventare o infastidire, e credo che la forza di questo romanzo stia proprio qui: in una spietata sincerità, una feroce, ostinata messa a nudo che spoglia la protagonista e spoglia il lettore. come a dire: adesso che sei nudo come un verme, anche tu, solo adesso ci possiamo guardare.

  67. Francesca, intanto complimenti e auguri per il tuo libro del quale ho letto con piacevole sorpresa le prime pagine. E’ un argomento di sicuro interesse, e di cui si parla sempre poco rispetto a quello dell’anoressia. Ma il disagio che ne deriva è faccia di una stessa moneta e questo l’hai colto con grande maestria.
    Mi ha colpita molto la frase che hai scritto qualche commento fa “io ho sempre scritto di perdenti”. E ti chiedo, perchè? Forse in assonanza con quanto dice il tuo amico Flynn “se c’è dolore, disagio, si può sperare di aver scritto qualcosa di buono”?

  68. Rieccomi, buon giorno. Prima di dimenticarmi vorrei rispondere a Massimo sull’umiltà.

    E’ necessaria,direi. Poi si potrebbe chiamarla diversamente e non umiltà. E’ il riconoscere quando qualcosa è necessario e fondamentale. Uno scrittore da solo non va da nessuna parte. Riconoscere quando un lavoro con un editor importante, con un editore che della storia si innamora, può avere un effetto “virtuoso” sul proprio scrivere( e rimanerti dentro,rimanerci tanto) è in fondo il massimo del proprio vantaggio. E’ “umiltà vantaggiosa” Mi ci sono voluti anni per capirlo. Sono sempre stata fondamentalmente un’asociale, un’inadatta, e scrivere, oltre ad essere l’unica cosa che ho sempre fatto, insieme a leggere, mi ha sempre attirato per quella parte solitaria del lavoro.

    Errore. Almeno nel contemporaneo. Ma errore grave. Così si entra nel caos . Adesso trovo fondamentale la collaborazione. Lo scambio. Ogni lavoro ha, per usare un termine di Barbara Gozzi “un’officina” che è precisa. Innegabile.

    Poi volevo tornare un momento al tema di partenza, l’obesità.
    Ha due chiavi di lettura o forse di più.
    Io racconto un disagio/frattura perché è quello che voglio narrare e desidero mettere a nudo con spudorata indecenza le cose che di solito non si possono o devono dire

    Ma parlare di obesità vuol dire anche parlare di forme diverse. Ci sono tanti corpi, tante forme, tanti possibili modi di essere. In qualche modo l’obeso è il più ripugnante secondo i canoni, perché non si pensa mai che uno non desideri essere obeso. Si associano pigrizia, mollezza, scarsa forza di volontà. Io non penso a sciocchezze come “grasso è bello” ma neanche a “grasso è disgustoso”. Dipende. Ci sono magri orrendi e grassi bellissimi( Michael Moore secondo me è uno degli uomini più sexy del mondo, ebbene si)

    Se non c’è un problema di salute, e non è necessario che ci sia, si può anche essere grassi e sani, si può “abitare il proprio corpo” riconoscendo e lasciano riconoscere che possono esserci modelli differenti.

  69. Diciamo che agli uomini questo è più concesso. Ad esempio Camilleri è senza dubbio un signore molto robusto, ma raramente si pone l’enfasi su questo. Si pone l’enfasi sul suo impegno, oltre alla sua bravura e al suo successo. Al suo legame con la sua terra. E ce ne sono altri. Lucarelli è un eccellente scrittore, non certo magro. Per non parlare di esempi “giganti” come Giuliano Ferrara, ecco. O Costanzo. Parlo di persone che hanno una esposizione pubblica. Per le donne ogni svicolamento da canoni consolidati è fatto subire come una colpa. Ricordo ancora una frase che Sgarbi disse su Rosi Bindi:” E’ più bella che intelligente”.
    E’ una frase ripugnante. Molto più dellle offese che ha rivolto di recente a Travaglio in tv, che pure erano forti. Ma non andavano a toccare il nucleo, indipendentemente da quello che si pensi della Bindi o di Travaglio.

    Le donne portano questo peso e questo è una frattura. Scrivono le donne solo di corpo? No non credo. E poi scrivere di corpo può essere il modo di scrivere di tante ma tante altre cose. Il corpo si fa feticcio.
    Sta in noi renderlo feticcio. Feticcio ed elemento metaletterario per arrivare ad altro. O fermarsi fra le sue pieghe, non c’è nessun problema.

  70. Grazie Rosella, grazie davvero, perché è stato proprio come uno spogliarsi in una piazza affollata. Volevo questo, una messa a nudo, totale, Volevo vedere se ne ero capace, arrivare al limite. Anche del patetico, del disturbante, dell’indecente.
    Se non c’è coraggio c’è poco da fare con la scrittura secondo me. Kertész dice che occorre narrare la “frattura” . Ho voluto provarci in tutti modi, a ciascuno poi, la propria frattura, o una delle tante. O tante, stratificate.

