Aprile 20, 2024

161 thoughts on “LA SPOSA GENTILE, di Lia Levi

  1. Come ho scritto nell’incipit del post: Un banchiere ebreo, sposa una contadina cristiana…
    Questa stringatissima frase, riportata quasi come una notizia, potrebbe rappresentare il “nocciolo fondante” del romanzo.
    Naturalmente c’è molto altro…

  2. La trama, come vi ho anticipato, è più o meno la seguente…
    Siamo agli inizi del Novecento e Amos, giovane banchiere ebreo di una cittadina piemontese, avverte l’esigenza di mettere su una solida famiglia su cui investire la propria esistenza. I suoi parenti, soprattutto le donne della famiglia, lo indirizzano verso alcune giovani che farebbero al caso suo. Ma i sentimenti non possono essere pilotati. Così, quando Amos incontra la bella Teresa decide di amarla senza tener conto delle differenze sociali e dell’appartenenza a religioni diverse. Perché Teresa – e torniamo alla frase iniziale del post – è una contadina cristiana.
    Domanda…
    Può, però, una famiglia ebraica, rispettabile, bene in vista… consentire a un proprio figlio di condividere la vita con una “sposa gentile”?
    Domanda piuttosto retorica (nella fattispecie). La risposta, ovviamente, è negativa.

  3. È importante sottolineare, dal punto di vista terminologico, che il termine «gentile» ha, in questo caso, un duplice significato: il primo fa riferimento alla docilità della giovane – alla sua capacità di adattamento alle circostanze della vita – ; il secondo, nell’accezione ebraica, indica qualcuno che «appartiene a un altro popolo» (derivazione dell’ebraico goy: «gente», «genti»).

  4. Come dicevo nel post, il termine «gentile si «sposa» perfettamente con il personaggio Teresa, poiché la giovane contadina cristiana è dotata di una mitezza tale da indurla a “rinunciare” al proprio credo e ad abbracciare quello del suo uomo (proprio per evitare che questi subisca l’inevitabile ostracismo della comunità ebraica della famiglia di appartenenza). E nel farlo si allontanerà anche dai propri cari (Teresa non è solo cristiana: è anche una contadina… una ragazza dalle umili origini, dunque).
    Il romanzo, dunque, affronta diverse problematiche (evidenziate dalle domande che troverete di seguito).

  5. Prima di passare alle domande, però, voglio sottolinare il fatto che questo romanzo narra una saga familiare la cui storia incrocia quella della prima parte del Novecento, rivelando alcune peculiarità del popolo ebraico e fermandosi alle soglie del 1938: l’anno delle leggi razziali fasciste.

    Ed ecco le domande (a cui vi invito a rispondere… se volete e potete).

  6. Fino a che punto la propria fede può essere addomesticata per assecondare le esigenze della persona con cui si è deciso di vivere? Ed è giusto farlo? È giusto rinunciare al proprio credo religioso (o metterlo da parte) per uniformarsi a quello dell’amato/a? E compiere tale rinuncia, è più un atto di debolezza o di coraggio?

  7. Quand’è che l’appartenenza a religioni differenti – in situazioni del genere – può essere occasione di crescita, anche collettiva?
    O è solo causa di difficoltà?

  8. L’appartenenza a “ceti sociali” diversi può essere ancora oggi causa di conflitti nella gestione di un rapporto amoroso? Oppure è un problema del tutto superato?

  9. Il non sentirsi accettati dalla propria famiglia d’origine, è un “ostacolo” superabile o, viceversa, incide inevitabilmente nella vita di chi subisce tale situazione?

  10. So che Lia Levi è “itinerante”, in Sicilia… dunque non so se avrà la possibilità di connettersi e di partecipare alla discussione.
    In ogni caso Luigi La Rosa ha avuto modo di intervistarla e, neiprossimi giorni, inserirò domande e risposte nel corso della discussione (una sorta di botta-e-risposta tra Luigi e Lia).

  11. Ospite speciale del post è (rullo di tamburi)… Zauberei (che molti di voi conoscono bene, essendo una cara amica di questo blog).
    Aspetto che Zaub si faccia viva perché possa spiegare il motivo per cui l’ho coinvolta… e perché, ovviamente, possa mettere in comune con noi le sue opinioni sugli argomenti trattati dal post.

  12. AVVISO IMPORTANTE

    Ne approfitto per segnalare che, giovedì 29 aprile, alle ore 17,30 – presso la libreria Cavallotto di Catania, sita in Corso Sicilia – Luigi La Rosa e io avremo il piacere di presentare il libro di Lia Levi protagonista di questo post. Parteciperà all’incontro, anche l’autrice.
    L’attrice Egle Doria leggerà alcuni brani del romanzo
    .

    Vi aspettiamo!

  13. Prima di chiudere… una piccola nota biografica su Lia Levi.

    Lia Levi, di famiglia piemontese, vive a Roma, dove ha diretto per trent’anni il mensile ebraico “Shalom”. Per le edizioni E/O ha pubblicato: “Una bambina e basta” (Premio Elsa Morante Opera Prima), “Quasi un’estate”, “L’Albergo della Magnolia” (Premio Moravia e Premio Fenice Europa), “Tutti i giorni di tua vita”, “Se va via il re” e “Il mondo è cominciato da un pezzo”.

  14. Buona sera, Massi. Cerco di rispondere alle domande.
    1) Non credo che si possano scrollarsi di dosso le proprie origini ma se non diventano un tabù non credo sia un fatto negativo.
    2) Perché rinunciare alla propria fede? io non lo farei. Però i diretti interessati possono discutere il problema e mettersi d’ accordo su alcuni punti. La moglie cristiana potrebbe consultare un sacerdote e chiedergli se è praticabile lascelta di rimandare il NBattesimo a quando i figli avranno raggiunto la maggiore età. Non sono esperta in diritto canonico e non posso ipotizzare quale sarebbe la risposta del sacerdote. Se fosse negativa la moglie potrebbe chiedere al marito di consentire il Battesimo. Se anche lui dese una risposta negativa allora sarebbe un grosso problema che metterebe a rischio il rapporto dell coppia. Abbandonare la propria fede, sia pure per amore penso che sarebbe una debolezza.
    3) Se non ci sono accordi chiari tra l’ uomo e la donna il loro rapporto sarebbe certamente compromesso.
    4) Se la differenza di fede è gestita bene può essere un’ occasione di crescita individuale e collettia.
    5) non essere accettati dalla propria famiglia crea sofferenza, ma con il tempo, la pazienza e tanto amore si può recuperare un buon rapporto con la propria famiglia.
    Naturalmente queste sono opinioni di una “Non addetta ai lavori”
    Lascio un saluto a tutti quelli che interverranno dopo di me. Franca.

  15. Caro Massimo e cari tutti – come dire: al rapporto!
    Ti ringrazio moltissimo per avermi coinvolta a discutere di questo libro e a proposito delle tematiche di questo post – sono per me questi chiaramente temi molto coinvolgenti – essendo io nel caso specifico, una specie di versione rovesciata del romanzo della Levi, io sono la borghese ebrea che ha sposato – devo dire con molta allegria – un gentile per altro di origini contadine, e ci ho anche fatto un figlio. L’ho fatto anche facilitata da alcune questioni – io e mio marito parliamo come dire la stessa lingua, in termini di interessi professionali, o di orientamenti politici. Inoltre, io sono un’ebrea molto ebrea per certi versi, ma molto poco per degli altri, vengo da una famiglia di assimilati, i miei genitori hanno molti amici gentili, e anche mia sorella ha sposato un gentile. Questo non vuol dire che non ci siano stati dei problemi, o delle scelte anche dolorose o delle discussioni soprattutto tra me e mio marito. E’ difficile capire la faccenda dell’identità ebraica, il tenace attaccamento che si prova anche quando si mangia da goj -come me – e si fanno scelte come la mia.
    Insomma le cose da dire sono moltisisme! E vorrei rispondere anche io alle domande di MAssimo, o a quelle di altri lettori se ne verranno. Però penso sia più giusto rispondere più tardi. Magari prima facciamo spazio a interventi degli altri commentatori anche sul romanzo (che io non ho ancora letto – ma sembra interessante)

  16. Caro Massi,
    grazie per questa bellissima occasione di riflessione e incontro. E grazie per entrambe le recensioni (la tua e quella di Luigino) che ci prendono per mano e ci conducono nel cuore del libro.
    Lia è una vera maestra della leggerezza, che è l’unico modo per bilanciare la profondità, per dare alle lesioni del vivere, ai contrasti, ai cambiamenti, un equilibrio. Un ordine. Un senso.
    Grazie anche a lei, quindi, per le storie che racconta. E in cui è facile riconoscersi e specchiarsi perchè ogni “valore” dell’individuo (e non solo quello religioso), trasfuso nella coppia, è un potenziale “alleato” o un potenziale “nemico” dell’unità.
    Se per unità, però, intendiamo completezza, non fusione, e cioè pienezza del sè. Espansione. Libertà di manifestarsi.
    Non è una strada facile. Accogliere la differenza, amarla, farne – anche – “cosa propria” e farsene stupire, vincere, arricchire, è il frutto di un viaggio in se stessi prima ancora che nell’altro.
    Attendo con infinita simpatia i commenti di Zauberei e bacio la mia carissima Lia.
    Grazie anche a Massi e Luigino
    Simo

  17. Un post davvero molto, ma molto interessante. Che apre possibilità di discussioni vastissime.
    Il libro della Levi sembra molto interessante ed ho proprio voglia di leggerlo.
    Provo a rispondere alle domande.

  18. Fino a che punto è possibile scrollarsi di dosso le proprie origini?
    – Non credo sia possibile scrollarsi di dosso le proprie origini. A volte possiamo avere l’illusione di riuscirci, ma la nostra provenienza è sempre lì, pronta a morderci sul collo quando non ce lo aspettiamo.

  19. Fino a che punto la propria fede può essere addomesticata per assecondare le esigenze della persona con cui si è deciso di vivere? Ed è giusto farlo? È giusto rinunciare al proprio credo religioso (o metterlo da parte) per uniformarsi a quello dell’amato/a? E compiere tale rinuncia, è più un atto di debolezza o di coraggio?
    – Secondo me bisogna fare un distinguo tra chi la fede ce l’ha e chi non ce l’ha. E’ una differenza fondamentale.
    E’ chiaro che per chi non ha fede, per chi il credo religioso è solo una facciata, rinunciarci non costa nulla. Al più dovrà fare i conti con i pettegolezzi della gente. Ma chi se ne frega?
    Altra cosa se il soggetto in questione ha una fede forte, radicata. Qui cambia tutto. Poniamoci la domanda. È giusto rinunciare al proprio credo religioso (o metterlo da parte) per uniformarsi a quello dell’amato/a?
    Io credo di no. Perché in tal caso rinuceremmo ad una componente fondamentale di noi stessi.

  20. Dimenticavo. Nella seconda ipotesi che formulavo, sarebbe più coraggio o debolezza?
    Nè l’uno nè l’altra. Alla lunga credo che sia irresponsabilità nei propri confronti.

  21. E d’altra parte, l’appartenenza a religioni differenti può essere un ostacolo nello sviluppo del rapporto d’amore tra un uomo e una donna?
    – Certo che può essere ostacolo, ma se si ama davvero è un osrtacolo superabile. Come tutti gli ostacoli.

  22. Quand’è che l’appartenenza a religioni differenti – in situazioni del genere – può essere occasione di crescita, anche collettiva?
    O è solo causa di difficoltà?
    – Secondo me diventa occasione di crescita quando si capisce che è una componente fondamentale della sfera peronale dell’individuo ed in quanto tale va rispettata, anzi protetta. Questo sia a livello individuale, che a livello collettivo.

  23. L’appartenenza a “ceti sociali” diversi può essere ancora oggi causa di conflitti nella gestione di un rapporto amoroso? Oppure è un problema del tutto superato?
    – Forse oggi la situazione è un po’ migliorata in tal senso. Però di gente con la puzza sotto il naso ce n’è ancora in giro…

  24. Il non sentirsi accettati dalla propria famiglia d’origine, è un “ostacolo” superabile o, viceversa, incide inevitabilmente nella vita di chi subisce tale situazione?
    – Vale il discorso fatto sulle proprie origini. Possiamo anche staccarci dalla famiglia. Ma il sangue è sangue. Non possiamo far finta che non esista.

  25. I temi proposti sono molto interessanti. Non posso dire nulla sul libro non avendolo letto, però anch’io ho tanta voglia di leggerlo.
    Forse potrebbe essere utile spendere qualche parola sul matrimonio religioso, visto che si sta parlando anche di questo.

  26. La prima cosa che bisognerebbe dire è che molte religioni hanno numerosi insegnamenti riguardanti il matrimonio. La maggior parte delle chiese cristiane, per esempio, danno una qualche forma di benedizione al matrimonio; la cerimonia di nozze tipicamente include una qualche forma di impegno da parte della società in appoggio alla relazione della coppia.
    Nella Chiesa Cattolica Romana il “santo matrimonio” è considerato uno dei sette sacramenti. Gli sposi si impegnano reciprocamente di fronte a un sacerdote e a dei membri della comunità in qualità di testimoni, nel corso di una “messa nuziale”.
    Nella chiesa Ortodossa Orientale, il “santo matrimonio” è uno dei misteri, ed è visto come come un’investitura e un martirio. Nel matrimonio, i Cristiani vedono un’immagine della relazione tra Gesù e la Chiesa.
    Nell’ebraismo, il matrimonio è visto come l’unione di due famiglie, prolungando pertanto la religione e l’eredità culturale del popolo ebraico. E qui mi vengono in mente i probabili problemi che il protagonista maschile del libro di Lia Levi ha con i propri parenti.
    Anche l’Islam raccomanda caldamente il matrimonio; tra le altre cose, esso aiuta nel perseguimento della perfezione spirituale.
    L’Induismo vede il matrimonio come un sacro dovere che comporta obblighi religiosi e sociali.
    Per contro il Buddhismo non incoraggia né scoraggia il matrimonio, sebbene insegni che una persona deve vivere una vita matrimoniale felice.

    Dal XII secolo, il matrimonio è riconosciuto chiaramente come sacramento dagli Ortodossi e dalla Chiesa cattolica, ed è definito come una alleanza fra un uomo e una donna.

    Vale anche la pena di notare che religioni diverse hanno credi differenti riguardo alla rottura del matrimonio.

  27. La sposa gentile è un romanzo d’amore. E’ la storia di quanto può l’amore di una donna per il proprio uomo. Più forte della logica, del conviene che… E’ la storia di una donna che agisce per “fare contento lui”…”Teresa aveva una felicità del fare che, almeno nella sua autentica essenza, mancava alle altre donne della famiglia” (p.161).

    Siamo all’inizio del Novecento. La storia privata di un uomo e di una donna si inserisce nella storia più ampia, la Storia. Che di ebrei e cattolici fa un’etichetta e una categoria. Ci sono in Italia le leggi razziali e ciò che è prima solo privato diventa poi fatto di cronaca e scelta politica.

    Ma il romanzo è anche la storia di una famiglia ebrea, che c’è, che poi si eclissa perché la comunità ebrea non può permettere la storia con una donna di un’altra religione. Che poi ritorna ad esserci. L’amore e l’ostracismo si contendono uno stralcio di vita, un pezzo di mondo, una partita…

    Amos ebreo, Teresa gentile. Il loro amore è un problema, uno scandalo; nella minoranza ebrea i matrimoni al di fuori della comunità erano un problema, uno scandalo. La scelta di Amos è chiara, ancora prima che lui ne abbia la consapevolezza. Vuole stare con Teresa anche se questo vuol dire rinunciare alla sua famiglia d’origine e non poter più frequentare il Tempio. Lui non lo sa ma Teresa sente di dover in qualche modo ripagare l’amore di Amos. Vuol diventare ebrea. Si informa. Ma nessuno le sa spiegare che cosa davvero significhi essere ebrea.

