DONATELLA DI PIETRANTONIO VINCE L’UNDICESIMA EDIZIONE DEL PREMIO STREGA GIOVANI
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Roma, 4 giugno 2024. Donatella Di Pietrantonio, con il romanzo L’età fragile (Einaudi), è la vincitrice dell’undicesima edizione del Premio Strega Giovani promosso da Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e Strega Alberti Benevento, in collaborazione con BPER Banca, media partner Rai, sponsor tecnici Librerie Feltrinelli e SYGLA.
Quello di Donatella Di Pietrantonio, con 138 preferenze su un totale di 605, è stato il libro più votato da una giuria di ragazze e ragazzi tra i 16 e i 18 anni provenienti da 103 scuole secondarie superiori distribuite in Italia e all’estero. Al secondo e terzo posto si sono classificate Antonella Lattanzi, autrice di Cose che non si raccontano (Einaudi), con 72 voti, e Chiara Valerio, autrice di Chi dice e chi tace (Sellerio), con 67 voti. I tre libri ricevono un voto valido per la designazione dei finalisti al Premio Strega.
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Di seguito, vi proponiamo l’Autoracconto d’Autore di Donatella Di Pietrantonio dedicato al suo romanzo L’età fragile (Einaudi), esclusiva di Letteratitudine
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Come nasce un romanzo? Per gli Autoracconti d’Autore di Letteratitudine: DONATELLA DI PIETRANTONIO racconta il suo romanzo “L’età fragile” (Einaudi)
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Non riesco a ricordarmelo. Per quanto mi sforzi non riesco proprio a ricostruire dov’ero e cosa stavo facendo, quel giorno. Eppure di solito lego sempre nella memoria i grandi episodi di cronaca del Paese alla mia vita quotidiana. Ero al telefono con un’amica aquilana quando arrivò la notizia della strage di Capaci, so ancora di chi e cosa parlavamo, quando lei che aveva la televisione accesa s’interruppe e disse: oddio.
Invece di quel 20 agosto del 1997 non so niente di me. Com’è possibile? Eppure la Maiella posso vederla dalla finestra, nelle giornate limpide. La montagna sacra, disseminata di eremi. Com’è possibile che io non abbia conservato la mia posizione fisica ed emotiva in quel giorno atroce? Forse, mi giustifico, ero lontana, in viaggio, in vacanza a fine estate. O forse, come tanti qui, non ci potevo credere. Che tutto quell’orrore fosse successo proprio da noi. A noi. Due ragazze uccise nei nostri boschi, durante una passeggiata lungo il Sentiero delle Signore. Una terza scampata solo grazie alla sua assoluta determinazione a sopravvivere.
Sono stata per tutti questi anni parte di un rimosso collettivo. Non ci potevamo credere, tutti. Quello che era accaduto confliggeva con la nostra narrazione del luogo di nascita e di restanza. Un posto dove anche oggi ci manca tanto, un posto che in pochi sanno dov’è, ma noi sì, e in fondo ci piace questa lontananza, questo isolamento nella bellezza, nel verde, nel silenzio. L’aria pura, il cibo che viene dalla terra, la certezza che non ci possa accadere niente di male. E invece quelle morti, il sangue colato nell’erba, nella terra.
Ci fu grande concitazione in quelle settimane. Titoli sui quotidiani, servizi in diretta nei notiziari. Un posto sconosciuto che diventava all’improvviso il centro della cronaca nazionale. Poi abbiamo voluto normalizzare presto. Era stata un’eccezione, una sfortuna, l’avevamo superata. Ci siamo rassicurati.
L’inverno 2021 guardavo quella montagna, in viaggio verso Roma. Era una giornata limpida, la neve sfavillava al sole. Il duplice femminicidio – allora non si chiamava ancora così – è affiorato alla memoria con prepotenza. L’ho nominato alla persona che mi accompagnava, abbiamo condiviso il poco che ricordavamo. Se le nostre ricostruzioni non collimavano digitavo su Google, riferivo con esattezza. Quando siamo arrivati sul GRA, non ci pensavo già più. Sembrava un momento qualsiasi di una conversazione nata per ammazzare il tempo del viaggio.
Invece nelle settimane successive si sono ripresentate immagini, dettagli, il sogno di una ragazza che fuggiva nel bosco, ansimante, braccata, in un fracasso di rami spezzati. Forse ero soltanto io, alle prese con le mie paure più profonde. Magari se avessi scritto un racconto mi sarei liberata da ciò che prometteva di diventare un’ossessione. Ho provato a buttare giù una scaletta. Si capiva subito che sarebbe stato un racconto lungo. Ho scritto un incipit di una pagina, l’ho lasciato lì a sedimentare. Intanto vivevo, viaggiavo in compagnia di un romanzo uscito da poco. Presentazioni, festival letterari: in quel troppo pieno la scrittura non attecchiva. Solo ogni tanto si ripresentava in forma di breve suggestione quel punto esatto dello spazio e del tempo in cui due traiettorie diversissime tra loro si erano incrociate a dispetto delle scarse possibilità: tre ragazze in vacanza e un servo pastore straniero che non si erano mai visti prima. Quella improbabilità che si era avverata mi faceva impazzire.
Ho ritrovato un po’ di solitudine, il silenzio necessario alla scrittura. Mi sono addentrata nel lavoro, con la voce di una delle tre, la sopravvissuta. Mesi di tentativi ed errori. Di chiaro avevo solo che sarebbe stato un romanzo e che la storia delle tre ragazze ne avrebbe fatto parte. Ma quella voce era troppo traumatizzata, troppo bruciata. Rileggevo e non poteva essere lei a raccontare. Avevo fallito.
