Luglio 27, 2024

209 thoughts on “RECENSIONI INCROCIATE n. 11: Paolo Cacciolati, Achille Maccapani

  1. Sono felice di poter ospiatre, in questa nuova puntata delle “recensioni incrociate” di Letteratitudine, due ospiti molto graditi… gli scrittori: Paolo Cacciolati e Achille Maccapani.

  2. Torniamo alle recensioni incrociate…
    I libri oggetto delle recensioni sono: “Digestione del personale” di Paolo Cacciolati (Tea) e “Confessioni di un evirato cantore” di Achille Maccapani (Frilli).

  3. Come ho già evidenziato sul post, il romanzo di Maccapani è ambientato nella Venezia del 1791 (il protagonista della storia è Luigi Marchesi, primo sopranista del Teatro alla Scala: un cantore… evirato), mentre quello di Cacciolati è ambientato ai nostri giorni (il protagonista, Mirco Michichi, è il consulente aziendale perfetto: quello che ha le conoscenze e gli agganci giusti, quello che ti fa avere i fondi per i corsi di formazione, quello che usa tutte le paroline magiche (missione vision, competitorse challenge).

  4. Riprendo questi due “passaggi” delle recensioni incrociate.
    1. Cacciolati sul romanzo di Maccapani, scrive: “La narrazione ha un ritmo veloce, attacca con Luigi Marchesi che nel pieno di un incontro amoroso deve fuggire dai sicari e commette un omicidio. Poi il risveglio notturno e la consapevolezza dell’amaro che gli ha lasciato quel sogno: una vita trascorsa a rincorrere obiettivi fatui. Così matura la decisione di parlare con Padre Francesco, un giovane prete di campagna ai confini tra il Naviglio e l’Adda. Instaurerà con lui un fitto dialogo, attraverso vari incontri. E’ lo stratagemma che permette al protagonista, e a noi con lui, di ripercorrere tutte le tappe della sua vita a dir poco movimentata”.

    2. Maccapani sul libro di Cacciolati, scrive: “Ciò che emerge da tutto il romanzo è una visione tremendamente cruda, realistica, quasi rispondente ad un’esperienza vissuta fino alle viscere dall’autore, dove tutti i personaggi, con le loro piccole e grandi meschinità, rivelano dentro di sé una profonda solitudine e una desolazione senza limiti, nonostante l’immagine di facciata, il modo lavorativo di presentarsi sempre perfetto, l’autocontrollo sempre pronto, la forza d’animo che non viene mai meno, nonostante tutti i brainstorming, i tagli e i licenziamenti in arrivo, dipendenti in teoria sulle teorie di valutazione formativa, ma in realtà suggeriti dal commenda di turno”.

  5. Rileggendo questi “passaggi” mi è venuto in mente che un altro possibile “tratto” in comune tra i due libri potrebbe essere il seguente: entrambi i protagonisti, a un certo punto, si “ritrovano” davanti a se stessi… a fare i conti con il proprio disagio, con la necessità di ritrovare il senso dell’esistenza, con i buchi neri delle proprie contraddizioni.

  6. Quali sono le differenze fondamentali tra un uomo che ha vissuto alla fine del 1700 e un uomo che vive agli albori del terzo millennio? (Mi riferisco a uomini vissuti, comunque, nell’Occidente).

  7. E poi, naturalmente, avremo modo di discutere in generale dei due libri approfittando della presenza degli autori.

    Prima, però, leggete le due recensioni incrociate…

  8. Un’ultima cosa…
    In coda al dibattito, esaurita la discussione sui due libri oggetto delle recensioni incrociate, avremo modo di approfondire la conoscenza del nuovo romanzo di Achille Maccapani: “Bacchetta in levare” (edito da Marco Valerio editore).

  9. Buonasera a tutti.
    Ho appena finito di leggere l’introduzione di Massimo, e mi fa piacere rilevare che un certo tipo di percorso è stato tracciato. Poiché tuttavia auspico anch’io (come pure, credo, anche Paolo) un dibattito con i lettori, mi farà piacere riscontrare nelle prossime ore gli spunti e le eventuali “provocazioni” e svilupparle, anche per condividere insieme, più che le risposte, le rispettive visioni interpretative.
    Ringrazio Massimo, Letteratitudine, Paolo e tutti voi che interverrete nel corso della giornata. A presto.

  10. Caro Massimo
    Il mio commento non riguarda la questione proposta ma vorrei dire che trovo sorprendente la tua (ti do del “tu”, va bene?) capacità di aprire dibattiti, di suggerire argomenti interessanti per farci riflettere. Ringrazio Simona Lo Iacono che mi ha prentato il tuo blog. L’ho già proposto come utile e necessario a vari amici, alcuni dei quali ti hanno scritto e già ricevono Letterattitudine.
    Come vedi, è solo un ringraziamento al tuo sforzo costante e alla tua capacità di rinnovarti sempre in svariati soggetti che riguardano la letteratura..
    Un abbraccio,
    Christiana

  11. premetto che ho trovato entrambi i libri interessanti e condivido la considerazione espressa da christiana de caldas brito.

  12. Vi segnalo questa mia recensione del libro di Cacciolati.
    http://www.kultunderground.org/articoli.asp?art=1551

    Inutile dire che mi è piaciuto (lo dico come lettore).
    Ho anche avuto modo di conoscere Paolo durante una presentazione al Circolo Letture Corsare di Borgaro T.se. Mi è sembrato un personaggio interessante. Ok, questo commento non ha valenza letteraria, però l’aspetto umano non è da sottovalutare.

  13. proverò a rispondere alle domande di massimo, ma prima ne pongo una ai due autori, che poi è più una curiosità che mi viene ogni volta che mi accingo a leggere un libro. la domanda è : perché avete deciso di scrivere proprio questa storia in un dato momento della vostra vita ?
    lo so che può sembrare una domanda banale, ma sarei curioso di conoscere la risposta.

  14. Una provocazione per i due autori incrociati: qual è il più grande pregio e il più grande difetto del libro che avete recensito in questo post? Parto ovviamente dal presupposto che tutti i libri, anche i più grandi, abbiano pregi e difetti.

  15. Provo a spiegare a Giacomo, per sommi capi, lo stimolo che mi ha spinto a scrivere questo romanzo. I documenti storici di partenza erano depositati presso gli archivi dell’ospedale Marchesi e della parrocchia di Inzago. In realtà, essi si riferivano alla fase finale della vita del protagonista. Mi mancava tutto il resto. Come se non bastasse, l’archivio personale di Marchesi era stato distrutto, per esplicita disposizione testamentaria. Per fortuna, esistevano le cronache giornalistiche dell’epoca. Quel poco che si è salvato dalle autocensure dell’epistolario di Maria Cosway (presso il fondo a lei intitolato, a Lodi, non esiste nemmeno una lettera a Marchesi). E soprattutto le ricerche storiografiche, in buona parte svolte da me, quando avevo 23-24 anni (dovevo ancora laurearmi), e successivamente da altri studiosi come Emanuele Pagano e Carol Burnell.
    Avevo inconsciamente in testa l’idea di “questo” romanzo da oltre vent’anni, ma le traversie della vita lavorativa (laurea, servizio militare, i vari cambi nella vita lavorativa) mi hanno portato a rinviare questo appuntamento fino al 2006, quando mi sono reso conto che forse l’occasione per me era giunta: cioè quando sapevo di contare su una vita lavorativa e familiare stabile.

  16. grazie per la risposta, Achille. trovo quello che dici molto interessante. ma se non avessi potuto contare su una vita lavorativa e familiare stabile, questo libro non sarebbe mai nato?
    questo tema potrebbe pure essere interessante : le condizioni minime perché una storia possa nascere, rispetto alla situazione personale dell’autore.

  17. seguo il blog da un paio di settimane e mi sorprende la velocità degli scambi.
    entrambi i libri proposti mi incuriosiscono, per motivi diversi.
    in punta di piedi , con molta timidezza, rivolgo una domandina ai due scrittori.

  18. x Achille Maccapani.
    entrambi i suoi romanzi, quello recensito da Paolo Cacciolati e quello segnalato da Massimo Maugeri, hanno a che fare con la musica. E’ un caso? Quanto è importante la musica nella sua vita?

  19. x Paolo Cacciolati
    il suo libro riguarda il mondo del lavoro oggi. Se ho capito bene il punto di vista è quello di un manager di successo. A cosa si è ispirato per scrivere questa storia? Si è documentato, o che altro?

  20. a Giacomo: tranne che in pochissimi casi di mia conoscenza, chi scrive fa anche altro nella vita, nel senso che l’attività lavorativa è prevalente; per quanto riguarda il romanzo, sono arrivato a scriverlo, anche dopo un lungo cammino fatto di letture varie (saggistica, romanzi storici) e di ascolti di opere liriche dell’epoca in cui cantò Marchesi (i relativi cd sono stati pubblicati solo negli ultimi dieci anni).
    a Luisa: è vero, la musica occupa una parte fondamentale nella mia vita, ascolto tantissima musica, anche quando scrivo, e inconsciamente sento l’influenza della musica anche nella struttura narrativa; per tanti anni, non mi sono reso conto del perchè ascoltavo in continuazione il “Don Giovanni” di Mozart, poi ho scoperto che c’era un collegamento diretto con la vita travagliata di Luigi Marchesi, proveniente anche da alcune citazioni della relazione del viceparroco del 1832.
    Pure “Bacchetta in levare” è influenzato dalla musica, ma in un modo diverso, più contemporaneo.
    Circa l’attualità delle vicende narrate nell’Evirato, in effetti ci sono molti punti in comune tra il passato e il presente, soprattutto se penso agli approcci rivolti verso il potere (la storia si sviluppa dalla fine del regno di Maria Teresa d’Austria fino al periodo post-Congresso di Vienna, con in mezzo le invasioni napoleoniche, e dunque i cambi di volta dell’opinione pubblica meneghina), quasi come se non fosse cambiato nulla tra la fine del ‘700 e i giorni nostri.
    E’ vero che in passato si faticava molto di più, c’erano le carrozze e le navi, si viaggiava con gran dispendio di mezzi, ma i cantanti lirici all’epoca erano retribuiti in misura fortemente superiore rispetto ad oggi. Questo perchè i teatri erano gestiti privatamente in forma di concessione, e i cachet ai primi attori erano pure finanziati dai proventi dei giochi nei ridotti.
    Quanto all’esigenza di cercare dentro se stessi per recuperare la dimensione ideale, quello è un problema da sempre attuale, e che pur cambiando la visuale, rimane sempre vivo e forte. Già leggendo il resoconto di don Francesco Zoja del 1832 emergeva il dramma interiore con una potenza quasi narrativa, e non ho fatto altro che raccordarlo col resto della vita di Marchesi.
    Sui vantaggi e gli svantaggi tra l’uomo ricco di fine ‘700 e l’uomo di oggi, non riuscirei a risolvere il dilemma in poche righe: è vero che il servizio postale funzionava con efficienza, e che l’illuminazione notturna iniziava ad affermarsi, i giornali erano puntuali e pungenti già all’epoca, come pure le recensioni operistiche, forse c’era meno omologazione…

  21. lo so che la maggior parte degli scrittori fanno altro nella vita. chissà quante storie non sono mai nate proprio per questo motivo. ma pazienza……

  22. rispondo alle domande.

    Quali sono le differenze fondamentali tra un uomo che ha vissuto alla fine del 1700 e un uomo che vive agli albori del terzo millennio?
    – per rispondere con accortezza dovrei conoscere meglio le abitudini dell’uomo del 1700. in generale, secondo me, una delle differenze fondamentali è che l’uomo del terzo millennio vive con l’ansia sempre addosso, come se il tempo non bastasse mai. credo nel 1700 la vita fosse più lenta.

  23. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi dell’uomo che vive in quegli anni, rispetto ai vantaggi e svantaggi dell’ uomo di oggi?
    – i vantaggi derivamo dalla tecnologia. è più facile spostarsi e comunicare. gli svantaggi forse derivano proprio dall’eccesso degli spostamenti e della comunicazione

  24. L’esigenza di affermarsi a tutti costi, di sopravvivere a sé e al mondo, è davvero cresciuta – oggi – rispetto ad allora? E fino a che punto?
    – forse questa esigenza è rimasta immutata

  25. E quella di ritrovare se stessi, il senso delle cose e della propria esistenza… fino a che punto è cambiata?
    – idem come sopra

  26. Post interessante, come sempre. Mi è piaciuto l’approccio introduttivo e il modo con cui i due libri e i due protagonisti sono stati messi in relazione. Continuerò a seguivi, poi magari intervengo.

  27. Io trovo interessantissimi entrambi i testi. E credo che tu abbia ragione Massi, il punto in comune ai due libri è il viaggio in se stessi, quel guardarsi allo specchio che sempre precede la scoperta della verità su di noi, sul nostro puntare ad altro da sè.
    Sotto questo profilo la differenza di epoca sfalda, perde senso.
    Infatti, dopo, e in genere al declinare lento della vita, quando ci si è distesa alle spalle una buona porzione di tempo, di cuore, di giorni, guardarsi indietro è come ricominciare. Reinterpretare. Chiedersi non solo perchè, ma anche quando.
    Complimenti a entrambi.
    Vi seguo tutti con moltissimo piacere.

  28. @Achille Maccapani:
    non so se lo sa, carissimo Achille, ma la “confessione” è il “mezzo istruttorio” che meglio sintetizza i rapporti tra letteratura e diritto, tra processo e romanzo.
    Infatti chi confessa cerca o, comunque, rivela la verità.
    E’ una sua verità, ma è anche ricordo.
    Anche il romanzo è ricerca della verità (sia pure una verità parziale, o anche sogettiva)…e anche il romanzo si pone come memoriale quando ripercorre il filo del tempo.
    Queste suggestioni legate alle dinamiche processuali, servono a volte al letterato per interrogarsi sui mezzi espressivi che usa…
    E così, è nata una poetica della Law and literature…in seno alla quale credo che il suo romanzo si porrebbe bene, proprio perchè la confessione è il “ponte” tra la concezione umana e quella giuridica della realtà.
    Infiniti auguri per la sua appassionata ricerca.

  29. intrigante l’intreccio proposto tra i due libri. per i miei gusti sarei più interessato a leggere quello di Cacciolati, anche se la recensione del libro di Maccapani è ugualmente coinvolgente.
    se posso, parteciperò in manier più attiva stasera o domani. saluti.
    r. maletto

  30. @ Paolo Cacciolati:
    Anche il suo romanzo, carissimo Paolo, opera con un mecanismo “giuridico”.
    “Cominciare dalla fine” è l’inizio di ogni indagine processuale. Poi, il processo costringe a tornare indietro, a giustificare i passi inermedi, a rileggere la realtà alla luce dell’esito finale.
    Ma quando un teste o un imputato è seduto sulle scranne il primo atto è sempre l’ultimo.
    Bravissimo davvero. Trovo l’inversione temporale molto suggestiva.
    Come vi dicevo….vi seguo tutti.
    Un abbraccio

  31. Anzitutto un caro saluto a Simona, che viene (come me) da tutt’altro mondo, quello del diritto e degli uffici pubblici (nel mio caso, comunali; nel suo, giudiziari), ma con la quale trovo una straordinaria comunanza di intenti, dovuta proprio alla forte passione per le letture e le scritture.
    Il fatto di soffermarsi sullo sguardo rivolto al proprio passato rappresenta una dimensione di se stessi che non sempre emerge, ma che in effetti è il leitmotiv dei due romanzi. Così, mentre Marco Michichi, in quella notte febbrile, di fronte ad un cadavere fresco di omicidio rievoca con ritmo implacabile il proprio passato, e le tappe di questo percorso infernale, Luigi Marchesi ripensa al suo intenso vissuto (e per nulla lento, come si potrebbe pensare della vita di fine ‘700) con tutti gli intrecci, le trame, le congiure, i problemi dovuti alla lotta per restare a galla, in un mondo sociale implacabile, privo di scrupoli, dove si fa in fretta a voltare pagina nei confronti di chi non sta al passo.
    Forse qui può emergere un tratto comune tra i due percorsi narrativi: l’esigenza di capire cosa possa servire e valere la pena per vivere. Ma credo che, a questo punto, serva l’intervento di Paolo Cacciolati in questa “singolar tenzone”.

  32. sempre per Simona: l’espediente delle confessioni deriva proprio dai documenti storici, dai quali ho tratto l’origine per lo sviluppo di questo romanzo. L’idea di partire dalla “quasi fine” non è proprio un debito proveniente da “Carlito’s way” di De Palma, ma si ricollega per certi versi dal richiamo del tema dell’ingresso del Commendatore, ripreso pari pari nell’Ouverture con cui si apre il “Don Giovanni” di Mozart. Un po’ strano l’accostamento, lo so, ma a furia di immagazzinare letture, visioni e ascolti… questi sono i risultati.

  33. Carissimo Achille,
    e sì…sento che chi proviene da mondi apparentemente estranei alla letteratura (uffici amministrativi, giudiziari…), scandagli l’universo dei libri con passione e amore particolare, con istinto da esploratore di destini e con indecente gusto di libertà!
    Forse proprio perchè il nostro mondo vive nel labirinto di corridoi, burocrazia, intrichi di carte, la scrittura assurge all’unica felicità possibile…quella da concedersi come, appunto, un approdo di pienezza.
    Grazie quindi delle sue care e affettuose parole.
    Quanto alla confessione credo che sia, davvero, il genere letterario più in sintonia con l’idea di “ricerca della verità” che ho della letteratura.
    La confessione, infatti, in diritto, è “l’ammissione di fatti sfavorevoli a se’ e favorevoli alla controparte”.
    E cioè: la confessione è sempre “contra se”.
    Per questo è uno degli strumenti cui il giudice offre (a certe condizioni) presunzione di attendibilità.
    La confessione è quindi uno strumento giuridico “umile”, cioè ammissivo di una colpa. Non cerca giustificazione.
    Credo che proprio il suo essere a servizio della verità ne faccia uno strumento letterario davvero forte e commovente. Umile come sempre deve essere l’arte quando trasforma l’esperienza umana.
    Bellissimo quindi che questa suggestione abbia illuminato la sua opera…che essa poi provenga dalla musica, rende addirittura tutto ancor più pieno.
    Diritto, letteratura, musica….
    La vita, carisimo Achille. Nient’altro che la vita.
    Un carissimo abbraccio

  34. Eccomi.
    Buona sera a tutti,
    anzi, no, buona sera a tutti lo dice il protagonista del mio libro, io invece dico ciao a tutti! e in primis un caro saluto al nostro ospite e ad Achille, mio compagno di gita in questo bellissimo sito.

    Quando Massimo mi ha proposto facciamo la recensione incrociata con il libro di Achille ho detto certo che sì ma avevo il dubbio su quale trovata avrebbe escogitato per collegare due romanzi così apparentemente distanti.
    Bene, ancora una volta Massimo mi stupisce, per la sua capacità di trovare nessi e individuare gli snodi centrali dei testi. I temi che propone puntano alla carne viva dei nostri libri, credo che pure Achille ne convenga.
    Spero che suscitino l’interesse dei visitatori, perchè c’è da immergerne le braccia fino alle ascelle!
    Intanto mi dedico a rispondere ai primi quesiti che pongono i commentatori
    Ma

  35. prima di tutto concedetemi di salutare Andrea Borla, che mi ha introdotto nella presentazione al Circolo Letture Corsare di Borgaro T.se. Oh, è stata una serata memorabile, per un attimo mi è parso di tornare a certe ambientazioni dei film degli anni ’70 (viste solo nei film io ero piccolo allora), dove c’erano questi circoli animati da volonterosi che avevano voglia di discutere di tutto, società, cultura, libri, politica, i manifesti politici alle pareti, mancava solo un eskimo appeso all’attaccapanni, serata bellissima, e lunga vita al Circolo Letture Corsare!

  36. A Giacomo Tessani che chiede:
    perché avete deciso di scrivere proprio questa storia in un dato momento della vostra vita ?
    rispondo no, non ho deciso nulla e soprattutto non in un dato momento della mia vita,
    ovvero, ho sempre scritto storielle, storie e poi racconti asincroni rispetto alla mia esperienza personale, c’era un periodo che ero felice e io scrivevo di cose tristissime o viceversa, da ragazzino costruivo storie con personaggi adulti, da adulto ho preso a tornare all’infanzia, e soprattutto ho sempre cercato di evitare di parlare del mondo del lavoro, che la fa un pochino da protagonista nel mio libro, solo che con il tempo dev’essersi intasato un qualche filtro, ci sono questi residui di esperienza derivanti dalla mia vita attività professionale (lavoro nel magico mondo delle aziende private) che devono essere traboccati e han finito per invadere le paginette dei miei quadernetti fino a prendere la foma di qualcosa tipo un romanzo…
    sono stato abbastanza confuso?