    Attraverso un delicato rapporto con la figlia del rabbino Teresa impara la dottrina, gli usi, le ricette, le preghiere…Ma sul suo comò c’è un ritratto della Madonna. Lei che ha frequentato le suore, che sa che la Bibbia ebrei e cattolici ce l’hanno in comune non vede in questo alcuna contraddizione.

    Attraverso uno stile piano, scorrevole, che accompagna il lettore in un viaggio nella Storia, Lia Levi ci propone il ritratto di una donna moderna, coraggiosa, anticonformista.
    http://www.girodivite.it/Nuovo-articolo,14389.html

  28. Aggiungo altre due annotazioni.
    Per quanto riguarda il matrimonio ebraico, è necessario contattare il rabbino tre mesi prima della cerimonia. La fidanzata assisterà a delle riunioni con la moglie del rabbino e sarà purificata prima del matrimonio attraverso il Mikvé. Il matrimonio ebraico richiede un estratto dell’atto di nascita, un atto di matrimonio dei genitori e lo stato di famiglia. Assume particolare significato pubblico e privato, è alleanza fra due persone umane con la partecipazione di Dio. Quindi socialmente rappresenta il patto tra Dio e il Popolo ebraico.
    Il matrimonio avviene in due momenti: il Kiddhushin e il Nessu’in. Deve essere necessariamente preceduto dal “contratto matrimoniale Kettubàn, con la funzione di fissare gli obblighi del marito nella realizzazione della vita coniugale e familiare, e prevede la costituzione della dote per la donna.
    La prima fase, il Kiddhushin, s’incentra sul dono dell’anello dello sposo alla sposa -o del dono di una moneta d’oro- alla presenza di due testimoni, sulla recitazione della formula matrimoniale e sulla recitazione delle benedizioni.
    La seconda fase, Nessu’in, è invece costituita dalla benedizione del vino e della libagione di esso da parte degli sposi in apposite coppe per iniziare la coabitazione.
    Nei movimenti ebraici moderni le due fasi si sono unificate.

  29. Per quanto riguarda il matrimonio cristiano, la tradizione di celebrarlo in un edificio religioso inizia nell’alto Medioevo; infatti, nessun testo dei Vangeli vi fa allusione. L’unico intervento di Cristo in un matrimonio è quello delle Nozze di Cana dove non farà alcuna benedizione, ma dove trasformerà, su richiesta di sua madre, l’acqua in vino perché la festa non sia rovinata dalla mancanza di vino.

    È solo a partire dall’imperatore Costantino I “il Grande” che la Chiesa consigliò ai cristiani di distinguere giuridicamente il matrimonio cristiano dal matrimonio civile romano. Occorse attendere il IV concilio lateranense perché il matrimonio cristiano divenisse l’oggetto di decisioni giuridiche interne alla Chiesa.

    I primi cristiani si sposavano secondo i costumi del loro paese d’origine. Per i cristiani Giudei ad esempio, la Bibbia mostra che tale avvenimento era puramente familiare, e apparirebbe oggi come una convivenza riconosciuta dalle famiglie dei due sposi. Un solo matrimonio della Bibbia fa allusione a un atto giuridico, si tratta del matrimonio di Ruth e di Booz, e l’atto giuridico riguardava le terre alle quali Ruth era legata per la sua storia personale, ma di cui Boaz era l’erede secondo la legge ebraica.

    Per i cristiani, il matrimonio non è soltanto l’amore tra un uomo e una donna. È anche il segno dell’amore di Dio per gli uomini, segno della sua Alleanza. È attraverso il loro amore reciproco, in tutte le sue dimensioni (la condivisione della gioia e del dolore, l’amore fisico, la fecondità, il rispetto dell’altro nella libertà…) che gli sposi scoprono cos’è l’amore di Dio per l’umanità: il dono di sé senza riserve. Le riflessioni teologiche sul Cantico dei cantici, libro della Bibbia che è un poema d’amore tra un uomo e una donna, sono senza dubbio all’origine di tale percezione dell’amore di coppia come immagine dell’amore di Dio.
    I testi di Paolo sul matrimonio servono spesso come riferimento per la definizione del matrimonio cristiano, anche se la sottomissione della donna al marito è sempre più contestata in termini psico-sociologici, ma in realtà non se ne comprende l’alto significato antropologico e teologico: San Paolo premette che tutti i cristiani devono essere sottomessi gli uni agli altri nella carità; in particolare, nel matrimonio la moglie è chiamata ad essere sottomessa al marito come la Chiesa lo è a Cristo, e il marito ad amare la moglie come Cristo ama la Chiesa, cioè come proprio corpo e fino al sacrificio della vita. Quindi quello che vuole dire San Paolo non è che la donna sia inferiore all’uomo, ma che i due, con il matrimonio, devono formare un’unione libera ed indissolubile nell’amore, che ha come sua misura l’infinito.

    Durante le riunioni preliminari (spesso configurate come corso prematrimoniale), i fidanzati concordano spesso con il celebrante o con un’equipe parrocchiale le letture, i canti ed i testi della Promessa.

    Il rito del matrimonio cristiano è quasi identico in tutti i paesi del mondo e sostituisce o affianca le tradizioni locali. In particolare, in molti paesi non-occidentali si celebrano tre riti: la consegna della dote, il matrimonio civile (spesso importato dagli stessi colonizzatori che hanno cristianizzato la zona) ed il matrimonio religioso.
    Quest’ultimo è spesso considerato il più importante.

  30. Alcune osservazioni – manchevoli (per esempio della dimensione che implica l’antisemitismo ma in caso ci torno dopo)
    Un saluto a tutti – in particolare alla Simona!

    C’è una cosa di cui gli ebrei hanno percezione più immediata e distinta degli altri – nongià per una presunta e poco realistica superiorità intellettuale ma per le conseguenze di una contingenza storica che li costringe prima degli altri a pensarci: la religione è solo parzialmente una questione di fede, è invece una forma dell’essere che investe il soggetto nei suoi gusti e nei suoi modi mentali, è qualcosa che, in un certo modo lo possiede culturalmente. Forse dovremmo dire è stata, perché – quanto meno in occidente, ma io sospetto anche in molto medio e estremo oriente- siamo dinnanzi a un momento storico di progressiva laicizzazione e affrancamento dalle matrici religiose. In ogni caso, non ci rendiamo neanche bene conto della misura in cui, anche quando si parla di etica laica, anche quando si ragiona in una cornice per esempio anticlericale, le nostre matrici ideologiche siano impregnate della pregressa etica cattolica. Benchè al mondo laico piacerebbe tanto rifarsi a Kant, il suo postulato della ragion pratica – usa l’uomo sempre come fine mai come mezzo, ci è arrivato nella forma del comandamento religioso – non nella traduzione kantiana di Pietro Chiodi. Ma anche le cose che mangiamo, prendono la forma dalle vicissitudini storiche e culturali da cui proveniamo.
    Lo svincolamento di una secolare matrice storica non può mai avvenire nel giro di una generazione né per opera di un signolo. Il singolo può se vuole, cercare di entrare in una specie di dimensione dialettica con la sua matrice e cercare di evolverla in una forma diversa. Questo è quello che succede nei matrimoni misti – non sempre con esiti felici.

    Inoltre, il virulento possesso della matrice culturale, si colora poi dei rapporti di maggioranza. In questo senso, il matrimonio di un ebreo con una cattolica, può essere simile a qualsiasi matrimonio in cui il soggetto proveniente da una cultura minoritaria cerca una relazione con una persona che viene da una cultura maggioritaria. Questo è un fattore di cui bisogna tenere conto, quando si pensa alla resistenza degli ebrei a contrarre matrimoni misti, alla resistenza comunitaria. Io per esempio, che vengo da una famiglia di assimilati, io ho dovuto fare i conti con questa cosa e operare una scelta, che devo ammettere mi è risultata dolorosa, perché non avendo chiesto a mio marito di convertirsi, io so che mio figlio non sarà completamente ebreo. Proprio perché l’ebraismo non è una questione esclusivamente teologica, ma è l’appartenenza a un mondo, con sapori, odori, tessuti e itinerari mentali fortemente distinguibili, io non posso fare a meno di provare se non una colpa, un dispiacere, nel sapere che in qualche modo contribuisco all’estinzione di quel codice di appartenenza. In conseguenza di questo, è abbastanza logico che la comunità eserciti delle pressioni perché i suoi componenti non disperdano la matrice culturale, anche se spesso questa pressione viene valutata come un comportamento arcaico, medioevale, o razzista. Non è che non possa essere tutte queste cose– e sicuramente in qualche caso potrà colorarsi di queste tinte, ma dietro c’è altro.
    Ecco perché gli ebrei che scelgono delle shikse, come in certi romanzi di Roth, o in questo romanzo di Lia Levi, chiedono la conversione.

    Il che prova ancora una volta che la religione è solo parzialmente un fatto teologico, sebbene per quanto mi riguardi l’aspetto teologico sia rilevante. Il motivo per cui io non ho chiesto la conversione e mio marito, era proprio perché mi sembrava una falsificazione dell’esperienza, e una strumentalizzazione di cateogorie personali fondanti, che riguardano il proprio rapporto con l’origine, e con la metafisica. Mio marito avrebbe simulato un credo, un essere, avrebbe partecipato a delle usanze in maniera falsa e con la resistenza interiore di chi ha già strutturato un percorso mentale. Nè io riesco a guardare con eccesso di fiducia, i convertiti di tutti i tipi – me ne scusi l’autrice del romanzo: c’è qualcosa di mediato, che spesso in loro viene compensato con una specie di fanatismo di recupero, che mi mette addosso una grande freddezza: io posso arrivare a contrarre un matrimonio misto, ma per esempio di convertirmi al cattolicesimo non è cosa per me neanche lontanamente pensabile.
    L’amore è pesante, ma la propria identità difficilmente pesa di meno.

    Anzi, l’identità regge forte e sotterranea in maniera molto più tenace del sentimento, che nei lunghi tragitti è destinato a mutare. Passata la luna di miele della carne, nei momenti di difficoltà delle coppie di antica data, essa può emergere pericolosa e potente, nel rendere difficili i rpporti, nell’ampliare le differenze, nell’offrire spiegazioni inoppugnabili all’incomunicabilità. Più essa rimane separata rimossa e inelaborata più è capace in un secondo momento di rovinare la relazione, di rimangiarla, di scavalcarla. Ora io non posso sapere quale sarà il futuro del mio matrimonio, mi faccio gli auguri da sola e come si dice – chi vivrà vedrà. Ma per me è sempre stato importante inventare con mio marito una isola di esperienze estetiche ed etiche condivise e condivisibili, una terza matrice culturale in cui ognuno dei due portasse gli oggetti provenienti dalla propria. Le tradizioni tipiche del paese dei suoi genitori, come quelle del mio codice di provenienza. Le riflessioni e le rielaborazioni dei personali vissuti mentali, per vedere dove combaciassero e dove no. Questa isola della terza matrice, è l’orto dove alleviamo nostro figlio.

  31. ciao massimo, ciao zaub. bel post. e per quel che mi riguarda capita proprio “a fagiolo”.
    assolutamente possibile mantenere la propria fede (parlerei più di fede che di religione, perchè non sono la stessa cosa), impossibile cambiarla (se di fede si tratta), per amore, e a dire il vero del tutto inutile. a che serve? un amore che pretende l’omologazione reciproca non è amore: è possesso. E cambiare la propria fede per amore non è coraggio, è ignavia. L’amore dovrebbe avere come presupposto necessario la libertà, e questo in tutto: dal credo religioso, a quello politico, a cose più banali, mare o montagna, vino o birra. Tanto più se si tratta di fede, una delle cose più intime, più profonde.
    Come Zaub, anche io sono un po’ scettica di fronte alle “conversioni”: sono soprattutto inutili, non solo in amore, ma sempre, e per motivi che è un po’ complicato analizzare in questa sede.
    Perciò, a mio parere, nessun problema. Se si tratta di un legame profondo, se c’è rispetto e libertà reciproca, le differenze sono una ricchezza, e può essere faticoso, ma bellissimo.
    il problema invece secondo me è “nell’orto”. Insomma, i figli. Lì credo sia più complicato. Educazione laica? educaizone religiosa? e se si, quale? lasciare che crescano e scelgano da soli? e nel frattempo?
    e non si tratta di un interrogativo puramente teorico, ma pratico e pure urgente…. 😉

  32. che bel post! quanti argomenti aperti!!!
    per oggi mi limiterò a leggervi, ma domani interverrò. ciao a tutti.

  33. Ho avuto modo di apprezzare Lia Levi (tanto la scrittrice quanto la persona) alla presentazione di “Roma per le strade” qui a Roma, verso la fine dell’annos scorso, ed il suo libro mi incuriosisce ed attrae molto.

    Quanto alla discussione sui “matrimoni misti” il discorso è lungo e complesso, investendo da un lato la sfera religiosa, dall’altro quella culturale, e da un altro ancora quella delle convenzioni sociali. Un bel guazzabuglio.
    Dal punto di vista strettamente religioso credo che il problema sia soprattutto nei monoteismi e nella conseguente negazione del dio degli altri. Un problema non così vivo nelle società politeistiche del paganesimo, dove gli dei potevano facilmente convivere fianco a fianco, di fatto permettendo una maggiore tolleranza e un certo “multiculturalismo” rispetto a quanto successo poi, di fronte all’affermarsi dei monoteismi, quando i fedeli si conquistavano anche a suon di spada, e gli eretici venivano condannati al rogo.
    L’ebraismo, tra le tre grandi religioni monoteiste, è stata quella che meno ha creduto nel proselitismo (pacifico o belligerante che fosse), contentandosi di mantenere vivo un patto tra il loro dio ed un solo popolo (da questi prescelto), di fatto escludendo il resto del mondo da qualsiasi ipotesi di salvezza, o di interesse per la loro sorte.
    In questo senso di “unicità” c’è tutta la forza che ha permesso la sopravvivenza di una cultura, di una lingua antica e di tradizioni e usi anche quando l’osservanza religiosa più stretta è venuta meno, e la vera fede nel loro dio è rimasta di fatto patrimonio di pochi.
    In quest’ottica la chiusura ai matrimoni misti ha avuto (e forse continua avere) una funzione ben chiara di salvaguardia di tale identità. E’ indubbio che una società “multietnica”, tollerante e multiculturale (quale la nostra, almeno a intenzioni, vorrebbe essere) è destinata a sopprimere nel tempo le culture delle minoranze (diluendole anche lentamente fino a farle scomparire), salvo nei paesi dove il rapporto è rovesciato (di fatto lo stato di Israele è per gli ebrei l’unica risposta possibile a questa prospettiva, realistica o meno, di medio o lungo termine che sia).
    Che questa difesa della loro identità sia stata pagata a caro prezzo, dalle espulsioni di massa, ai pogrom e fino all’olocausto, è poi un altro discorso, ma che la dice lunga su quanto tenacemente quel popolo tenga a questa identità. Ed è per questo che secondo me merita un grande rispetto, indipendentemente dalla sua storia o ancor più dalle scelte politiche dell’odierno stato di Israele.