La tentazione di rinunciare mi ha tenuta ferma per settimane, a volte era certezza. Ma nello stesso tempo nessun’altra possibilità affiorava: ciò che non riuscivo a scrivere era la sola cosa che volevo scrivere. E una mutazione avveniva silenziosa dentro di me, la storia cambiava pelle, entrava dentro la mia, saldandosi ai miei nuclei più dolorosi. Questo passaggio da esterno a interno è stato fondamentale, ma l’ho capito solo più tardi, quando era già compiuto, quando la realtà di un vecchio episodio di cronaca era già tutta trasfigurata. E solo allora ho trovato la voce di chi davvero poteva raccontare. Un’altra ragazza, Lucia, amica della sopravvissuta. Poteva esserci anche lei sul sentiero, quel giorno, ma non c’era. Aveva preferito andarsene al mare, con le amiche della città. La sua assenza sul luogo della tragedia le sarebbe pesata per la vita. Aveva poi partecipato alle ricerche delle tre ragazze scomparse, aveva visto la morte. Era stata solo sfiorata. Aveva abbastanza fiato per nominare, dopo molti anni, l’orrore.
Non avevo mai voluto scrivere di violenza di genere. È una realtà che mi interessa da sempre, è ovvio. Ma avevo paura che potesse risultare sulla pagina un’operazione programmatica. Ho dovuto attendere che un doppio femminicidio avvenuto nella mia terra si condensasse nella memoria con un’aggressione a scopo di rapina che io stessa ho subito, anni fa. Sono stata fortunata, mi sono detta subito dopo. Non mi era accaduto nulla di grave: solo il furto del portafogli e tre punti all’orecchio colpito da uno schiaffo a tutta forza. Il mio stesso orecchino mi aveva ferita.
Non era proprio fortuna. È cambiato qualcosa di profondo, nel corpo, nei riflessi. Se qualcuno si avvicina all’improvviso sussulto, ancora oggi. È cambiato il mio atteggiamento verso l’altro, verso il mondo. Non è più così necessariamente buono.
“L’età fragile” riporta un episodio simile, capita ad Amanda, la figlia della protagonista. Riverbera nella memoria di Lucia, le sblocca il ricordo di ciò che è accaduto alla sua amica molti anni prima. Presente e un passato rimosso si riconnettono, a volte è necessario nella letteratura e nella vita, perché l’uno trovi senso nell’altro.
Sopravvissute e sopravvissuti sono visti come graziati dalla sorte e quindi dimenticabili. Eppure quel momento esatto in cui sono stati colpiti perché vulnerabili, con il fianco scoperto, dividerà per sempre la loro vita in un prima e un dopo. E nel dopo degli scampati non ci sarà mai più la stessa libertà del prima. È per questo che ho voluto dedicare il libro a tutte le sopravvissute.
(Riproduzione riservata)
© Donatella Di Pietrantonio
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La scheda del libro: “L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi)
Con la sua scrittura scabra, vibratile e profonda, capace di farci sentire il peso di un’occhiata e il suono di una domanda senza risposta, Donatella Di Pietrantonio tocca in questo romanzo una tensione tutta nuova.
Non esiste un’età senza paura. Siamo fragili sempre, da genitori e da figli, quando bisogna ricostruire e quando non si sa nemmeno dove gettare le fondamenta. Ma c’è un momento preciso, quando ci buttiamo nel mondo, in cui siamo esposti e nudi, e il mondo non ci deve ferire. Per questo Lucia, che una notte di trent’anni fa si è salvata per un caso, adesso scruta con spavento il silenzio di sua figlia. Quella notte al Dente del Lupo c’erano tutti. I pastori dell’Appennino, i proprietari del campeggio, i cacciatori, i carabinieri. Tutti, tranne tre ragazze che non c’erano più.Amanda prende per un soffio uno degli ultimi treni e torna a casa, in quel paese vicino a Pescara da cui era scappata di corsa. A sua madre basta uno sguardo per capire che qualcosa in lei si è spento: i primi tempi a Milano aveva le luci della città negli occhi, ora sembra che desideri soltanto scomparire, si chiude in camera e non parla quasi. Lucia vorrebbe tenerla al riparo da tutto, anche a costo di soffocarla, ma c’è un segreto che non può nasconderle. Sotto il Dente del Lupo, su un terreno che appartiene alla loro famiglia e adesso fa gola agli speculatori edilizi, si vedono ancora i resti di un campeggio dove tanti anni prima è successo un fatto terribile. A volte il tempo decide di tornare indietro: sotto a quella montagna che Lucia ha sempre cercato di dimenticare, tra i pascoli e i boschi della sua età fragile, tutti i fili si tendono. Stretta fra il vecchio padre così radicato nella terra e questa figlia più cocciuta di lui, Lucia capisce che c’è una forza che la attraversa. Forse la nostra unica eredità sono le ferite.
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Donatella Di Pietrantonio vive a Penne, in Abruzzo, dove esercita la professione di dentista pediatrico. Ha esordito con il romanzo Mia madre è un fiume (Elliot 2011, Premio Tropea). Per Einaudi ha pubblicato L’Arminuta (2017), vincitore Premio Campiello 2017 e Bella mia, con cui ha partecipato al Premio Strega 2014 e ha vinto il Premio Brancati e il Premio Vittoriano Esposito Città di Celano.
Escono sempre per Einaudi nel 2020 Borgo Sud e nel 2023 L’età fragile.
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