  37. A Renato che provoca:
    qual è il più grande pregio e il più grande difetto del libro che avete recensito in questo post?
    rispondo a mia volta provocando che Achille a parte tutto il resto mi sembra che scriva molto bene le scene di sesso però dovrebbe un po’ più lasciarsi andare, mentre il più grande pregio è che lui riesce a scrivere in modo entusiasta delle cose che conosce bene, io invece le cose che conosco bene mi fanno la nausea

  38. Faccio un intervento a salve. Nel senso che non avendo letto i due romanzi non saprei cosa dire. Gli spunti di riflessione offerti dalle recensioni mi sembrano interessanti. Massimo, come sempre, ha la capacità di trovare un filo conduttore anche tra due testi così distanti tra loro, o forse solo apparentemente distanti tra loro. Una dote davvero non comune, da grande giornalista e da persona straordinaria (Max, sai bene che sono sincero, non ho bisogno di farti sviolinate). Molto centrati anche i momenti di riflessione offerti da Simona, anche se io sono allergico alle confessioni, ancor di meno dinanzi a un giudice ( se poi è un giudice femmina peggio che andar di notte). Auguri di cuore a Paolo Cacciolati e ad Achille Maccapani, sperando che Letteratitudine vi porti fortuna.

  39. Paolo, descrivere “quei” particolari momenti, in un contesto storico diverso da quello attuale, non era affatto semplice. Ne ho discusso per mesi e mesi con l’editore, che mi ha incoraggiato non poco nel voler comprendere come e in che modo affrontare quel lato della vita dell’epoca.
    Allora, mentre la fase giovanile, quella dell’iniziazione, della scoperta di “quel” lato poteva prestarsi, come pure anche le avventure peccaminose degli anni giovanili, ad uno stile un po’ allegro, lieve, ma che facesse capire al lettore senza la dovuta esagerazione, la fase più difficile si è rivelata quella della relazione tra Luigi Marchesi e Maria Cosway. E per più di un motivo:
    1) anzitutto perchè si trattava di due persone vere, reali, fondatori di opere pie in età anziana, e per così dire “divinizzati” laicamente, ma non troppo, per effetto delle rispettive Fondazioni operanti a Inzago e a Lodi (ancora adesso, a Lodi venerano la Cosway quasi come una santa…);
    2) inoltre perchè le ricerche storiche compiute non avevano permesso di ricostruire totalmente cosa diavolo era avvenuto nel dettaglio durante il periodo della loro convivenza; in compenso, molti dettagli, provenienti da piccole citazioni nelle lettere della Cosway, da articoli di giornale, documenti vari, permettevano di reperire qua e là indizi di vario genere;
    3) e poi c’era da considerare la diversità degli approcci (maschile e femminile), di fronte a questa relazione scandalosa, coraggiosa e assolutamente rivoluzionaria per l’epoca (ma l’avete mai vista una donna inglese, sposata con un ricco pittore, sia pure per convenienza, mollare il marito e la figlia piccolissima, prendere la nave e raggiungere l’amato Marchesi a Venezia, dopo oltre un anno dal loro ultimo incontro, culmine di una corte spietata mai consumatasi, ma sviluppatasi sotto gli occhi dei newspaper britannici? E ricordo che siamo in piena Rivoluzione francese…); ecco la ragione della scelta dei diversi io narranti, proprio per dimostrare come la realtà si possa leggere in base a più angolazioni, e non solo quella dell’io narrante o della più accomodante terza persona, ma cercando di comprendere le ragioni delle scelte future, di quelle dell’età anziana, di quelle decisive per dare un significato alla propria esistenza.
    Tutto questo per far capire come non ci si possa ridurre a raccontare il passato sempre con l’ottica del presente, ma ci si debba invece soffermare sulle atmosfere, sulle tensioni, sui modi di vivere dell’epoca. In questo senso, per me è stata illuminante (anche ai fini della stesura del romanzo) l’analisi di una parte rilevante dell’epistolario di Ugo Foscolo: mi riferisco alle lettere a Antonietta Fagnani Arese (che, non a caso, figura nel romanzo), raccolte nello splendido volume a cura di Giovanni Pacchiano “Lacrime d’amore” (Guanda 2008) http://www.ibs.it/code/9788860884015/foscolo-ugo/lacrime-amore-lettere.html.

  40. Prima di ringraziarvi personalmente (come faccio di solito), consentitemi di dare il benvenuto (da protagonisti… perché i due “recensori incrociati” erano già intervenuti altre volte su Letteratitudine) a Paolo Cacciolati e Achille Maccapani.
    Benvenuti, amici!

  41. @ Renato
    Interessante la tua provocazione. Paolo l’ha raccolta… invito Achille a fare lo stesso sul libro di Paolo.
    Dài, Achille (si scherza un po’)… tanto siamo tra amici… 😉

  42. Carissimo Dottor Maugeri, mi associo alle osservazioni e ai complimenti…davvero difficile trovare spunti per le sue interessantissime discussioni! Ci vuole il talento e la fantasia di un indomito narratore.
    D’altra pare lei è soprattutto un ottimo scrittore (ho letto il suo bellissimo “Identità distorte”).
    Vorrei chiedere ai due autori intervenuti se l’esperienza dell’incrocio delle recensioni ha stimolato in loro una nuova visione della lettura dei testi.
    Io trovo che l’esempio di condivisione offerto da “recensioni incrociate” sia davvero raro, Dottor Maugeri.
    In un mondo dove tutto è individualismo, accattivarsi uno specchio, riflettersi i esso come se si fosse soli al mondo…ecco, credo che specchiarsi nell’altro sia il vero segreto dell’arte.
    Grazie a tutti e una serena notte ai cari autori.
    Il suo affezionato
    Professor Emilio

  43. @ Simona
    Cara Simo, hai scritto una cosa importante in cui – come sai – credo molto anch’io: “la “confessione” è il “mezzo istruttorio” che meglio sintetizza i rapporti tra letteratura e diritto, tra processo e romanzo”.
    E poi, più in basso…
    “La confessione è quindi uno strumento giuridico “umile”, cioè ammissivo di una colpa. Non cerca giustificazione.
    Credo che proprio il suo essere a servizio della verità ne faccia uno strumento letterario davvero forte e commovente. Umile come sempre deve essere l’arte quando trasforma l’esperienza umana”.

    Perfettamente d’accordo!

  44. a Renato: sul più grande pregio e sul più grande difetto del romanzo di Paolo, m’era sembrato di averlo detto nella recensione. Comunque, sintetizzo: il pregio maggiore è il fatto di essere riuscito a creare lo scenario di un hinterland torinese molto contemporaneo, crudo, vicino alla realtà odierna del nord Italia, e rende molto di più rispetto a tanti articoli di giornale (ah, come mi mancano i veri reportage come si facevano una volta: ormai al loro posto, visto che i giornali si fanno al desk, con email, jpg in attachment, impaginazioni fatte su schermo dai redattori col Mac, contano solo i lanci delle agenzie). Il difetto? Avrei voluto trovare un barlume di speranza. Il finale, crudo, tranciante, non lascia alcun cenno di speranza, fa intendere quello che accadrà a Michichi, ma non permette di comprendere se Michichi esce trasformato da questo ascensore disceso all’impazzata. E’ questo il dubbio cocente che m’è rimasto…

  45. Gentile professor Emilio, ci siamo incrociati…
    La ringrazio moltissimo per i suoi complimenti (anche se riesce a mettermi sempre in imbarazzo).:-)
    Questo blog (ovvero open-blog) nasce come “luogo d’incontro”… dunque ha la “condivisione” nel suo Dna.
    Grazie mille per aver letto “Identità distorte”.

  46. Grazie, Achille. È vero. In effetti ti eri già espresso nella tua recensione.

    A proposito (lo chiedo a entrambi: Paolo e Achille): vi siete ritrovati nelle recensioni dell’altro?

  47. @ Paolo
    Achille scrive (sul tuo libro): “Avrei voluto trovare un barlume di speranza. Il finale, crudo, tranciante, non lascia alcun cenno di speranza…”
    Perché hai scelto un finale così… “crudo, tranciante”?
    E – viceversa – un finale più aperto alla speranza, avrebbe comunque reso “credibile” il romanzo?

  48. Massimo, grazie ancora per il benvenuto e per l’ospitalità.
    Vedo che Achille è già caldo come un boiler, aspetto anch’io la sua contro-provocazione..;-)))
    Intanto proseguo a rispondere alle prime domande dei commentatori…

  49. Scherzi a parte… mi piacerebbe che si continuasse a discutere dei due libri e dei temi proposti nella discussione.
    Vi invito a porre altre domande a Paolo e ad Achille.

    Prima di chiudere vi ri-propongo le domande del post (per chi volesse cimentarsi nelle risposte).

  50. Quali sono le differenze fondamentali tra un uomo che ha vissuto alla fine del 1700 e un uomo che vive agli albori del terzo millennio? (Mi riferisco a uomini vissuti, comunque, nell’Occidente).

    Quali sono i vantaggi e gli svantaggi dell’uomo che vive in quegli anni, rispetto ai vantaggi e svantaggi dell’ uomo di oggi?

    L’esigenza di affermarsi a tutti costi, di sopravvivere a sé e al mondo, è davvero cresciuta – oggi – rispetto ad allora? E fino a che punto?

    E quella di ritrovare se stessi, il senso delle cose e della propria esistenza… fino a che punto è cambiata?

  51. Un boiler? Mi sento carico di energia, Massimo!!!
    A parte gli scherzi, è bello ragionare sui romanzi propri e altrui, dopo averli letti, riletti, valutati, ripensati, rielaborati mentalmente, shakerati nella propria zucca, per poi… esprimere queste valutazioni, per nulla preconfezionate, ma che derivano, più che dalla pancia, da ciò che proviamo nel ripensare a quelle pagine piene di vita, azione, colpi di scena. E’ il bello della diretta… pardon, della narrativa!

  52. ah, pardon,
    non ho fatto a tempo a leggere il commento di Achille delle 10:45, a cui si associa Massimo, a proposito della mancanza di un “barlume di speranza” e del
    “perchè hai scelto un finale così crudo, tranciante”?
    Dunque.
    Da un punto di vista “tecnico”, Massimo mi offre un assist invitante, suggerendo come un finale più aperto alla speranza sarebbe distonico rispetto al resto del romanzo.
    Allora confesso che, fin dalla prima redazione del romanzo, le uniche parti che avevo in mente come “sicure” erano proprio l’inizio e il finale. Sapevo che il romanzo doveva aprirsi e chiudersi in quel modo. Naturalmente tutto quello che sta in mezzo l’avrò cambiato centinaia di volte.
    Però, visto che ci sarà qualche visitatore che non avrà letto il romanzo, non verrei insistere più che tanto sul finale, visto che in molti hanno fatto notare che c’è una sorpresina…
    Quanto alla speranza, coraggio, qualcuno ha detto che è consolatorio leggere scrittori pessimisti…;-)))

  53. Tornando alle domande dei commentatori, Luisa Centovalli mi chiede:
    “A cosa si è ispirato per scrivere questa storia? Si è documentato, o che altro?”

    Che altro, senza dubbio.

  54. No, scherzi a parte, non sono proprio in grado di documentarmi, non nell’accezione comune del termine, che intende metodo e rigore.
    In realtà c’è una documentazione naturale che ha fornito la base delle storie che si intrecciano nel romanzo, ed è quella moltitudine di incontri, colloqui, dialoghi, parole che ho assorbito in una ventina d’anni di lavoro in settori dove la comunicazione ha un ruolo preponderante e dove occorre continuamente ritarare il messaggio e il linguaggio a seconda dell’interlocutore e dell’obiettivo scelto.
    Ecco, Luisa, ti ho anche dato un’idea di come potrebbe parlare, in certe occasioni, Mirco Michichi, il protagonista del mio romanzo…

  55. Naturalmente, Luisa, non c’è solo Mirco Michichi, nel romanzo, e neppure Mirco Michichi usa sempre quel linguaggio, ci sono anche un mare di altri personaggi, ognun con il suo linguaggio, che in alcuni casi, guarda caso, assomiglia al linguaggio, anzi ai linguaggi, che sento ogni giorno. Anche questo è fonte d’ispirazione.
    Come un mio collega modenese, che per descrivere una situazione complicata mi disse che era come un bastone da pollaio.
    Come non riportare questa frase nel romanzo?

  56. Paolo, sei fortissimo! E’ vero, non è detto che il finale consolatorio sia sempre necessario. Ma bastano anche alcuni cenni, un barlume, qualcosa… non dico tanto. A me è parso di rilevare il buio oltre la frase finale a pag. 232. “Spiegherò tutto.”, conclude Michichi. Ma ci riuscirà? Gli crederanno? Sarà sufficientemente credibile a capire che quel finale preannunciato non è proprio come il lettore se lo è immaginato dalle prime pagine, e dovrà coinvolgere il magistrato di turno (ah, Simona!), ammesso che abbia voglia di ascoltarlo, tanto il suo capo d’imputazione bello e buono se lo è già costruito nella sua zucca…
    Ma scusami se ho divagato, è bello immaginare il seguito di un romanzo che ti ha trascinato senza un attimo di respiro.

    Venendo alle recensioni incrociate, sì… mi sono riconosciuto nella recensione di Paolo, se non altro, perchè ha individuato la mia passionaccia, anche dovuta al fatto che il paese in cui si sviluppa la cornice del romanzo, Inzago, lo conosco bene, ci ho vissuto per 20 anni, e ho respirato le tipiche atmosfere parrocchiali preconciliari rimaste inalterate da decenni, forse da secoli, e che vivevano gli ultimi tempi, di fronte ad una modernità ormai sempre più alle porte. Proprio a Inzago ho imparato ad amare la musica classica (sinfonica, sacra, da camera), ad ascoltarne a piene mani, anche e soprattutto quando scrivo.

  57. Sai, Achille, Mirco Michichi confida nel fatto che statisticamente la gran parte dei delitti, anche degli omicidi, restano impuniti, e quelli puniti spesso lo sono perchè c’è un reo confesso…eh eh eh…

    Oh, Fabrizio, grazie per il tuo intervento!

  58. Quanto alla tua “comunanza d’intenti” con la dottoressa Simona Lo Iacono, caro Achille, non ti allargare troppo, che c’ho anch’io la comunanza,
    a parte che c’ho anch’io la comunanza giuridica, laurea in giurisprudenza e pratica ahimè assidua di diritto del lavoro,
    a parte che c’ho anch’io la comunanza della scrittura eccetera eccetera,
    ma io in più c’ho pure una mezza comunanza di sicilianitudine, visto che ho sposato una ragazza di origine (vabbeh, i genitori) siciliana, con tutto quello che ne consegue.
    Caro Achille, fanno tre a due per me. E palla al centro.

  59. Rispondo in ultimo ad Emilio, che chiede:
    “se l’esperienza dell’incrocio delle recensioni ha stimolato in loro una nuova visione della lettura dei testi.”
    Sì, questo è verissimo. Condivido la necessità di specchiarsi nell’altro, anche se, al di la dei miei buoni propositi, confesso di avere un lato egoista-individualista difficile da contenere.
    Infatti, come accennavo nella recensione, uno dei motivi che più mi ha sollecitato alla lettura del libro di Achille è che ho anch’io la passione per la storia e prima o poi vorrei cimentarmi con il romanzo storico, ma rabbrividisco al solo pensiero della mole di lavoro preparatorio, a cui Achille si è attenuto così rigorosamente (e appassionatamente).

  60. Un’altra discussione stimolante, come sempre.
    Complimenti ed auguri ai due autori. Vi seguo anch’io e cercherò di saperne di più sui vostri libri cercandoli in libreria.
    Rispondo alle domande.

  61. a) Quali sono le differenze fondamentali tra un uomo che ha vissuto alla fine del 1700 e un uomo che vive agli albori del terzo millennio? (Mi riferisco a uomini vissuti, comunque, nell’Occidente).
    – Io credo che l’uomo in quanto tale, alla fine, rimanga sempre uguale a se stesso. Certo la società cambia, anche e soprattutto sotto gli influssi delle innovazioni tecnologiche, come ha già fatto osservare qualcuno.
    Le differenze principali forse riguardano proprio gli stili di vita, mutati insieme ai mutamenti dei contesti sociali.

  62. b) Quali sono i vantaggi e gli svantaggi dell’uomo che vive in quegli anni, rispetto ai vantaggi e svantaggi dell’ uomo di oggi?
    Oggi si vive più a lungo, la medicina ha fatto passi da gigante.
    Lo svantaggio principale è che spesso oggi andiamo così di corsa che rischiamo di non assaporare a dovere le “cose”, la vita per come si offre.

  63. c) L’esigenza di affermarsi a tutti costi, di sopravvivere a sé e al mondo, è davvero cresciuta – oggi – rispetto ad allora? E fino a che punto?
    – No, secondo me è rimasta proprio uguale. Anzi, oggi va un po’ meglio. Ci sono meno guerre, c’è più rispetto e maggiore coscienza del rispetto della vita umana e della sua salvaguardia.
    Siete d’accordo?

  64. d) E quella di ritrovare se stessi, il senso delle cose e della propria esistenza… fino a che punto è cambiata?
    – Non è cambiato molto. Credo che dalla notte dei tempi e fino alla fine dell’universo l’uomo sarà sempre impegnato a ritrovare se stesso e il senso della propria vita. Fortunato chi ci riesce, visto che l’arco dell’esistenza è breve.
    Saluti a tutti.

  65. intervengo anch’io sulle domande.
    nemmeno per me alla fine è cambito molto in questi duecento anni e oltre. l’uomo è sempre lì, pronto a emergere, a tentare di prevalere sugli altri, per poi fare i conti con la sconfitta o comunque con una vita che merita di essere riveduta e corretta, se si è in tempo per farlo.
    se ho capito bene è così anche per i protagonisti dei libri.

  66. Ei fu. Siccome immobile,
    dato il mortal sospiro,
    stette la spoglia immemore
    orba di tanto spiro,
    così percossa, attonita
    la terra al nunzio sta,
    .
    muta pensando all’ultima
    ora dell’uom fatale;
    né sa quando una simile
    orma di pie’ mortale
    la sua cruenta polvere
    a calpestar verrà.
    .
    Lui folgorante in solio
    vide il mio genio e tacque;
    quando, con vece assidua,
    cadde, risorse e giacque,
    di mille voci al sònito
    mista la sua non ha:
    .
    vergin di servo encomio
    e di codardo oltraggio,
    sorge or commosso al sùbito
    sparir di tanto raggio;
    e scioglie all’urna un cantico
    che forse non morrà.
    .
    Dall’Alpi alle Piramidi,
    dal Manzanarre al Reno,
    di quel securo il fulmine
    tenea dietro al baleno;
    scoppiò da Scilla al Tanai,
    dall’uno all’altro mar.
    .
    Fu vera gloria? Ai posteri
    l’ardua sentenza: nui
    chiniam la fronte al Massimo
    Fattor, che volle in lui
    del creator suo spirito
    più vasta orma stampar.
    .
    La procellosa e trepida
    gioia d’un gran disegno,
    l’ansia d’un cor che indocile
    serve, pensando al regno;
    e il giunge, e tiene un premio
    ch’era follia sperar;
    .
    tutto ei provò: la gloria
    maggior dopo il periglio,
    la fuga e la vittoria,
    la reggia e il tristo esiglio;
    due volte nella polvere,
    due volte sull’altar.
    .
    Ei si nomò: due secoli,
    l’un contro l’altro armato,
    sommessi a lui si volsero,
    come aspettando il fato;
    ei fe’ silenzio, ed arbitro
    s’assise in mezzo a lor.
    .
    E sparve, e i dì nell’ozio
    chiuse in sì breve sponda,
    segno d’immensa invidia
    e di pietà profonda,
    d’inestinguibil odio
    e d’indomato amor.
    .
    Come sul capo al naufrago
    l’onda s’avvolve e pesa,
    l’onda su cui del misero,
    alta pur dianzi e tesa,
    scorrea la vista a scernere
    prode remote invan;
    .
    tal su quell’alma il cumulo
    delle memorie scese.
    Oh quante volte ai posteri
    narrar se stesso imprese,
    e sull’eterne pagine
    cadde la stanca man!
    .
    Oh quante volte, al tacito
    morir d’un giorno inerte,
    chinati i rai fulminei,
    le braccia al sen conserte,
    stette, e dei dì che furono
    l’assalse il sovvenir!
    .
    E ripensò le mobili
    tende, e i percossi valli,
    e il lampo de’ manipoli,
    e l’onda dei cavalli,
    e il concitato imperio
    e il celere ubbidir.
    .
    Ahi! forse a tanto strazio
    cadde lo spirto anelo,
    e disperò; ma valida
    venne una man dal cielo,
    e in più spirabil aere
    pietosa il trasportò;
    .
    e l’avvïò, pei floridi
    sentier della speranza,
    ai campi eterni, al premio
    che i desideri avanza,
    dov’è silenzio e tenebre
    la gloria che passò.
    .
    Bella Immortal! benefica
    Fede ai trïonfi avvezza!
    Scrivi ancor questo, allegrati;
    ché più superba altezza
    al disonor del Gòlgota
    giammai non si chinò.
    .
    Tu dalle stanche ceneri
    sperdi ogni ria parola:
    il Dio che atterra e suscita,
    che affanna e che consola,
    sulla deserta coltrice
    accanto a lui posò.