  71. Grazie Rosella, grazie davvero, perché è stato proprio come uno spogliarsi in una piazza affollata. Volevo questo, una messa a nudo, totale, Volevo vedere se ne ero capace, arrivare al limite. Anche del patetico, del disturbante, dell’indecente.
    Se non c’è coraggio c’è poco da fare con la scrittura secondo me. Kertész dice che occorre narrare la “frattura” . Ho voluto provarci in tutti modi, a ciascuno poi, la propria frattura, o una delle tante. O tante, stratificate

  72. Si Silvia. Ho scritto sempre e solo di perdenti. Ho scelto un angolo dove porre lo sguardo, un punto da inquadrare,una posizione. Obliqua. Fra i perdenti. Perché da un lato mi rappresenta, questa sensazione di essere o di poter essere sempre fra i perdenti, gli inadatti, i confusi, i messi da parte, mi accompagna da quando ero piccola. E la voce che voglio dare, anche raccontando di corpi, anche di vagabondaggi sessuali, è la voce di chi se la gioca tutta, si copre di ridicolo, si ubriaca, si perde, rotola nel niente

  73. Arrivo qui a parlare del Kaddish quando è già stato detto tutto o quasi. Rimane sempre quella sensazione particolare, “propria” se vogliamo, che ogni libro ci lascia, a prescindere dal suo intento narrativo.
    Ebbene, come ha ben detto Chiara e come ha ben sottolineato Sabrina, questo è il libro degli intenti, dei molteplici intenti; questo è il libro dove ci si mette in gioco, come persona, come narratrice. Forse, al di là di tutto il bene che si può dire di questo romanzo, mi è piaciuta la schiettezza senza veli, il raccontarsi, il mettersi in gioco senza falsi idilli, senza sotterfugi, senze quei mezzucci e quelle stramberie della scrittura che ambiscono ad essere tutt’altra cosa dalla letteratura.
    La protagonista di questo libro è un vaso crepato che tenta di stare in piedi come può. Un animale offeso che si lecca le ferite senza troppo lagnarsi.
    Ma quante sono le ferite!
    Un rapporto di confidenzialità ambigua con la madre; un rapporto interrotto ed inevitabilmente compromesso con il padre; una disistima del proprio corpo, un rifiuto imposto da una società di modelli preconfezionati e standardizzati; il sesso occasionale e vacuo accompagnato dall’amore respinto, sempre dubbioso tra i se e i ma; c’è il viaggio da sempre metofora importante della ricerca di un qualcosa; e, infine, ma non meno determinante di tutto il resto, l’avvilimento di un artista, un artista che arranca, che cerca di rimanere a galla, che non si chiede mai se vale, perchè sa di valere, ma non può fare a meno di chiedersi, invece, quale intoppo arcano le impedisca di godere, giustamente, della sua notorietà della sua Gloria.
    Del resto, anche la scrittura, come già qualcheduno ha fatto notare, è il tentativo ulteriore di sanare una frattura, di mettere un cerotto minuto su di un sanguinamento eccessivo. E “la frattura intanto si delineava, diventava precisa, solida e uniforme: grattando, grattando davvero, sotto c’è sempre stata solo la paura” (p. 193)

  74. A Chiara vorrei dire delle parentesi. Sicuramente mi ha influenzato Kertész. Usa sempre parentesi, tante . Fra le parentesi , dentro le parentesi,accanto alle parentesi avvengono molte, moltissime cose.
    In un altro commento Chiara aggiunge
    “In un ambito precario, che rappresenta forse la quintessenza della precarietà di questa nostra epoca dove niente è certo, dove niente è durevole, dove niente è dato ma solo temporaneamente concesso, nell’ambito di quella che un tempo era la cultura e che oggi, più prosaicamente, è solo l’editoria (fatta di scrittura, di traduzione, di recensioni-marchette) un corpo come questo fa sempre più fatica a trovare spazio: deve sforzarsi di adeguarsi ad aree create a uso e consumo di taglie small, se non extra-small, deve cercare di celarsi, occultarsi il più possibile, nel tentativo di mimetizzarsi, di sparire, per non creare disagio, fastidio, disgusto.
    Eppure «non sempre le imperfezioni creano solo disturbo. Possono anche creare meraviglia. Singolari, speciali meraviglie»”
    Ecco, questo è importante. Volevo raccontarlo. E’ anche molto faticoso, molto molto difficile. Vorrei dire che è così difficile che sarebbe meglio pensarci bene.
    Che si possono pubblicare più di dieci libri e fare i conti con un invito a un tristissimo talk show su Badia Polesine Tv, a una orrenda micro fiera dell’editoria dove non ti rimborsano il viaggio, o a un seminario dove devi tenere un corso per meno di trenta euro l’ora nette e anche se arrivi da chilometri lontano non ti pagano neanche l’albergo.§
    E arrivi a dire no, certe volte.
    Ma tante, prima dici sì per paura di perdere un treno importante. Quanta paura abbiamo, di perdere quel treno? Proprio quello?
    Inoltre a volte chi ti invita, chi ti propone è precario, instabile, senza certezze come sei tu. Non te la prendi con la persona, ma il sistema dell’industria culturale è malfatto provinciale, problematico, improvvisato
    Certo non aiuta la bramosia di pubblicare. Sempre e comunque, a qualsiaisi costo . E’ un errore. Essere scrittori è davvero una questione terribilmente seria e dolorosa,anche. Sotto, lo sappiamo tutti, ma si cercano escamotage
    le strade veloci.
    Kertész ha fatto una vita tremenda prima del Nobel( e anche dopo è rimasto nella sua piccolissima casa di Buda) Ha vissuto prima la deportazione e poi la censura del regime che ha seguito la fine della seconda guerra mondiale. Ha limitato i bisogni. E’ andato avanti. Perché non c’era da fare altro che scrivere.

  75. Credo che, di fondo, ci sia una sorta di confine che fa da discrimine, tra gli Scrittori e gli “scrittori” (inevitabilmente tra virgolente a sottindere scribacchini). La scrittura se è vanità non è scrittura. La scrittura è vera solo se è esigenza e, appunto, dolore. Come ogni forma d’arte. O almeno così la vedo io. E poi è strano, proprio in questi giorni, per caso, leggo un libro molto bello, di una portoghese, Dulce Maria Cardoso, intitolato Le mie condoglianze. Anche lì si parla di corpi e di fratture, di dolori inghiottiti, di rapporti lacerati e laceranti. E di obesità. E anche quello è un libro, come il Kaddish, che va letto goccia a goccia, per assaporarne il gusto, corposo.