    Fatta questa lunga (e superficiale: il tema meriterebbe ben maggiore spazio) premessa, mi appare del tutto comprensibile una storia dove è l’appartenente alla cultura (o alla religione) della maggioranza a dovere abiurare per amore alle proprie convinzioni, a rinunciare alle proprie radici, a scegliere “a proprio svantaggio”. Così la stessa storia ambientata oggi in Israele avrebbe senso solo se fosse l’ebreo/a a dover abiurare per amore di un/una musulmano/a, di un/una palestinese. Al contrario non funzionerebbe.
    In questo senso ritengo la rinuncia della “sposa gentile” un atto di coraggio, e non di debolezza. Pur non avendo letto ancora il libro, sapendo però che la storia si interrompe più o meno all’epoca della promulgazione delle leggi razziali da parte di Mussolini, è facile immaginare che tale scelta verrà pagata a duro prezzo.

  34. Scusate: l’anonimo ero io Carlo S. (o carloesse che sia). Ho postato da un nuovo PC, che non era loggato in automatico come il precedente.

  35. Ho aperto il libro solo ieri sera e ho spento la luce mentre Amos e Teresa si abbracciavano nascostamente. Non presagisco niente di buono per loro. Non appartengo a nessuna fede, la mia religiosità non ha bisogno né di un dio creatore né di precetti. Non provo nessuna ostilità per chi vive la propria religiosità tra le braccia di una fede anche se di nessuna posso ignorare le raccapriccianti responsabilità storiche. Rispetto il credente, qualsiasi sia la sua fede, ma non il credo. In definitiva rispetto la creatura umana e i suoi sforzi per dare un senso al suo vivere su questa terra. Questo per presentarmi.
    E venendo alle tue domande.
    1) credo che scrollarsi di dosso le proprie origini sia difficilissimo e che solo poche e forti e libere personalità riescano a cancellare il segno impresso dalle consuetudini della famiglia e della società di appartenenza.
    2) Se la fede è forte e non solo un abito indossato per andare nel mondo non credo che possa essere addomesticata. Farlo mi sembra inoltre una scelta grave che ferisce nel profondo anche se sostenuta dall’amore. Chiedere una scelta simile mi sembra ripugnante, accondiscendere riduce la propria fede ad un pret-a-porter. capisco le ragioni storiche che spingono le gerarchie ebraiche e cattoliche e mussulmane a chiedere l’adesione alla loro fede in caso di matrimonio misto ma una richiesta simile secondo me non può che essere respinta da un vero credente.
    3)Solo quando si rispetta nel profondo la fede dell’altro, sentendola speculare alla propria, il rapporto”misto” può dare dei frutti; azzardo l’idea che la propria fede possa trovare un arricchimento specchiandosi nella fede dell’altro. E il rapporto può addirittura giovarsene. In caso contrario, senza la convinzione presente in entrambi che ogni dono di fede si equivale, il rapporto può soffrire.
    Forse ti parrà fuori luogo ma io avverto delle somiglianze con le fedi politiche forti, che pure possono mettere a rischio rapporti d’amore. L’amore può resistere ma spesso del veleno resta sotterraneo nel rapporto.
    4) credo che le differenze sociali siano oggi meno criticamente avvertite, ma non in tutti gli ambienti. certo ve ne sono ancora di occhiuti e potenzialmente malevoli. Mi aspetto che le differenze di “territorio” per usare un’espressione di moda, sostituiscano come cause di frizione quelle sociali.
    5)l’essere escluso dalla propria comunità familiare è un peso fortissimo; lo si può affrontare ma un ostracismo simile si paga lungo l’intera vita. Ne conosco un caso vicinissimo a me.
    aggiungo a parte il discorso relativo ai figli. Le persone che vivono una fede pensano naturalmente di volervi allevare i propri figli: questo credo che sia il momento più difficile per la coppia. Non so immaginare che tipo di compromessi si potrebbero ideare tra un ebreo e un cattolico o tra un mussulmano ed un ebreo o un cattolico o addirittura tra uno sciita e un sunnita, quando si arrivasse a decidere dell’educazione religiosa di un figlio.
    Dalla mia posizione di non-credente-in-una-fede-storica mi piace pensare che il figlio venga lasciato crescere libero, leggero e sereno verso le sue scelte future.
    marina

  36. Carissimo Dottor Maugeri,
    come sempre post interessantissimo e intelligente.
    Bravissimo, mio caro.
    —-
    Passando ai difficili rapporti tra identità e sentimento, signor Maugeri, mi permetto di dirle – per esperienza – che l’uno regge solo se sotto c’è un solido riconoscimento dell’altra.
    Negare l’identità, l’essenza, finisce – infatti – per distruggere il sentimento. Perchè sentire è un atto vitale, creativo, cangiante. E’ una traspirazione dell’esistenza sull’altro ma attraverso la nostra pelle, il nostro cuore i nostri occhi. E ricevendo su di noi quelli dell’altro.
    Difficilissimo quindi che l’amore si evolva senza un riconoscimento. Senza l’accoglienza vera.
    Senza tuffarsi nella verità dell’altro.
    Io non ho più moglie, signor Maugeri. L’ho persa da qualche anno.
    Ma se ripenso ai nostri momenti so.
    Che non ci legava solo l’amore. Ma saperci vedere…
    —–
    Faccio i miei complimenti più vivi alla sig.ra Lia Levi che conoscevo già (avendo proposto ai miei studenti “Una bambina e basta”, meraviglioso romanzo in cui l’essere ebreo in periodo di persecuzione viene scrutato dagli occhi di una bambina) e spero di essere presente alla libreria Cavallotto per assistere alla presentazione, domani.
    Verrò per abbracciarvi tutti e per ringraziarvi di rendere queste mie giornate così piene di sogni e di vita.
    A lei sempre il mio cuore,
    suo affezionatissimo
    Professor Emilio

  37. Purtroppo stasera posso connettermi solo per pochi istanti.
    Ne approfitto per ringraziarvi tutti, promettendo che nei prossimi giorni interagirò con tutti voi.
    Questo post, infatti, ci farà compagnia per qualche giorno.

  38. Mi permetto solo di ricordarvi la presentazione di domani…
    giovedì 29 aprile, alle ore 17,30 – presso la libreria Cavallotto di Catania, sita in Corso Sicilia – Luigi La Rosa e io avremo il piacere di presentare il libro di Lia Levi protagonista di questo post. Parteciperà all’incontro, anche l’autrice. L’attrice Egle Doria leggerà alcuni brani del romanzo.

    Per chi è in zona e potrà esserci… vi aspettiamo!

  39. @ Caro Massi, incrocio le dita per la presentazione di stasera, il volume di Lia Levi, ” La sposa gentile”, mi ha fatto ricordare quello altrettanto straordinario ” Conta le stelle se puoi ” (Einaudi) di Elena Loewenthal.
    In ambedue, con indubbia maestria narrativa, dilaga il problema delle radici, della discendenza, diramata e rinsaldata in numerosi rivoli. Quindi per gli ebrei, la famiglia patriarcale, assume un valore determinante e prioritario.
    @ Luigi La Rosa, nella sostanziosa recensione, ha usato una delicatezza senza pari e una scrittura altamente poetica.
    Conosco benino, la tradizione ebraica con i suoi riti e le sue leggi .
    Amo questo popolo profondamente, in esso annovero molti cari e stimabili amici. Ma, nessuna ardente passione potrebbe
    farmi rinunciare alla mia fede cristiana! Mi chiedo, può la forza dirompente dell’amore, cancellare con un colpo di spugna, la religione
    nella quale sono cresciuta e l’immensa cultura scritturale ed artistica di cui mi sono nutrita? Se per ipotesi assurda, decidessi di accettare tale compromesso sentimentale, non cambierebbe radicalmente anche il corso della mia vita?
    Grazie per l’ascolto.
    Tessy

  40. Amos, amato dalla moglie ma tradito dalla razza,
    di Giulia Borgese
    Corriere della Sera – 23 aprile 2010

    È il capodanno del 1900 e Amos Segre, giovane banchiere piemontese di Saluzzo, giura a sé stesso che al compimento del trentesimo anno dovrà aver realizzato i suoi due sogni fondamentali: una solida ricchezza e una moglie con cui dar vita a un’altrettanto solida famiglia. Così comincia il nuovo romanzo di Lia Levi, un altro capitolo della sua Trilogia della memoria: ma qui, paradossalmente, protagonista è una non ebra, è La sposa gentile del titolo (Edizioni E/O, pp. 213, €18). I sogni si realizzeranno, tuttavia Amos, pieno di figli amatissimi e cose grandiose, stimato da tutti per la generosità, il senso degli affari e anche della giustizia, giunto alla fine della sua vita dovrà accorgersi che la sua scommessa iniziale non aveva tenuto conto di quanto quel secolo avrebbe portato all’Europa. È il 1937, e solo col suo medico Amos può condividere in segreto la sbigottita angoscia per l’assassinio in Francia dei fratelli Rosselli: è chiaro che la catastrofe è alle porte «e gli ebrei ci sarebbero sprofondati dentro con le mani e i piedi legati». E le leggi razziali colpiranno uno ad uno i numerosi membri della famiglia, anche se a proteggerla, per quanto può, c’è Teresa, la «sposa gentile», la contadina forte e bellissima di cui Amos si innamora al punto da volerla sposare, sfidando l’ira del padre, dei potenti, del rabbino persino e di tutta la comunità ebraica. Soltanto l’amore della sposa gentile per il marito era stato così potente da spingerla a diventare ebrea anche lei, a farsi accettare nella sinagoga, a riportare l’unità nella famiglia. È il romanzo avvincente e poetico di un matrimonio – e di un patrimonio – ma soprattutto di una donna non comune: ed è una storia vera, se l’autrice alla fine sente di dover aggiungere un corsivo per tutti quei lettori che vorranno sapere, appunto, come è andata a finire questa storia.

  41. La contadina scompiglia il cuore di Amos,
    di Elena Loewenthal
    La Stampa – Tuttolibri – 27 marzo 2010

    La parola «gentile» ha nell’accezione comune un unico e univoco significato: l’aggettivo indica una forma di mitezza che è anche capace di stare al mondo. Ma per il mondo ebraico questo non è il solo modo per usare la parola, che forma una derivazione di «gente», «genti». Gentile indica, in parole povere, «appartenente a un altro popolo» ed è la traduzione letterale, quasi assonante, dell’ebraico goy. E basta un rapido sguardo al passato del popolo d’Israele per capire come non di rado, anzi spesso, i due significati della parola siano entrati in collisione, invece di comunicare: insomma, negli ultimi duemila anni i gentili sono stati assai poco gentili. Per questo a volte «gentile» ha, nell’uso ebraico italiano, assunto tra le righe una sfumatura di sprezzo, di distanza diffidente. Non è certo questo il caso de La sposa gentile, l’ultimo romanzo di Lia Levi, già nota al pubblico italiano per vari romanzi, fra cui Una bambina e basta e Tutti i giorni di tua vita. Perché Teresa, la protagonista di questa storia ebraico-piemontese, è una «gentile» che accoglie entrambi i significati del termine e sembra quasi vivere proprio per conciliarli. La vicenda di questo racconto sommesso, quasi sottovoce che è un po’ da sempre la storia degli ebrei in Piemonte, si svolge tutta tra Saluzzo e Cuneo, con qualche rara puntata – più per sentito dire che di persona – nella grande Torino. Inizia con le perplessità di un giovanotto brillante che capisce di dover prendere moglie, prima o poi. Il lettore segue Amos Segre nel suo pigro corteggiamento di Margherita, un buon partito e anche affascinante, a modo suo. Ma tutto si spezza nel momento in cui la contadina Teresa fa il suo ingresso nella storia, destando lo scompiglio nel cuore di Amos ma soprattutto in tutto ciò che lo circonda. Saranno la pazienza di Teresa – ma anche la sua pacata intelligenza – e la sua vocazione di madre – avrà quattro figli da Amos – e la sua fedeltà a rimarginare le ferite. Fedeltà non tanto coniugale, ovviamente, quanto in un senso ben più ampio. Perché cominciando dalla cucina Teresa finisce per condividere il destino ebraico, senza risparmiare nulla a se stessa. Nemmeno le leggi razziali, che arrivano più o meno quando questo libro finisce.

    Non è difficile intravedere in questa parabola esistenziale tracciata da Lia Levi la vicenda biblica di Rut, la donna moabita che decide di condividere la sorte del popolo ebraico. Rut ha sposato un israelita giunto nella sua terra a seguito della carestia, nel è rimasta ben presto vedova, ma quando sua suocera decide di tornare a casa lei la accompagna perché quello è ormai il suo destino. Rut troverà in Terra Promessa un altro marito, e di lì a qualche generazione da quel ceppo nascerà re Davide.

    Tanto l’eroina biblica quanto la contadina Teresa prendono in mano il proprio destino conmitezza, ma anche con quella decisione che solo l’amore è capace di imprimere.

  42. Contabilità d’amore,
    di Giulio Busi
    Il Sole – 24 ore – 21 marzo 2010

    Una cosa è certa, la figlia del rabbino ha una faccia da cavallo. E dire che sarebbe un buon partito per uno come Amos, che sta facendo fortuna da sé, giovane leone «sconsolato nella sua solitudine ma sempre pronto a battersi». Saluzzo non è esattamente una metropoli, e la minuscola comunità ebraica offre ben poca scelta in fatto di ragazze da marito. Ecco perché, scartata Sarina, Amos, vestito da festa, si mette i viaggio verso una vera città. A Cuneo sì, che si può frequentare il bel mondo e conoscere ebrei di vedute moderne, eleganti e colti, come per esempio i Todros. Tra un invito per il tè e le chiacchiere nel giardino col gazebo, il giovane di belle speranze s’invaghisce della figlia di mezzo, Margherita. Comincia così un castissimo corteggiamento con letterine che fanno la spola, e preparano la strada per un matrimonio tutto buon senso borghese. Amos ha preso la guida della modesta banca privata, il Novecento è appena cominciato e per gli ebrei piemontesi il successo economico è a portata di mano. Il banchiere i conti li sa fare ma la contabilità del suo cuore gli gioca uno scherzo imprevisto. Quando Teresa gli offre un cesto di ciliegie, Amos è perduto. Lei ha diciotto anni, incontenibili capelli castani e non ha un difetto al mondo, se non che è figlia di contadini, naturalmente cristiani.

    La sposa gentile riesce a evocare la grande storia del secolo scorso attraverso i turbamenti dei due protagonisti, abbastanza sconsiderati da decidere di vivere la loro passione contro le convinzioni dei benpensanti. La differenza social e quella religiosa valgono per tutti, tranne che per Amos e Teresa. E se al di fuori vorticano pregiudizi e incomprensioni, tanto più accogliente è l’arcana complicità che lega i due, consanguinei nell’anima. Con stile nitido e gusto sicuro per i dettagli minori, Lia Levi fa da guida nel mondo appartato del giudaismo piemontese, tra desideri d’integrazione e orgoglio per le proprie tradizioni. Nulla più ma anche niente di meno di una compiuta storia d’amore, arricchita da copiosa amarezza.