  67. Ringrazio Filippo per aver introdotto la figura di Napoleone Bonaparte, un personaggio che incombe sul percorso di Luigi Marchesi, e con il quale si scontrerà per la scelta coraggiosa di dire no, di rifiutarsi di cantare per l’invasore, con uno scatto di orgoglio che gli costò caro. Fu esiliato nella villa di Inzago e non poté prendere parte, per parecchi anni, alle stagioni del Teatro alla Scala, trovandosi così costretto a rivolgersi presso altre città, tra cui Genova, dove conobbe un giovanissimo Niccolò Paganini. E proprio in quegli anni, scattò qualcosa di ulteriore, e cioè lo stacco tra il suo teatro d’opera e quello “nuovo” che stava emergendo, quello delle opere di Mozart e Haydn. Quando infine tornò a Milano, perdonato da Bonaparte Re d’Italia, e cantò per lui alla Scala, non era più un giovanotto, e dopo una stagione fu messo da parte dall’impresario, forse anche perchè il suo ritorno serviva pure per fini politici, per consolidare il vero ritorno al potere di Napoleone (giunto ai compromessi con la Chiesa e la Massoneria, pur di indossare la corona) che poi, nell’intento di conquistare la Russia, delegò le sue funzioni al proprio cognato di primo letto, Eugenio Beauharnais.
    Su tale periodo (Milano sotto le dominazioni di Bonaparte, inframezzate dal governo provvisorio austriaco di Cocastelli), sono stati illuminanti i saggi storici di Marta Boneschi e, soprattutto, del prof. Emanuele Pagano.

  68. grazie per le risposte 🙂
    cercherò di partecipare alle discussioni quando mi sarà possibile

  69. Non ho letto i romanzi dei due autori, però, posso dire che sul tema della necessità di fare chiarezza nella nostra vita, la scrittua non è stata avara sull’argomento, suscitando molteplici dibattiti.
    Credo che la differenza fondamentale tra un uomo del passato e un uomo della nostra epoca sia soprattutto culturale e di innovazione tecnologica, che porta l’essere umano ad essere organizzato e attento a non farsi estromettere dall’evoluzione. Il fatto di affermarsi a tutti i costi, è la naturale conseguenza. Speculare sulla nostra esistenza al giorno d’oggi è diventato un lusso non un bisogno.

  70. Paolo, siamo a tre pari: mia moglie è nata a Sanremo, da padre ventimigliese e madre misto ligure/emilia/molise, mentre io sono nato a Rho da genitori ferraresi (tutti sotto il confine del Po). E poichè, come dicono nella mia ex-regione “Dal Po in giù son tocc terun”, eccoti il gol al 90′ del “Principe” che fissa il risultato sul 3-3.
    Scherzo, naturalmente!

  71. complimenti ai due autori, da quel che ho potuto vedere si tratta di due libri molto interessanti.

  72. mi piacerebbe porre domande, ma non avendo letto i libri come si fa?
    allora chiedo ad Achille ed a Paolo qualcosa sui loro gusti letterari. Che tipo di letture prediligete? Quali sono i vostri libri preferiti?
    anche questo è forse un modo per conoscervi meglio.

  73. Carissimi autori,
    vi seguo davvero con rinnovato interesse, ora che avete anche dato informazioni sulla vostra vita! In effetti questo blog ha il pregio di renderci gli scrittori vicini, mescolati – come noi – nelle sorprese dell’esistenza . Nello stupefacente fluire delle cose.
    Mi piacerebbe quindi sapere in che modo la vostra vita è stata trasformata dall’arte. Se cioè questi romanzi vi hanno aiutato nella quotidianità (per esempio, nel caso del Dott. Cacciolati , se lo ha aiutato a vivere nel contesto lavorativo con maggiore facilità, o , nel caso del Dott. Maccapani se il tuffo nel passato lo abbia invogliato ad amare maggiormente il presente).
    Insomma…credo che l’arte sublimi e trasfiguri la vita.
    In che modo la vivete voi?
    Grazie per questa meravigliosa occasione di confronto e un caro saluto al dottor Maugeri dal sempre affezionatissimo e suo
    Professor Emilio

  74. E’ una bella coincidenza l’anniversario della morte del Bonaparte con la discussione del libro di Achille.
    Bonaparte (e il bonapartismo), oltre a intervenire come personaggio nel romanzo di Achille, mi pare giochi un ruolo determinate lungo tutto l’intreccio, quasi come convitato di pietra.
    Ho accennato nella mia recensione al fatto che il libro di Achille è come un’istantanea degli ambienti di corte e nobiliari prima dell’arrivo di quello che ho chiamato “lo tsunami della borghesia”.
    Uno tsunami anticipato dalla c.d. rivoluzione napoleonica, che, nel bene e nel male, ha posto le basi in Europa per il tramonto dell’egemonia delle classi aristocratiche.
    Scopro un po’ l’acqua calda a dire che questo è il principale “merito” storico di un personaggio come Napoleone, che peraltro non ho mai sopportato.
    E, visto che Achille è un valente giurisprudente, mi limito a ricordare la grande importanza dell’innesto del codice napoleonico su un tessuto fatto di statuti arretrati e non più al passo con le mutate esigenze sociali ed economiche.
    Non a caso durante l’esilio a Sant’Elena, Napoleone sottolineò più volte che la sua opera più importante, quella che sarebbe passata alla storia più delle centinaia di battaglie vinte, sarebbe stata il suo codice civile…

  75. Dai commenti in arrivo vedo che le 4 domande poste da Massimo stanno sviluppando delle belle piantine.
    Io ci sto ancora pensando su, e mi chiedo quale sia l’approccio migliore per collegarle ai nostri due libri in recensione.
    Da un lato vedo questa singolare accoppiata Luigi Marchesi-Mirco Michichi, un acclamato cantore di inizio ottocento e uno stimato consulente dei giorni nostri, due personaggi così distanti e diversi anche nelle “soluzioni di vita” adottate.
    D’altro canto però le domande di Massimo mi pongono degli stimoli che vanno molto al di là della questione dei libri e del rapporto uomo-letteratura oggi come due secoli fa.
    Penso che si debba fare anche attenzione a che classe sociale andiamo a comparare, quando parliamo di “un uomo che ha vissuto alla fine del 1700 e un uomo che vive agli albori del terzo millennio…”
    Non voglio fare un discorso classista, ma quando parliamo di uomo della fine ‘700 pensiamo a uno dei tanti (il 99% o giù di lì) che faticava a sopravvivere o a uno dei pochi privilegiati?
    E indubbio che da allora il mondo si è molto ristretto, mentre si è fortunatamente allargata la base di chi vive come uomo e non come bestia.
    Ma sto divagando. Intanto continuo a riflettere su quei quattro quesiti.
    E a breve rispondo alle nuove domande nei commenti.

  76. A Laura che chiede:
    “Che tipo di letture prediligete? Quali sono i vostri libri preferiti?”
    Ti confesso che in questo momento sto leggendo quasi esclusivamente narrativa per infanzia. Sono padre di un bimbo di quasi due anni, in casa abbiamo preso l’abitudine di leggergli delle favolette, storielle da ogni parte del mondo e i librini di una bellissima iniziativa che si chiama Nati per leggere, intanto ho riscoperto le fiabe anche per esigenze di scrittura, ho appena partecipato a un progetto editoriale collettivo che prevede la redazione di una fiaba per ogni regione d’Italia, ma a parte questo progetto mi piacerebbe scrivere una raccolta di fiabe per mio figlio, ovviamente per quando avrà qualche anno in più, solo che mi sto rendendo conto di quanto sia difficile scrivere per l’infanzia!

  77. Ma credo che la mia risposta sia del tutto insufficiente rispetto a quello che chiede Laura. E, chiaro, non posso annoverare tra i miei libri preferiti una raccolta di favole!
    Sono comunque in difficoltà a rispondere alla domanda, perchè io sono essenzialmente un lettore casuale. Mi lascio spesso trasportare dal caso, nella scelta di un libro, e proprio non posso dire di avere un genere di letture prediletto, nè di preferire i classici ai contemporanei, o gli italiani agli stranieri.
    C’è però una cosa che tendo a fare, che è interessante riportare qui, ed è collegata alla scrittura.
    Dopo che ho terminato di scrivere un racconto o meglio ancora un romanzo, ma solo dopo che ho terminato veramente, mi viene la curiosità di cercare i libri degli autori che hanno scritto qualcosa di simile al mio lavoro.
    Così, dopo aver terminato Digestione del personale, mi è venuta la curiosità di leggere altre opere sul mondo del lavoro, preferibilmente di autori italiani,
    La cosa curiosa è che in questo settore ho prediletto libri scritti parecchio tempo fa, innanzi tutto La vita agra, di Bianciardi (anche se non è un libro sul lavoro tout court), e poi un vero capolavoro dimenticato che è Il padrone, di Goffredo Parise.

  78. Carissimi Paolo e Achille…credo che, alla fine, abbiamo tutti in comune lo stesso amore per la parola, per i viaggi nell’anima e nelle isole, lo stesso sfiancante desiderio di farci cambiare dalla fantasia…
    Da quello che leggo, poi, caro Paolo, abbiamo in comune anche l’amore per i bimbi e per le loro letture. Io ho sempre parlato a mio figlio attraverso le storie e credo non esista modo migliore per dire a un bambino quanto lo amiamo che dedicargli il tempo di un racconto, lo spazio di una voce che cambia e viaggia con lui, lo sguardo rapito e commosso sul suo.
    Scrivere per i bambini è difficilissimo perchè hanno una logica ferrea, un senso della giustizia perfetto e un lancinante senso della verità….
    Ma credo che tornando bambini si possa provare… 🙂
    Un carissimo abbraccio a entrambi e a Massimo (che so narratore di magnifiche favole per le sue bimbe) una buona notte stellata.

  79. Carissimi,
    ultimamente fatico molto a leggere, anche perchè da pochi mesi (tre) sono papà di una bimba vispa dai capelli neri e occhi azzurri, mentre mio figlio, che frequenta la seconda elementare, sta finendo “Cipì” di Mario Lodi e dovrebbe cominciare “Il piccolo principe”. Tra lavoro, poppate, addormentature, è ormai dalla fine di gennaio che mi trovo nella cosiddetta “sindrome Colombati”, tipica degli scrittori-freschipapà che, giustamente, non possono lasciare le mogli da sole a fronteggiare con i biberon, il latte, i pannolini, e così via. Sono comunque riuscito a finire di leggere “Colonia Alpina Ferranti Aporti Nava” di Marino Magliani (Senzapatria editore), “Bocca di rosa” di Roberto Negro (Frilli) e “Corpi estranei” di Paola Ronco (PerdisaPop), mentre ho pronti per essere affrontati “Acciaio” di Silvia Avallone e “Lacrime di coccodrillo” di Valeria Corciolani (quest’ultimo, per la verità, già iniziato: ma sono solo a pag. 49).
    Per la verità, ogni tanto mio figlio mi chiede se scriverò un romanzo che abbia per protagonista un bambino che gioca a calcio: gli ho detto che non vorrei fare una copia dei romanzi della squadra delle Cipolline, tanto per intenderci (che non ha mai letto, ma che conosce bene, perchè li sfoglia quando lo porto nella libreria Mondadori della mia città e lui, tranquillo, raggiunge la sezione per i ragazzi che conosce da quando aveva 3-4 anni, ora ne ha 8). Per il futuro…

  80. Se devo segnalare un libro di riferimento, decisivo per la scelta di mettermi a scrivere, cito comunque “Nel nome di Ishmael” di Giuseppe Genna. Posseggo praticamente tutte le edizioni italiane Mondadori del romanzo (Omnibus 1° edizione – trovata a prezzo scontatissimo in un autogrill a Varazze -, Giallo Mondadori – trovato scontato all’edicola della stazione FS di Ventimiglia – e Oscar).
    Ma ci sono tanti altri libri che mi hanno lasciato un segno. Cito, alla rinfusa: tutto Biamonti, la prima trilogia di Bacci Pagano di Bruno Morchio, “Chiedi alla polvere” di John Fante, “Dietro il tuo silenzio” di Laura Facchi, “Per queste strade allegre e feroci risorgerò” di Ferruccio Parazzoli, “Il cerchio muto” di Gianfranco Nerozzi, “Quattro giorni per non morire” di Marino Magliani (per me, il suo capolavoro), “Doctor Faustus” di Thomas Mann (nonostante la traduzione tradisca i suoi anni), “Le variazioni Reinach” di Filippo Tuena, il “Dies Irae” e “Medium” del già citato Genna. E potrei ancora continuare, se torno ancora una volta in libreria, trovo altri titoli, e l’elenco rischia di essere troppo lungo…

  81. Dunque, mi è rimasto da rispondere a questa domanda di Emilio:
    “Mi piacerebbe quindi sapere in che modo la vostra vita è stata trasformata dall’arte. Se cioè questi romanzi vi hanno aiutato nella quotidianità (per esempio, nel caso del Dott. Cacciolati , se lo ha aiutato a vivere nel contesto lavorativo con maggiore facilità…”
    E’ la domanda che mi mette più in difficoltà.
    Per cavarmi d’impaccio mi verrebbe da citare Oscar Wilde: “Tutta l’arte è totalmente inutile”, e quindi sarei tentato a rispondere che no, il mio romanzo e la mia attività di scrittore sono assolutamente neutri rispetto alla mia “quotidianità”.
    In verità non la penso così. Non è possibile che la letteratura trovi proprio nella suprema inutilità la propria ragion d’essere. Come può essere totalmente inutile una presenza come quella della finzione letteraria, che ha accompagnato l’uomo lungo tutto il percorso accidentato della civiltà?
    Quanto al rapporto specifico tra il mio romanzo e il mio quotidiano lavorativo, direi che sì, mi è servito ad affrontare certe distorsioni del mondo lavorativo con un occhio più oggettivo e crudele, meno autoassolvente, mi è servito a prendere il coraggio di guardare cosa c’è dietro uno specchio, sotto un tappeto o tra le pieghe di una camicia che potrebbe anche essere la mia.

  82. E ringrazio Simona per le belle parole sull’amore per i bimbi e per le loro letture.
    Farò tesoro dei suoi consigli.
    “Logica ferrea, un senso della giustizia perfetto e un lancinante senso della verità” sono in effetti tre pilastri del mondo infantile da cui non si scappa. E meno male.

  83. Pure io mi scollego, per le stesse ragioni espresse da Paolo. E mi associo ai ringraziamenti a Simona e a tutti gli altri che sono intervenuti in questo sereno e costruttivo dibattito (requisito, questo, che difficilmente si riscontra nella rete, come giustamente rilevava tempo fa, proprio su Letteratitudine, l’ex-imperiese Rosella Postorino).
    Buonanotte a tutti!

  84. Ci siamo dunque lasciati alle spalle il 5 maggio, giorno “napoleonico”… come ci ha giustamente ricordato Filippo (che ringrazio) proponendoci i noti manzoniani versi.

  85. Prima che mi dimentichi…
    In uno dei commenti precedenti Simona (in riferimento alla natura giuridico-letteraria della “confessione”) ha citato la Law and Literature society. Si tratta di una prestigiosa società internazionale che, qui in Italia, è “strutturata” presso l’università di Bologna.
    Ecco il sito: http://www.lawandliterature.org/
    Ci tengo a segnalarlo anche perché – poco dopo che qui, a Letteratitudine, ho aperto la rubrica “Letteratura è diritto, letteratura è vita” (affidandola a Simona) – è stato chiesto a entrambi (a me e a Simona, intendo) di aderire.
    E Simona e io abbiamo aderito con grande piacere.

  86. @ Simona
    Sì, confermo che anche io mi cimento a raccontare favole e storielle alle mie bimbe. A volte mi è capitato di inventarle di sana pianta… praticamente “a braccio” (improvvisando spudoratamente). Però le bambine sono rimaste contente lo stesso.

  87. @ Achille e Paolo
    Vi è stato chiesto sui vostri gusti di lettura… io vi domando qualcosa sulle vostre abitudini di scrittura.
    In realtà sono domande che pongo spesso ai miei ospiti.
    Vi chiedo…
    C’è un momento particolare della giornata in cui scrivete in maniera più agevole e… “proficua”?
    (tempo permettendo, s’intende).

  88. Infine, cari Paolo e Achille, vi chiedo (se possibile) di inserire qualche brano tratto dai vostri romanzi.
    Brani che – a vostra scelta – ritenete particolarmente significativi.
    Insomma, fateci assaggiare i vostri libri. 😉

  89. il 1791 è un anno importante, in cui sono accaduti eventi degni di nota.
    per es:
    – viene promulgata in Francia la Costituzione Monarchica e viene prevista la divisione dei poteri
    – Luigi Galvani pubblica “De viribus electricitatis… in motu musculari commentarius”, un trattato sul galvanismo
    – Wolfgang Amadeus Mozart compone I”l flauto magico (KV 620)”, singspiel tedesco su libretto di Emanuel Schikaneder
    – il 12 gennaio le truppe di Leopoldo II reprimono la Rivoluzione di Liegi
    – il 3 maggio viene istituita la prima costituzione europea dal paese europeo della Polonia.
    – l’11 maggio Charles Messier scopre la Galassia Sombrero (M104)
    – il 20 giugno il re di Francia Luigi XVI fugge da Parigi proponendosi di combattere l’Assemblea nazionale costituente per restaurare la Monarchia Assoluta

  90. ed a proposito di musica, proprio in quell’anno (1791), il 5 dicembre, muore Wolfgang Amadeus Mozart (che era nato nel 1756).

  91. un saluto a tutti, complimenti per la discussione e in bocca al lupo agli scrittori dei due libri.