  76. Francesca Mazzucato,
    odio il mio corpo, quando esaminandolo non trovo la sua anima che lo faccia splendere davanti agli altri che, ottusi e superficiali, non la cercano nel mio intimo.
    Lo sopporto e a volte lo amo, nei momenti di equilibrio interiore, quando gli sguardi degli altri non occupano la mia attenzione, troppo presa dalle mie riflessioni, da sentirmi estranea in questo mondo.
    Sono i momenti di felicità nell’accertare che sono un qualcosa di speciale, non un involucro con una misura e forma, la cui considerazione varia secondo del gusto del tempo e dei fattori che lo definiscono; sono i momenti di ristoro, nel ritrovare la mia origine che non è di questo mondo.
    Tutti abbiamo un’origine comune che un qualcosa la mutò, dandole una forma esteriore e fisica.
    Da qui triboliamo nel definire come dovrebbe essere per essere gradita dagli altri, come se questi altri avessero il diritto di giudicarla, e secondo il giudizio espresso premiarla o spregiarla.
    Lo spirito è immune dalle tentazioni delle sue forme terrene, che ha assunto per volontà superiore, alla quale non poteva opporsi.
    È immune e aspetta in silenzio il tempo dove rimostrarsi nella magnificenza del suo splendore di luce, senza forma e temporaneità.
    Nel frattempo gli esseri comuni si misurano e combattono per assicurarsi il diritto di prevalere e comandare sugli altri.
    Chi non lo fa è già in partenza uno sconfitto, ma cosa conta perdere il senso della presuntuosità e vanità, quando il contatto con il proprio animo ci dona veggenza e con essa la propria salvezza?
    La vita terrena è nella sua limitatezza una prova da superare, colui che s’impegna trova già in lei il suo equilibrio psichico, uguale quali difetti abbia e quale forma fisica lo definisca.
    Saluti affettuosi,
    Lorenzo

  77. Ogni commento di questo post mi sembra davvero aggiungere qualcosa di importante (e non sempre va così, anzi) ed è stato davvero un piacere leggerli tutti.

    Ora, per non lasciare il primo che non dice nulla, mi butto in una domanda scomoda per Francesca (tanto lo so che non ti lasci spaventare così facilmente) e cioè:

    Anche se il kaddish non è un’autobiografia, ci sono degli evidenti richiami a fatti reali della tua vita. Non hai paura che qualcuno possa accusarti di esserti voluta levare “qualche sassolino dalla scarpa” scrivendone?

  78. Ho letto l’ultimo commento di Francesca Mazzuccato. Mi ha colpito questa parte:
    Essere scrittori è davvero una questione terribilmente seria e dolorosa,anche. Sotto, lo sappiamo tutti, ma si cercano escamotage
    le strade veloci.
    Kertész ha fatto una vita tremenda prima del Nobel( e anche dopo è rimasto nella sua piccolissima casa di Buda) Ha vissuto prima la deportazione e poi la censura del regime che ha seguito la fine della seconda guerra mondiale. Ha limitato i bisogni. E’ andato avanti. Perché non c’era da fare altro che scrivere.

    Vero. E mi chiedo perché quando si esprime questo bisogno, questa fatica, anche questo dolore, intorno si vedano sempre e solo sorrisi di scherno perché tu sei quella che vuole tentare la scalata. Non so se esistano le strade veloci. Probabile che sia io a non saperne riconoscere. E forse non le imboccherei comunque. Ma la lotta perché ciò che scrivo possa arrivare a dei lettori non è una scalata. E’ l’espressione più alta di un’esigenza. La stessa che a otto anni mi costrinse a scrivere la prima favola su un quadernone. A scriverla, a illustrarla con dei disegnini, a farla leggere ai miei compagni di scuola, al maestro, ai genitori. Perché scrivere non bastava. Eppure ho scritto, abbiamo scritto in silenzio per quasi trent’anni, prima di arrivare ad un libro. Perché per ascoltare la nostra piccola anima non c’era da fare altro che scrivere.
    Voglio ringraziare Francesca, per il suo libro, per gli stralci, per l’intensità delle sue parole.

  79. gentile Massimo,

    ti ringrazio, cosa che forse t’arriverà strana, per l’attenzione che stai dando a questo romanzo di Francesca Mazzuccato, a questa nuova parola di corpo ingigantita da un libro:
    dove il dire dell’autrice, e a fine lettura vorrei esser più contreto e quasi analitico, accompagna la lettura di noi pronti a dormire i sonni dei magazine chiamati libri d’oggi.

    complimenti Francesca,
    che dopo L’anarchiste, il libro che fino a questo momento ritenevo il tuo più bello dei miei diversi letti fatti da te, mi ha consegnato quest’altra grazia immorale;

    b!

    Nunzio Festa

  80. Sottoscrivo quanto detto già in precedenza da Laura Costantini sul bisogno di scrivere che non è solo un bisogno dettato dalla vanità o dal protagonismo.
    Non sono invece convinto che necessariamente debba essere un problema essere grassi ( cosa che mi sembra si evinca dal libro della Mazzucato ). Se ci siamo convinti che le donne grasse sono più o meno malate la battaglia contro l’omologazione è stata in qualche modo persa…….

  81. Vi ringrazio tutti per i nuovi commenti:
    outworks110, Nunzio Festa (grazie a te Nunzio), Laura, Sabrina, Francesca, Rosella, Chiara, Silvia. Antonella, Giuseppe, Monia… e atutti gli altri.
    (siete più donne, o sbaglio?)

  82. @ Outworks
    Sono d’accordo con te. Chi scrive con l’idea di inseguire la propria vanità o la propria voglia di protagonismo è fuori strada. La scrittura non si presta granché in tal senso.
    Meglio tentare con “Il grande fratello”, non trovi?