  43. La sposa gentile, di Lia Levi,
    di Stefano Donno
    10 marzo 2010

    Chissà per quale strana ragione del Destino, con Lia Levi ho avuto sempre a che farci, vuoi perché qualcuno mi consigliava un suo libro, vuoi perché mi sia trovato da spettatore (nelle rare occasioni in cui mi sono spostato da Lecce) ad assistere alla presentazione di un suo libro. Mi ha sempre sbalordito la dolcezza del suo sguardo, il suo sorriso accogliente, e i suoi modi gentili da donna di altri tempi. Mi piacciono i suoi racconti densi nel respiro di una scrittura che sa alternare leggerezza, piacevolezza e gusto sopraffino con grande maestria, in grado di eseguire ritratti dell’anima degni del più grande pittore contemporaneo. Insomma Lia Levi è una delle nostre scrittrici più interessanti.
    Di origini piemontesi, Lia Levi vive a Roma dove per ben trent’anni è stata a capo del mensile ebraico “Shalom”. A Roma dalla prima infanzia, la signora Levi ha vissuto in questa città la maggior parte degli accadimenti più nefasti della storia del nostro paese: quelli segnati dalle “leggi razziali” del 1938. Ho seguito le sue vicende editoriali per la casa editrice E/O da “Il mondo è cominciato da un pezzo” sino a quest’ultimo lavoro e devo dire che non ha mai tradito le mie aspettative. “La Sposa Gentile”, fondamentalmente prende spunto da un intreccio familiare ambientato nel secolo scorso che ha come sottofondo una vicenda vera: l’avversato matrimonio di un giovane banchiere, figlio della borghesia ebraica piemontese, con una contadina cattolica. E’ la storia di Amos, giovane banchiere ebreo di una cittadina piemontese, che vuole diventare qualcuno e vuole mettere su famiglia. Una famiglia però di solido stampo patriarcale.
    Si innamora fortemente di Teresa, una contadina cristiana del luogo, che diverrà il motivo principale per cui il loro matrimonio sarà caldamente osteggiato dalla comunità ebraica. Ma la forza dell’amore di Teresa per il suo uomo, porterà la giovane donna ad una scelta difficile ma ineludibile: quella di voler diventare anche lei ebrea. L’intera vicenda narrata nelle pagine di questo deliziosissimo lavoro, va dai primi del novecento sino alle leggi razziali del 1938, con un sottofondo di vicende politiche e di costume includenti l’età giolittiana, le prime agitazioni femministe per il diritto di voto alle donne, l’avvento del fascismo. Romanzo dunque storico e sentimentale, con protagonista un bellissimo modello di donna, Teresa, originale e in grado di accettare ciò che non conosce e di aprirsi senza pregiudizi e remore al nuovo che la vita le offre. Imperdibile!

  44. La Sposa Gentile di Lia Levi: la storia di mezzo secolo di una famiglia ebraica,
    di Joyce Hueting
    pianetadonna.it
    10 marzo 2010

    Amos e Teresa hanno e sono due vite, in due mondi. Di Amos conosciamo la sua famiglia, la sua cultura, la sua religione. A volte basta dire “ebreo”, e se non basta, basterà, grazie alla cura di questo libro. Di Teresa conosciamo la sua povertà, perché a volte le generalizzazioni sono sufficienti per farsi un’idea.

    È una storia d’amore, a tutti gli effetti. Una trama cucita col filo d’oro sopra una stoffa umile. Amos che non dimentica mai la sua posizione, di uomo, di ebreo, di banchiere, di figlio, di fratello, di amante, di marito, di padre. Teresa che non dimentica mai il suo amore. Ma questo potrebbe sembrare un cliché, che invece, proprio nelle sfumature della storia, crolla con grande coraggio.

    Ricevendo le spalle dei più cari parenti, entrambi fanno quello che vogliono fare, ma anche quello che devono fare. Entrambi danno prova del loro amore, generoso, mentre i loro rispettivi mondi, li privano del riconoscimento: l’unica, insostituibile ricchezza, che gli manca. Ma non sarà sempre così, Teresa saprà dimostrare la sua totale dedizione meravigliando anche il suo sposo.

    Personaggi secondari che non vogliono eccellere e rubare la scena con le loro particolarità, eppure ben forgiati, rappresentanti di realtà possibili, presenze indispensabili nella loro semplicità.

    È un libro la cui storia ruba tutta l’attenzione, ma meraviglia quanto sia pacato il suo ritmo. Forse è questo, l’effetto che farebbe ascoltare le vicissitudini di famiglia raccontate da una nonna, brava anche a romanzare oltre che incantare.

    “E di nuovo Amos si vide davanti la dea Terra e Giunone ‘dalle bianche braccia’ e disse un grazie alla Natura che aveva concentrato tutto il proprio vigore in quella creatura florida e boschiva dai denti smaglianti, di certo nati per mordere frutti staccati direttamente dall’albero”

  45. La sposa gentile: l’ultimo intenso ritratto sociale di Lia Levi,
    di Erminio Fischetti – Fuori le Mura
    08 marzo 2010

    Come era stato per la Trilogia della memoria (Un bambino e basta, L’albergo della Magnolia, L’amore mio non può), ancora una volta Lia Levi conduce il lettore attraverso le tradizioni culturali della borghesia ebraica. Stavolta a muovere il meccanismo della storia è però una donna “gentile”, ovvero una cristiana, una non ebrea. Teresa è una contadina, che all’inizio del Novecento diventa l’interesse amoroso di Amos Segre, un giovane banchiere appartenente ad una rispettata famiglia ebraica di Salluzzo, cittadina situata nella provincia piemontese. Per lei e con lei, il giovane Amos rinuncerà alla sua famiglia e verrà ostracizzato dalla sua comunità ponendo così le basi per il progetto della sua famiglia patriarcale, di cui la donna diverrà custode perfetta acquisendo con operosa e generosa sagacia valori e tradizioni non suoi e riuscendo- grazie ai suoi talenti misti di anomala alterità e capacità domestiche e culinarie- persino a farsi riaccogliere da coloro che li avevano allontanati.

    Con asciuttezza narrativa e intensità formale, Lia Levi passa con disinvoltura dal punto di vista di Amos, sicuro e fiducioso nei confronti della propria solidità economica e della sue tradizioni, a quello di Teresa, bella e accondiscendente, che tira le sue fila di moglie e madre da dietro le quinte, com’era di buon uso nei meccanismi di una società patriarcale. I segreti di un amore silenzioso, che da ambo le parti tutto dà e nulla chiede vengono alla luce attraverso il ritratto di un matrimonio ben riuscito nel quale era necessario che “lui fosse contento”. L’autrice regala al lettore l’intenso ritratto di una coppia e di una famiglia stagliato sullo sfondo di un’Italia in evoluzione, dall’ingresso del XX secolo fino all’ombra delle terribili leggi razziali imposte dal fascismo nel 1938. Una saga famigliare che trova vita attraverso emozioni, sentimenti e comportamenti contraddittori della nostra Italia, così magnificamente descritta tramite la veritiera impronta di personaggi memorabili, unici e allo stesso tempo rappresentanti perfettamente quel mondo ormai scomparso. Perché su questo c’è da dire soprattutto una cosa: quello che Lia Levi vuole mettere in luce è soprattutto un mondo, un tradizionalismo e un’Italia che la guerra e il fascismo ha spezzato, piegato e distrutto per sempre, un mondo che è diventato per la memoria di molti sempre più un ricordo sfocato.

    Interessante, senza alcun dubbio, è il modo in cui viene intervallata la narrazione degli eventi, delle complesse dinamiche famigliari, fatte di alleanze e recriminazioni, desideri e virtù, regole non scritte e comportamenti sottintesi, con l’analisi e la rappresentazione di un contesto sociale preciso, fatto di usi e tradizioni tratteggiati nell’ordine preciso dello stato delle cose. Sotto questo punto di vista, la scrittura della Levi è dettagliata quasi fino alla maniacalità e traccia il peso di una Storia che, attraverso intense caratterizzazioni di personaggi secondari così reali e precisi, è improntata non solo verso un’identità culturale molto specifica come l’ebraismo, ma anche verso la più generale identità nazionale di quei tempi e dei suoi eventi più importanti, come possono essere la lenta presa di coscienza del femminismo, la prima guerra mondiale, la moritura di un socialismo che andava incontro al seme del fascismo, una moda che sostituiva bustini, nastrini e piume ingombranti con tagli diritti, comodi e più morbidi, gli usi e i costumi, i comportamenti degli ordini sociali.

    Tra le scale dei ceti e delle gerarchie, un’Italia completa fatta di politici e militari, domestiche e cocchieri, banchieri ed impiegati, donne tradizionaliste e donne vagamente liberali, donne inaridite da una maternità consumata prima del tempo, donne contente e infelici, crudeli e abbrutite dal tempo. E su questa scala di valori e fatti concreti, le persone prendono posto perfettamente nell’incedere della vicenda, e in questa galassia che comprende zie, zii, cugini, cugine, nipoti, nonni, ecc. tutti hanno il posto che meritano; dalla anaffettiva e crudele matrigna Michela alla bohémienne cognata Rachele, dal fratellastro egoista e scialacquatore Emanuele alla indipendente figlia del rabbino Sarina, dalla solitaria sorella Anna fino ad arrivare a Teresa, che più che fare sua una religione aveva saputo fare felice il suo unico Dio, suo marito Amos. Tutti sono umani, tutti sono fallibili, tutti sono se stessi. La sposa gentile è un libro che narra del senso della perdita attraverso un decadentismo commovente ed intenso, una storia integra e sincera, che dal vago sentore biografico e personale diventa universale e collettiva.

  46. Ecco la storia di Teresa, la fanciulla bella e «gentile» che per amore diventa ebrea,
    di Maria Serena Palieri – L’Unità
    01 marzo 2010

    Quando scocca il primo giorno del 1900 Amos Segre è un giovane uomo di ottime speranze: giura a se stesso che entro lo scadere dei fatidici trent’anni avrà consolidato la sua ricchezza, già sulla buona strada, e avrà trovato moglie, una donna all’altezza. E qui il destino si diverte a tirargli un tiro mancino. Perché Amos Segre è un banchiere appartenente a una comunità ebraica di antica storia, a Saluzzo, e la donna che il fato gli mette sulla strada,«come emersa dalle radici più profonde della terra e della
    vita, carnale e festosa, la dea Cerere in persona», è la semplicissima figlia di un fattore. Ed è una «gentile»: è cristiana. La sposa gentile, il nuovo romanzo di Lia Levi, esordisce nel segno della figura di Amos, maschilmente sicura di sé e delle proprie fortune, per poi, quasi da subito, lasciare spazio a quella di Teresa, protagonista nella vita e sulla pagina, però da dietro le quinte, come poteva esserlo una donna primo novecentesca. Teresa entra come una tempesta nella vita di Amos: è lei che lo seduce
    col suo infiammato eros innocente, poi resta incinta, cosicché lui, messo al bando, dovrà scegliere tra lei, «gentile», e la famiglia d’origine. Ma la gentile – d’animo – Teresa saprà alla lunga far riconciliare i Segre, grazie all’impegno nell’apprendere preghiere e credenze per diventare, come sogna, una perfetta ebrea, ma anche più materialmente al dono con cui si è presentata in scena, un talento da meravigliosa cuoca esercitato nelle tavolate di Pesach. Qual è però davvero il Dio cui Teresa si è convertita? È il dio degli ebrei oppure è Amos, la sua personalissima maschia divinità?

    GLI «ALLEGRO» E GLI «ADAGIO» La sposa gentile è un romanzo che torna nello scenario che Lia Levi ha già ben esplorato nella Trilogia della memoria, la borghesia italiana ebraica, ma con passo nuovo, più musicale e qualche divertito passaggio nel melodramma. Nelle sue duecento pagine racconta con i suoi allegro e i suoi adagio, e con la levità caratteristica dell’autrice anche nei passaggi più tragici, una saga familiare estesa per più di un cinquantennio. Da quell’inizio di secolo vissuto con ottimismo
    da ballo Excelsior alla prosperità dei Segre alla vita che si restringe con le leggi razziali, fino al buio, e al dopo: quando per chi è sopravvissuto quel «sistema solare» è solo un ricordo. Amos ha un padre, Franchin, rimasto vedovo, e una matrigna, Michela, che non ricusa di essere «aspra e irritabile, grifagna sui soldi e ostile» come vuole il ruolo, una sorella maggiore, Anna, due fratelli, Salvatore e Cesarino, e un fratellastro, Emanuele. Con Teresa ha due figli maschi, Vittorio e Alberto e due femmine, Nerina
    ed Etta. E intorno ci sono la brillante e bohémienne cognata Rachele e la saggia figlia del rabbino, Sarina, balie, domestiche, uomini di fiducia. C’è il socialismo cui si voca il Segre che debutta in politica e il regio esercito cui giura fedeltà un altro. Lia Levi accumula dettagli curiosi: la casa in ghetto che Amos sogna e le dimore di collina che invece costruisce, i tesori, od orrori, d’antiquariato che accumula e il castello che compra quand’è allo zenith della sua fortuna. Molto si disperderà al vento quand’arriverà il
    fascismo. «Ma questa non è la storia di un patrimonio» commenta l’autrice. È la vicenda «di una donna che aveva solo caparbiamente desiderato che “lui fosse contento”. E “lui” le aveva risposto con lo stesso identico desiderio». Da «padre» a «madre»: La sposa gentile è una storia d’amore. È la storia d’un matrimonio.

  47. Lessico sentimentale di una donna coraggiosa,
    di Silvana Mazzocchi – Repubblica
    27 febbraio 2010

    La saga di una famiglia piemontese tra Cuneo e Saluzzo dall’inizio del Novecento, l’incontro fra Amos, giovane banchiere ebreo e Teresa, ragazza contadina e cristiana con «le chiome gonfie di vita» e di un “castano” che «può farsi corpo». Passione profonda che mette in crisi il progetto di famiglia patriarcale e che si consolida in vita, nonostante l’ostracismo della comunità ebraica. È un libro sull’amore che dà e non chiede La sposa gentile, vicenda personale e famigliare che si snoda nei primi decenni del “secolo breve”, fino alle leggi razziali del 1938, con sullo sfondo l’età giolittiana, i primi fermenti femministi per il voto alle donne, l’avvento del fascismo che soffoca gli ardori socialisti, il buio del ventennio, l’alleanza con Hitler. Forse il romanzo più poetico fra i tanti pluripremiati di Lia Levi. Centrale la scelta di Teresa che, per amore del marito, vuole diventare anch’essa ebrea. Una donna che si apre a ciò che non conosce, ma che non rinuncia mai a se stessa, prova generale d’integrazione e di originalità, di anticonformismo e di umanità.

  48. Teresa, la sposa di Israele con la Madonna sul comò,
    di Brunella Schisa – Il Venerdì di Repubblica
    05 febbraio 2010

    Amos Segre è un giovane banchiere ebreo di Saluzzo che sogna di mettere su una famiglia patriarcale e tradizionale. Siamo all’inizio del Novecento e l’uomo non sa che il destino ha in serbo per lui Teresa, una contadina cristiana. Tra loro è amore a prima vista. La decisione di sposarla gli provocherà l’ostracismo di tutta la comunità. Come potrà una «sposa gentile» trasformarsi in una sposa d’Israele senza convertirsi? Lia Levi attinge ancora una volta alle memorie di famiglia, affrontando con grande perizia i chiaroscuri emotivi dell’amore che legò per quasi quarant’anni i suoi nonni.