  92. Propongo questo estratto. La voce è quella di Maria Cosway.

    (…) Vedi, Luigi, non ti sei neppure accorto di questa strana situazione, di come si sia trasformata per me in un inferno. E stupida io, stupida, stupida, stupida, che mi sono lasciata trascinare in questa assurda situazione! Avrei dovuto venire in Italia per un viaggio, per riposarmi, per distendermi, per ritrovare nuova linfa, ma soprattutto per guarire da questa grave malattia che mi aveva colpito con la gravidanza e la nascita di mia figlia.
    Invece, che cosa ho fatto? Quasi senza accorgermi, senza rendermi conto, mi sono lasciata andare, ho cancellato totalmente la mia identità, le mie origini, e tutto questo per te, per noi, e mi sono giorno dopo giorno dimenticata di avere, sia pure sulla carta, sia pure pro forma, sia pure per salvare le apparenze, un marito, una figlia, una famiglia.
    Una famiglia! Non so se mi spiego!
    Sì, sì, sì, sì! Una famiglia che, per quanto barcollante, difficoltosa e complessa, si era comunque formata, tanto più ora che ero diventata madre. Invece non ho ancora capito cosa ho compiuto, ma è certo che mi sono lasciata andare in questo girone infernale, in questa incomprensibile spirale di vita allegra, passata tra ricevimenti, teatri… Oddio, non è che prima facessi diversamente, ma almeno avevo una vita familiare, avevo un marito che ora si ostina a non scrivermi più, non mi manda più uno straccio di assegno. Ormai vivo alle tue dipendenze, sono diventata senza accorgermene la tua concubina, la tua compagna neanche troppo clandestina, non sono poi così stupida, sento e capisco i chiacchiericci delle varie dame milanesi, a proposito di noi due, anche di certe tue scappatelle veneziane, e non solo, sulle quali ho solo finto di sopportare, ma in realtà ho covato dentro di me una rabbia pazzesca che tu non ti immagini, e la cosa non è che mi piaccia tantissimo… Non è facile riepilogare cosa sia successo in questo lungo periodo, anzi, in questo lunghissimo periodo, nel quale il tempo si è accumulato mese dopo mese senza che me ne accorgessi, forse perché all’inizio ero troppo eccitata dall’idea di riscoprire i tesori dell’arte, prima a Venezia, poi a Roma, poi a Milano, poi ancora a Venezia, di esercitarmi a pitturare, a dipingere, a copiare; ma poi sono stata travolta completamente dalla tua personalità, dal tuo modo di essere, dalla tua energia contagiosa, dal tuo ottimismo irrefrenabile, capace di non fermarsi di fronte alla più incredibile delle difficoltà, indifferente nei confronti delle più atroci maldicenze, dei più allusivi pettegolezzi e
    bisbiglii neanche troppo a bassa voce, quando invece la mia sensibilità,
    o meglio, la mia esagerata e spiccata sensibilità mi impediva
    di andare avanti come se nulla fosse, così da soffrirci parecchio,
    da sentirmi male.
    Ma tu non te ne sei accorto, intento a esercitarti nelle prove
    di teatro, nei vocalizzi, negli esercizi col maestro ripetitore, nei
    contratti con questo o quell’impresario, pur di ottenere i migliori
    ingaggi possibili, preoccupato solo di fare una gran bella figura
    sul palcoscenico e basta, di guadagnare soldi su soldi, facendoti
    beffe di tutto quanto ti stava intorno!
    Le mie tensioni, le mie paure, le mie ossessioni, si sono accumulate
    pian piano da un certo numero di mesi a questa parte, dopo che l’euforia e l’entusiasmo che mi avevano spinta a compiere questo insano gesto di abbandonare, di fatto, mio marito e mia figlia, si erano gradualmente esauriti, e hanno lasciato il posto al vuoto più totale, a un cratere di notevoli, anzi inaudite, proporzioni, a una voragine che si è tutta sviluppata nella mia mente, dentro di me, dentro la mia intimità più profonda.
    Ora sono qui, davanti a te.
    Stanca, distrutta, priva della benché minima capacità di reagire.
    Consapevole di aver sbagliato tutte le decisioni che, consapevolmente
    o inconsapevolmente, ho preso e, di fatto, ho attuato, distruggendo me stessa, la mia famiglia, senza neanche sapere come sia fatta mia figlia, che voce abbia, come sia cresciuta, quale sia il suo sguardo, la sua sensibilità.
    Ho una figlia e non so neanche come stia in salute! Non so
    neppure se le voglio ancora bene! Se essa è davvero mia figlia, da
    tanto, troppo tempo che non la vedo più!
    Ma te ne rendi conto? Lo capisci?
    Va bene, potrai dirmi che sono stata io, liberamente, a raggiungerti,
    a voler stare con te, a concedermi a te, a donarmi a te,
    spiritualmente, fisicamente, carnalmente, totalmente.
    Ebbene sì, lo ammetto! È andata proprio così! E io, stupida,
    mi sono lasciata andare senza rendermi conto di quello che
    stessi facendo, nel vivere con te, nel diventare la tua compagna,
    nel trasformarmi in una moglie di fatto, una fedifraga che
    aveva abbandonato suo marito e s’era data alla pazza gioia dei
    ricevimenti meneghini, ospite fissa di questa o di quell’altra festa,
    tra una portata di piatti e l’altra, mentre le ore del pomeriggio
    se ne andavano via una dopo l’altra, ritrovi puntuali di
    mondanità, anche peggiori di quelli che ero solita vivere e partecipare
    a Londra!
    Era tutto l’insieme della situazione a non collimare, a non
    trovare una giusta dimensione! Non potevo permettermi di sopportare
    tutta questa situazione. Così ho ritenuto di fare una cosa
    saggia…
    Ecco, ora non parli più.
    Mi stai ascoltando da almeno una decina di minuti, e soprattutto
    non reagisci: me l’aspettavo.
    Perché tu sei abituato, strisciante come una lucertola, ad adeguarti
    alle situazioni, senza mai affermare un attimo il tuo carattere,
    la tua visuale delle situazioni, ti sei approfittato della situazione
    che si è creata davanti a te, e non hai neppure valutato se fosse giunta l’opportunità di chiedermi di fare il salto decisivo, di
    sposarmi, di decidere di creare una nuova famiglia, allora avrei
    potuto chiedere che mia figlia mi raggiungesse, avrei potuto separarmi
    da Richard, tanto la legge inglese lo permette, ma tu…
    No, non mi hai mai detto niente, solo timide battute allusive, tipo
    “potremmo porre delle basi insieme”, oppure “come sarebbe
    bello se tu restassi sempre qui”, ma non sei mai andato oltre, non
    ti sei mai posto di dire basta a questa situazione fuorilegge, fuori
    etica, fuori da tutto!
    No! Hai voluto abusare della mia sensibilità, servendoti di me
    fino all’ultima goccia del mio sudore, senza il benché minimo
    scrupolo di pudore!
    Per te ero tutto, la concubina, l’amante di mille notti, la tua
    schiava amorosa pronta a qualsiasi cosa, a qualsiasi gesto, a qualsiasi
    occasione utile per consentirti di sfogare le tue velleità e i
    tuoi desideri più proibiti e più osceni, per te consentiti, per te naturali,
    visto che eri abituato ad abbandonarti a siffatti gesti con
    decine e decine di quelle donnette ben vestite, mogli di facciata
    di altolocati nobili milanesi e in realtà amanti scatenate e vogliose,
    pronte a tutto pur di giacere con te, Pacchierotti, o altri tuoi
    colleghi di teatro! Se non addirittura a coprire le tue varie assenze,
    quando dovevi partecipare a quelle… come diavolo si chiamano?,
    celebrazioni massoniche tra fratelli, alle quali partecipavi
    con il cappuccio e lo spadino…
    Ti ho accennato che ho fatto una cosa saggia, e non te l’ho detta fino a ora. È giusto che ora te ne faccia partecipe, almeno lo saprai anche tu. Ebbene, circa una settimana fa, quando avevamo fatto tappa a Milano, ho approfittato per
    consultarmi con un sacerdote. Sì, sono andata nella basilica di
    San Marco, quella che dista pochi minuti a piedi dalla Scala,
    lo sai anche tu: lì ho trovato un sacerdote che neanche conoscevo.
    Con lui mi sono aperta né più né meno come ho appena
    fatto con te. Mi ha illuminata, mi ha messa di fronte alle
    mie responsabilità.
    Vedi, Luigi, spesso si vive senza pensarci, senza riflettere e
    senza voler ammettere se sia giusto o meno quello che si sta facendo.
    È ciò che ho fatto io durante questi anni passati con te.
    Ho sbagliato a cercarti, a voler vivere con te.
    Perché tu ti sei servito di me, e non capivo che stavo sbagliando.
    Il prete, che neanche conoscevo, si chiama, credo, don Giuseppe,
    si è dimostrato disponibile, aperto, con quel sottile accento
    milanese, mi ha accolta con grande spirito di fratellanza, il che
    mi ha lasciata molto stupita, perché non sono cattolica, sono
    protestante non praticante, e mi ha tracciato la strada, la situazione,
    il cammino che devo intraprendere.
    In altre parole, caro Luigi, devo purificarmi.
    Devo staccarmi da te.
    Devo separarmi da te.
    Devo andarmene via da te.
    Lo so, a te tutto questo susciterà un certo dolore, perché forse
    ti eri illuso che potessi rimanere per chissà quanto tempo ancora,
    proprio nella fase migliore dei miei anni di vita.
    Ma non posso permettermelo.
    Non posso rinviare una decisione per me necessaria.
    Mi dispiace, Luigi.
    Devo salvare la mia famiglia.
    Devo ricongiungermi a Richard, ammesso che lui vorrà riaccogliermi
    tra le sue braccia, nel calore della Schomberg House.
    Devo ritrovare mia figlia, perché devo rendermi conto e accettare
    definitivamente l’idea di essere sua madre, e che non posso
    lasciarla totalmente tra le mani di una o due governanti…
    Credimi, Luigi.
    Non ho alternative.
    Lo so, adesso che hai sentito queste parole, di sicuro vorrai
    salvarti, domandandomi di sposarti, di unirti per sempre a me,
    ma non lo hai mai fatto prima, perché sei stato un egoista, un
    maledetto egoista, pieno di te stesso, sicuro di te stesso, incapace
    di vedere da lontano anche la più diversa delle posizioni indivi-
    duali che, di tanto in tanto, nella vita occorre avere il coraggio di
    assumere, di affrontare responsabilmente, di sostenere fino in
    fondo, anche contro tutti quanti ti stanno intorno!
    Ti sei sempre adattato ai potenti di turno, cantando per loro!
    Non hai mai avuto la capacità di ragionare con la tua testa e
    di domandarti perché, perché, perché…
    Io con un uomo così non posso restarci.
    Devo affrontare questa scelta, per me necessaria.
    Domattina farò le valigie e partirò con Elisabeth in barca verso
    Milano.
    Poi raggiungerò Genova.
    Ho deciso di entrare in un convento.
    Ma prima passerò per Casalpusterlengo, dove incontrerò frate
    Onorato: il suo nome me l’ha suggerito proprio don Giuseppe.
    Sarà lui ad aiutarmi a capire ancor di più la strada che dovrò
    percorrere per salvarmi da questo inferno…

  93. Propongo questo pezzo, un’occasione in cui Mirco Michichi deve abbassarsi a viaggiare in treno.

    La lestrigone acerba biascicò qualcosa in tono lamentoso. L’altra annuiva, agitando la mano come fosse un ventaglio. Il ragazzo la sbirciava da sotto l’occhiale. Lei si alzò barcollando sulle zeppe, si aggrappò al finestrino e prese a spingere verso il basso.
    Goccioline calde scivolavano sotto la camicia. Pure il Superb sembrava sudare. Le lancette segnavano le diciotto e undici.
    Il seminarista continuava a fissare la ragazza in piedi, anzi in punta di piedi, mentre tendeva le cosce e i glutei nello sforzo di spingere verso il basso. Un solco le scavava il centro delle schiena, giù fino alle fossette delle reni.
    Il finestrino non cedeva. Quella però non si arrendeva, continuava a spingere con le braccia ad angolo, come le zampe di una cavalletta. Il seminarista sembrava combattuto tra il desiderio di aiutarla e l’impulso a tornare a immergersi nel libro.
    Tornasse pure giù la cocca, tanto il finestrino non scendeva. Macchè quella non si rassegnava. Gonfiò le guance come una ranocchia, sbuffando. Disse qualcosa all’amica indicando il corridoio. Uscì dallo scompartimento passando sopra le sue scarpe lucide. Non chiese scusa, o permesso. Ma già, per certe cose a quelle manca il vocabolario.
    Il seminarista all’improvviso si alzò, gettò sul sedile il libretto come a buttare un sacco dell’immondizia e uscì.
    Finalmente, ecco il titolo del testo. La questione del celibato. Grande. Lo sapeva che era un mezzo prete. Ancora una volta il suo spirito d’osservazione aveva fatto centro. Uno come lui era capace di radiografare una persona in un minuto, senza conoscerla. Nessuno la scampava. Anche in questa occasione aveva visto giusto.
    Per il seminarista la questione del celibato sembrava già risolta.
    Si accostò alla lestrigone nel corridoio. Le chiese qualcosa, facendo un cenno verso l’esterno. Un sorriso ebete gli tirava gli angoli della bocca. Lei lo squadrava come un povero demente. Occhiate di commiserazione. Eppure l’altro insisteva. Mica si arrendeva.

    Il treno ormai stava arrivando a destinazione. La periferia di Torino sembrava replicare le forme della campagna. Prima della stazione del Lingotto, si offriva ai passeggeri un panorama di verdura cittadina. Pannocchioni con uso abitazione, un pomodoro di cemento con croce sulla cima. Lungo il gambo di un carciofo in calcestruzzo si attorcigliava una scala a chiocciola fino a innestarsi nel capo, come a volerne risucchiare la riserva idrica.
    Verdure quasi vere, lattughe al sapore d’amianto si celavano in orti clandestini, dietro gli arbusti che salivano ai lati della ferrovia.
    Adesso occorreva lavorare anche per gli abitanti di quelle periferie. Progetti di ricollocazione. Formazione per disoccupati di lungo corso. Toccava barcamenarsi a formare le fasce più basse. Prendere tutto quello che arrivava. Anche i corsi per apprendisti. Figurarsi. Ragazzotti che a scuola non avevano mai aperto libro. Aspettavano lui per studiare. Come no. Ma lui non avrebbe rinunciato. La democrazia nella formazione. Nuovi modelli per le imprese.
    Del resto erano corsi utili per restare sulla cresta dell’onda. La crisi non sarebbe stata eterna. Lui poteva farcela. Sicuro. Perché farsi venire dei dubbi? La sua carriera era nel pieno, senza ostacoli. Il suo lavoro puntava alla crescita, allo sviluppo, al metodo, all’ordine. In fondo, lui aveva sempre mirato a migliorare, fin dall’università, nonostante gli sbandamenti, le indecisioni iniziali e le disavventure private.
    Il Superb diceva le diciannove e cinque. Porta Nuova si avvicinava.
    Nuovi sviluppi nel corridoio. Tu pensa. Il seminarista mica si è arreso. Lei lo guarda con occhi luminosi. Adesso l’ha fatta pure ridere. Che roba. Un segno dei tempi. Una chiara vittoria del disordine. Arriva una vagabonda a scodinzolare in short e ti corrompe anche quelli che studiano da prete. Certo, il fisico la tipa ce l’avrebbe. Pure quest’altra non è poi malaccio. E già, perché queste arrivano in Italia che sembrano delle gazzelle. E si capisce. Le maman devono tenerle a stecchetto, altrimenti non rendono e poi si sfondano. Una ciotola di riso al dì. E fattela bastare. Tanto non sono mica abituate a ingozzarsi. Altrimenti si ingrossano. A forza di stare in piedi vengono i gamboni. Poi chi se le carica.
    Guarda come insiste il pretino. E quella gli ha già messo il guinzaglio. Ormai comandano loro. Toccherebbe rispedirle tutte indietro, nella loro terra. E se proprio si deve, mandare gli aiuti lì. Inviare spedizioni di soccorso.
    Magari lui potrebbe guidare una carovana di aiuti. Il consulente di progresso che organizza le missioni. Sarebbe divertente. E utile per la sua immagine. Arrivare nel villaggio delle lestrigoni alla guida del caravano. Cacciare il seminarista che si sollazza con le indigene, imponendo la posizione del missionario. E infine esercitare, in luogo del pretino, lo jus primae noctis. Giusto così. Gli aiuti costano.

    Il treno si arrestò dolcemente, dopo aver scelto la sua traccia ferrata nell’imbuto di binari di Porta Nuova. Doveva ancora passare in studio.
    Si imponeva di afferrare la borsa e fiondarsi fuori dello scomparto, bruciando sul tempo la lestrigone grossa. Non abbastanza, però, da evitare di sfiorarle, con il petto, la massa pesante di tette e la punta dei capezzoli sotto la maglietta gialla. Impossibile dimenticare la scossa di spillini lasciata da quel contatto.

  94. @ Achille e Paolo
    Vi ri-(pro)pongo le seguenti domande:

    1. C’è un momento particolare della giornata in cui scrivete in maniera più agevole e… “proficua”? (tempo permettendo, s’intende).

    2. Escludendo le ricerche, quanto tempo avete impiegato per scrivere questi vostri romanzi?

  95. @Achille…il testo è davvero bellissimo e musicale, l’ho gustato e mi ha portata dentro “la voce” della storia!
    Bravissimo, un grazie di cuore per questo dono!
    Ora vorrei “ascoltare” anche un testo di Paolo…
    E infine…una buona ninna a tutti (io sono sfinita da circa un centinaio di processi e altrettanti avvocati….)
    Felice sera!

  96. @Paolo…
    mamma mia! Mentre chiedevo le tue parole…sono arrivate!
    Bellissima scrittura, graffiante e secca.
    Bravissimo davvero anche tu!
    TI ho “ascoltato” con vero piacere.
    Grazie di cuore.

  97. Prima di andare a dormire, provo a rispondere alle due domande di Massimo:
    1. C’è un momento particolare della giornata in cui scrivete in maniera più agevole e… “proficua”? (tempo permettendo, s’intende).
    R. La sera tardi, quando tutti sono andati a dormire; mi riferisco alla fascia oraria dalle 23 all’1 di notte. E qualche pomeriggio libero, quando posso rifugiarmi in un Internet café, e riuscire ad andare avanti per tre ore di fila. Il tempo è comunque contingentato, perchè ci sono gli impegni familiari di mezzo, la spesa da fare alla bottega bio a 500 metri da casa, e così via. Riuscendo a scandire il ritmo con una media di 5/6mila battute giornaliere, riesco ad andare avanti in modo metodico. Scrivere, più che un atto dettato dall’ispirazione, è un esercizio di disciplina. Dove si mette in gioco e si travasa nel testo tutto quanto ho appreso durante la fase di studio, preparazione, rielaborazione mentale, ecc.. Anche mettendo in conto eventuali (sicure) revisioni successive.

    2. Escludendo le ricerche, quanto tempo avete impiegato per scrivere questi vostri romanzi?
    Dipende. Per “Confessioni di un evirato cantore”, la prima stesura è stata buttata giù durante l’estate del 2005. Poi ci sono state altre versioni nel 2006. L’ho lasciato da parte, per scrivere altri due romanzi. Ho ripreso il romanzo storico, dopo le ulteriori (e più approfondite) ricerche, a partire da gennaio 2008 (dopo aver terminato la prima versione di “Bacchetta in levare”, prima dell’editing del Premio Palazzo al Bosco), per concluderlo esattamente un anno dopo, e qui ci metto dentro l’editing, i tagli, gli spostamenti, e così via. Il prologo, ad esempio, mi è nato quasi verso la fine, quando mi sono reso conto che dovevo creare un’apertura “col botto”, con conseguente necessità di raccordo con le ramificazioni interne alla struttura della narrazione.
    Insomma, un lungo lavoro di artigianato, limatura, verifica delle contraddizioni, dei punti critici da togliere, dove alla fine si lavora in modo distaccato, freddo, per nulla tipico dell'”autoreinnamoratodelproprioromanzofigliopiùcaro”, e ci si preoccupa piuttosto, quando si riceve la bozza sul file pdf dell’impaginato, di verificare se la tenuta della tensione lungo le varie pagine si mantiene, se regge la leggibilità, e soprattutto non ci sono le tanto temute “cadute”.
    Questa fase è un po’ difficile da spiegare, ma – anche grazie al lavoro dell’editor Frilli – sul piano pratico si rivela fondamentale, se si vuole raggiungere un buon risultato complessivo per il lettore… soprattutto se si ha a che fare, alla fine, con un libro di 480 pagine in formato tascabile!
    Tutto questo, ovviamente, ho cercato di svolgerlo nei weekend, di sera, prendendomi tutto il tempo possibile, evitando di cadere nella fretta.

    Ora posso dirlo: buonanotte a tutti.
    A domani.

  98. ora provo io a rispondere a Massimo.
    1. C’è un momento particolare della giornata in cui scrivete in maniera più agevole e… “proficua”? (tempo permettendo, s’intende).
    Io intendo lo scrivere come qualcosa di più ampio rispetto all’effettiva attività di composizione e revisione di un testo. Scrivere è anche covare a lungo il tuo personaggio, i tuoi personaggi, dentro di te, avere la pazienza di ospitarli negli interstizi dei tuoi pensieri, lasciarli crescere negli alveoli della tua mente, e poi c’è la storia, la partenza della storia e il dipanarsi dell’intreccio (da non confondere con il successivo sviluppo della trama) che è chiara fin dall’inizio, come è chiara per tutte le altre centinaia di migliaia di persone che pensano che basti avere la storia chiara in testa per poterla scrivere, ed è qeuesta la differenza tra chi pensa di poter scrivere e chi scrive effettivamente, che quando hai chiara in testa la tua storia hai fatto solo lo 0,5 % del lavoro, perchè, riprendendo quanto dice Achille (ma siamo in ottima compagnia), la scrittura è un pizzico di ispirazione e un sacco di espirazione, ovvero sudore,
    ma,
    scrivere per me significa anche prendere appunti, segnarmi su un un qualunque pezzo di carta le idee che mi passano per la zucca, e curiosamente questa cosa mi capita spesso e volentieri quando guido, quando guido da solo s’intende, così spesso le me annotazioni su post it hanno la forma di un volante,
    quanto alla questione specifica degli orari, premesso che come Achille (e come moltissimi altri scrittori) durante la giornata guadagno di che vivere in modo altro rispetto alla scrittura, e premesso che come accennavo qualche commento fa ho anche fortunatamente una famiglia, rimangono in effetti più che altro le ore notturne, e qui devo distinguere, per le revisioni e il lavoro pesante di espirazione nel mio caso meglio le ore dopo le 23.00, per le stesure su foglio bianco decisamente meglio le prime ore del mattino.
    E procurarsi un buon prodotto per ridurre le occhiaie…;-))

  99. Massimo poi chiede:
    2. Escludendo le ricerche, quanto tempo avete impiegato per scrivere questi vostri romanzi?
    Ecco, io provo invidia per chi ricorda esattamente quando ha iniziato a scrivere il/un suo romanzo e quando lo ha terminato.
    Io il mio romanzo ricordo che l’ho iniziato a scrivere effettivamente intorno al 2006, inserendo però anche alcuni pezzi che avevo scritto molto tempo prima, poi sono andato avanti per tutto il 2007, inframezzandolo con altre scritture e l’ho terminato più o meno all’inizio del 2008. Per diventare effettivamente un libro edito nel novembre 2009 (ma quest’ultima data, ovvio, non era più sotto la mia d’influenza).
    Visto che spesso mi chiedono se il mio testo è stato soggetto a un editing, dico anche qui che no, in tutto questo tempo il mio testo non ha ricevuto alcun tipo di editing, a parte un paio di consigli di Aldo Nove nel lontano 2006.
    E di questo sono molto grato a Tea, visto che è un Editrice che fa parte di un gruppo come Mauri Spagnol, con fior di editor…

  100. Buongiorno a tutti,
    oggi è venerdì, sono al termine di una settimana lavorativamente massacrante ma emotivamente gratificante per la presenza qui,
    mi è rimasto ancora da (provare a) rispondere alle domande iniziali di Massimo,
    che ricapitolo:

    1.Quali sono le differenze fondamentali tra un uomo che ha vissuto alla fine del 1700 e un uomo che vive agli albori del terzo millennio? (Mi riferisco a uomini vissuti, comunque, nell’Occidente)

    2. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi dell’uomo che vive in quegli anni, rispetto ai vantaggi e svantaggi dell’ uomo di oggi?

    3.L’esigenza di affermarsi a tutti costi, di sopravvivere a sé e al mondo, è davvero cresciuta – oggi – rispetto ad allora? E fino a che punto?