    Invece essere grassi è un problema (l’ho scritto sul post). O almeno, lo è quando si diventa obesi. E questo, a mio avviso, vale sia per gli uomini che per le donne.

  83. In generale, anche leggendo i vostri commenti, credo che “Kaddish” sia effettivamente uno dei migliori romanzi scritti da Francesca Mazzucato.
    Francesca, tu come la vedi?

  84. Vorrei ritornare sul discorso della “scrittura a servizio della storia”.
    Mi rivolgo a Guido e a Simona (ma anche agli altri).
    Uno dei testi di narrativa che amo di più è “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino. Quel testo, a mio avviso, vale quanto un corso di scrittura e un corso di lettura messi insieme.
    Ed è proprio la dimostrazione (certo, estremizzata) di come la scrittura (stili, stilemi) possa mettersi al servizio della storia (o della narrazione).

  85. Alcuni anni fa visitai Budapest. Un viaggio realizzato da sola come tanti altri.
    Il fiume divide la parte moderna della città da quella antica, dove castelli merlati e cristalli hanno resistito alle guerre ed ai governi politici: proprio accanto alla cattedrale, sulla cima di Buda, c’è una grande e bella libreria con il caffè dove potersi ristorare. La luce naturale entra da soffitti e pareti a vetri proprio come una serra con magnifici fiori e profumi: il nome di questa libreria è Libreria Fortuna e vi acquistai un manuale di disegno della scuola d’arte di Budapest che negli anni successivi mi fu molto utile nei miei studi.
    Il contrasto di Buda con Pest, cioè con la parte nuova è stridente. Francesca Mazzucato confermerà la tristezza delle strade principali di Pest dove jeanserie e tecnologia fanno da sfondo ad una rivoluzione di costume, soprattutto fra i giovani, che ha trasformato gli anni di tristi ed i grigi governi in un abbuffata di televisori, telefonini, porcherie di vario genere quali la prostituzione e il turismo di bassa decenza.
    Una capitale che da anoressica ha sfrenatamente cercato l’obesità.
    Non ho letto il libro, ma ho la sensazione che il parallelo fra la capitale dell’Ungheria che per anni ha patito fame e povertà sia perfettamente in sintonia con l’anima della protagonista, affamata ed insaziabile, colta e sensibile, travolta dagli eventi e da essi deformata nella sua fisicità, con un immagine riflessa ed allargata dalle acque del fiume che separa il bello dal brutto, la nobile storia dei valzer da quella dei bombardamenti, i viali alberati dove soave il vento accarezza i volti di chi passeggia da strade di cemento e casermoni e panchine da dimenticare.
    Rossella

  86. Ciao Rossella. Molto bello il tuo commento su Budapest.
    Vediamo se Francesca ci si ritrova.

    Secondo te, Francesca, qual è il più grande pregio di Budapest? E il più grande difetto?

  87. Gli spunti per discutere si sono moltiplicati (e di questo vi ringrazio).

    Pongo un’altra domanda a Francesca:
    nel tuo precedente libro c’erano dei richiami (e tributi) a Jean-Claude Izzo, Louis Brauquier, Samuel Beckett e Kurt Nimmo. Qui troviamo Imre Kertész.
    Sembra che, da un certo punto di vista, la tua scrittura sia pregna di impliciti ringraziamenti per l’arte e la letteratura che ami e che hai amato.
    Sei d’accordo? E se sì, ritieni sia solo un caso o credi che sarà una costante della tua scrittura futura?

  88. Caro Massimo, cara Francesca, cari tutti di Letteratitudine,
    Arrivo solo ora su questo bellissimo e dibattuto post. Ho letto i commenti con molto interesse. Mi sono parsi intensi e sinceri.
    Così come il libro di Francesca, che sto leggendo ora (mi è arrivato da un paio di giorni) e che trovo coraggioso (come sempre! Francesca ama il rischio e le sfide, e non ama scrivere ballando il minuetto. Per fortuna).
    Trovo molto interessante lo stile di questo ultimo libro, Francesca. Asciutto, calzante, rigoroso perfino. Lo apprezzo molto. Che si tratti, come dici tu, di un passaggio richiesto da questo libro in particolare, o piuttosto di un’evoluzione del tuo stile, trovo che sia comunque un dato di cui tener conto. Così come apprezzo molto il tuo osmotico modo di assorbire lo spirito, la cifra più profonda degli scrittori che ami di più. Brodkey, Izzo, ora Kertész, hanno lasciato una traccia profonda nel tuo modo di raccontare.
    Ecco, questo vorrei sapere da te. In che modo la scrittura degli autori che apprezzi riesce a entrare nella tua scrittura? Lasci che filtri in modo inconscio, che si impasti col tuo stile senza intervenire razionalmente, o è piuttosto una scelta ragionata e consapevole, un’operazione voluta e “letteraria”?
    Grazie a Francesca per la nuova opera, che divorerò nei prossimi giorni, e a Massimo, come sempre generoso e intelligente ospite.

    Fiorenza

  89. Sono pagine dense, ipnotiche, bellissime. Sembra di vedere il vapore che avvolge un corpo sfatto, sembra di sentire il passo pesante di una donna che vorrebbe sfuggire alla sua immagine. Un dolore presente, acuto, lontano troppe anime dalle ossa esilissime di quelle donne-bambine che lasciano troppo spazio intorno alle braccia che le circondano.
    Un estratto meraviglioso.
    Grazie all’autrice, e grazie a Massimo per l’ospitalità.
    M.