    – Quando Teresa comunica ad Amos di volersi convertire, lui le risponde: «Ebrei si nasce!» Perché?
    «Perché gli ebrei non fanno proselitismo. L’ebraismo non è solo una religione, ma un modo di vivere inserito nella quotidianità, e quindi difficile da trasmettere. Per esempio, durante la cena della Pesah, la pasqua ebraica, si dava lettura dell’Agadà come vuole la tradizione. Si leggeva a casa e non in sinagoga, proprio per spogliare quel momento del senso religioso.

    – Però sua nonna avrebbe comunque potuto convertirsi, se avesse insistito…
    «Il fatto che si comportasse come un’ebrea bastava. Il rabbino era entusiasta di lei.»

    – Amos, che pure ha sofferto l’ostracismo della sua famiglia, è pronto a scacciare la figlia quando sembra che voglia sposare un goy, un non ebreo.
    «In una piccola comunità, i matrimoni “fuori” sono impensabili. È una caratteristica di tutte le minoranze.»

    – Però è proprio una contraddizione.
    «Lo è, ma la letteratura racconta le contraddizioni.»

  49. Dopo tutte le belle recensioni che ho letto, mi pare proprio un libro da gustare.
    In bocca al lupo per la presentazione di oggi.

  50. La presentazione in libreria è andata molto bene.
    La prima cosa che mi preme dirvi è che Lia Levi vi saluta tutti con molto affetto.
    Come vi dicevo è “itinerante”, dunque non ha avuto la possibilità di connettersi e di leggere. Ma lo farà presto.
    Se avete domande da rivolgerle, però… ponetele pure.
    Lia risponderà non appena possibile.

  51. Altro flash…
    Così come avevamo sperimentato altre volte non è stata una presentazione “convenzionale”.
    Si è trattato di una vera e propria chiacchierata a più voci, con al centro Lia Levi e il suo nuovo romanzo.
    Nessun tavolo divisorio, nessuna divisione tra relatori (o meglio, “introduttori”) e pubblico. Eravamo assemblati tra gli scaffali, attorniati dai libri.
    Questo approccio ha favorito la discussione e la partecipazione del pubblico.

  52. Tra i presenti (oltre me, Luigi e – ovviamente- Lia con suo marito Luciano) figuravano diversi amici e frequentatori di questo blog, tra cui: Maria Rita Pennisi, Orazio Caruso, Mavie Parisi… e tanti altri.

  53. Zaub, se puoi… leggi questo romanzo a Lia Levi.
    Oggi le ho parlato di te. Peraltro i personaggi del libro sono ispirati ai nonni di Lia (la nonna si convertì all’ebraismo per amore del marito).

  54. @ Simona
    Grazie per essere intervenuta, mia cara Simo. So che domani – a Siracusa – avrai modo di incontare Lia, suo marito Luciano, Luigi e Maria Lucia.
    A te, dunque, il compito di ri-salutarmeli.

  55. Giorgia (cher ingrazio per essere intervenuta) pone delle domande cruciali…
    Le metto in evidenza.
    E i figli? Che tipo di educazione bisognerebbe assicurare loro in casi del genere?
    Educazione laica? educazione religiosa? e se sì, quale? lasciare che crescano e scelgano da soli? e nel frattempo?

  56. @ Professor Emilio
    Grazie per il suo commento così intenso e… intimo.
    Grazie davvero.
    E’ riuscito a venire in libreria? Se sì, cosa ne ha pensato della presentazione del libro e dell’incontro con Lia Levi?

  57. Ringrazio, infine, chi ha inserito tra i commenti la rassegna stampa del libro. Trovo sia molto utile guardarlo attraverso gli occhi di tutti coloro che lo hanno letto e ne hanno scritto.

  58. era presente ieri da Cavallotto. un bel pomeriggio, una presentazione frizzante nel cuore della libreria. ho trovato brillanti sia te sia L. La Rosa. bravissima l’attrice a interpretare i brani del libro. Lia Levi mi è sembrata una forza della natura. brava, coinvolgente,energica.

  59. Grande partecipazione di pubblico alla presentazione del libro di Lia Levi “La sposa gentile”, tenutasi, giovedi 29, alle 17.30 presso la Libreria Cavallotto di Corso Sicilia a Catania.

    L’autrice ha dialogato con Luigi La Rosa e Massimo Maugeri e ha risposto alle numerose domande poste dal pubblico. L’attrice Egle Doria, con grande estro teatrale, ha letto alcuni brani tratti dal libro, coinvolgendo il pubblico e facendolo immedesimare nello spirito del romanzo.
    La presentazione del volume si inserisce nel contesto degli incontri con le scolaresche (liceo Capizzi di Bronte e liceo Quintiliano di Siracusa) organizzati dalle librerie Cavallotto e finalizzati alla riflessione sulle tematiche delle leggi razziali durante il cui periodo sono ambientati alcuni dei piu bei romanzi dell’autrice.

  60. Per la questione dei figli.
    Non credo che sia possibile un tirarsi indietro dai propri convincimenti dai propri modi esistenziali – anche perchè l’educazione passa per molti circuiti non mediati intellettualmente: i figli ci guardano sempre, anche quando siamo distratti.
    Si può scegliere di retrocedere da certe usanze positive, di annullare i rituali. Ma è una cosa che si fa prima per se, e poi il figlio ci casca dentro – non so come dire. Io e mio marito abbiamo deciso di non battezzare e di non far circoncidere, ma per quanto mi riguarda avrò cura di trasmettere l’ebraismo per altre vie – le vie dell’ebraismo assimilato da cui sono nata.

  61. Carissimo Massimo
    ti invio la mia recensione sul libro di Lia Levi uscita sulla Terza Pagina del quotidiano La Sicilia il giorno 4 aprile (Pasqua) 2010

    Lia Levi, autrice di saggi e di romanzi di successo, ritorna con la sua ultima fatica letteraria, La sposa gentile, edizioni e/o Roma 2010. Comincia in modo perentorio, ma anche ironico, la storia di Amos Segre, esponente di una ricca famiglia piemontese di origine ebraica. Allo scoccare del Novecento, Amos fa due promesse a se stesso: crearsi una posizione economica solida e sposare una donna, con cui condividere una dimora degna di tale conquista, tutto entro i trent’anni di età.
    Amos diventa ricco, come aveva stabilito, però si innamora di Teresa, una giovanissima contadina cristiana. Appunto una gentile. L’unione con Teresa chiude ad Amos le porte della società ebraica, per prime quelle della sua famiglia.
    Le sofferenze di Amos vengono attutite dall’amore di Teresa, che vuole a tutti i costi diventare ebrea. Quando lo saprà la comunità ebraica, le cose cambieranno e la casa di Amos, diverrà meta di parenti e amici. Centrale e magnifico è il personaggio di Teresa, che ha un amore infinito per Amos e fa sì che i desideri di lui, anche quelli non espressi, siano i suoi. Lei per amore diventa l’ebrea perfetta. Infatti è quella che conosce tutto dell’ebraismo, dalle origini fino ai piatti tipici. E’ proprio la cucina di Teresa, che diventa l’altra grande protagonista della saga. La grande stanza da cucina è il suo regno. Possiamo entrarvi con lei e sentire gli odori dei dolci tipici ebraici e dei piatti tradizionali, che lei prepara abbondanti per tutta la famiglia Segre ad ogni festività, e assaporarne il gusto. Nel romanzo, la figura di Teresa si staglia luminosa come un sole, attorno a cui tutti girano, amici e parenti. E’ una figura titanica. E’ la Grande Madre, forte e accogliente. L’amore che ha per Amos la rende invincibile. Il suo volere a tutti i costi essere ebrea corrisponde al suo desiderio continuo e rinnovato di fondersi con Amos. Tutti i numerosi personaggi di questa storia sono ben delineati. Profondo è lo scavo psicologico di ognuno e specialmente quello del lungimirante Amos, che avverte nell’aria ciò che agli ebrei si sta apparecchiando. Equilibrata è la distanza che il narratore esterno tiene dai suoi personaggi. Ottimo l’intreccio. Perfetto il ritmo narrativo. Le metafore sono raffinate. I periodi ariosi, incisivi ed eleganti Lo stile è avvolgente. Tutti buoni motivi per tuffarci nella lettura di quest’ultimo romanzo di Lia Levi, che ci toccherà fino in fondo all’anima.

    Un caro abbraccio
    Maria Rita Pennisi

  62. Carissimo Massimo
    giorno 27 aprile Lia Levi è stata ospite del mio liceo, il “Regina Elena” di Acireale (CT). Questo è uno stralcio del mio intervento.

    Analizzando l’ultimo romanzo di Lia Levi, La sposa gentile, (con ogni probabilità il capolavoro dell’autrice) noto che, pur presentando molte analogie con i precedenti propone anche delle notevoli differenze. Differenze sia nei contenuti che nelle forme.
    La differenza più macroscopica sta nella scelta di un narratore esterno consapevole ed obiettivo e la conseguente rinuncia ad una voce narrante circoscritta ed emotiva, consueta nei romanzi precedenti. Il risultato è una narrazione dallo sguardo ampio, oserei dire quasi ottocentesca (nel senso positivo, naturalmente), che focalizza un’attenzione poliedrica sui diversi per-sonaggi e non disdegna, con discrezione, di dare giu-dizi e di esprimere riflessioni. È l’approdo di una clas-sicità conquistata, con il coraggio di chi, sicuro dei propri mezzi espressivi, si concede il lusso della chia-rezza, eliminando orpelli e abbellimenti esornativi e si diverte a sfidare il lettore, criptando riferimenti e citazioni fra le righe.
    Il romanzo ha un grande incipit che raggiunge due obiettivi contemporaneamente: presentarci l’epoca ed il protagonista della vicenda. È l’alba del Novecento, un secolo carico di aspettative positive, indotte dalle filosofie storiciste e positiviste del secolo precedente, dai progressi scientifici e tecnologici e dall’irresistibile ascesa della borghesia capitalista.
    Perfettamente inserito in questo contesto storico è Amos, un giovane banchiere ebreo che ha il fiuto per gli affari e le idee molto chiare sul futuro: quando compirà trent’anni dovrà avere “una ricchezza solida e riconoscibile” e “una moglie con cui dividere una di-mora degna di tanta conquista”. Amos possiede tutte le caratteristiche del tipo ideale, quasi weberiano, del capitalista: è determinato, crede nell’uso oculato degli strumenti della ragione e soprattutto ritiene che la ricchezza sia la manifestazione visibile della propria po-tenza vitale. Inoltre cerca di accordare etica e capitali-smo finanziario, facendo anonime elargizioni.
    È, insomma, un personaggio destinato a vincere. Siamo molto distanti dagli inetti, dagli “uomini senza qualità”, descritti da tanta letteratura europea di quegli anni.
    A guardarlo bene, Amos, però, non coglie i primi sintomi di crisi del nuovo secolo, che si rivelerà, ben presto, gravido di cattive sorprese. Commette, inoltre, l’errore fatale di escludere la passione amorosa dalle sue strategie.
    E la passione si presenterà puntuale nella sua vita, nel vero esordio del romanzo, nelle impreviste vesti di Teresa, una bella e audace ragazza di campagna.
    La scorge per la prima volta tra le messi opulente di inizio estate “E là in mezzo, come emersa dalle radici più profonde della terra e della vita, carnale e festosa, la dea Cerere in persona”. Amos non può nulla contro gli archetipi profondi legati alla terra ed ai cicli della natura. E si innamora di una donna che non do-vrebbe amare perché è “gentile”, cioè non ebrea e perché è contadina. E perde il controllo.
    Amor omnia vincit.
    Se Amos incarna i valori attivi della borghesia imprenditoriale, Teresa è l’espressione della forza incon-tenibile della vita. In sintesi: ragione e sentimento.
    Il loro innamoramento, travolgente e scandaloso, si scontrerà classicamente con le convenienze e le convenzioni socio-culturali ed avrà conseguenze catastro-fiche. Amos sarà emarginato dalla sua famiglia e dagli ebrei della sua città. Essi non accetteranno in nessun modo un matrimonio misto.
    Ma per Amos l’ostracismo è insopportabile (in fondo come lo era per i greci o per Dante). L’esclusione è paragonabile ad un esilio, ad una cacciata dall’Eden. Non si è uomini se non dentro la comunità, fuori si è solo stranieri, meteci, per gli altri e per se stessi. Quando Teresa ne avrà consapevolezza, allora prenderà una decisione inaspettata e coraggiosa: diventare ebrea.
    Tutte le potenzialità di Teresa, non ultime le sue abilità in cucina, saranno messe al servizio di uno sco-po ben preciso: fare di Amos, un uomo felice, facen-dogli riprendere il posto che gli spettava di diritto nel-la comunità di origine. In breve tempo Teresa sarà in-tegrata nella famiglia del marito e Amos potrà incar-nare la figura del patriarca riverito e rispettato alla quale aspirava in giovinezza.

    La passione impara le regole della ragione e le strumentalizza.
    Come l’acqua che sa adattarsi a tutte le forme, la forza della passione vince perché è originaria, cioè, viene prima delle forme storiche, delle differenze etniche e religiose, delle leggi, delle ideologie e degli stati.
    Teresa mette in sonno una sua religiosità istintiva, taglia i ponti con la sua famiglia d’origine per essere rieducata e inserita all’interno di una comunità che ha rituali codificati e secolari, ne diventa, addirittura, la custode e la vestale, ma il suo non è un sacrificio.
    La sua più intima religione rimane la religione dell’amore. È, quindi, la passione amorosa il vero motore immobile della storia, il diamante grezzo e poten-te che dà origine a tutto, la pepita d’oro che muove tutto l’intreccio della vicenda senza che la scrittrice, esperta nell’arte di dire senza dire, lo faccia quasi apparire.

    Senza svelarvi altro della trama che naturalmente riserva altri sviluppi ed un finale sorprendente, concludo con una osservazione sul tono della scrittura che, anche quando descrive eventi drammatici, non smette di essere leggero (mai frivolo) ed ironico (mai sarcastico) e bonario. Un tono che si può definire a-maramente consapevole e mai cattivo.
    La romanziera detesta il partito preso dei romanzi a tesi, non ama le ideologie precostituite che ingabbiano la realtà, non ama dare sentenze. Nel suo romanzo non vi si trova un’impostazione manichea con buoni da una parte e cattivi dall’altra.
    “Penso che lo scrittore debba essere al di sopra di ogni assoluto. Lo scrittore deve raccontare, non giu-dicare. La scrittura è porsi dei problemi, è ricerca, mobilita spesso anche contraddizioni”.
    Il romanzo è il genere letterario che meglio può de-scrivere la problematica polifonia della vita. Il romanzo rende il mondo sotto forma di domande. E non di risposte.