    4. E quella di ritrovare se stessi, il senso delle cose e della propria esistenza… fino a che punto è cambiata?

  101. Bene,
    in effetti alla prima domanda ho già provato a rispondere un paio di giorni fa,
    ricordando che, a mio parere, il discorso non può prescindere dalle mutate condizioni economiche e sociali e dal diverso tenore di vita della media delle persone, oggi rispetto a due secoli fa e oltre. Il mondo si è rimpicciolito e al tempo stesso si è fortunatamente allargata enormemente la base di coloro che vivono una vita “umana”, quindi con bisogni non solo primari, e, aggiungo, possibili fruitori di cultura e di letteratura.
    A questo proposito vorrei focalizzare le risposte ai quesiti di Massimo richiamando l’attenzione sul c.d. homo litterarius, l’appassionato di lettere e lo scrittore, e su come è cambiata (o non è cambiata) la sua percezione nel tempo.
    Mi rendo conto che Massimo ha esteso le domande non a una singola “categoria”, ma credo che il cambiamento (o non cambiamento) di questa figura di “homo litterarius” possa servire da catalizzatore per rispondere alle nostre domande.

  102. La verità è che questa mattina sono un po’ in vena di provocazioni, mi prudono i polpastrelli, ma prometto di non essere troppo cattivo, scrivendo come mi pare sia cambiata (o non cambiata) la vita dell’homo litterarius e la sua percezione in due secoli e passa.
    Innanzi tutto io sono tendenzialmente d’accordo con chi evidenzia che nella storia delle letteratura lo scrittore ha sempre avuto un legame fortissimo con il potere e con i “potenti”. Anzi, in alcuni casi scrittore e potere coincidevano nella medesima persona. Un esempio per tutti: Lorenzo il Magnifico.
    C’è da dire che, salvo poche eccezioni, il rapporto tra scrittore e potere (quando non coincidevano) è sempre stato un rapporto tra servo e padrone.
    Vorrei ricordare qui quanto scriveva un contemporaneo (+o-) del protagonista del romanzo di Achille, Vittorio Alfieri, nel suo trattato Del principe e delle lettere. Egli giustamente sosteneva che gli scrittori asserviti a un principe “ne riportano pena e infamia”, anche se proponeva come modelli estremi di indipendenza Omero e Dante Alighieri, l’uno cieco e vagabondo, l’altro esule e perseguitato.
    Ora, la mia domanda (provocatoria) è: quanto è cambiato in questa percezione dell’homo litterarius negli ultimi due secoli?
    E i modelli di Dante e Omero non sono forse troppo alti nella qualità e troppo lontani nel tempo per costituire un esempio per lo scrittore medio contemporaneo, che dubito sia a sacrifici estremi (se non in casi estremi).

  103. Nell’ultima frase ho dimenticato il punto interrogativo finale.
    Ma, sintetizzando al massimo la mia provocazione, mi e vi chiedo:
    lo scrittore oggi è meno servo del potere rispetto ai secoli scorsi?
    E, altra provocazione, nella società contemporanea (restringiamo pure a quella italiana se vogliamo) lo scrittore non è che rischia di essere tanto più asservito al potere quanto più è scrittore “di professione”?
    Ovviamente quando penso al potere oggi non mi riferisco al solo potere politico ma a quello economico tout court (lo so, ahinoi, spesso coincidono), e tanto per fare un esempio concreto di “potente”, almeno nel nostro campo, il “potente di turno” può essere anche il dominus di una qualunque importante casa editrice.
    Ora, lo so che molti (non tutti, certo) scrittori “di professione” e di progresso amano presentarsi e dipingersi come spiriti liberi e inquieti e soprattutto giammai asserviti al potere, ma vi assicuro che (per quanto ho potuto constatare) le loro pratiche quotidiane per mettere insieme il pranzo con la cena sono di tutt’altro segno.
    Poi c’è la categoria degli scrittori nati da famiglia non ricca, ma ricchissima (ce ne sono molti, anche illustri torinesi), niente di male, per carità, è una semplice constatazione, solo che almeno da costoro uno si aspetterebbe un qualche scarto rispetto alle logiche dominanti di asservimento, e invece ti rendi conto che sono proprio i primi paladini di questo sistema.
    Bon, credo di aver provocato abbastanza, del resto già mi aspetto un coro di critiche e di sollevazioni di esempi di scrittori che negli ultimi due secoli si sono immolati contro il potere e che comunque sono stati liberi da ogni condizionamento. Lo so, ce ne sono stati molti, per esempio a me il primo nome che vine in mente è Kurt Vonnegut, e non è certo l’esempio più lampante,
    però,
    quanti Kurt Vonnegut, oggi, ci sono ancora in giro per il mondo?

  104. Caro Paolo Cacciolati, rispondo alla sua provocazione che propone rielaborando la domanda di Maugeri. Le chiede, lo scrittore oggi è meno servo del potere rispetto ai secoli scorsi?
    Però dobbiamo metterci d’accordo su cosa deve intendersi per potere.
    Mi spiego.
    Le dice che nel vostro campo, quello degli scrittori, il “potente di turno” può essere anche il dominus di una qualunque importante casa editrice. D’accordo, però è un campo ristrettissimo che interessa e riguarda solo voi. Le assicuro che a noi lettori, così è per me, interessa poco di possibili “giochi di potere” all’interno del sistema editoriale.

  105. E’ invece più interessante il rapporto tra lo scrittore e il potere politico, quello che davvero conta.
    Lancio una controprovocazione. La mia impressione è che tale potere si disinteressi del tutto della figura dello scrittore, che non la prenda nemmeno in considerazione. Per dirla in altri termini, per il Potere lo scrittore non serve.
    Forse l’unica eccezione, oggi, è Saviano.

  106. sono ancora in tempo a rispondere alle domande?
    ci provo
    Quali sono le differenze fondamentali tra un uomo che ha vissuto alla fine del 1700 e un uomo che vive agli albori del terzo millennio?
    secondo me a parte i desideri classici , quelli che nascono e muoiono con l’uomo da quando è apparso sulla faccia della terra,lediiferenze principali derivano dalle condizioni di vita completamente diverse.
    inoltre negli ultimi cento anni c’è stata una tale accelerazione nello sviluppo tecnologico che la forbice delle differenze si è motlo allargata.

  107. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi dell’uomo che vive in quegli anni, rispetto ai vantaggi e svantaggi dell’ uomo di oggi?
    in quegli annni si moriva prima e si pativa di più la fame, però per chi aveva la pancia piena forse c’era meno stress,i ritmi di vita avevano una dimensione più umana

  108. L’esigenza di affermarsi a tutti costi, di sopravvivere a sé e al mondo, è davvero cresciuta – oggi – rispetto ad allora? E fino a che punto?
    secondo me è cresciuta senza ombra di dubbio. oggi i modelli di vita del ‘vincente a tutti i costi’ del ‘ho hai successo o sei nessuno’ ce li impongono i media, la pubblicità, e tutto il contesto sociale. nel settecento la dimensione era molto più piccola , vincolata a piccoli contesti.
    non c’è proprio paragone.

  109. E quella di ritrovare se stessi, il senso delle cose e della propria esistenza… fino a che punto è cambiata?
    è cambiata perché nel settecento non c’erano psicologi e psicanalisti. l’esigenza di ritrovare se stessi è molto moderna.

  110. @ Simona come sempre mi cogratulo con te. I tuoi mirati commenti giungono sempre all’essenza del messaggio inviato, dai due bravvissimi scrittori.
    @ Achille Maccapani, sono rimasta affascinata dalla figura di Maria e dal suo intenso soliloquio interiore.
    Molte delle sue doglianze, appartengono alle disattese aspettative delle
    mogli trascurate….. il marito avverte spesso in ritardo il latente disagio della propria compagna. La minuta descrizione dello stato d’animo di lei, è straordinariamente credibile e brillante.
    Il profilo psicologico di Luigi, votato solo alla carriera, risulta alquanto reale ed attuale.
    Mi scuso per la domanda provocatoria, nella frenetica attività che la società moderna impone per affermarsi, quanto c’è in Lei, di Luigi ?
    Riesce a mediare bene i diversi ruoli o per l’uomo è più difficile ?
    @Paolo Cocciolati, anche il Suo folgorante stile scritturale mi è piaciuto molto. Credo che uno scrittore non asservito al potere politico o alla condizionante griglia economica, difficilmente riesca ad emergere.
    Esistono però delle sparute eccezioni. Non avendolo ancora letto, mi piace immaginare che la mancanza di speranza, nel suo romanzo, sia solo una trovata letteraria. Non si cade in depressione senza tale virtù?
    Il Suo tesoro di bambino, dono del Cielo, è l’emblema della speranza,
    che un mondo futile, cinico e distratto, tenterebbe invano di appannare.
    @Massimo caro, le tue domande meriterebbero meditate risposte.
    Per ritrovare se stessi e il senso vero delle cose, ci penserà la vita stessa, sovente con i suoi crudeli inattesi imprevisti.
    Auguriamoci invece, di imparare ad apprezzare le minime cose che
    allietino il nostro irto viaggio quotidiano.
    Un caro saluto a tutti gli amici del blog e al condottiero Massi.
    Tessy

  111. Qualche battuta al volo, sono un po’ di corsa.
    Partendo dall’ultimo commento, ricambio il caro saluto di M. Teresa Santalucia Scibona.
    Le sue parole esprimono una notevole sensibilità, capace di comunicare al cuore delle persone.
    Il mio bambino come tutti i bambini del mondo è davvero un dono del Cielo, un messaggio dalle Stelle, che però colloco in una dimensione diversa rispetto allo scrivere. Anche se è vero che ultimamente mi sto dilettando di letteratura per infanzia….

  112. Rispondendo a Stefano, che scrive come l’esempio del dominus di una casa editrice sia rilevante solo in un “campo ristrettissimo che interessa e riguarda solo voi”, dico che appunto si tratta solo di un esempio.
    Per (provare a) rispondere ai quesiti proposti da Massimo ho adottato il metodo, rozzo ne convengo, di passare dalla categoria generale “uomo” a una categoria specifica, da prendere come un qualunque altro esempio, e nel caso specifico ho scelto quella dello scrittore.
    Avrei potuto scegliere quella del manager o consulente di successo, qual è il protagonista del mio romanzo, o la specifica categoria di un uomo di spettacolo, accostabile al protagonista del romanzo di Achille (oggi potrebbe essere un Pavarotti?), oppure potrebbe essere un operaio, o migrante, o ancora mille altri.
    Ma per ognuno di questi tipi c’è un “potente di turno”, per l’operaio il capo, per l’uomo di spettacolo l’impresario ecc. ecc.

  113. Quanto alla controprovocazione di Stefano,
    ” per il Potere (politico) lo scrittore non serve”,
    non sarei così tranchant,
    direi piuttosto che il Potere finge disinteresse verso lo scrittore, cercando al tempo stesso di tagliargli il più possibile le gambe, soffocare quanto più possibile ogni spazio espressivo, ridurre sempre più l’autonomia degli scrittori fino a recluderli in un recinto da dove prelevarli solo nei momenti di bisogno.
    Ma direi che è l’intera società moderna, non da oggi e non solo qui, a tendere ad emarginare e respingere nelle “riserve” questi maledetti scrittori.
    Lo scrittore in sè (non come produttore di oggetti commerciali e commerciabili) è un corpo estraneo all’attuale società dei consumi, visto generalmente con sospetto. Del resto non è solo di oggi il tentativo di cancellare la presenza sociale dello scrittore. Scherzo, ma non troppo, quando ricordo cosa scriveva nel primo secolo d.C. il poeta latino Marziale, in un epigramma famoso: “Non vale la pena di morire per piacerti”, rivolgendosi a uno dei suoi critici.
    Certo ancora oggi, dal punto di vista di chi si preoccupa di preservare una società anestetizzata, lo scrittore ideale è quello defunto. Lo scrittore defunto non disturba la società del conformismo, non discute, non dissente, non interviene. Così, mentre da vivo era ignorato, da defunto può divenire degno di considerazione e di rispetto. Qualche volta di ammirazione sconsiderata. Purchè sia morto.

  114. Paolo, hai fatto bene a “circoscrivere” una delle mie domande sulla base di un esempio (nella fattispecie, “scrittorio”). In questo modo, da stimolo nasce stimolo. Ottimo.

  115. Un veloce riscontro a Maria Teresa, perchè lo merita. Il narratore in prima persona quasi sempre non coincide con lo scrittore e la sua vita “reale”. Anzi, più la narrazione si rende credibile e coinvolgente per il lettore (nonostante la solita clausola “Questa è un’opera di finzione. Ogni riferimento ecc.ecc.) più lo scrittore sarà riuscito nel suo obiettivo.
    Marchesi aveva, eccome, una sua spiccata personalità, anche se le testimonianze storiche limitate e a zig zag mi hanno costretto a dare ampio spazio ad una “fantasia guidata” per delinearne una fisionomia e, soprattutto, una caratterialità credibile al lettore. Ovviamente questo vale anche per gli altri personaggi coinvolti, come Maria Cosway (avevo nella testa la splendida interpretazione di Greta Scacchi nel film “Jefferson in Paris” di James Ivory, che racconta proprio il periodo di vita della pittrice a Parigi, e la sua relazione con Thomas Jefferson, prima di fare ritorno a Londra e conoscere il ciclone Luigi Marchesi), e don Francesco Zoja. Senza dimenticare i vari personaggi che compaiono durante lo sviluppo della storia.

  116. Circa la questione del rapporto tra scrittore ed editore, su un presunto potere… francamente devo dire che non mi trovo in questa situazione. Nel dicembre 2005, pochi mesi dopo l’uscita del mio primo romanzo (un bildungsroman rockettaro milanese a metà degli anni ’80, scritto in quel periodo, messo nel cassetto e tirato fuori dalla cantina nell’estate 2004), ebbi il coraggio di spedire a Frilli la prima stesura del romanzo storico. Mi rispose con una scheda dettagliata, nella quale mi si invitava a rimettere mano con attenzione. Mi sono buttato a leggere e studiare, e dopo qualche anno (e molte revisioni, di cui ho già parlato), il romanzo ha trovato la forma definitiva. Dopo aver letto un intervento di Paolo, aggiungo che l’editing della casa editrice è stato formale, ma solo nella fase conclusiva.

  117. Intanto ne approfitto per aprire una parentesi sull’altro nuovo romanzo di Achille Maccapani: “Bacchetta in levare” (edito da Marco Valerio).

    Vi ripropongo la scheda del libro.

    Un direttore d’orchestra di fama internazionale, sconvolto da una lacerante crisi personale decide improvvisamente di smettere con la carriera artistica. Con una serie di colpi di scena che condurranno ad esiti imprevedibili, sarà invece il ritorno sul podio a svelargli la verità che ad ogni costo cercava di rimuovere dalla propria vita. E a riconciliarsi col mondo che lo circonda. Un romanzo che ci introduce dietro le quinte del mondo della musica sinfonica.

  118. Per meglio raccontare come è nato questo romanzo, visto che tu, Massimo, lo hai introdotto, proporrò nei successivi post il backstage (già uscito sul mio blog), nel quale ho cercato di spiegare una serie di particolari utili a capire perchè ho scelto di raccontare una storia alquanto strana.

  119. Spesso capita che la nascita di un nuovo romanzo rappresenti in sé una storia da raccontare. Nella maggior parte dei casi, non proprio. Ho sentito raccontare da più di uno scrittore che la genesi di questo o quel romanzo era stata tranquilla, senza intoppi. Per Bacchetta in levare, viste le circostanze, non era stato certamente il caso di una genesi senza problemi particolari. Anzi.
    Giustamente ci si chiede da quale cellula ispirativa si decide di partire per la stesura di un romanzo. In questo caso, l’idea di partenza era quella di immergermi nella personalità di un uomo di 70 anni, messo di fronte ai drammi della vita, e in particolare ad una perdita umana dalle proporzioni immani, e che decide di troncare i rapporti con il mondo circostante. Ho sempre avuto il desiderio di raccontare questo lato della vita, forse perché spinto da una vicenda personale che mi ha toccato profondamente tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994: quella della morte improvvisa per tumore della madre della mia fidanzata, rimasta orfana a 28 anni.
    Durante quelle settimane dure, difficili da dimenticare, e che ti segnano, anche se non ne sei direttamente coinvolto, mi ero reso conto che non sarei più stato lo stesso di prima, e soprattutto che di fronte alla morte, a quella presenza fisica, fatta di carne, e non più di vitalità, di una carne non più animata dal flusso del sangue, dal colore pallido, sarei rimasto segnato negli affetti e nel dolore. Al punto tale da iniziare a maturare la decisione di lasciare la Lombardia e a trasferirmi nel ponente ligure, la terra di colei che poi è diventata mia moglie.
    Ecco perché il mio vissuto è composto da due realtà territoriali: quella del Nord padano, della Lombardia di confine tra più province (Milano, Bergamo, Cremona), da una parte, e quella del ponente ligure che avevo cominciato a conoscere attraverso i romanzi di Francesco Biamonti, che non conoscevo affatto. Avevo sentito parlare dei romanzi di Nico Orengo, durante gli anni vissuti a Inzago, ma di striscio, senza particolare necessità. Invece Biamonti era, per me, sconosciuto.
    Eppure, quando affrontai L’angelo di Avrigue, mi trovai di fronte ad un universo nuovo, sconosciuto, che solo durante gli anni lavorativi passati tra i comuni di Apricale e Dolceacqua mi resi conto che in realtà si trattava degli stessi scenari raccontati e, per certi versi, trasfigurati da Francesco. Per poi scoprire, qualche anno più tardi, che il percorso della strada che congiunge Apricale a Isolabona rappresentava uno degli scenari di questo immenso “carrugio ligure” all’interno del quale si dispiega la trama del Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, frutto evidente dei suoi anni di giovane partigiano, vissuti tra le colline di Bajardo, Apricale e Isolabona, lungo le rive del Merdanzo.
    Così, dopo che mi sono sposato, pur scegliendo per i primi anni di continuare a lavorare tra i comuni della bassa bergamasca, trascorrevo le tappe del mio percorso di pendolare tra i treni durante i fine settimana. Il venerdì staccavo verso le ore 13, prendevo l’autostrada entrando dal casello di Osio Sotto, raggiungevo la Serravalle uscendo ad Agrate Brianza, per poi parcheggiare nel silos di Cascina Gobba, la metropolitana mi portava dritto in Stazione Centrale a Milano per salire sul treno Basilea – Nizza: alle 15’10 mi staccavo fisicamente dalla terra lombarda, fatta di un dialetto bergamasco stretto ma per me ancora comprensibile, dalla lettura quotidiana dell’Eco di Bergamo, dalle nebbie e dai freddi gelidi di un inverno che non voleva mai finire, sentendomi così un uomo a metà tra due orizzonti radicalmente opposti tra loro.
    Dopo un po’ di tempo, non riuscivo a restare seduto nello scompartimento, mi piaceva scrivere, già all’epoca, anche se mi occupavo di commenti giuridici, convinto – e forse illudendomi più del necessario – com’era che fosse bello e interessante analizzare le nuove riforme legislative destinate a cambiare l’Italia, e così mi trasferivo nel vagone ristorante dove potevo contare su una spina di corrente per collegare il pc portatile. Lì trovavo, molto spesso, un signore anziano che era salito a Genova. Portava con sé una valigia leggera da viaggio, forse aveva dormito da qualche altra parte, e tornava pure lui nel ponente. La sua faccia mi era nota, lo avevo già visto da qualche parte, forse su un giornale. Ci vollero parecchi viaggi per rendermi conto che lui era Francesco Biamonti.
    Ci presentammo, e iniziammo a parlare. Lui conversava con voce bassa, ma dentro di sé c’era un universo fatto di un ponente dagli orizzonti culturali ben più ampi di quelli che mi aspettavo di trovare. Certo, conoscevo il legame che univa il ponente con la Francia meridionale, la vicinanza con Marsiglia, mi rendevo conto di come il dialetto ventimigliese fosse intriso di influssi francofoni, e che fosse compreso addirittura dai camalli che lavorano nei porti del Portogallo e del Brasile, ma non avrei mai creduto che queste linee di unione fossero ben più ampie e profonde, tali da abbracciare l’intera costa del Mediterraneo. E mentre lo ascoltavo, restavo stupito dalla sua umanità, dal suo conversare, dal suo modo di coinvolgermi nei suoi ragionamenti.
    Venivo da fuori, dalla pianura del Nord, dal profondo Nord raccontato nei dibattiti vivacissimi di Milano Italia, di un Nord che vivevo con tutte le viscere di un’energia di rivincita nei confronti di Roma, abituato alla parlata dei bergamaschi che esibivano orgoglio lavorativo e identità padana, dalle tensioni di un Nord produttivo lombardo, animato solo dal desiderio di laurà laurà laurà dalla mattina presto fino al tramonto, e perfino la domenica mattina presto per finire la villetta nuova, e mi accorgevo, osservando dai finestrini del treno che, a mano a mano, macinava le fermate di Alassio, Albenga, Andora, stavo entrando in un altro mondo.
    La presenza di Francesco durante quei viaggi ferroviari del venerdì simboleggiava per me l’ingresso in una realtà diversa rispetto a quella in cui avevo vissuto durante gli anni della mia infanzia, dell’adolescenza, e soprattutto della fase lavorativa. Dovevo compiere il balzo decisivo, decidere di non restare per troppo tempo a metà tra questi due mondi. Pertanto quando decisi di trasferirmi totalmente in Liguria, cogliendo l’occasione di una chiamata lavorativa nel savonese, lo feci senza pensare più di tanto, pur sapendo che l’impatto non sarebbe stato sereno.
    Durante quegli anni, dunque, avevo vissuto in parte l’impatto che aveva affrontato il mio suocero, di fronte alla perdita di sua moglie Mara. E il suo coraggio di scegliere di dedicarsi completamente a mia moglie e a me, convinto che noi rappresentassimo il suo futuro. Lui aveva avuto coraggio nella scelta di non chiudersi, di non gettare la spugna. Ma mi domandavo quanti altri non avessero avuto quella forza interiore, quell’energia, anche nonostante il sostegno di una fede, per quanto radicata e comunque riconquistata giorno dopo giorno.
    Nel frattempo, iniziavo a cercare di avvicinarmi ulteriormente con il lavoro. E durante una serie di questi viaggi, era l’inizio del 2000, incontrai nuovamente Francesco. Stavolta ero con mia moglie, e scoprii che si conoscevano. Perché Francesco conosceva da parecchi anni la zia di mia moglie, che era stata a sua volta insegnante alla scuola media di Ventimiglia, e ci si trovò insieme in un pub di Soldano a chiacchierare insieme per ore e ore.
    A quell’epoca stava lavorando al suo nuovo romanzo, quello successivo a Le parole la notte, ma prima di mettersi a scrivere ci disse che si era messo a rileggere la produzione poetica di Francesco Petrarca per comprendere l’animo femminile da lui descritto, e poi continuava a chiedermi se avessi voluto pensare di scrivere, di tirare fuori qualcosa di significativo. Eppure dentro di me avevo ancora un blocco pazzesco.
    Non avrei dovuto scrivere nulla, così mi aveva detto in un pomeriggio del 1985 Luca Doninelli, nel sostenere che ero più portato per la saggista che per la narrativa, e mi divertivo dunque a commentare per un mensile giuridico livornese leggi, decreti legislativi, ad entrare dentro logiche organiche, senza sapere che sarebbe bastata dopo un anno o due una piccola modifica, frutto di qualche abile emendamento parlamentare, durante il solito treno annuale della legge Finanziaria, per buttare all’aria le linee progettuali di questo o quel governo. Ma non gli dissi nulla, chissà mai se avrebbe capito questi sentimenti che si agitavano dentro di me.