  90. Molti quesiti e molte riflessioni sono state poste, ad alcune potrà rispondere Francesca, ad altre ognuno di noi.
    C’è un ulteriore aspetto del Kaddish che io ritengo di grande importanza nell’economia del libro, e di grande belezza tout court: la fine.
    Insomma, io per primo, da lettore, leggendo la storia
    anzi gli strati della storia -seguendo i fili dell’editoria, dell’obesità, del masochismo, delle speranze illuse, del rapporto coi genitori, del rapporto con sè, del viaggio, del futuro- mi chiedevo come si sarebbe potuto concludere un tal intreccio di plot.
    E anche qui Francesca mi ha stupito: ha risolto senza risolvere, ha dato speranza -alla protagonista, al lettore- pur senza dare una vera speranza. In sostanza ha toccato con mano la frattura, madre di tutte le altre fratture scomposte, e l’ha ricomposta, accostando i frammenti.
    E lasciando a noi la possibilità di immaginare se, e come, questi framenti si solidificheranno.
    Un’operazione che leva il fiato.

  91. Dell’argomento trattato nel libro di Francesca Mazzucato non me ne importa manco un po’. O meglio, mi piace che sia una storia e che (a giudicare dallo stralcio) venga raccontata con grande efficacia e potenza narrativa.
    Quanto al problema o ai drammi della bulimia e dell’anoressia, preferisco sorvolare. Non mi sembra infatti, a tutt’oggi, che la scienza abbia potuto dare risposte esaustive (o esaustive per tutti) riguardo a queste due sindormi. Non mi sento, pertanto, di affrontare argomenti inerenti la salute giacché non siamo di fronte a un raffreddore dove il “prenditi un’aspirina” può essere inutile ma comunque innocuo.
    Quello che leggo in Francesca Mazzuccato è letteratura. Non bulimica né anoressica. Corposa come dev’essere in un’epoca nella quale sembra che solo l’eccesso venga premiato.

  92. Essere grassi e’ un problema, soprattutto di salute, a seguire di percezione della propria fisicita’. Non nascondiamoci dietro un dito, per favore. Possiamo non essere d’accordo sull’omologazione. Possiamo ricordare che le statuette votive della dea madre nell’eta’ del bronzo rappresentavano corpi di donna assolutamente obesi e debordanti e che quella grassezza voleva essere sinonimo di alma mater ossia madre che nutre i propri figli. Ma ne e’ passata di acqua sotto i ponti e quando la ciccia si accumula, tutto il contesto finisce con il risentirne. Per uomini e per donne. Non a caso Francesca Mazzuccato ci dice di ispirarsi al punto di vista dei perdenti e in questo caso la scrittrice obesa e’ una perdente, soprattutto perche’ si percepisce come tale guardandosi allo specchio, riflettendosi negli occhi degli altri. Mi viene da pensare che a parole siamo tutti molto politically correct, pero’ quando si tratta di giudicare la persona che abbiamo di fronte, quel rotolo in piu’ sul punto vita fa la differenza nella nostra e nell’altrui percezione. E il fatto che sia una realta’ sbagliata, non cambia che sia la nostra attuale realta’.
    Laura

  93. La precisazione di Laura mi sembra assolutamente condivisibile. L’obesità è un problema per tutti (uomini, donne e bambini, non dimentichiamocelo!) perchè è limitante, è un ostacolo alla vita quotidiana (fare due piani di scale, trovare posto in aereo, praticare attività sportive, giocare con i propri figli, affrontare gli sguardi “pesanti” – che pesano, in entrambi i sensi – della gente per strada…), oltre a tutti i problemi di salute che possono insorgere.
    Però, tenendo fermo questo discorso oggettivo, per la donna obesa c’è un peccato in più da scontare. Sì perchè l’idea che la donna ha come preciso dovere il fare di tutto per essere piacente non è un sorpassato clichè, è la realtà in cui viviamo.
    Una donna obesa è una donna che viene meno a questo dovere, e viene giudicata ancor più severamente di un uomo obeso, dalle altre donne (che in virtù dei propri sacrifici per restare più o meno in forma si sentono investite del diritto di giudicare e condannare senza appello chi è troppo “pigro” , o sciatto, per “tenersi assieme”) e poi, forse un pochino meno (ma finchè non si tratta di decidere chi invitare in tv…) dagli uomini.
    E se queste vi sembrano cose sorpassate vi inviterei un pomeriggio all’uscita di scuola dei miei figli, vi inviterei a scivolare in punta di piedi dietro i capannelli delle mamme che chiacchierano.

  94. Non perdoniamo agli altri di esserci indifferenti, forse?
    La letteratura verosimilmente può diventare una vera ossessione per chi da bulimico diventa anoressico lettore, scrittore, dopo aver cercato i contenuti esaltati dalla forma, forse?
    Ma la bellezza della forma è anche la donna tondeggiante e l’uomo tondeggiante di Botero, ma non basta mai?
    Cosa vogliamo di più dalla vita se non riusciamo a consolarci con l’arte e non bastiamo più a Noi stessi – Ergo Sum -, può darsi?
    Luca Gallina

  95. Un saluto a tutti, buongiorno. Ho saputo solo ieri di questo bellissimo forum e dibattitto sul libro di Francesca Mazzucato e, lasciano perdere un esame che non mi interessa, arrivo e intervengo per forza. Premessa.
    Mazzucato è una delle scrittrici che preferisco.
    Insieme a Simona Vinci. Fra le scrittrici italiane sono quelle che amo davvero( ho 21 anni).
    Se qualcuno guarda il mio scaffale di libri , quello virtuale, lo vede. Però qui ho letto commenti ad esempio di Laura Costantini che non conoscevo e che mi ha molto interessato. Mi ha fatto venire voglia di leggerla.
    Ah, e anche seguo e ho letto Sabrina Campolongo.
    Quindi diciamo Mazzucato e Vinci per ora.