    Orazio Caruso

  63. Sono d’accordo con Massimo, quella di ieri alla libreria Cavallotto è stata una bellissima occasione di incontro più che una presentazione.
    Sono entrata in libreria un pò in ritardo e come per una di quelle strane coincidenze che a volte coincidenze non sono, sono stata accolta da parole che ho subito riconosciuto perchè erano quelle che mi avevano fatto innamorare del libro di Lia. Quelle parole che descrivevano l’incontro tra Amos e Teresa.
    Quella scintilla che poi accende tutta la narrazione. E’ una storia delicata e toccante. Un amore che riesce a superare confini e barriere. E se è vero che Teresa si fa ebrea per amore del suo Amos. E’ pur vero che lui non sta di lato. Quando decide di accogliere Teresa, zuppa di pioggia e carica di ansie, sotto il suo ombrello reale e metaforico, non sa ancora che lei si farà ebrea, non sa ancora che lei gli darà dei figli ebrei, non sa ancora che darà corpo ai suoi desideri probabilmente meglio di come qualunque sposa nata ebrea avrebbe fatto. L’unica cosa di cui in quel momento può essere certo è che quel gesto lo porterà a rompere con la sua famiglia.
    Un bellissimo romanzo, gentile anche lui e pacato, una lingua che pian piano ti entra dentro, una struttura antica e contemporanea al tempo stesso.
    I personaggi carichi di vita, delineati abilmente nella luce come nelle ombre. Le passioni non scevre da dubbi. I contrasti, gli allontanamenti, le emozioni. E sullo sfondo un’Italia in cui si vanno addensando delle nubi che oscureranno il sole per questa come per tantissime altre famiglie.
    E’ possibile abbracciare un’altro credo per amore? Si è possibile nella misura in cui tradizioni, usanze e quant’altro non sono che orpelli che fanno da cornice a ciò che poi veramente conta e che è la nostra spiritualità. Quella parte interna e profondissima di noi.
    Teresa forse non si fa ebrea, Teresa dà ad Amos una famiglia ebrea perchè sente che è ciò che manca al compimento della sua felicità e quindi anche della propria. Cambia la cornice, cambia la posizione della statuetta, ma non i suoi sentimenti.

  64. Scusate, l’anonimo di due secondi fa ero io, non ho pensato al fatto che scrivevo da un computer non mio.
    Un caro saluto a tutti gli amici del blog

  65. Eravamo tutti lì ieri sera, in libreria, accolti dalle gentilissime sorelle Cavallotto, che hanno organizzato una serata all’insegna del garbo e della cultura. Protagonista Lia Levi, autrice di molti romanzi di successo. Ieri si è parlato del suo ultimo romanzo, La sposa gentile, appena uscito e già premiato. Sono intervenuti Luigi La Rosa e Massimo Maugeri, che hanno commentato il romanzo con competenza, soffermandosi sulle parti più salienti, conquistando così l’interesse del pubblico. Intrigante l’attrice Egle Doria, che ha interpretato con professionalità, la lettura di varie pagine del romanzo. Molte le domande e le curiosità che questo splendido romanzo di Lia Levi ha suscitato. Tanti gli interventi. Pronte e vivaci le risposte dell’autrice, che con la sua simpatia e la sua gentilezza ha incantato la platea. Si è creata una perfetta alchimia tra presenti e artista e il grande rammarico di tutti noi è stato dover tornare a casa. Porteremo con noi il ricordo dell’incontro con una grande narratrice, che ha scritto un romanzo destinato a restare tra i classici della letteratura. Amos Segre determinato nelle sue idee, che poi sceglie, con gli occhi del cuore, la sua sposa gentile Teresa, bella e carnale come la dea Cerere non li dimenticheremo e neanche il bel contesto in cui si muovono i tanti personaggi, che Lia Levi, con un tocco di penna è riuscita a eternare.

    Maria Rita Pennisi

  66. Cara Mariella, grazie per il tuo commento e per la tua presenza in libreria. Sono lieto che l’incontro sia stato di tuo gradimento.
    E, sì, Lia Levi è davvero energica, brava e coinvolgente.

  67. Cara Zaub,
    in casi come il vostro credo che la questione relativa alla “educazione dei figli” sia davvero nevralgica e centrale. E, ovviamente, delicatissima.
    Grazie, intanto, per aver voluto mettere in comune con noi la tua esperienza. Credo che tu e tuo marito abbiate percorso la strada giusta.
    Un abbraccio a voi.

  68. E grazie anche ad Orazio (anche lui presente da Cavallotto) per aver messo in comune con noi uno stralcio del testo dell’intervento con cui ha presentato Lia nel liceo dove insegna.

  69. Voglio sottolineare questa frase del commento di Mavie: “Teresa forse non si fa ebrea, Teresa dà ad Amos una famiglia ebrea perchè sente che è ciò che manca al compimento della sua felicità e quindi anche della propria”.
    Lo sostenevo anche ieri. Il personaggio Teresa, che a prima vista potrebbe apparire come semplice e “lineare”, in verità è molto più complesso di come sembra.
    Non posso dirvi di più, altrimenti Lia mi picchia (perché vuole giustamente evitare che il lettore venga derubato del piacere della “scoperta” nel corso della lettura).
    Insomma… leggete il libro e capirete.

  70. Lia Levi è una scrittrice che sa destreggiarsi con sapienza, eleganza e profondità nei meandri dell’animo umano, senza ombra di dubbio.

    Massimo, riguardo – invece – alle tue domande, rispondo (sono idee mie, eh!) che ben difficilmente è possibile scrollarsi di dosso le proprie origini. Dalle origini, nasce la nostra prima identità, quella indelebile.
    Riguardo poi alla fede da addomesticare per assecondare le esigenze della persona amata, beh, se l’amore, la stima e la personalità sono reciprocamente intensi e marcati, nessuno mai potrà scalfire le convinzioni religiose reciproche. La rinuncia seppure parziale al proprio credo nasconde una debolezza emotiva, interiore, o una fragilità della stessa fede, oppure una mera convenienza.
    Riguardo, infine, agli ostacoli che l’appartenenza religiosa può creare nelle questioni amorose, penso che sì, possono sorgere ostacoli o incomprensioni se l’identità e la personalità dei “soggetti” (uomo e donna) sono oscurate o appannate da insicurezze, turbe emotive, angosce esistenziali, vale a dire fragilità e debolezze. Appunto.
    Cordialmente.

  71. Caro Ausilio, grazie mille per il tuo contributo (davvero molto gradito).
    Ne approfitto per ricordare che, oltre a essere scrittore, svolgi anche l’attività di psicosociologo della comunicazione e della devianza.

  72. Voglio farvi sentire la voce di Lia Levi, che racconta di questo sul libro: “La sposa gentile”.
    Da Fahrenheit di Radio RaiTre
    (dove Lia ne parla con Loredana Lipperini).
    Cliccate qui

  73. – La sposa gentile manifesta elementi stilistici e linguistici di grande forza innovativa: le coordinate del racconto corale, la scelta di una scrittura veloce, piena di ritmo e di tensione, la capacità di raccontare un’epoca con accurato nitore evocativo… Possiamo ipotizzare che questo costituisca una qualche svolta nella sua carriera e all’interno della sua scrittura?
    E’ vero che La Sposa Gentile è un romanzo corale, c’è un contesto storico e sociale a fare da sfondo, la narrazione è in terza persona e in più, al contrario di quanto comunemente avviene nella letteratura contemporanea, la vicenda non è angolata dal “punto di vista” di un solo personaggio centrale. I “punti di vista” sono due e forse anche di più. Tutto questo già rende diverso questo libro rispetto ai miei precedenti, e quindi lo stile va di conseguenza. Il problema ora è: il cambiamento di stile è solo un adeguamento reso necessario dalla diversa struttura o la nuova struttura ha dato il via a una svolta, a una rinnovata forma espressiva? Tutto sommato darei una risposta salomonica. Sì, la narrazione oggettiva e più classica ha richiesto degli aggiustamenti dello stile, tenendo per esempio sempre presente il pericolo dell’appesantimento (da qui il ricorso per compensazione a un tono veloce e leggero). Però riflettendoci i miei ingredienti sono sempre gli stessi: l’ironia, la metafora (la mia passione), una certa indulgenza verso le debolezze umane. Tutto sommato posso dire che non c’è stata nessuna vera svolta, ma solo un diverso modo di usare il mio stile che magari, con un’altra futura e diversa trama, potrà ancora prendere altre forme.

  74. La dimensione della vita comunitaria è qui del tutto centrale, imprescindibile. Ci sono riferimenti autobiografici o rimandi alla storia di una famiglia realmente conosciuta, anche se non necessariamente la sua?
    Sì, è vero. La mia è una storia saldamente ancorata alla vita di una famiglia e a quella di un gruppo ebraico di una piccola città piemontese. Bisogna però tenere conto che l’intera vicenda si svolge nei primi decenni del Novecento, quando cioè questi punti di riferimento erano assai più saldi di quanto siano adesso. E lo dico senza naturalmente formulare alcun giudizio di valore. Era meglio? Era peggio? Chissà. Il riferimento a una storia personale di famiglia c’è di sicuro e costituisce proprio lo spunto del libro. Ma come dice un romanziere francese “il romanzo è una storia vera raccontata da un bugiardo”. E così io penso di avere reinventato a modo mio la tormentata vicenda amorosa che ha legato mio nonno (che nel romanzo viene chiamato Amos) e mia nonna (Teresa, nel romanzo e nella realtà).

  75. La vicenda di Amos e Teresa sposa tra le sue pagine quella di un’Italia nuova, rappresentata dall’energico fermento del secolo nascente, e sancita in apertura di romanzo dalle celebrazioni che a tal proposito vengono organizzate per festeggiarlo. Come vivono i personaggi gli effetti che la grande Storia riverbera sulla vita di tutti?
    Il primo giorno del ‘900 era stato salutato da un balletto, il famoso Excelsior. In quel momento si erano accese grandi speranze. Con le nuove entusiasmanti scoperte e invenzioni la Civiltà con la “C” maiuscola sembrava dover progredire a ritmo accelerato. Era questo, che in mezzo alle luci e ai fuochi d’artificio prima a Parigi e poi in tutta Europa, voleva raccontare il balletto Excelsior. I personaggi del mio libro, e segnatamente Amos, il co-protagonista principale, sembrano fermamente convinti che il nuovo secolo avrebbe portato pace e benessere e in questa convinzione si muovono e agiscono, anche all’insegna – per Amos e Teresa – dell’Omnia Vincit Amor, come allora si usava dire. Per gli ebrei di quel tempo c’era poi una valenza in più perché le porte dei ghetti si erano aperte da non molti anni, appena una generazione. I protagonisti del libro erano consapevoli di quello che gli avrebbe riservato dopo la Storia? No, nessuno era in grado comprendere, forse perché dopo tutto la Storia non ha leggi ma solo casualità, e il Fato non ha mai dischiuso la porta dei suoi segreti.

  76. Quella di Teresa è essenzialmente la storia di un’accettazione. La sua scelta di adeguarsi alla religione del marito e vivere i rituali di appartenenza religiosa dell’uomo è davvero commovente. Tuttavia Teresa non si annulla mai per accondiscendere ai valori dell’altro, ma rimane se stessa, meravigliosamente autentica, forte fino alla fine. Ci chiediamo se il romanzo possa essere letto sotto la duplice ottica del “sacrificio d’amore” e della “ribellione”?
    Una accettazione, sì, ma davvero “accettata”, nel senso letterale del termine, mai imposta o subìta. Un accoglimento sereno e consapevole, finalizzato a che “lui sia contento”, come viene più volte sottolineato nel libro. Non una forma di sottomissione, come invece capitava molte volte in quegli anni. Qui è la donna, Teresa, che decide e sceglie, in nome sì di una passione d’amore, ma sempre vissuta all’insegna del vento della libertà. La sposa gentile è una storia d’amore come io volevo che fosse, ma nelle pieghe nascoste anche una manifestazione d’indipendenza, di autonomia. Una indipendenza sui generis forse in anticipo sui tempi, anche se va ricordato che dietro le quinte già si agitavano i primi fermenti del femminismo. Non c’è dunque qui “sacrificio d’amore”, e chi legge avrà modo di accorgersi (forse questo non era neanche nelle mie intenzioni) che è Teresa la figura femminile che via via diventa “dominante”, nel senso di “prima attrice”. “Prima attrice” in più di un senso, come figura centrale ma anche come figura forte e indomita.

  77. Teresa proviene da una famiglia contadina, mentre Amos è di estrazione borghese. Il tema delle differenze religiose che alimentano le pagine del romanzo può pure essere interpretato sulla scorta di una conflittualità legata anche alla dimensione sociale della storia?
    Certamente La sposa gentile ha una dimensione sociale importante. E’ la differenza di condizione sociale tra Amos e Teresa che, insieme a quella religiosa, crea il vuoto intorno alla coppia. I signori marchesi del libro possono passare sopra la condizione ebraica di Amos, ma mai avrebbero potuto fare lo stesso con la loro diversità sociale. (Per fortuna Teresa è apparsa solo come sposa di Amos, e del suo passato non sanno niente). Le convenzioni sociali del libro non sono le stesse di oggi, e oggi non saranno più quelle di domani, ma sempre di convenzioni si tratta: mascherate, ammantate di buonismo e di finta democrazia, quelle odierne (avete letto il libro “La casta”?). Le “diversità” non avranno mai fine, solo cambieranno di volta in volta configurazione.

  78. Come vede Lia Levi i suoi personaggi? Sono degli eroi, delle persone coraggiose, eccezionali, o semplicemente dei forti, che vanno avanti nonostante il biasimo collettivo, lavorando duramente per costruire se stessi e la propria realtà famigliare?
    I due protagonisti hanno semplicemente la “schiena diritta”- Amos non è un superuomo, è un uomo, quello che in yiddish si dice “Mensch” (significa un po’ il vir latino), e Teresa è in un certo senso una donna che anticipa il futuro femminile autentico, più nella sostanza che nella formulazione astratta.

  79. Rispetto ai romanzi precedenti e all’essenzialità del loro linguaggio, avvertiamo ora una maggiore ampiezza della tavolozza linguistica. La lingua asseconda i moti del cuore e ne insegue le ferite, scendeno fin dentro le carni dei personaggi con impareggiabile maestria. Anche le metafore sono di particolare efficacia. Quanta fatica ha richiesto una simile scelta, e da quali esigenze di fondo è stata dettata?
    Come ho detto al principio, cercando di guardarmi dal di fuori mi rendo conto anch’io di avere scelto per La sposa gentile una strada narrativa diversa, un modo di riallacciarmi in certo modo al romanzo “classico” dell’Ottocento in chiave però, spero, moderna. Era il tipo di storia che lo richiedeva. Non so se il risultato mi darà ragione, non spetta a me dirlo, ma la mia è stata una scelta consapevole. La “fatica” invece è stata quella di sempre. E siccome il piacere di scrivere è di molto superiore alla sofferenza del non scrivere, il termine “fatica” viene subito cancellato o semplicemente sommerso da quello di “gioia”. “Maestria, efficacia”? sono grata all’intervistatore per un giudizio tanto lusinghiero… Non sta certo a me confermarlo, e non sono tuttavia così masochista da respingerlo… anzi… Posso solo dire che ho fatto il mio lavoro di artigiana, perché tale mi ritengo, e la mia esigenza assoluta nello scrivere è quella di mettermi al tavolino e, come dico spesso (speriamo che non si tratti di ripetitività legata all’età) cerco di andare più vicino possibile a quello che vorrei dire. Nel caso de La sposa gentile c’era in più, un antico bisogno di rapportarmi al mondo dei miei nonni e bisnonni e alla loro terra piemontese, conquistata nei secoli con grandi sofferenze e fatiche, da cui malgrado la mia “romanità” acquisita, anche io ho preso origine.

  80. Nel titolo l’aggettivo “gentile” fa riferimento sia all’appartenenza religiosa di Teresa, sia alla sua nobiltà d’animo. Nella sua visione personale delle cose e dei sentimenti cos’è la gentilezza? E’ una dote naturale, genetica, oppure acquisita, forgiata dai duri casi del vivere?
    “Gentile” tra gli ebrei sta per “non-ebreo/a”, ed è un termine che deriva da gens, cioè la “gente”, quella che è altra da noi. Ma “gentile” è naturalmente la parola usata nel suo senso corrente ed è una qualità dell’animo a me particolarmente cara, perché intende una tranquilla quantità di valori ed esclude esagerazioni, eccessi ed esasperazioni, è quello di cui vorrei fosse pieno il mondo.