  120. Il ritmo lavorativo nei comuni dell’entroterra di ponente, che ho affrontato tra l’autunno del 2000 e il dicembre 2004, mi permise di meglio conoscere ed amare gli stessi luoghi nei quali Francesco ambientava i suoi romanzi, pur ricorrendo a nomi di località di fantasia, come Varaira, ma nel contempo rischiava di trasformarsi in una gabbia ossessiva, forse dovuta alla mia difficoltà di accettare l’idea di restare in quei luoghi a lavorare per chissà quanti anni.
    Perché le ossessioni e le tensioni che emergevano nell’Angelo di Avrigue erano le stesse che animavano e contraddistinguevano il popolo apricalese. Non ero capace di accettare l’idea di vivere per tutta la vita in un luogo chiuso tra le colline, senza sentire la vicinanza col mare.
    Scelsi così di chiudere la mia esperienza vissuta in quel mondo, in quella realtà difficile, dopo cinque anni di dolorosa gavetta e dal Natale del 2004 ricominciai a vivere con maggiore serenità. Proprio durante quei mesi, vincendo quel blocco che mi impediva di sbloccarmi, e solo dopo qualche anno dalla scomparsa di Francesco Biamonti, iniziai a scrivere storie, romanzi, dopo essermi reso conto di quanta vacuità si nascondesse dietro le ennesime modifiche legislative da seguire e commentare, frutti di ben altre logiche lontane, rispetto al desiderio di riordinare i vari settori normativi e alla necessità di garantire un ordine.
    Mi ero convinto che la stabilità e l’ordine nel sistema giuridico italiano, soprattutto nel campo del diritto amministrativo, fosse poco più che una chimera, alla luce di un continuo mutamento che non lasciava un attimo di respiro, e appariva dinanzi a me come qualcosa di molto instabile. La certezza del diritto aveva smesso di esistere da troppi anni, perlomeno per il mio lavoro, al punto tale da dover dipendere dalle sentenze dei vari tribunali amministrativi regionali e delle sezioni della Corte dei Conti. Proprio in quel periodo maturai dunque la scelta di una vita divisa in due: da una parte, quella del mio lavoro, dall’altra, quella delle letture e delle scritture. Senza che l’una interferisse con l’altra. E soprattutto senza che venisse meno il mio attaccamento al lavoro, quello vero.
    Ero dunque immerso nei vari progetti dei romanzi, quando durante l’estate del 2006, era la fine di agosto, pensai all’idea di una scena chiave, quella di un direttore d’orchestra che durante l’ultima recita della Traviata di Verdi al Festival di Salisburgo decide di dire basta al mondo circostante, a tutte le problematiche di una quotidianità fatta di prove, recite, interviste, concerti, viaggi aerei, e di rifugiarsi tra le colline del ponente ligure. Il luogo per questo esilio volontario lo avevo già in testa: Brunetti, una frazione collinare di Camporosso, incastonata tra Dolceacqua e l’entroterra di Ventimiglia. Un luogo incantevole, e che conoscevo per motivi familiari: una piccola villetta sull’ultima curva, prima del confine con Arcagna, è di proprietà di mio suocero, e lì avevo vissuto per parecchio tempo. L’ambientazione perfetta.
    Ma c’era anche un altro stimolo. Ero reduce dalla stesura del romanzo Delitto all’Aquila nera, un noir ambientato tra Ventimiglia e l’entroterra durante l’estate del 2001, quella del G8, frutto delle mie esperienze vissute, anche lavorative, passate tra Dolceacqua e Apricale. Il dattiloscritto non era stato accettato da due editori: ricordo, in particolare, che il direttore editoriale di una di queste case editrici aveva detto che in quel romanzo c’erano troppi dialoghi, forse fingendo di non sapere che, ad esempio, Uomini e no di Vittorini fosse un romanzo fatto esclusivamente di dialoghi.
    Quasi per ripicca, avevo quindi maturato l’idea di raccontare una storia che, per una larga parte del suo sviluppo, fosse del tutto priva di dialoghi. Nemmeno un trattino, pensavo, piuttosto il discorso indiretto. Anzi, questo espediente mi sarebbe servito per delineare un carattere tipico di questo territorio, o piuttosto un modo di vivere in queste terre, e cioè attraverso un’introversione esasperata, un senso di solitudine marcata, che avrebbe potuto cominciare a sciogliersi solo nel momento in cui il protagonista si sarebbe trovato sul treno, e comunque in un luogo distaccato dalla terra, in viaggio verso un altro luogo, un’altra realtà, un altro mondo. E mi sarei divertito a stupire il lettore con le sorprese della seconda parte, quando i vari io narranti spuntano fuori, uno dopo l’altro.
    Ricordo ancora adesso quella sera di fine agosto del 2006, quando scrissi di getto il prologo di Bacchetta in levare. Con il libretto di Francesco Maria Piave sulla parte sinistra del tavolo, e il file video del terzo atto della Traviata nell’interpretazione di Angela Gheorghiu, diretta da Sir Georg Solti al Covent Garden di Londra, sul pc portatile. Tutto venne giù diretto, come una colata lavica, come qualcosa che avevo maturato dentro di me, e che teneva dentro i primi germi di una trama che avrebbe poi dovuto svilupparsi nel corso della narrazione. Di solito la prima stesura non è mai quella buona, ma in quell’occasione si era talmente accumulata una tensione forte in me, al punto tale da buttare giù l’ossatura di un racconto che, per il 70 %, era già pronto.
    A quel punto, dovevo mettermi al lavoro attraverso una scaletta. Che scrissi in un paio di serate nel settembre 2006. Proprio durante quelle settimane venni a conoscenza che la fondazione Ambrosianeum di Milano aveva indetto un concorso letterario per la ricerca di romanzi inediti, aperti al dramma esistenziale umano: ricordo anche le parole di incoraggiamento di Ferruccio Parazzoli riportate in un articolo pubblicato su Vita e Pensiero, e ripreso anche sul sito di Giuseppe Genna, e le sue forti provocazioni rivolte a dare voce a romanzi che uscissero dai confini angusti delle piccole storie personali, e che dessero voce ai problemi dell’esistenza, alle vere inquietudini di questa società contemporanea. Di tempo a disposizione ce n’era, eccome. Decisi così di mettermi al lavoro.
    In realtà il dettaglio della scaletta era tutto concentrato attorno alla prima parte. L’idea di base era quella di raccontare la solitudine dell’io narrante tra le colline liguri, che conoscevo bene per più di una ragione. I luoghi di Brunetti li avevo frequentati ripetutamente, dunque potevo illustrarli con dovuta cognizione di causa, soffermarmi su particolari che ricordavo bene.
    Il fatto di contare su una buona memoria visiva dei luoghi mi aveva favorito nel provare a soffermarmi su colori, atmosfere, tensioni, prendendo spunto da quegli incredibili strapiombi che i panorami delle colline che si dispiegano sotto la frazione Brunetti si dipanano con un senso dello stupore visuale, tale da lasciarmi ogni volta stupito. Ecco, era proprio quella specie di vertigine che provavo, mentre camminavo lungo quella strada discendente e che, di colpo, oltrepassata la curva estrema, l’ultima dopo la piccola chiesa, si immerge in una radura verde che abbraccia e sommerge la strada asfaltata, poco più di una corsia, nonostante sia una provinciale, e si diriga addirittura verso due confini di Stato: quello autostradale verso Menton e quello verso Breil.
    Cominciai a scrivere seguendo queste coordinate. Sapevo che l’idea di rinunciare, almeno per una prima fase della narrazione, ai dialoghi non era affatto semplice da realizzare, da mettere su carta. Ricorrere allo strumento dei dialoghi, ho sempre letto dalle testimonianze di vari scrittori famosi, era sempre un espediente riposante. Per me non lo era.
    Preferivo far parlare la voce del narratore, dell’io narrante, di quest’uomo stanco di 70 anni che aveva svuotato la sua casa di Bordighera per destinarla agli affitti per vacanze dei turisti, preferendo nascondersi tra le colline, ritrovare una nuova dimensione di serenità, e non rendendosi conto di trovarsi di fronte a tanti, troppi dilemmi, ad un vero e proprio domandare a se stesso quale fosse il destino futuro della sua vita, di fronte ad una tragedia familiare con la quale non riusciva a fare i conti, di fronte ad un lutto che non voleva elaborare.

  121. Durante la stesura del romanzo, avevo in mente l’idea di raccontare la fase cruciale dell’esistenza di un uomo che aveva visto scorrere le tappe fondamentali della storia italiana, passando dagli anni Cinquanta della Scala di Visconti, De Sabata, Giulini e Karajan, e che non si era reso conto di trovarsi, unico testimone, dentro un’altra epoca, fatta di multimedialità, email, telecamere digitali, pay tv, e tante di quelle diavolerie che, nel periodo della narrazione (tra il 2004 e il 2005), si erano già affermate, ma non ancora in quel modo dirompente come adesso (mi riferisco, ad esempio, a quella diavoleria che è il Digital Concert Hall, creato dall’Orchestra Filarmonica di Berlino, e che permette a chiunque, con un pc ultimo modello collegato a Internet, di abbonarsi ad una stagione sinfonica e di vedersi tutti i concerti a casa).
    Volevo provare a mostrare – attraverso la personalità di un uomo affascinante, che aveva vissuto profondamente queste epoche, susseguitesi una dopo l’altra – il mondo contemporaneo, fatto di tante, troppe precarietà, troppe solitudini, troppe variabili dipendenti tra loro.
    Mi ero dunque reso conto che la trama si stava sviluppando in modo coinvolgente nella fase in cui la scaletta si era resa sempre più stringata. Mentre la prima parte era decisamente più dettagliata, ed ero riuscito a svilupparla con maggiore dovizia, salvo poi accorgermi (poi dirò come) che avevo un po’ esagerato, in quella successiva mi ero trovato con le briglie più sciolte, al punto tale dal decidere di divertirmi nel dare voce a più io narranti. È vero, questa tecnica era già stata utilizzata nel romanzo Confessioni di un evirato cantore, anche se la stesura di Bacchetta in levare era stata completata prima: ma l’idea che avevo in mente era quella di creare la coralità dell’azione, di far vedere uno stesso episodio da più visuali, quasi contemporanee tra loro, un po’ come avviene in un film, il flusso si sviluppa, va avanti, e di volta in volta interagiscono i vari personaggi.
    Mi piaceva l’idea di una trama in movimento, dove non ci dovesse essere la solita narrazione in terza persona, bensì una selva di vari soggetti che, uno dopo l’altro, saltano fuori sulla scena, e si trovano coinvolti nel percorso della storia. Un po’ come durante una ripresa cinematografica o televisiva fatta in diretta, quando prima c’è una telecamera in funzione, poi un’altra ancora, e così via, con la differenza che qui c’era solo il fatidico e maledetto foglio di carta, o meglio, lo schermo bianco del pc portatile. Non disponevo di consigli per la scrittura, di manuali vari, a parte le solite letture fatte a spizzichi e bocconi, tra una pausa e l’altra della vita familiare. Però sentivo il desiderio di sperimentare qualcosa di diverso e nuovo. Ma ero consapevole che la parte più difficile doveva ancora arrivare: la terza parte.
    Mi ero messo in testa, pazzo come un cavallo, l’idea di raccontare dal di dentro l’evoluzione di un concerto sinfonico. Sì, di tutto quello che accade quando il direttore d’orchestra entra sulla scena, sale sul podio, e inizia a dirigere. Un rituale, in apparenza, sempre uguale. Ma che ogni volta è diverso, affascina. E crea una tensione difficile da descrivere, da rendere su carta, da immortalare. Avevo un precedente, in proposito, nella recente narrativa italiana: Hotel Borg, il romanzo di Nicola Lecca, che puntualmente avevo divorato, curioso di verificare come diavolo fosse riuscito a cimentarsi nella storia affascinante di un direttore d’orchestra, Alexander Norberg, che decide di tenere un ultimo concerto con i Berliner Philharmoniker dedicato allo Stabat Mater di Pergolesi, in una piccola chiesa di Reykjavik. Ebbene, quando mi sono accorto che nel momento fatidico, in quel maledetto momento, il narratore cede il passo, e non prova a descrivere la musica, ma si limita a riproporre il testo di Jacopone da Todi, mi sono sentito male. E mi sono detto che quella era un’occasione perduta.
    Insomma, il fatto di raccontare l’evoluzione di un concerto, attraverso l’io narrante del direttore, rappresentava per me una grande possibilità. Oserei dire anche: irrinunciabile. Ma non sapevo come e in che modo uscirne fuori.
    Ho dunque interrotto la lavorazione del romanzo. E ho ripreso a leggere: stavolta nessun romanzo, bensì un manuale di direzione d’orchestra (quello di Hermann Scherchen) e uno di teoria musicale. Insomma, ho ricominciato a studiare musica. Poi, dato che avevo già individuato la struttura del programma del concerto ipotetico del protagonista, ho iniziato a cercare la partitura giusta della sinfonia n. 8 di Anton Bruckner. Solo che… non sapevo che Leopold Nowak avesse realizzato due edizioni critiche della stessa sinfonia, basate però su altrettante stesure.
    All’inizio, infatti, avevo ordinato presso l’editore tedesco Schott l’edizione sbagliata. Me ne sono accorto tuttavia dopo aver esaminato la partitura orchestrale, passo dopo passo, essendomi reso conto che diverse parti strumentali erano profondamente diverse, rispetto a come suonavano nei file audio della revisione prescelta, quella del 1890. Ho dunque ordinato l’altra partitura, rivelatasi quella giusta. Poi, non contento, ho fotocopiato la partitura tascabile in un formato di carta A4, provando ad identificare le varie pagine in coincidenza con i relativi minutaggi.
    Mi sono immerso dunque in un linguaggio, in una scrittura diversa dalle solite. Quella delle partiture sinfoniche, fatta di righi musicali che vanno avanti insieme e creano un unico flusso sonoro, quello dell’orchestra. Una scrittura strana, fatta di saliscendi, pause, flussi nervosi che fanno capire quanta sofferenza ci fosse dietro quelle pagine intense, tese, estreme fino allo spasimo, che non aveva nulla a che vedere con quella narrativa, eppure mi affascinava, mi colpiva, e a mano a mano che leggevo le pagine della sinfonia, mi immergevo sempre di più nel dramma interiore di Enrico Liverani, come se fosse mio, come se io fossi Liverani, come se io fossi di fronte a questa orchestra di giovani musicisti in quella sala da concerto dall’acustica incredibilmente unica e perfetta. E mi sono reso conto, notte dopo notte, coinvolto nella fase preparatoria della stesura della parte terza, di quanta veridicità potesse esserci in una semplice trama di finzione.
    Era molto strano, il modo di lavorare sviluppato in quel periodo. Dovevo infatti basarmi sulle sensazioni che si sprigionavano, oltre che dall’ascolto della musica, dalle dinamiche provenienti da tutti quei segni scritti, da tutte le sfumature concentrate nelle varie battute, una per una.
    Il fatto di scandagliare l’intera partitura, per me che fino a quel periodo non avevo mai toccato una pagina di musica dai tempi in cui avevo provato, in età preadolescenziale, ad imparare a suonare il pianoforte, rappresentava una sfida immane. Ma era l’unico modo per cercare di entrare ulteriormente dentro la musica, per provare, non dico a capire, ma a cercare di afferrare anche una benché minima componente dei risvolti e dei flussi di comunicazione che il compositore intendeva esprimere all’atto della sua scrittura.
    E, di conseguenza, di cercare di mutuare questi suoi gesti, questi suoi tic, queste sue estensioni della propria personalità, del proprio vissuto e del suo essere più intimo, coniugandole a mia volta all’immaginaria personalità del direttore d’orchestra, che vive la musica, la fa ricreare dal nulla, trasforma col suo gesto i segni della partitura in suoni vivi che vibrano nella sala da concerto, e crea una tensione vitale in grado di coinvolgere, emozionare, commuovere lo spettatore.
    Durante quella strana fase di stesura, non potevo contare su una scaletta, ma sul lavoro tecnico sviluppato precedentemente, sull’analisi della partitura, che poi era di un profano come me, del tutto avulso dall’abitudine di maneggiare fascicoli complessi come quelli di sinfonie o poemi sinfonici. Come se non bastasse, avevo avuto il folle coraggio di ricominciare a leggere la musica, non partendo da qualcosa di apparentemente facile, come potrebbe sembrare, tanto per fare un esempio superficiale, una sinfonia di Haydn.
    No, assolutamente! Avevo scelto di buttarmi su Bruckner, sulla sua sinfonia più complessa e nel contempo più appagante. Forse perché, inconsciamente, conoscevo quelle musiche dall’età dell’adolescenza, quando mi era capitato di ascoltare, per la prima volta alla radio, l’Ottava sinfonia durante un concerto a Salisburgo del 1975 con i Berliner Philharmoniker diretti da Herbert Von Karajan.
    Quelle musiche mi erano rimaste nella testa, anche negli anni successivi. Al punto tale da sentirne l’eco, d’estate, quando camminavo lungo la strada di Brunetti. Di riconoscere questo o quel passaggio strumentale, identificandolo a questo o quello squarcio collinare.