    Questo romanzo era fra i miei libri desiderati, poi l’ho preso e letto e, secondo me, è davvero uno dei suoi migliori. Forse il migliore, magari insieme a L’Anarchiste che a me è piaciuto tanto.
    E’ così ricco come libro. Alla fine lascia il sapore piu bello, quello che ti fa venir voglia di ricominciarlo. Da capo
    E’ una storia con quella malinconia che io cerco nelle storie.
    Come dice la Mazzucato, le storie di perdenti raccontandole mettendosi dal loro lato hanno quella cosa. Quella cosa , “il fascino delle vite disperate” come diceva De Gregori. Credo.
    Secondo me l’obesità è un pretesto e un elemento per arrivare alle cose che la nostra società nasconde.

    Ho colto in questo libro certe riflessioni profonde, sconsolate e dure sul fatto di essere scrittori. Io non scrivo, ma leggo tanto. Secondo me sono vere, le condivido, ma quello che trovo incredibile è che diventano parte della narrazione.
    Voglio dire, e mi fermo con l’elogio, tanto non sarò mai equa, che non è un libro pesante. Ha tutte queste possibili chiavi di lettura, nel frattempo racconta una storia che avvinghia. Chiunque, e io ho 21 anni e non l’età della Mazzucato, trova una piccola parte o magari grande in cui identificarsi. Almeno io l’ho trovata. In un’atmosfera, un dettaglio, un pezzo della vicenda famigliare. Fenomenale la descrizione della famiglia, di quando c’era la borghesia che non c’è più e di quando c’era il comunismo che non c’è più. Anche il finale. Veramente grande. Un colpo, non me lo aspettavo. Infatti l’ho ricominciato. Da capo. Non so cosa penserà Francesca, ma io da lettrice mi sento di interpretare i suoi libri, anzi voglio proprio farlo.

    Secondo me fa questa cosa fondamentale. Con i debiti agli scrittori che ama le sue storie si sollevano dallo scontato. Non che siano necessari. Ma in lei sono una cosa che a me fa crescere. Tanti libri li ho letti perché ho letto debiti e riferimenti in lei( e anche in Simona Vinci, ad esempio nell’ultimo, dove dice che ogni libro ha più voci dentro) E’ questo.
    Ho scoperto anche un editore dinamico che mi piace.
    Confesso che non lo conoscevo e il fatto che sia qui a rispondere e a partecipare mi piace molto, come mi è piaciuto trovarlo su Anobii e anche disponibile. Secondo me così si fa editoria davvero bene.

    Per concludere e scusate la lunghezza, complimenti a Massimo Maugeri. Mi piace impostare un blog così, era proprio quello di cui sentivo l’esigenza, uno scambio. I commenti sono bellissimi. Ogni commento mi ha fatto riflettere. Ora torno al mio esame di diritto privato. Ciao a tutti.

  96. Io pure sottoscrivo l’ultimo commento di Laura Costantini, è assolutamente vero che l’obesità è un problema. Sul fatto che la scienza non abbia fornito strumenti, come dice Enrico, invece non sono d’accordo. Il fatto è che sono strumenti diversificati, da utilizzare contemporaneamente, e che come al solito qui come altrove, non sono accessibili a tutti. Non sono neanche noti a tutti.

    Ma mi interessava sottolineare quanto questa questione, l’idea della scrittirice obesa, evidenzi una costante dicotomia di prospettive, che ritorna in molti dibattiti, specie in letteratura, perchè la letteratura è all’incrocio. Cioè il diritto alla differenza e al percorso esistenziale diverso, e il diritto alla non differenza e all’annullamento dei costi che quella differenza implica. Questo è un grande spartiacque: pensiamo alla medicina, pensiamo alla malattia, all’uomo che decide di non curarsi. All’uomo che decide di drogarsi. C’è sempre questa antinomia tra la legittimità di una trama esistenziale, e la necessità di riconoscerne i costi.
    Ma forse lo scopo della vita di ognuno, è trovare un compromesso.

  97. Passo prima di uscire dalla redazione. A casa sono orfana di computer. Leggo Sabrina (grazie Sabry), leggo Allison (ci siamo scoperte su aNobii e mi commuove il fatto che abbia voglia di leggerci), leggo Zauberei. Mi colpisce il diritto alla differenza. Credo che siamo in molti a sforzarci di essere diversi, semplicemente noi stessi. Vero anche che l’obesita’ non si perdona ad una donna peggio che ad un uomo. Mi metto nel gruppo. Vivo il trascurare il proprio corpo come un trascurare la propria anima: un peccato mortale, laico, ma sempre mortale. Poi so che l’obesita’ non e’ una scelta (mia madre e’ decisamente sovrappeso e sono decenni che tenta di dimagrire senza riuscirci). Ma quando vedo una ragazzina di 14 anni ormeggiata di rotoli di grasso sotto lo sguardo amorevole dei genitori: mangia, tesoro, mangia… mi viene voglia di chiamare un assistente sociale e procedere all’affidamento di quella ragazzina ad altra famiglia. Perche’ tornare indietro, smaltire quei chili di troppo, farsi accettare dal proprio specchio e dal proprio sguardo prima che da quello degli altri, sara’ assolutamente difficile, faticoso, estenuante. E adesso me ne vado col pensiero che non ho mai letto un romanzo di Francesca Mazzuccato e mi sa che mi tocca cominciare da questo.
    Laura

  98. Grazie mille per i nuovi commenti.
    Ho sentito Francesca Mazzucato per telefono. Oggi non è riuscita a intervenire perché ha il computer fuori uso (si scusa con voi). Da domani, dopo l’intervento del tecnico, una volta ripristinato il pc, tornerà a commentare e a rispondere alle vostre sollecitazioni.
    Ne approfitto per preannunciare che stasera (o domattina) pubblicherò un nuovo post che avrà a che fare con la Fiera del libro di Torino.
    Ma qui il dibattito continua.
    Buona serata a tutti.