  81. Come si coniuga tale gentilezza con la scelta finale della protagonista di tornare ai propri valori cristiani, imponendosi in qualche modo pure al volere dei figli?
    Teresa non torna ai valori cristiani almeno quanto non era mai del tutto entrata in quelli ebraici. Ha assunto e fatte sue le tradizioni ebraiche non solo perché lui “fosse contento”, certo c’era anche questo, ma per omologarsi al complicato e sofferto mondo del suo uomo, in modo a poterlo amare nella sua interezza e fargli veder crescere una famiglia “ebraica” come lui la desiderava. La sua introiezione dell’ebraismo avviene “laicamente” e non prevede alcuna fede religiosa, così come la riacquisizione di una immagine della Madonna non ha per Teresa significato teologico né ritorno a una fede che non è stata mai davvero profondamente sua. E’ solo un fatto affettivo che la riporta alla sua infanzia. Non c’è dunque tradimento dove non c’è mai stato “arruolamento” o “adesione”.

  82. Il romanzo si snoda fino al 1938, fino all’emanazione delle leggi razziali fasciste. Il finale del romanzo è struggente, giacché s’intuisce la china che prenderanno gli eventi e si soffre insieme ai personaggi della vicenda. Questa atmosfera di pre-Apocalisse mi ha fatto pensare in qualche modo a uno scrittore di eccezionale pregio letterario: Aharon Appelfield. Sono possibili riferimenti tra la sua scrittura e quella dell’altro maestro?
    L’accostamento ad Appelfield mi lusinga e mi riempie di gioia. Ritengo Appelfeld uno dei Grandi, un ispiratore di profonde emozioni. Però non penso che la mia scrittura possa in qualche modo riferirsi alla sua. Credo, certo, che ogni narratore succhi il distillato dei grandi scrittori a cui si è abbeverato e se ne nutra, ma quasi mai nel senso letterale tipo “andare sulle orme di”. Si tratta solo di assorbirne l’emozione per una “messa in moto”, forse la stessa che ti può dare a volte una sinfonia musicale. E’ possibile accostarsi all’immenso Tolstoj o a Shakespeare senza restarne “plagiati” nel profondo? Ecco perché per quanto mi riguarda, mentre sento come miei i grandi della letteratura, sono consapevole del fatto che la loro scrittura non sarà la mia. A volte però devo dire che mi sembra di riconoscermi in qualche autore che mi piace molto, ma forse non me ne rendo conto. Altre volte capita che qualcuno mi dica “Sai, mi sembra che tu scriva un po’ nello stile di X o di Y”. Sarà vero? Sarà casuale? Chissà.

  83. Quali sono stati i suoi riferimenti letterari? Ci sono autori ai quali in qualche modo si è sentita vicina nel meditare il libro?
    E’ un po’quello che dicevo prima. Ci sono ovviamente i Maestri, i grandi russi, francesi dell’Ottocento. Ci sono gli scrittori di alto livello anche del Novecento, compresi inglesi e americani. Da tutti (da tutti quelli che ho letto, è chiaro) ho attinto e messo del materiale emotivo nel mio bagaglio, così come i ragazzi possono attingere da quello che hanno imparato a scuola, a partire dal semplice alfabeto fino a Dante e oltre. Non è quindi per darmi un tono che dico che no, non mi pare di avere direttamente travasato nei miei libri qualche lezione appresa sui banchi delle mie letture (tranne, lo confesso, qualcosa della Mansfield). Ma se qualcuno farà degli accostamenti o altro, sarò ben felice di ascoltarlo. Non mi offenderò davvero, anzi.

  84. Il suo è un romanzo coraggioso, che per taluni versi non teme la reazione del lettore, e procede verso il suo obiettivo narrativo. Tuttavia, è in qualche modo pure un romanzo di denuncia, che mette a nudo contraddizioni e chiusure, che condanna le intolleranze di molti. Ci sono state delle reazioni particolari alla sua uscita?
    La sposa gentile è uscito solo a metà febbraio. Le prime recensioni sono state soddisfacenti, a volte molto soddisfacenti. Le reazioni dei primi lettori che mi hanno telefonato o mandato e-mail sono state positive e molto calorose, ma non credo che possano fare statistica, perché se a qualcuno il libro non è piaciuto non gli sarebbe venuto in mente di scrivermelo o dirmelo. Credo che occorra aspettare un altro po’.

  85. La sposa gentile è uno di quei libri che rimangono, per la sua bellezza, la sua incisività, la sua coerenza intellettuale. Anche nei suoi romanzi precedenti lei ha sempre manifestato una grandissima onestà intellettuale, ritagliandosi margini di libertà assoluta e totale indipendenza di pensiero. Il suo è un libro che rifiuta categoricamente tutte le forme di ideologia, per puntare alle particolarità e alle specificità dei singoli casi individuali. Quanto ritiene che questo sia importante per uno scrittore e per un artista in genere?
    Ha colto nel centro del bersaglio quando dice che il romanzo rifiuta ogni ideologia, perché in realtà sono io che aborro tutte le ideologie, che per la loro struttura sono intolleranti. Penso che chi crede di essere il depositario della Verità, sia politica o religiosa, tende a essere intollerante nei confronti di quanti non credono e cerca d’imporre quella che ritiene essere la verità assoluta e per lui unica e salvifica. Sì, penso che lo scrittore debba essere al di sopra di ogni assoluto. Lo scrittore deve raccontare, non giudicare. La scrittura è porsi dei problemi, è ricerca, mobilita spesso anche contraddizioni.

  86. E’ rientrata di recente da un giro negli Stati Uniti, dove alcuni suoi testi sono stati tradotti. Che cosa ci può raccontare di quell’esperienza?
    Negli Stati Uniti, a Washington e New York dove era appena uscita la traduzione in americano de L’Albergo della Magnolia (The Jewish Husband) ho avuto l’impressione di andare a vendere frigoriferi al Polo Nord. Quanti libri si pubblicano (e si leggono)! Ho però saputo, proprio in questi giorni e con sorpresa, che il libro ha cominciato piuttosto bene, con un numero di copie vendute che qui in Italia consideriamo già un optimum. Ero già stata alcune volte negli Stati Uniti, ma New York l’ho rivista con lo stesso entusiasmo della prima volta (e con l’euro più forte del dollaro… un invito agli acquisti che però non ho fatto).

  87. Oltre alla scrittura per adulti, Lia Levi è nota per una vastissima e apprezzata produzione di testi per l’infanzia. Il mondo della scuola la considera giustamente un riferimento prezioso. Cosa rappresenta quel tipo di scrittura e quanto è stato utile nella sua esperienza di narratrice?
    Amo moltissimo scrivere per bambini e ragazzi e mi piace incontrarli dopo che hanno letto i miei libri. Devo dire che da loro ho ricevuto ondate d’affetto originali e commoventi: questo è il premio di una certa fatica. E poi l’approccio è diverso. Se presenti il tuo libro agli adulti, magari tre o quattro volte in città e in ambienti diversi, appunto perché lo presenti come novità, chi viene a sentirmi quasi sempre non l’ha ancora letto. Invece con i bambini e i ragazzi non è così. I ragazzi vengono da te dopo che hanno letto e magari già discusso il tuo libro. Sei perciò per loro una persona in qualche modo famigliare. Perciò si sentono liberi di chiederti tante cose sul libro, sulla mia persona e sulla mia vita. A volte vorrebbero, che so, un finale diverso e me lo propongono, oppure mi chiedono “e dopo?”. Succede così forse perché quando scrivo per loro io “sono” una di loro, sono una bambina con le bambine, una ragazza con le ragazze. Insomma, sono quasi miei compagni di banco e fra compagni di banco succede che ci si voglia bene.

  88. Ha già in mente un nuovo romanzo? Se sì, è possibile anticipare qualcosa ai nostri lettori?
    E’ troppo presto. La sposa gentile è appena uscito e mi parrebbe di tradire i miei personaggi se cominciassi ora a costruirne altri. Ai propri personaggi ci si affeziona come se fossero veri e non si possono lasciar cadere di colpo. Bisogna far decantare la storia in cui sei stato immerso tanti mesi. Penso che sia così per tutti gli scrittori (sia che amino o che odino le loro creature di carta).

  89. Si prepara un nuovo viaggio in Sicilia (il viaggio si è già concluso, ndr), terra che lei ama particolarmente e alla quale si sente legata da amicizie e affetti personali. Che effetto le fa tornarvi?
    Sì, è vero, io vengo spesso in Sicilia e provo per questa terra qualcosa di più di un amore: mi pare che ci sia tra me e la Sicilia qualcosa come un legame segreto, quasi mi avesse partorito quest’isola. Eppure i miei antenati, arrivati in Italia ai primi del Cinquecento, provengono dalla Spagna, non dalla Sicilia, almeno così mi risulta. So bene che in Sicilia la presenza ebraica prima dell’espulsione dai domini spagnoli era di notevolissima entità, qualitativa e quantitativa. Penso, e molti siciliani lo credono, che moltissimi di loro abbiano qualche goccia di sangue ebraico nelle vene… forse mi sento tra parenti, chissà…

  90. Prima di salutarvi vi ripropongo le domande del post, nel caso in cui qualcuno volesse provare a rispondere (esprimendo la propria opinione in merito ai temi sollevati).

  91. Fino a che punto è possibile scrollarsi di dosso le proprie origini?

    Fino a che punto la propria fede può essere addomesticata per assecondare le esigenze della persona con cui si è deciso di vivere? Ed è giusto farlo? È giusto rinunciare al proprio credo religioso (o metterlo da parte) per uniformarsi a quello dell’amato/a? E compiere tale rinuncia, è più un atto di debolezza o di coraggio?

    E d’altra parte, l’appartenenza a religioni differenti può essere un ostacolo nello sviluppo del rapporto d’amore tra un uomo e una donna?

    E l’eventuale nascita di figli? Che tipo di educazione bisognerebbe assicurare loro in casi del genere? Educazione laica? Educazione religiosa? E se sì, quale? Lasciare che crescano e scelgano da soli? E nel frattempo?

    Quand’è che l’appartenenza a religioni differenti – in situazioni del genere – può essere occasione di crescita, anche collettiva?
    O è solo causa di difficoltà?

    L’appartenenza a “ceti sociali” diversi può essere ancora oggi causa di conflitti nella gestione di un rapporto amoroso? Oppure è un problema del tutto superato?

    Il non sentirsi accettati dalla propria famiglia d’origine, è un “ostacolo” superabile o, viceversa, incide inevitabilmente nella vita di chi subisce tale situazione?

  92. Grazie a Massimo per questa opportunità di confronti che ci fanno crescere.
    Riguardo al tema del libro della Levi, mi chiedo, perchè dovremmo scrollarci di dosso le nostre origini? forse dovremmo scrollarci di dosso il timore di non essere accettati per quello che siamo, a prescindere dalla condizione socio-economica o dal credo religioso e politico.

  93. @Per l’autrice Lia Levi e l’intervistatore Luigi La Rosa, grazie per la pregevole intervista, è illuminata ed appasionante.
    Leggerla è stata un vero godimento per lo spirito e per il cuore.
    Il mondo sarà ancora vivibile e bello, fino a quando esisteranno persone, così tenere e magnifiche. Non posso fare a meno di inviarVi un virtuale
    abbraccio, esteso ai raffinati recensori e al super Massimo.
    Tessy

  94. Davvero interessante questo romanzo…ne avevo sentito parlare proprio tramite Fahrenheit e da allora avevo manifestato la volontà di leggerlo – dopo aver, ovviamente, terminato la mia lettura corrente, che tra l’altro neanche a farlo apposta ha a che fare con il mondo ebreo, perché è “Qualcuno con cui correre” di David Grossman.
    Secondo me è davvero difficile scrollarsi di dosso le proprie origini, e non solo dal punto di vista religioso ma anche strettamente culturale perché, se questi bagagli sono già fortemente radicati nella nostra famiglia, è inevitabile che diventino parte di noi stessi. A dir la verità, per quanto riguarda la religione, noto che nei tempi moderni la situazione è un po’ cambiata, nel senso che spesso si trovano famiglie in cui i genitori non hanno nessuna convinzione religiosa mentre i figli decidono di intraprendere una strada diversa, o viceversa; tante volte si assiste anche a situazioni in cui i genitori hanno praticato una fede religiosa per tanto tempo e poi se ne sono distaccati man mano, mentre i figli hanno proseguito con convinzione.
    In secondo luogo, per quanto si possa amare una persona, se un uomo o una donna credono fortemente in Dio e sono convinti che la persona che hanno incontrato è essa stessa dono di Dio, al di là del suo modo diverso di credere, ebbene secondo me non si può abbandonare la propria fede o “accomodarla” alla situazione. Ad ogni modo, questo dipende sempre dal grado di forza con cui questa fede è presente nella persona in questione. L’appartenenza a religioni diverse può essere un ostacolo se la fede diventa fondamentalismo, se si nasconde la sua capacità di aprirsi agli altri e al mondo…ma mi rendo conto che il discorso non è semplice, e lo stesso dicasi per l’educazione dei figli. Per quanto riguarda questo aspetto in particolare, non mi sento in grado di dare una risposta, dovrei passarci, anche se da cristiana farei comunque in modo di far conoscere la mia fede ai miei figli trasmettendone i valori – nel senso che non la lascerei sepolta, perché è parte di me nonostante tutti i miei difetti e limiti – ma senza imporla mai. Credo comunque che il dialogo fra diverse religioni, anche nella famiglia, possa essere occasione di crescita e confronto, proprio perché è fondamento della religione l’apertura all’altro.
    Penso che nel nostro mondo occidentale l’appartenenza a ceti diversi sia un fattore in via di superamento, anche se mi rendo conto – e lo dico dal basso della mia ignoranza – che in alcune religioni è un punto che è ancora una sua rilevanza.
    Il non sentirsi accettati dalla propria famiglia o – aggiungo io – il fatto che la nostra famiglia non accetti alcune nostre decisioni, può essere un ostacolo più o meno superabile: dipende da come non si è accettati. Se la mancata accettazione dà luogo a dissidi controllabili, che non scalfiscono comunque il bene di fondo che un genitore nutre per il proprio figlio, con il tempo si può trovare un accordo più o meno pacifico; se essa sfocia in qualcosa di più violento – come in molti casi di cronaca di cui siamo purtropoo testimoni – è fonte di grande sofferenza. Ma, ripeto, qualunque risvolto violento è secondo me solo segno di fondamentalismo, non di una fede vera.

  95. E’ il primo maggio, festa “del” e “dal” lavoro, festa delle idee e festa del colore delle parole…
    E allora provo a colorare le sapienti domande a cui siamo invitati, con una mia personale insipiente risposta che, vorrei tanto arricchire con le vs, cari amici.
    Provo allora ad esaminare la seconda domanda: “Fino a che punto la propria fede”….(vi invito a leggerla per esteso)
    Se “addomesticare” la propria fede significa ” addolcirla” e/o ” adattarla” alle esigenze della persona con cui si è deciso di vivere, non lo ritengo giusto. Se, invece, “addomesticare” significa “creare dei legami” come spiegò la volpe al “Piccolo principe” nel capitolo XXI dell’omonima favola, allora non diventa necessario rinunciare al proprio credo religioso e non occorre, nemmeno, nessun atto di debolezza o di coraggio per continuare a professarla: la propria scelta religiosa (diversa da quella del proprio compagno nel viaggio della vita) semplicemente, si “vive” fianco a fianco, creando legami che, proprio grazie alla diversità della propria fede, concorrono a sviluppare quel rapporto d’amore che oso definire”unico” come “unica” resta la ns fede!!!La mia esperienza di vita, l’incontro con coppie di fedi religiose diverse, mi hanno insegnato che è possibile ( non intendo facile) continuare a “credere” dentro e insieme ad una delle tante “diversità” che attraversano questi ns tempi Ho imparato ad accogliere altre diversità partendo dalla mia famiglia e dal valore fondante della mia/ns vita. Auguri e… sana crescita nelle diversità!!!