  122. Era proprio una sensazione strana, quella di coniugare l’entroterra ligure di confine con la musica di Anton Bruckner. Eppure, quando mi svegliavo di prima mattina nella casa di Brunetti, al suono del canto del gallo, provavo una strana sensazione: quella di non trovarmi in Liguria, ma in un luogo di pace, tra le colline bavaresi o quelle svizzere che avevo ammirato più di una volta nei documentari televisivi durante gli anni dell’infanzia.
    Una sensazione che, senza saperlo, animava pure l’inizio di un film del regista Luca Guadagnino, risalente al 2004, Cuoco contadino: l’inizio, un campo lungo che mostrava l’alba dell’estremo ponente ligure, e il mare in estrema lontananza, visto da una collina di Castelvittorio, un altro paese d’entroterra situato a 420 metri d’altitudine, e come colonna sonora il preludio all’atto primo del Tristan und Isolde di Richard Wagner.
    Ecco, il fatto di identificare questi luoghi dotati di una bellezza unica, tale da far mozzare il fiato al turista, al visitatore, a chi come me era abituato al massimo a conoscere la pineta del bosco della Mesola, e quegli scenari devastanti di paesaggi urbani fatti di condomini per le vacanze, totalmente deserti durante l’inverno, e il mare Adriatico, con tutte quelle mucillaggini antipatiche fino all’inverosimile, rappresentava una sorpresa notevole, la scoperta di un mondo completamente diverso. Anzi, di una realtà territoriale decisamente meno degradata rispetto a quella in cui avevo vissuto fino ai miei primi anni di lavoro.
    Durante quel lungo periodo, dicevo, la scaletta non esisteva. Anzi, la scaletta era la partitura. E con essa tutte le sensazioni, gli stimoli che derivavano da un ascolto ripetuto di tutti i passaggi e tutta la struttura di ciascun movimento della sinfonia. Per me era fondamentale sviluppare la parte terza, anche per un altro motivo.
    Nei mesi precedenti, ero rimasto affascinato dalla lettura di un romanzo di Marino Magliani, Il collezionista di tempo. E da una tecnica letteraria per me inusuale: quella delle citazioni anticipate, in corso di narrazione, della parte conclusiva.
    Mi spiego meglio: tutto il flusso della trama comprendeva, in vari punti strategici, una serie di citazioni di estratti della sezione conclusiva, costituita da un racconto autonomo e disgiunto, L’architettura del molo di Porto Maurizio. In altri termini, durante lo sviluppo della narrazione, nei momenti più inaspettati balzavano fuori brandelli di una storia che non c’entrava proprio nulla, piccole schegge di qualcosa che ancora doveva arrivare all’attenzione del lettore.
    In questo caso, invece, avevo pensato di sfruttare questo espediente in modo diverso: anticipando, cioè, le sensazioni e le emozioni che proverà l’io narrante quando si troverà davvero di fronte ad un’orchestra a dirigere quella sinfonia. Con una diversità di fondo: questo sdoppiamento non si verifica quando Liverani lascia la Liguria e si reca in Svizzera, ma proprio durante il periodo in cui il protagonista vive nell’entroterra di ponente, perché quei luoghi dovrebbero permettergli di isolarsi da tutto, dal mondo circostante, e dunque anche dalla musica, solo che invece quando osserva le montagne del Grammondo sente di lontano l’eco dei corni, e poi il dispiegarsi soave degli archi durante il Trio dello Scherzo, tanto per fare un esempio.
    Tutto questo, insomma, per spiegare che l’elaborazione della parte terza era quantomai strategica, proprio per dover poi scegliere i frammenti giusti da inserire nelle fasi necessarie del flusso narrativo, ma quella era un’operazione da compiersi ex-post, inserendo dunque i brandelli di quello che sarebbe accaduto nella fase espositiva antecedente.
    Ma prima di mettermi al lavoro per rivedere la prima parte, quella interamente ambientata nell’entroterra di ponente, ci sono voluti oltre tre mesi per completare la parte terza, perché non si trattava di un compito per me facile. Ovviamente, per tre mesi intendo dire il tempo complessivo, riferito però alla fascia notturna disponibile, visto che la mia prima vita è pur sempre quella lavorativa. Eppure ero consapevole dell’idea di sperimentare qualcosa di nuovo, di diverso, almeno per me.
    L’intento era quello di emozionare il lettore, di renderlo partecipe attraverso una storia inventata, un prodotto di finzione, ma che suonasse come verosimile, e che potesse comunicare emozioni, gioie, dolori, sorprese. Alla fine il coinvolgimento emotivo era diventato per me fondamentale, perché credevo sempre di più in questa strana storia, del tutto diversa rispetto a quelle precedentemente affrontate.
    Solo dopo aver completato i raccordi tra la prima e la terza parte, mi resi conto che mancava ancora un tassello decisivo per la struttura del romanzo: il bis ideale per il concerto. Avevo un’idea, a pensarci bene, ma volevo svilupparla nel modo giusto. Così avevo messo i germi preparatori già durante la seconda parte. Ero rimasto infatti affascinato dal dvd del concerto a Ramallah della West Eastern Divan Orchestra, una formazione composta da giovani musicisti ebrei, palestinesi, marocchini, egiziani e andalusi, diretti da Daniel Barenboim.
    Quella sera di agosto del 2005, davanti alle telecamere di Arte, alla presenza della vedova del docente universitario palestinese, e grande amico di Barenboim, Edward Said, la scelta di concludere quello strano e irripetibile concerto era stata quella di proporre come bis un estratto dalle Enigma Variations di Sir Edward Elgar, Nimrod. Un brano dalla dolcezza sconfinata, un segno di riconciliazione tra l’umano e l’eterno che c’è in ognuno di noi. E mi aveva profondamente colpito il fatto di vedere Barenboim dirigere a mani nude, interamente immerso nella gioia di fare musica, pur nonostante le innumerevoli difficoltà organizzative per far arrivare i musicisti israeliani da Tel Aviv a Ramallah. Dissi a me stesso: se ci deve essere un bis, l’ho trovato. Cercai la partitura delle Enigma Variations, e mi immersi a studiare Nimrod.
    Erano settimane febbrili, quelle. Mi trovavo a raccontare il non raccontabile. A lasciarmi trascinare dal flusso della musica e a metterlo su carta, come se tutto quello sviluppo musicale avesse realmente un senso narrativo. Mi sembrava una follia. Lo era, eccome. Ma volevo provarci. Non era certo mia intenzione cadere nella banalità. Volevo invece fare qualcosa di diverso, spremere me stesso il più possibile per raccontare una storia diversa. Mi domandavo perché non fosse possibile per me tentare qualcosa di nuovo. Di sicuro non avrei inventato nulla, perché tutto era già stato inventato: la narrazione a più voci, era vecchia come la favola dell’uovo e della gallina, l’aveva sperimentata per primo Faulkner. E poi c’erano già pagine della narrativa internazionale ispirate dalla musica: non solo Tolstoj e la sua Sonata a Kreutzer, ma anche e soprattutto Thomas Mann col Dottor Faustus.
    Eppure volevo provarci, sulla base della mia sensibilità, anche maturata attraverso la lettura dei romanzi sopracitati, come pure di altre opere di narrativa che mi avevano guidato durante quel periodo intenso; mi riferisco in particolare a Medium, un romanzo di Giuseppe Genna pubblicato soltanto on line, e ispirato alla vicenda della morte di suo padre, lì ho trovato una serie di echi e indicazioni sull’elaborazione del lutto, sulla percezione del senso della morte, che mi sono serviti non poco per provare ad impostare una linea di lavoro.

  123. Durante questo periodo di lavorazione, non ho lavorato da solo. A mano a mano che procedevo nella stesura, sottoponevo le varie parti del romanzo ad un amico libraio. Marco (questo è il suo nome) viene, come me, dalla Lombardia, è milanese di origine, pure lui si è sposato con una giovane di Ventimiglia, e gestisce con lei una delle quattro librerie della città. È stato lui che, in passato, mi aveva fatto scoprire i vari autori della recente narrativa italiana, dal già citato Genna ai Wu Ming, da Parazzoli a Petrella. In pratica, Marco è diventato il mio editor di fiducia. Mi diceva come e dove non funzionava questa o quella parte, mi suggeriva in che modo cambiarla.
    All’inizio, tendevo ad irrigidirmi, forse per il fatto di non riuscire ad accettare fino in fondo un’opinione diversa dalla mia. Poi mi rendevo conto che dovevo assimilare e capire quella visione, che era indispensabile per provare a staccarmi dall’effetto di affezione che un autore prova per il proprio manoscritto, lo difende come se fosse il figlio più piccolo, non vuole rovinarlo, teme che glielo smontino e lo stravolgano rispetto a quelle che erano le intenzioni originarie. Il rapporto tra l’autore e l’editor è fondamentale, e si rivela utile solo se l’autore accetta di mettersi in discussione, e vuole mettersi di fronte ad una realtà diversa rispetto alla sua individualità, al suo ego, alla sua sensibilità, che risulterà pur sempre utile per produrre, scrivere, elaborare, ma che deve trovare un punto di mediazione con un’altra angolazione, un altro sguardo, un’altra capacità di analisi, quale è quella dell’editor, se vorrà sperare nella possibilità di trasformare una stesura grezza, piena di buoni spunti, in un romanzo vero e proprio che possa funzionare e coinvolgere veramente il lettore.
    Il lavoro svolto insieme, pur nella diversità dei ruoli, si è rivelato fondamentale. Marco capiva benissimo cosa avevo nella testa, cercava di stimolarmi, suggeriva testi e libri diversi, mi dava indicazioni, sapeva evidentemente che potevo alzare l’asticella qualche centimetro in più, come nella disciplina del salto in alto. Era tutto un lavoro di testa, uno sforzo cerebrale, una sorta di dimagrimento psicofisico.
    D’altronde, se volevo cercare di realizzare un romanzo diverso, rispetto ai precedenti, e soprattutto di dimostrare che questo romanzo potesse rappresentare un potenziale esempio di narrativa di sperimentazione, dovevo essere onesto con me stesso e col lettore, far vedere che, pur trattandosi di un prodotto di finzione, era comunque un racconto verosimile, che avesse elementi di realtà, di concretezza, di vicinanza al presente, alla quotidianità di un’epoca storica e sociale in bilico tra la frenesia delle tecnologie della comunicazione multimediale, e non ancora travolte dal web 2.0 e dai social network (la storia si sviluppa tra il 2002 e il 2005), e il ricordo dei decenni anteriori della storia italiana dagli anni Cinquanta in poi, con tutti i vari alti e bassi che si sono susseguiti (il Sessantotto, le lotte sindacali, gli anni di piombo, Mani pulite, ecc.).
    La fase dell’editing, sviluppatasi parallelamente alla stesura del romanzo, si è trasformata in un confronto continuo, nella ricerca di trovare nuove soluzioni alla narrazione. Momenti di sviluppo che, nella prima elaborazione, erano più elaborate, si sono concentrate in una manciata di righe, quasi con un taglio più cinematografico.
    All’inizio, quando mi sono ritrovato a leggere i tagli ulteriori e le correzioni, mi domandavo se ne valesse la pena, ma poi notavo che filava meglio il tutto, era più fluido. Forse non mi rendevo conto di essere eccessivamente fluviale nella scrittura, che tendevo a scrivere troppo, ad essere troppo dettagliato nel raccontare, a mettere tanti particolari, non sempre utili, rischiando così di rallentare la narrazione.
    Certo, Abraham Yehoshua fa bene a dire che lo scrittore non deve farsi prendere dalla fretta nel raccontare, e a godersi le fasi di stesura col giusto tempo. Ma è anche vero che l’eccesso di dilatazione rischia di appesantire il racconto, l’esposizione, e di stancare il lettore. Già rispetto a pochi lustri addietro, i gusti dei lettori sono cambiati: siamo troppo frenetici, vogliamo andare al dunque, capire cosa stia accadendo, forse Ellroy ha influenzato troppo, e in peggio, ogni tanto penso tra me e me. E mi trovo a giudicare vecchio perfino un capolavoro come Doctor Faustus, solo perché il gusto contemporaneo è diverso rispetto all’epoca di pubblicazione del romanzo di Thomas Mann, pur sapendo di sbagliare.
    Ma nel contempo dovevo fare i conti col fatto che il protagonista principale era un uomo settantenne, con i suoi pensieri, le sue nevrosi, i suoi tic, le sue angosce, il suo mondo andato in frantumi in una camera di ospedale, di fronte a un dramma che ha travolto la sua esistenza. E con le emozioni che in modo indiretto avevo provato io stesso, e che si sono travasate dentro questo romanzo. Per fortuna, Marco mi ha guidato con una passione e un’energia impensabile. E meno male che ho potuto contare su di lui.
    C’è un altro aspetto sul quale vorrei soffermarmi, a questo punto: la questione annosa dell’ispirazione. Forse anche grazie all’esperienza giornalistica maturata negli anni giovanili, mi sono reso conto ben presto del fatto che l’ispirazione non è una variabile che va e che viene, indispensabile per cominciare a scrivere.
    Mi ricordo, una sera di tanti anni fa, a Inzago; discutevamo, io e alcuni amici, sulla scrittura, sugli articoli da completare, e domandavo a Pigi Colognesi come riuscisse a mantenere un ritmo di produzione elevato. Mi rispose che, volente e nolente, doveva mettersi a scrivere. Senza rinviare a chissà quando, ma concentrarsi e partire. Non c’erano alternative. Quando ti sono imposte precise scadenze, non puoi fermarti. Vai e basta.
    Ora non dico che questa regola sia altrettanto vera per i romanzi o i racconti. Ma è vero che se non ci si impone proprie regole, metodi di lavoro, mantenendo un certo tipo di ritmo operativo, si rischia di perdere il ritmo, la cadenzialità necessaria per seguire un determinato percorso intrapreso. Personalmente devo fare i conti con un duplice fattore: il lavoro vero, da una parte, e la vita familiare, dall’altra.
    Così devo organizzarmi.
    Ottimizzare il tempo.
    Concentrare la scrittura in un periodo fisso della giornata, quello della tarda serata fino all’una di notte, non oltre (a meno che non mi trovi ad affrontare una scena chiave).
    Col tempo, e soprattutto con l’esperienza, ho imparato a rendermi conto che la componente dell’ispirazione si riduce sempre di più, a beneficio di un lungo lavoro di artigianato, di tecnica della scrittura, soprattutto per ciò che riguarda l’affinamento della pagina, del testo, sia sul piano della fruibilità sia su quello dell’impatto che deve provocare sul lettore. Non è facile spiegare questo concetto con rapidità e con dovizia di particolari, ma è un fatto di esperienza diretta. E che si matura e si comprende rileggendo lo stesso testo, dopo un lungo periodo di distacco temporale. Aiuta molto, sul serio. Rende l’autore più autocritico di prima, più responsabile e soprattutto più consapevole.

  124. Sono andato avanti ad oltranza per giungere alla data fatidica del completamento della stesura: la notte tra venerdì 25 e sabato 26 maggio 2007. A questo punto, mi sembra utile raccontare perché preferisco, di solito, scrivere con la cuffia addosso, e soprattutto con la musica in sottofondo. Mi servo di un pc portatile, e il rumore dei tasti tende a disturbarmi il flusso di esposizione, così l’ascolto della musica tende a distaccarmi dai rumori fisici e materiali, anche da quelli ambientali circostanti.
    In tal modo non mi accorgo del fatto che il tempo scorra, minuto dopo minuto. Ma sono immerso nella storia, e riesco ad andare avanti per quella parte di pagine che posso riuscire a scrivere. Ed è quello che accade solitamente, quando scrivo e mi butto dentro la narrazione, senza fermarmi, pur abituandomi a gestire il tempo di scrittura con una regolarità forse un po’ impiegatizia, perché – come giustamente evidenziano i vari manuali di scrittura creativa – se ci si abitua a scrivere con regolarità periodica, si riesce a mantenere il ritmo, e quindi anche a portare avanti un certo tipo di percorso. Come ho puntualmente cercato di fare.
    Quella sera, invece, e mi riferisco all’ultima sera dedicata alla fase di stesura (per la precisione, all’epilogo, che a sua volta si compone di vari capitoli con la voce di diversi io narranti), il flusso del racconto si sviluppò con una naturalezza inusuale. Andai avanti ad oltranza, documentandomi sui vari luoghi, sulle ambientazioni, servendomi di Internet, ma cercando di immergermi sulle sensazioni che volevo comunicare.
    Non mi resi conto, come al solito, del tempo che scorreva, ma riuscii a venire a capo, cercando di evitare il rischio dell’implosione, gestendo quindi tutti i fili espositivi, per dare compimento ai percorsi dell’intera storia.
    Così, quando terminai di scrivere, provai una sensazione di sollievo, pur sapendo che la parte più difficile doveva ancora cominciare.
    Avevo infatti nella testa l’intento di partecipare al premio Alberto Falck. Lasciai sedimentare il romanzo per qualche settimana, dopodiché iniziai a correggere e rivedere il testo. Dopo un po’ di tempo, spedii il dattiloscritto a Milano.
    Non seppi nulla per un bel po’ di mesi. Ma cominciai ad insospettirmi che le cose non stessero andando per il verso giusto. Mi domandavo se fosse dunque il caso di intraprendere un’altra strada, quando un giorno – era la fine del 2007 – ricevetti una lettera. Che proveniva da Palazzo al Bosco: un paio d’anni addietro, avevo infatti partecipato all’omonimo premio letterario, tra i pochi indipendenti esistenti in Italia, sottoponendo una precedente stesura di Confessioni di un evirato cantore.
    Ma quell’anno la giuria aveva deciso di scartare tutti i romanzi che non fossero già riveduti con un editing strutturale, al punto tale che se ne salvò uno solo. Tuttavia concordarono di indire una nuova edizione, convocando i partecipanti già a loro noti, al fine di esaminare i nuovi romanzi, riservandosi di sottoporli ad un apposito editing, curato dal gruppo delle lettrici del dopocena.
    A questo punto devo aprire una parentesi. E spiegare cos’è Palazzo al Bosco. Si tratta di una splendida tenuta sulle colline vicine a Firenze, dove vive e lavora la professoressa Giovanna Querci Favini, firma storica di Marsilio, e fondatrice di questo premio che, negli anni scorsi, ha lanciato diversi nomi nuovi della narrativa. Cito, ad esempio, il duo di giallisti savonesi Novelli e Zarini.
    Ebbene, decisi di non spedire a Palazzo al Bosco l’Evirato, sul quale non avevo lavorato nuovamente, bensì Bacchetta in levare. E per non pensarci più di tanto, cominciai a fare nuove ricerche per riprendere in mano la stesura dell’Evirato.
    Fino ad un pomeriggio di febbraio del 2008, quando ricevetti una telefonata da San Casciano. Era proprio la Querci Favini. Mi disse che si aspettava la revisione del romanzo storico, le risposi che in quel periodo lo stavo rivedendo, ma avevo preferito spedirle Bacchetta in levare. Mi propose di vederci a casa sua, tra qualche settimana, per sottopormi le proposte di editing elaborate dalla giuria. Solo in seguito ho scoperto che l’analisi del testo, come pure i tagli proposti, era stata effettuata proprio dalla presidente del premio.
    Un venerdì di aprile 2008, in viaggio verso Firenze. Sereno e nel contempo curioso di sapere cosa stesse accadendo. L’incontro era previsto il sabato pomeriggio, ma avevo scelto di arrivare il giorno prima, così da poter tornare eventualmente prima a Ventimiglia. Il risultato fu una breve gita nel centro di Firenze la mattina di sabato, mentre aspettai le quattro del pomeriggio per essere ricevuto dalla professoressa Querci Favini.
    Mi colpì la sua cortesia, la sua grande disponibilità umana nel volermi sottoporre tutte le correzioni necessarie, non mi nascose il fatto che questo romanzo le fosse piaciuto, e che avrebbe gradito un suo approdo alla pubblicazione.
    Parole positive per me, ma che non sapevo se si sarebbero trasformate in realtà. Mentre sfogliava le varie pagine, e mostrava i punti inutili da sfrondare, tutti segnati a matita, si lasciò sfuggire che al termine di un capitolo, quello del primo movimento della sinfonia, si era lasciata scappare, a fine pagina, la seguente scritta: “Bello!”. Sospirai con un po’ di emozione, mentre la professoressa mi disse che il romanzo le era veramente piaciuto.
    Restammo d’accordo che mi sarei messo all’opera per procedere alle correzioni e a rispedire il dattiloscritto nel giro di un mese o due. Ci salutammo cordialmente. Il viaggio di ritorno fu estremamente rapido, forse a causa delle sensazioni positive che avevo provato in quell’occasione.
    Terminata dunque la revisione del romanzo, lo rispedii nuovamente presso il Palazzo al Bosco. Poi mi immersi nuovamente nella ristesura di Confessioni di un evirato cantore, anche perché nel frattempo le ricerche dedicate al reperimento di materiali storiografici si erano rivelate fruttuose, al punto tale da spingermi ad arricchire ulteriormente la struttura della trama. In questo modo il 2008 volò via senza particolari problemi.
    Nel frattempo avevo saputo che il premio Falck era stato assegnato ad un altro autore. Considerato che a quel premio letterario avevano partecipato oltre 300 autori con altrettanti romanzi inediti, pensai che la concorrenza era stata molto elevata, e che forse dovevo lavorare ulteriormente per migliorare il romanzo.
    Ma quello era il periodo per migliorare l’Evirato, e dare il massimo di me stesso. Sentivo che dovevo ottenere di più da me stesso, e soprattutto fornire al lettore un gran numero di sorprese, effetti speciali, servendomi della fantasia, dello stile di scrittura, e di una buona capacità di gestire la pagina scritta.
    Insomma, non mi scoraggiai.
    Ma all’inizio del 2009 giunse per me una notizia sorprendente: l’edizione 2007/2008 del premio Palazzo al Bosco non aveva ottenuto un vincitore. La giuria, di fronte ai cinque romanzi ammessi in finale, non aveva trovato un titolo meritevole per la vittoria, e per la pubblicazione a cura di Marsilio. Mi spiegò tutto, con una lunga telefonata, ancora la professoressa Querci Favini, la quale fornì un elenco di case editrici e dei loro referenti editoriali, presso i quali avrei potuto spedire il dattiloscritto di Bacchetta in levare. Mi disse anche che si era battuta in difesa del mio romanzo, ma che all’interno della giuria c’erano opinioni divergenti, soprattutto per il problema di rintracciare un prodotto “vendibile”.
    Non ho mai saputo cosa sia realmente accaduto in quell’occasione, ma credo che una spaccatura tra i giurati sia stata determinata dal fatto che, da alcuni anni, a vincere il Premio erano puntualmente romanzi gialli o di impronta noiristica, e che la presidente avrebbe voluto cercare qualcosa di diverso, scontrandosi in tal modo (ma questa è solo un’ipotesi) con il rappresentante di Marsilio nella giuria (Cesare De Michelis). Un fatto vero e concreto era stato determinato dalla scelta di non designare nessuno dei romanzi finalisti per l’assegnazione del Premio.
    Eppure la professoressa Querci Favini non smise tuttavia di incoraggiarmi, di dire che potevo farcela, che il mio romanzo meritava di essere pubblicato, e che non dovevo arrendermi. Anzi, mi ribadì che meritavo la pubblicazione, e che era assurdo il fatto che questo romanzo dovesse restare inedito.
    Così, sulla scia di questo incoraggiamento, provai a prendere contatti con i vari editori. E spedii altre copie del romanzo, munite di una lettera in cui specificavo che il romanzo era stato finalista al premio Palazzo al Bosco, alle più importanti case editrici nazionali, ad eccezione di Mondadori, perché mi era stato chiesto dalla segreteria letteraria dell’editore di Segrate di aspettare qualche mese, dopo aver smaltito una serie di titoli in esame. Poi attesi un certo numero di mesi, due, tre, quattro.
    Tuttavia, a parte un’email di Bompiani, nella quale mi veniva comunicato che il romanzo non rientrava nelle loro linee editoriali, non ricevetti altre risposte. Eppure, anche in quell’occasione, cercai di non scoraggiarmi. Anche perché durante la primavera del 2009 avevo fatto pervenire una copia del romanzo allo scrittore Marino Magliani, al quale il romanzo era piaciuto.