  99. Ma vedi Laura non è che io non sia d’accordo con te. Mia sorella è stata una bambina e una donna grassa. Cioè intendo, una donna sopra i cento chili. A casa mia, siamo tutte donne un po’ robuste. A ciò si aggiunsero problemi endocrinologici e ormonali. Mia sorella sviluppò troppo troppo presto.
    Pure dimagrì, e oggi è una donna che porta la quarantasei. E’ molto alta, è il giusto.
    Sono felice per lei. Perchè sono che il corpo le da meno problemi, e perchè penso che sorrida più facilmente. Ma se non ci fosse riuscita, non la biasimerei. Rispetterei la sua vita ugualmente. Ha un diritto a essere come vuole. Voglio dire non è una questione di cercare di essere diversi, c’è chi lo cerca chi non lo cerca affatto. E’ il diritto a essere in un altro modo. Il diritto a non rincorrere qualcosa: l’operazione inversa potrebbe essere troppo emotivamente costosa. Il cercare disperatamente di essere uguali, con questo corpo che va in contromano.
    Io non credo che l’obesità sia un problema che dipende da genitori che ingozzano i figli. Non che questo quadro manchi, ma in misura minore rispetto al fenomeno, endemico invece. Le madri italiane hanno sempre nutrito molto amorevolmente e ansiosamente i propri figli, perchè “grazie mamma è buono” era uno dei pochi riconoscimenti sociali che potevano avere in sorte. E perchè questo è un gesto vuoi socialmente, vuoi culturalmente, molto femminile.
    secondo me, esistono diverse obesità: una che ha una causalità psichica, e che è il tradizionale contraltare della anoressia, con la quale condivide molte cose, ma non ci entra molto cosa il genitore da da mangiare. Io credo che su questo tipo di obesità il libro di Francesca Mazzucato dica molte cose. Una che ha cause biologiche, endocrinologiche – non di rado si va a sovrapporre alla prima. Ma queste sono relativamente poche. quella in grande aumento è quella che ha causa economica prima e biologica dopo: cioè si mangiano schifezze perchè le cose sane costano troppo. Ovvero se compri 2 fettine oggi spendi 5 euro, se compri dei sofficini ne spendi 1 e 80. Se compri fagiolini freschi spendi 5 euro, se li compri de perossido de azoto spendi la metà. La globalizzazione e l’industrializzazione hanno reso la salute un lusso. I nuovi poveri non possono permettersi di mangiare sano, nè hanno gli strumenti e gli anticorpi culturali che li facciano difendere dalle angherie della pubblicità. Mamma che sgobbi, tuo figlio penserà di te che sei buonissima se ni ci compri na’ camionata de ovetti kinder. Fate caso a quante pubblicità mostrano bimbi che abbracciano teneramente una mamma dopo che gli ha somministrato na’ tranvata di kinder ferrero.
    Ngiorno massimo!

  100. Buon giorno, mattiniera e veloce da un internet point. Intanto trovo che la discussione sia diventata un confronto interessantissimo, Ogni commento apre spiragli, porte, possibili affluenti, elementi di approfondimento. Magnifico il “quadro budapestino” di Rosella. Grazie a Nunzio Festa per le sue parole, di cuore, veramente, a Laura Costantini , Allison e Marcellina. Un grazie speciale a Barbara Gozzi. I suoi interventi che partono da Kertész vanno dove volevo andare scrivendo.

    Certo i debiti. Sono il tessuto dello scrivere e omaggiare gli scrittori è per me un obbligo. In questo caso Budapest e il grande autore premio Nobel si sono sovrapposti nell’ispirazione letteraria, nella nascita del grumo emozionale e di parole da cui ha preso avvio il romanzo. Combaciano. Sono due pelli appiccicate.

    Quei panorami , quei volti, e quella scrittura. Quelle parentesi, quel periodare. Certe strade di Budapest sono le parentesi di KertéSz
    certe finerstre richiamano i suoi personaggi, gli interni fanno da eco a foschi o solo semplici accadimnenti del quotidiano che lui narra.

  101. Sabrina mi chiede se mi sono “tolta qualche sassolino dalla scarpa”. Vorrei rispondere così
    Le cose che scrivo- soprattutto quelle su un certo disincando nei confronti del mondo editoriale italiano, della fatica dello scrivere, del rapporto con scritici, o altro, sono da intendersi in senso generale, sono l’antefatto che porta a Kertés , sono come i dolci che la protagonista si infilava in bocca prima di ingrassare oltre i limiti e oltre il consentito.

    Che poi ogni romanzo, ogni storia contenga una “resa dei conti” questo per me è sempre vero. Una resa dei conti in senso largo, ampio. Ogni storia contiene questa forma catartica e liberatoria( Penso a Simone de Beauvoir e a “L’invitata”, nella sua biografia ne racconta la genesi, ed è esattamente un meccanismo di questo tipo)

    Può avvenire nei confronti di qualcosa, qualcuno, della propria vita. Ma è un meccanismo che c’è. A partire dall’inizio. Scrivere un romanzo significa una colossale sfida, una guerra dichiarata verso l’impermanenza delle cose, verso l’oblio.