  96. Sì, caro Massi, Lia Levi, Luciano, Luigi e altri amici sono stati anche miei graditissimi ospiti.
    Abbiamo condiviso una bellissima giornata e, come sempre, mi è dispiaciuto il momento dei saluti…Spero di riabbracciare tutti presto…
    Ciao amici, carissimi! Ciao Lia…amica gentile.

  97. Cara Simo, sono certo che la giornata siracusana sia stata splendida. Peraltro chi ti conosce sa bene che i tuoi pranzi sono eccelsi, come le tue doti narrative. ;-))

  98. @ Sara
    Grazie per il tuo intervento.
    Metto in evidenza questo passaggio: L’appartenenza a religioni diverse può essere un ostacolo se la fede diventa fondamentalismo, se si nasconde la sua capacità di aprirsi agli altri e al mondo…

  99. Ringrazio anche Gianna Graziella Paiardi.
    Grazie per il bel commento, Gianna. Scrivi: La mia esperienza di vita, l’incontro con coppie di fedi religiose diverse, mi hanno insegnato che è possibile (non intendo facile) continuare a “credere” dentro e insieme ad una delle tante “diversità” che attraversano questi nostri tempi.

  100. Gli impasti amorosi di Teresa
    di Maria Lucia Riccioli

    Ci ha abituati alle sue storie, ai personaggi in punta di penna, Lia Levi. Con la sua scrittura lieve e intelligente, mai sentimentale pur intrisa di riflessione profonda e di sentimenti autentici, ha narrato storie per bambini e per adulti che conservino intatta la voglia di stupirsi, di lasciarsi incantare dai suoi personaggi.
    Con “La sposa gentile” Lia Levi ci regala forse la sua figura femminile più poetica, Teresa. Teresa che è devozione assoluta, amore mai solo detto ma fatto carne, tenerezza e passione intessute anche di silenzi, di attese, di frittelle che impasta per amalgamare gli ingredienti semplici eppure così difficili da trattare che sono le emozioni e i sentimenti di chi la circonda.
    In una Torino giolittiana che si entusiasma per il cinquantenario dell’Unità d’Italia e l’Esposizione universale, in una Saluzzo provinciale ma aperta al soffio della modernità, fra gli effluvi dei campi e le vetrine di una gioielleria, ville e giardini, sinagoghe e salotti, nasce e cresce l’amore tra il banchiere ebreo Amos Segre e lei, la gojà, la gentile di religione e di cuore, Teresa. Cristiana che per non strappare le radici familiari e culturali dell’uomo che ama vuole condividerne tutto, anche la religione.
    La lingua che Lia Levi sceglie per raccontarci questa storia – sapientemente dipanata lungo un arco temporale che ci conduce alle soglie della Grande Guerra, fino a prefigurare l’orrore, oh fosse per sempre lontano, delle leggi razziali – si eleva a punte di luminosa poesia per consegnarci il ritratto di questa donna terrosa e angelica insieme, che ci ricorda l’amata del Cantico dei Cantici.
    Sapientemente tratteggiati anche i personaggi del factotum di Amos, il Siulìn, portatore di una saggezza da “Jacques il fatalista” di diderotiana memoria, di Margherita, idillio di un Amos vinto dalla passione per Teresa eppure divorato dal rimorso, della composita famiglia Segre – dal patriarca ancor fresco di ghetto ai rampolli proiettati verso le magnifiche sorti e progressive dell’Italia sabauda – , dei comprimari tutti.
    Un libro “gentile” come la sposa del titolo, un romanzo pieno di grazia e verità, un impasto riuscito come le frittelle pasquali di Teresa.
    http://www.marialuciariccioli.splinder.com/

  101. @Beatissime e troppo brave donzelle narranti Simona e Maria Lucia, quando leggo delle Vostre gesta, nell’assolata Trinacria, mi prende il magone.. Perché, perché sono esiliata a vita in Toscana?
    A parte gli scherzi, sono orgogliosa per la gioia che mi date leggendo i
    vostri gradevolissimi scritti. Tuttavia, con amorevole insistenza Vi ricordo
    le Beatitudini:- Visitare gli infermi… non saprò offrirvi ” le frittelle pasquali di Teresa”, potreste forse accontentarvi di un vassoio di ricciarelli e copate ?
    Si, lo capisco la M. Teresa senese, non è ” un impasto riuscito” bene…
    Ma il valore della diversità dove la mettiamo?
    Con Massi ” Il padrone del vapore” Vi abbraccio.
    Tessy

  102. a- Fino a che punto è possibile scrollarsi di dosso le proprie origini?
    rispondo con un’altra domanda. perché bisognerebbe scrollarsi di dosso le proprie origini? secono me non solo non è possibile, ma non è nemmeno giusto. sarebbe un pò come rinnegare se stessi.

  103. b- Fino a che punto la propria fede può essere addomesticata per assecondare le esigenze della persona con cui si è deciso di vivere? Ed è giusto farlo? È giusto rinunciare al proprio credo religioso (o metterlo da parte) per uniformarsi a quello dell’amato/a? E compiere tale rinuncia, è più un atto di debolezza o di coraggio?
    dipende dalle prospettive e dai punti di vista. secondo me la fede non va addomesticata, semmai è chi esercita il controllo religioso che tenta di addomesticarla a proprio vantaggio. dunque il coraggio vero si mette in pratica andando contro certi tentatvi di addomesticamento e di controllo delle vite attraverso le religioni.

  104. il caso specifico però è diverso. mi pare che la protagonista doni tutta se stessa all’amato, per una sorta di bene comune. questa è un’eccezione che potrebbe considerarsi come scelta coraggiosa.

  105. c- E d’altra parte, l’appartenenza a religioni differenti può essere un ostacolo nello sviluppo del rapporto d’amore tra un uomo e una donna?
    dire di no non risponderebbe alla realtà.

  106. d- E l’eventuale nascita di figli? Che tipo di educazione bisognerebbe assicurare loro in casi del genere? Educazione laica? Educazione religiosa? E se sì, quale? Lasciare che crescano e scelgano da soli? E nel frattempo?
    in casi del genere credo sia meglio impartire una educazione laica e lasciare che da grandi scelgano da soli la propria strada.

  107. e- Quand’è che l’appartenenza a religioni differenti – in situazioni del genere – può essere occasione di crescita, anche collettiva?
    O è solo causa di difficoltà?
    diventa occasioni di crescita quando si evita di imporre il proprio credo agli altri e si accetta il credo degli altri senza imporselo.

  108. f- L’appartenenza a “ceti sociali” diversi può essere ancora oggi causa di conflitti nella gestione di un rapporto amoroso? Oppure è un problema del tutto superato?
    finché esisteranno ceti sociali diversi, ovvero anche gente smisuratamente più ricca di altra, questi problemi continueranno a manifestarsi

  109. g- Il non sentirsi accettati dalla propria famiglia d’origine, è un “ostacolo” superabile o, viceversa, incide inevitabilmente nella vita di chi subisce tale situazione?

    direi la seconda, senza dubbio.

  110. Ero indeciso se iniziare dalla lettura del libro di Lia Levi o di tutti i commenti su questo blog. Ho deciso di fare entrambe le cose. 🙂 Vi farò sapere.

  111. Sempre una gioia ospitare Lia Levi in Sicilia, regione che è legata a doppio filo con la sua storia personale e di scrittrice, come ci ha rivelato lei stessa durante l’incontro che si è tenuto nella mia scuola giorno 30 aprile.
    I ragazzi, attenti e coinvolti, anche grazie al lavoro di preparazione svolto dai miei colleghi (ricordo la professoressa Guarino, responsabile del progetto, le mie colleghe Di Carlo, Genovese…), hanno ascoltato con attenzione devo dire esemplare – e non è scontato, ve lo assicuro! – le parole di Lia, rivolgendole molte domande sulla “Trilogia della memoria” e sul nuovo romanzo. E non solo: le hanno chiesto anche delle traversie subite durante la seconda guerra mondiale e si sono incuriositi a proposito di quella che potremmo chiamare “l’officina dello scrittore”: tecniche, strategie, ispirazione e lavoro di lima…
    La professoressa Mangano ha preparato il coro della scuola che ha eseguito due canti sefarditi, molto apprezzati da Lia. Il suono di un flauto e le corde di una chitarra li hanno resi più suggestivi. Da ricordare anche la performance di Marcello Dell’Utri, un attore che ha letto alcuni brani tratti dalle opere di Lia.
    Spero davvero che questo progetto – il primo che ospita la mia scuola – faccia da apripista per nuovi incontri con altri autori.
    Io sono veramente felice che la mia amica Lia sia stata nostra ospite e la ringrazio di vero cuore… vorrei che questo incontro fosse solo il primo di una lunga serie!

  112. @ Maria Lucia
    Grazie per il resoconto della giornata a scuola, da te. So che è Lia è ripartita dalla Sicilia con il cuore ricolmo della bellezza di questi incontri.

  113. La cultura dell’integrazione e il piacere della lettura
    Lia Levi incontra gli studenti del Liceo Polivalente “Quintiliano” di Siracusa

    Aderiamo ad una forte convergenza di intenti che orienta differenti progetti culturali verso i giovani, mirando a favorire in loro lo sviluppo di una matura coscienza civile che ne faccia degli adulti sereni, responsabili e integrati nel mondo multietnico che abiteranno: “Un solo mondo” ( l’ambizioso progetto di Claudio Baglioni sviluppato in collaborazione con l’Osservatorio Permanente Giovani – Editori, volto a sensibilizzare i giovani di tutte le scuole sul tema dell’integrazione) somiglia in modo impressionante a “La città dell’uomo”, il sogno che Vittorini ci lasciò da realizzare, l’antica utopia, quella città dove non c’è posto per l’umanità offesa… ove la gente è contenta… ha belle strade e belle piazze in cui passeggiare… ha belle case per tornarvi la sera… qui ciascuno dev’essere come un re o un barone… con niente che sia costretto a fare, o non fare, per paura… E proprio a Siracusa, nella città di Vittorini, la scrittrice Lia Levi ha scelto di incontrare un gruppo di giovani alunni degli istituti superiori “Quintiliano” e “Insolera” offrendo loro la testimonianza diretta di chi subì sulla propria pelle l’oltraggio della discriminazione razzista, che ancor più sfuggì ad ogni comprensione logica, e apparve indecifrabile, agli occhi di una bambina ebrea. Anzi, come la Levi intenzionalmente sottolinea col titolo di un suo romanzo, “Una bambina e basta” perché i bambini sono tutti uguali, ogni figlio nasce uguale, pur nella diversità dei contesti che ne accolgono il suo venire alla luce. Ieri, come oggi, il tempo non ha saputo ancora cancellare l’antica vergogna di alzare muri e fili spinati, frantumando l’umanità in compartimenti stagni.
    – Non dobbiamo avere paura delle differenze, la differenza è la vera ricchezza reciproca, è scambio, movimento, vita, è l’unica alternativa valida che ci salvi dal pericolo di trasformarci in massa – Così ha detto Lia Levi ai giovani siracusani che hanno partecipato numerosi e attenti all’incontro organizzato dalla professoressa Donata Guarino, responsabile del Liceo Polivalente “Quintiliano” di: Progetto Biblioteca – Invito alla lettura, realizzato nell’ambito del progetto ministeriale Amico Libro e con la collaborazione della libreria Cavallotto di Catania.
    Il Dirigente Scolastico del “Quintiliano” prof. Carmelo Cappuccio, moderatore dell’incontro, ha esortato i giovani a coltivare, attraverso l’uso intelligente della lettura, la capacità di riflettere su se stessi per costruire i grandi valori che li orientano le scelte della vita. La scuola deve farsi strumento di educazione all’integrazione. La cultura del rispetto dell’altro passa anche attraverso iniziative che uniscono il mondo della scuola alle altre realtà come l’editoria e i mezzi di comunicazione.
    -Leggere, leggere tutto ciò che piace, anche se l’autore forse non sarà mai un premio Nobel – è intervenuta Luisa Cavallotto – è bello scoprire che si può leggere per piacere, e non solo per dovere scolastico. Leggere aiuta a formarsi una coscienza autonoma e indipendente –
    La prof. Donata Guarino, presentando brevemente la scrittrice ai giovani, ne ha evidenziato lo stile narrativo assai agile che fa dei numerosi romanzi, nonostante la gravosità dei temi trattati, degli strumenti fortemente vivaci di trasmissione e conservazione del patrimonio della memoria.
    Accompagnato dalle note del Coro del Liceo Polivalente “Quintiliano”, diretto dalla prof. Maria Teresa Mangano, l’attore Michele DellUtri ha interpretato con toccante intensità alcune pagine scelte, tratte dai romanzi della Levi, dalle quali emergono in tutta la loro drammaticità i temi di una quotidianità vissuta all’ombra delle persecuzioni razziali: emozioni, passioni, litigi, amori. Si assiste al trasformarsi dei sentimenti che si adattano alla nuova circostanza, come se subire la discriminazione, scappare, doversi nascondere, fossero la normalità. Si respira l’atmosfera di sopraffazione che ogni essere umano prova, in simili frangenti. La paura dell’altro è un retaggio ancestrale che ci portiamo dentro con l’istinto di sopravvivenza, è generata dall’egoismo e cresce coltivata nel buio dell’ignoranza.
    Dunque l’integrazione deve passare necessariamente attraverso la scuola, attraverso momenti come questo, che si moltiplichino, diventando la “priorità” e il contenuto trasversale di tutte le materie scolastiche. Ancora oggi la nostra scuola non racconta le “storie”, le “geografie”, le “filosofie”, le “religioni”, le “arti”, le “musiche”, le “scienze”, del nuovo mondo che ci sta correndo incontro come una valanga silenziosa che sale dal sud povero del mondo inseguendo il miraggio del nord opulento e globalizzato. Perché con le culture si superano le paure, benché spesso ci arrocchiamo a difesa strenua della nostra cultura, come se fosse l’unica universalmente valida, e ignoriamo volontariamente, con la nostra disinformazione e la nostra indifferenza, l’esistenza della cultura degli altri. In nome del pregiudizio che ci fa ritenere i migliori perché siamo i più antichi, i migliori perché siamo i più forti, i migliori perché siamo i più tolleranti. Come se il tollerare non fosse già una forma di discriminazione!
    -Non mi piace la parola tollerare, la abolirei perché sottintende una diseguaglianza di fondo, preferisco parlare di interazione fra pari – con queste parole della scrittrice si è chiuso l’incontro e con l’auspicio che i nostri giovani sappiano attuare l’esperienza di camminare gli uni accanto agli altri per le vie di un solo mondo. Perché se questo sogno di speranza è vivo nelle parole dei poeti (e dei cantanti) allora si realizzerà, perché – come profetizza Lia Levi: “I poeti dicono sempre la verità”.

    http://www.laziadilampedusa.it

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