  125. Verso la metà del 2009, su stimolo di Marino Magliani, ero entrato a far parte della redazione del blog letterario “La poesia e lo spirito”. Prima di esserne ammesso, avevo inviato due articoli, regolarmente pubblicati, e che erano piaciuti al direttore Fabrizio Centofanti. Proprio a don Fabrizio, che è anche parroco dalle parti di Trastevere, mi permisi di sottoporre Bacchetta in levare. Gli piacque a tal punto da propormi di pubblicarne il prologo. Ero indeciso se accettare, temevo che in tal modo un pezzo di fattore inedito sarebbe scomparso, ma decisi di rischiare.
    Il prologo uscì sul blog, intitolato: “L’ultima recita”. E per qualche settimana non riscontrai alcun commento. Poi, improvvisamente, fu ancora Marino Magliani (che nel frattempo aveva letto e apprezzato questo romanzo durante l’estate) a contattarmi, e a segnalarmi che si era sentito con Bartolomeo Di Monaco, al quale – nel frattempo – era piaciuto il romanzo Confessioni di un evirato cantore, fresco di pubblicazione con Frilli, al punto tale da recensirlo su alcune web riviste letterarie. La sua email fu sintetica, ma precisa: mi suggeriva di sottoporre il romanzo a Marco Valerio editore. Lo ascoltai, e dopo pochi giorni inviai la busta con il dattiloscritto all’editore torinese.
    Dopo appena una decina di giorni (era la fine di novembre del 2009), ricevetti sul telefono cellulare una chiamata. Era la Marco Valerio editore che mi comunicava di aver gradito la ricezione di Bacchetta in levare, proponendomi la pubblicazione nella loro collana I Faggi. Dopo una breve trattativa telefonica, ho deciso di accettare la loro proposta.
    Poi è seguita la solita trafila che precede la pubblicazione: il contratto editoriale, la correzione delle bozze inframezzata dai dubbi ulteriori sulla struttura e sulle parti inutili da eliminare, per responsabilità ulteriore verso il lettore. Dopo due anni di distacco effettivo dalla fine della stesura, ero riuscito ad essere un po’ più obiettivo verso me stesso, e devo ammettere di essere ancora soddisfatto del risultato finale, pur rendendomi conto che spesso c’erano ripetizioni di troppo, piccoli particolari da perfezionare: approfittai dell’occasione delle bozze per intervenire con un certo grado di preoccupazione e scrupolo.
    Poteva sembrare un eccesso di zelo, per me non lo era. Il rispetto profondo che provo per il lettore che sceglie di dividere qualche ora del suo tempo per leggere un mio romanzo mi responsabilizza, e mi spinge a migliorarlo il più possibile. Fin dove mi è possibile.
    Credo anzi sia proprio il caso di soffermarmi su questi ulteriori tagli, su questo editing finale. All’editore, preciso, il testo era piaciuto così come lo avevo spedito, anche perché era già stato pulito e riveduto diverse volte. Però… quando ho ricevuto la prima bozza, e ho iniziato a sfogliare le pagine del testo, una dopo l’altra, mi sono reso conto che qualcosa ancora non andava.
    Ho chiesto quindi ad una copisteria in città di prepararmi una copia della bozza, rilegata come se fosse un libro. Non c’era la rilegatura filorefe, ma almeno potevo contare sull’effetto di avere il libro tra le mani, e verificare direttamente la potenziale reazione del lettore ipotetico.
    Dopo un paio di giorni dalla richiesta, mi sono trovato la copia rilegata tra le mani. E ho cominciato a rileggere. In quel momento mi sono reso conto che c’era ancora qualcosa da tagliare. Mi riferisco ad una serie di divagazioni e ricordi dell’io narrante principale, che magari aggiungevano qualcosa di più alla ricostruzione della sua personalità, ma che nel contempo rischiavano di appesantire ulteriormente la struttura della narrazione. Potevo immaginarmi il lettore che avrebbe detto, tra sé e sé:
    – Uffa, ma quando la finisce di raccontarmi dei funerali di Toscanini?
    È vero, quella divagazione faceva parte del passato vissuto del protagonista, degli anni di gavetta come orchestrale alla Scala, vissuti negli anni Cinquanta, ma dovevo rendermi conto se ne valesse la pena. E questo è un primo esempio.
    Un altro caso curioso. All’epoca della stesura, in un dialogo tra due personaggi si faceva riferimento, ad un certo punto, al regista australiano Baz Luhrmann, per il fatto che aveva saputo modernizzare Shakespeare, senza cambiare una parola del testo di Romeo e Giulietta. Ebbene, una scena chiave di questo romanzo è rappresentata, come dicevo prima, da Nimrod di Sir Edward Elgar.
    Proprio nel mese di gennaio 2010, infatti, un canale televisivo (Sky Cinema 1) stava riproponendo l’ultimo film di Luhrmann, Australia. E casualmente di sono accorto che una scena chiave, sul finire di questo kolossal avventuroso, era sottolineata, anch’essa, dall’utilizzo di Nimrod!
    C’è da considerare che la citazione di Luhrmann e l’utilizzo di Nimrod sono situate in due punti differenti, e tra loro distanti, del romanzo. Ma mentre per me Nimrod assumeva un significato strategico nella narrazione, anzi riveste una valenza strategica, perché costituisce l’elaborazione totale del lutto, e soprattutto l’uscita da questo tunnel periglioso che è la mente umana, la citazione non era indispensabile. Piuttosto poteva far sembrare un fattore di plagio, sia pure indiretto, quando il romanzo era stato scritto in epoca antecedente all’uscita nelle sale cinematografiche di Australia (16 gennaio 2009). Ho quindi deciso di togliere il riferimento a Luhrmann.
    Tutto questo per spiegare che la fase di rilettura del dattiloscritto di un romanzo, quando si trasforma in bozza, in un potenziale libro, in un prodotto editoriale che sarà messo in vendita, a disposizione dei lettori potenziali, implica una serie di variabili e dinamiche, non spiegabili nel dettaglio, ma riassumibili in questo punto: di fronte all’imminenza dell’uscita, chi scrive deve sentirsi più autocritico verso se stesso, non può crogiolarsi pensando che il lavoro è finito, che si va dritti verso la pubblicazione, tutt’altro, si deve rivedere tutto con una preoccupazione di verifica, per rendersi conto di come il romanzo è impaginato, come cadono le pagine, come il flusso di narrazione si dispiega, come la tensione riesca a rimanere alta…
    Avevo detto che non è facile spiegare questa fase in poche parole, è più un intervento di sostanza che di forma, perché ci si rende conto che, quando si impagina, si deve essere sicuri, o quantomeno consapevoli, del risultato finale. Insomma, una vera faticaccia. Che però non è affatto inutile.
    Perché comunque tutta l’attesa trascorsa, prima della data fatidica della ricezione della prima bozza, mi aveva fatto maturare ulteriormente, e soprattutto mi aveva fatto comprendere una volta di più che un romanzo, se è veramente buono, prima o poi trova un buon editore. Basta saper aspettare e soprattutto saper dire no ai vari editori a pagamento, come ho fatto io, che ho respinto alcune proposte pervenutemi in tal senso anche da nomi insospettabili, ma che si sono rivelati una somma delusione.
    Ora che la seconda bozza è stata licenziata, posso sentirmi decisamente più sereno. Immagino già che, dopo la ricezione delle prime copie, proverò una certa emozione, e magari mi pentirò di questo o quel passaggio espositivo. Ma ciò che conta per me, e per il romanzo Bacchetta in levare, è che finalmente la parola e il giudizio passi al lettore.
    Sinceramente non credo di aver creato, con Bacchetta in levare, un prodotto narrativo innovativo, ma sono certo di aver provato a raccontare una storia capace di coinvolgere, commuovere e divertire il lettore. E forse anche provando a comunicare, dal foglio scritto, le emozioni di un dolore profondo che, pur derivante da una trama di finzione, sono comunque vere, vissute e condivise.

  126. Ottimo, caro Achille.
    Ti leggerò con grande piacere domani.
    Per il momento, infatti, chiudo qui… augurando a te – e a tutti gli amici di Letteratitudine – una serena notte.

  127. Sir Edward Elgar, dalle Enigma Variations op. 36: variazione n. 9, Nimrod

    La prima nota, dilatata fino all’estremo, che nasce dal silenzio non proviene dall’inizio del brano. Bensì dalla fine di quello precedente che si conclude in un modo quasi sospeso. Etereo. Aperto ad una dimensione nuova. Così ho scelto di iniziare a dirigere, proprio a partire dall’ultima battuta dell’ottava variazione W.N. (Winifred Norbury).
    Questo prolungamento, affidato ai primi violini, è la netta e vigorosa cesura da una stanca e sempre uguale quotidianità. L’azzeramento mentale di tutti i confini e gli orizzonti materiali. Lo squarcio aperto verso un universo dal quale mi sono distolto, solo temporaneamente. Ma verso il quale il ricordo non è agevolmente rimuovibile. Soprattutto quando il dolore di una perdita così forte come quella di mia moglie si fa sentire.
    Questo lunghissimo sol dei primi violini, linea di unione tra il nulla e l’assoluto. Fonte abbeveratrice per il giusto ristoro spirituale. L’apertura dell’intreccio polifonico di tutti gli archi.
    Un lieve ondeggiare in pianissimo, affidato al canto dei primi violini. L’immagine di un mare calmo, largo, infinito. La luce lunare che illumina con evidenza uno spicchio dello specchio acqueo.
    Una luna piena. Splende.
    La osserviamo io e Giuliana.
    Abbracciati. Senza parlarci più. Non c’è bisogno. Le parole non aggiungerebbero nulla in più di quanto viviamo. La sua lontananza è ora una presenza. Vicina a me.
    Non è più viva. Ma è come se lo fosse.
    Se n’è andata. Ma è come se non fosse mai partita.
    Intanto il mare avanza, come gli archi che procedono con una dolce discrezione. Un susseguirsi di carezze, di espressioni d’affetto. Il crescendo alla quarta battuta rende più intense le emozioni. Accentuate dal vibrato dei primi e dei secondi violini.
    Creano una tensione liberatoria. Da farmi star male. Da farmi capire quanto sia difficile. Quanto resti difficile. Continuare a vivere. Resistere. Restare in questo mondo terreno. Nonostante tutto.
    È proprio quando la melodia si trasforma, si evolve, si ritorce che fa affiorare dal profondo della mia mente i ricordi.
    Quelli di un passato che non tornerà più.
    Quelli di una vita insieme, la nostra, che non potrò più condividere con te.
    Il diminuendo progressivo, un canto accorato. Un dolore espresso con dignità e contegno. Una ferita che deve essere rimarginata. Ammesso che ciò sia possibile. Altrimenti non resterebbe che il difficile attenuamento del dolore. Conviverci ogni giorno.
    Ci avviamo verso la ripresa.
    Il tema melodico abbraccia pure flauti, oboi, clarinetti, fagotti e corni. Si espande. Esprime una dimensione più raccolta. Un volume sonoro denso e pastoso. Un corale funebre privo di parole. Ma aperto alla speranza verso il futuro.
    Sembra di vedere riassunto in pochi istanti il lento passaggio dalla notte all’alba. Dal buio delle ultime ore notturne ai primi bagliori di una luce diurna. Gli squarci del primo chiarore del giorno, sottolineati dal timbro accorato dei corni, mi appaiono davanti. In tutta la loro pienezza. L’aria fresca e un sottile filo di vento mi fanno sentire più sveglio.
    Il tema musicale avanza. Sottolinea la molteplicità delle sensazioni suscitate. Cresce di intensità. Le lunghe e intense arcate dei violini sprigionano un’energia impetuosa. Aumentano sempre di più. Non accelerano. Ma si fanno più possenti e nel contempo più fragili.
    Lo sviluppo discendente suscita sensazioni opposte. Contrastanti. Una cellula melodica che si concentra sotto forma di domanda. Si trasfigura. Lascia le porte aperte. Nella ricerca di una risposta.
    Questo ritrarsi.
    Questo indietreggiare dei violini.
    Questo canto, condotto dagli oboi e dai clarinetti: con poche note lunghe lasciano affiorare le voci, di poco lontane, delle viole e soprattutto dei violoncelli.
    Sembrano durare un’eternità, tanta è la dilatazione del tempo mentale che lascia le sue tracce nella mente.
    Invece si apre subito dopo questo breve attimo di respiro, dopo questo sguardo rivolto verso altri lidi, un ritorno all’orizzonte originario. Violoncelli e contrabbassi fanno ben presto dimenticare questo limbo. Questa temporanea attesa.
    Poche, incisive, arcate discendenti.
    Crescendo molto.
    Adesso i primi e i secondi violini. Prima sullo sfondo. Poi anch’essi in crescendo. No, proprio non riesco a distogliere il mio sguardo da te. Lo so che questa sarà l’ultima volta per chissà quanto tempo mi rimane da vivere, ma non ho altra scelta.
    Il battito del cuore cresce. Cresce ancora di più. Arcate ancor più intense. Vigorose. Cariche di un calore totalizzante. Ma devo mantenere i nervi saldi. Ci provo.
    Scattano i timpani. Un rullo continuo in mezzoforte. Tutta l’orchestra si trova unita. Mi si stringe vicino. Distendo le braccia. Mi viene spontaneo rallentare in questo punto. Non è scritto nella partitura: ma è necessario, me lo sento.
    Ora mi ritrovo il tema iniziale. Stavolta non più tenue. Non più discreto. Ma reso in piena evidenza. Vigoroso. Energico. La prima voce è espressa con un incedere largo e sereno dai violini e dai flauti.
    Eppure tutta l’orchestra partecipa a questa ripresa. A questa condivisione di una maturazione sofferta. Ma determinata. Il transito delle note e degli accordi acquista una forma intensa. Il rullo dei timpani nei punti chiave dell’intreccio melodico conferisce un tono di solennità inusuale.
    Questo non è più un corale funebre, è un inno di libertà!
    È un inno di liberazione dai fantasmi della morte!
    È un inno di liberazione da tutte le paure e i demoni che si aggirano ogni giorno attorno a me, senza ch’io me ne accorga!
    È un inno di liberazione in termini di accettazione, di rielaborazione della tua perdita!
    Non posso crollare, in questo momento, no! Devo reagire!
    Il tema avanza, pur trasferendosi dall’ottava superiore a quella inferiore. Ma non perde un grammo di intensità. Non diminuisce la gradazione di tensione interiore che si sprigiona da queste poche pagine di partiture musicale. E mentre sale il percorso degli archi, condiviso dagli altri strumenti, sento maturare ancora di più quanto stia davvero reagendo con il conforto di questa musica.
    Ma quando si giunge al punto di svolta del tema, il ritmo cadenzato preannuncia una scelta diversa. Non più dunque il rifugiarsi nel tenue intermezzo degli oboi e dei flauti. Non di certo altre soluzioni. La chiusa conduce dritti alla fonte originaria, al tema stesso.
    Non basta dirlo una sola volta.
    No, le nostre orecchie sono troppo incredule per accontentarsi di ciò.
    Allora nella partitura questo inciso si ripete. Poi, una breve pausa di respiro. E l’ultima ripetizione dell’inciso, di poco variata: la domanda si trasforma in perorazione, la discesa si fa più sofferta.
    Il crescendo accumula un’energia inusuale, i timpani rullano con una virulenza decisiva. È proprio il momento giusto. Quello conclusivo.
    Avanti!
    Di nuovo allargo le braccia.
    Eccolo, il tema. Ma è solo l’inizio.
    Lo dilato, per lasciarlo cantare a tutta l’orchestra.
    Poi smorzo improvvisamente il volume, da molto forte a molto piano.
    Non ci resta che terminare con una quiete raggiunta.
    Una serenità tanto agognata. Tanto desiderata. E finalmente conseguita.
    Un mare infinito, che non conosce confini.
    Un mare che si allunga fino ad un orizzonte finale non visibile ad occhio nudo.
    Un mare quasi immobile, una tavola composta di acque che non sono in preda dei moti ondosi provenienti dalle più disparate direzioni.
    Un mare largo e calmo che mi osserva, sullo sfondo di un cielo limpido in una giornata estiva immune dalle brezze e dal caldo alquanto afoso.
    È l’ultima nota, con la quale si spegne la variazione Nimrod, si allontana nel buio, nel silenzio, si ritrae.
    Ma con una dolcezza sorprendente.
    Lascia dentro di me la forza di continuare a camminare.
    La forza di continuare a vivere.
    La forza di continuare a fare musica insieme.

    Bene.

    Ora è tornato il silenzio.
    Posso abbassare le braccia.

    Mi concedo un lungo respiro.
    Guardo questi fantastici ragazzi.
    Non posso che esserne orgoglioso.

    Ancora un attimo di silenzio.
    Poi di nuovo gli applausi.

  128. @ Achille Maccapani. Paolo Cacciolati e Massimo.
    Gentilissimi Messeri, grazie per l’attenzione e le gradite risposte.
    Gli applausi scroscianti, siano tutti per Voi e per la Vostra giovanile dinamica, vorticosa, intrigante e dilettevole voglia di scrivere.
    La capricciosa Musa Calliope dei baldanzosi scrittori e poeti, Vi prenda per mano ; e con dolci suoni di liuto ed arpe, Vi conduca vittoriosi sul podio fiorito, per le meritate ghirlande di alloro…
    Io, ormai prossima all’Olimpo, veglierò sulle ire scomposte di Nettuno e
    invocherò Eolo il benigno, che blandisca e plachi, i bollenti marosi sino ad un calmo approdo nelle italiche librerie, ove Vi attendono gli osannanti fans.
    Possa il propizio vaticinio avverarsi e rendervi felici…Amen!
    P.S. Massimo, ti prego, tu che mi conosci da anni, avverti i nobili scrittori che mi piace scherzare e scusami con loro, per la libertà che mi sono presa. Grazie
    Tessy

  129. Caro Achille, grazie per averci offerto questo bel brano tratto da “Bacchetta in levare”.
    Mi dispiace che siano saltati gli spazi bianchi e i corsivi. Purtroppo questo è il limite dello “spazio-commenti”… a meno che non si introducano i codici html nel testo.

  130. In effetti, qualcosa bolle: un nuovo romanzo, diverso dai precedenti, che sarà pubblicato da Eumeswil nel 2011. E un progetto diverso (si dice “oggetto-non-identificato”; o sbaglio?) attorno al quale sto lavorando. Oltre alle varie idee, scalette, files di testo iniziati e interrotti dopo 20-30 pagine…

  131. Indirettamente ha a che fare con l’ultimo romanzo di Michele Mari (l’ho scoperto poche ore fa!), per colpa di un megaimpianto da concerto, quello del tour mondiale di “The wall” dei Pink Floyd. Il tour non prevedeva date italiane. Ma l’impianto, a sorpresa, giunse in Italia. In uno stadio parrocchiale della provincia milanese. Era la primavera 1980.
    Ora non posso più dire altro…

  132. Ebbene, per la felicità di Achille, “nunzio vobis” che ho in pentola un romanzo molto più ottimista e con le porte aperte alla speranza, rispetto a Digestione del personale.
    Il protagonista di questo romanzo è la provincia, anzi, una provincia in particolare.
    Naturalmente, per non deludere nessuno, ne sto scrivendo un terzo, che potrebbe essere una via di mezzo tra speranza e ottimismo…;-)))
    Ringrazio ancora Massimo per l’ospitalità e auguro a tutti un buon proseguimento di letture e dibattiti su Letteratitudine.

  133. Rindondante affresco che ti ‘risucchia’ nel passato tra intrighi, parrucche e crinoline uno; reale,feroce e alienante l’altro. Eppure entrambi (al di là delle trame) te li senti sulla pelle.
    Con ragione Maugeri li accomuna: “entrambi i protagonisti, a un certo punto, si “ritrovano” davanti a se stessi… a fare i conti con il proprio disagio, con la necessità di ritrovare il senso dell’esistenza, con i buchi neri delle proprie contraddizioni”.
    E’ proprio così.
    Complimenti.
    Valeria Corciolani

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