    Io racconto, io lascio che questa storia rimanga e inizi il suo viaggio e tento l’impossibile. Vincere la cessazione. Rendo la memoria epica. Faccio in modo che le storie vivano. Questo si fa. E avviene sempre

    Se devo dire, in Kaddish il meccanismo catartico e i conti avvengono in gran parte nei confronti di una storia di famiglia che resta uno dei punti focali di tutta, poi, la mia scrittura. Nunzio cita Anarchiste. Le famiglie del gruppo di amici protagonista di Anarchiste erano famiglie come quella che racconto, o simili, e avevano simili vizi, simili eccessi, simili voracità. Questa ossessione sulle dinamiche famigliari da cui si dipartono vicende talmente “altre ” e “lontane”da far schricchiolare i meccanismi, è una delle mie costanti.
    Anche se, spero in prossimi lavori, avendo già pareggiato alcuni conti, di lasciare in parte sedimentare questa “borghesia novecentesca” inesistente, scomparsa, impreparata, stanca,

  102. Gent.le scrittrice Francesca Mazzuccato,
    attraversando il grande ponte da Pest a Buda, ebbi quasi l’impressione di abbandonare la fatiscenza ed i grigi cementi della storia per inoltrarmi in grandi viali dai colori pacati della terra che portano, curvando ampiamente, verso la cima della città da dove la vista panoramica con tanto di veduta dall’alto non è solo meta turistica.
    Forse camminai verso l’anima nobile della capitale e vi trovai angoli pittoreschi dove la luce primaverile s’infiltrava senza abbagliare e non ricordo segni di degrado, ma soltanto balconi bassi e fioriti, viuzze strette e ben pulite, i filari di imponenti platani verdi e qualche vetusto cannone puntato verso la parte nuova, indicazioni a mostre e musei, la bellezza dell’est.
    Ciao
    Rossella

  103. Concordo con Rossella: a parte la monumentalità innegabile di Budapest, c’è un fascino sottile che la permea. Le insegne in un ungherese incomprensibile in cui è bellissimo perdersi, Godollo e i suoi fasti imperiali in un castello bonbon, l’acqua del fiume che immagini scorrere da chissà dove da chissà quando…
    Cara Francesca Mazzuccato, le sue pagine dolenti e sofferte rimbalzano attraverso una scrittura che sento autentica.
    L’obesità è una gran brutta bestia. Tutti a darti consigli non richiesti su come vivere la tua vita, tutti a misurarti i bocconi quando mangi, tu a fare la tara sulle occhiate degli uomini – gli piaccio o mi guarda perché gli faccio schifo?
    L’anoressia è romantica, l’obesità no. Una Traviata tisica e magra va bene, ma una Gilda obesa da trasportare in valigia fece esclamare dal loggione a Rigoletto: “Fai due viaggi!”.
    Gli psicologi ritengono queste patologie le malattie dell’amore. Privarsi del cibo o il suo contrario sono una richiesta disperata estrema d’amore. Come la letteratura: un richiamo di parole sul bianco silenzio della pagina.
    Scrittore donna e obesa: il massimo dell’out. In un’epoca in cui devi essere fica e cool e sexy e trendy.

  104. Grazie anche qui per i nuovi commenti.

    Francesca, se hai scritto da un internet point vuol dire che i problemi al pc non li hai risolti.
    Grazie per essere intervenuta comunque.

  105. Ritorno un pò qui, dopo qualche giorno, ritmo lento come quello della letteratura mitteleuropea
    che questo Kaddish così bene incarna.
    E mi piacerebbe partire dal commento di Francesca, sulla famiglia, per approfondirlo, e parlare di quel meccanismo col padre così ben descritto e vivo nel Kaddish e che, mi pare, sia una delle basi dell’obesità.

  106. per guido.
    sono curioso di leggere gli approfondimenti sul meccanismo col padre che è una delle basi dell’obesità.
    cosa intendi?

  107. Marcello, beh, in realtà la mia è solo un’impressione, dovuta alla lettura del romanzo.
    Che l’obesità della protagonista si sia costruita in anni, per molti fattori, tra cui anche -forse, soprattutto?- quello del rapporto col padre
    descritto in maniera molto, molto bella.

  108. Grazie, Maurizio. E’ la prima volta e faccio ancora una certa fatica ad ambientarmi. Uso il computer quasi esclusivamente per la scrittura (scrivo per declinatoalfemmminile, credo che lei ne sappia qualcosa, su temi poco banali, spero, della buona creanza come progetto per il futuro). Mi imbarazza il mezzo. Comunque cerchero’ di vincere la timidezza e di seguire la discussione, che mi sembra interessante. E’ incredibile, a me solitaria scrittrice, immaginare quante persone leggono questi commenti, e sappiano discutere sul bel libro di Francesca, davvero emozionante. Grazie per l’accoglienza, cerchero’ di meritarmela. Un caro augurio di buon lavoro a tutti, Elda

  109. Grazie Massimo, naturalmente. E chiedo scusa. Distratta da una telefonata ho lasciato che i tasti conducessero le dita, e non la testa. Anche se lei non conosce me, io so bene invece chi è lei, quindi la confusione è stata momentanea e incontrollabile. Mi scusi. E grazie per i resoconti da Torino: quest’anno non ho potuto esserci e quindi la ringrazio per gli aggiornamenti sempre puntuali. Caramente.

  110. complimenti a Francesca, le prime pagine del libro sono davvero belle!
    credo che lo cercherò in libreria anche se il problema dell’obesità nn è prioritario per me, ma cmq quando si legge una scrittura così limpida sincera e invogliante, nn puoi far a meno di seguire la scia delle lettere che ti solleticano il cervello! grazie a tutti voi un bacio .
    minerva

  111. Pochi minuti fa ho scritto a Guido. Gli ho detto che sto leggendo Kaddish. Ho riferito che trovo ottima la scrittura della Mazzucato (scusa, Guido, se ho di nuovo sbagliato a scrivere il suo nome).
    Gentilissima Francesca Mazzucato (penso di aver scritto correttamente) le faccio i miei migliori auguri per la sua pubblicazione.
    Felice Muolo
    prossimo autore azimutiano.

  112. sono una ragazza ex-gravemente obesa…

    sono daccordo sul fatto che in italia non si presti la dovuta attenzione su questo problema…..
    faccio parte di un sito dove trattiamo il problema dell obesita
    ….insieme possiamo farcela!

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