Ferdinando Camon è uno degli scrittori italiani più autorevoli. Ha pubblicato parecchi libri e vinto diversi premi letterari. Credo sia uno dei pochi che può permettersi di spiegare “perché scrivere” in maniera categorica, senza mezzi termini. Lo ringrazio pubblicamente per avermi concesso questo testo che pubblico qui di seguito. Un testo che, a mio avviso, si presta benissimo per avviare un dibattito.
Massimo Maugeri
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Ci sono molti lavori per i quali un’etica va imposta o conquistata: un rapporto morale con quello che si fa, per farlo con sincerità, con adesione, con verità. Ma c’è un lavoro che ha l’etica dentro di sé, e se non ce l’ha fallisce, non comincia neppure, crolla ad ogni passo. Questo lavoro è quello dello scrivere. Scrivere non è parlare. Parlare vuol dire reagire con le parole a un fatto che accade, mentre accade. Lo scrivere richiede tempo. Il parlare reagisce subito, per provocare nell’ascoltatore una reazione immediata, e di breve vitalità. La scrittura reagisce dopo, a passioni fredde, perché vuol restare a lungo, possibilmente (è il segreto desiderio di ogni scrittore) “per sempre”. Perciò chi parla bene non scrive bene, e viceversa. Sono due qualità distinte, una nega l’altra. Conosco uno scrittore che dice: “So perché scrivo: perché non sono il primo figlio”. Vera o falsa che sia quest’autointerpretazione, lui vuol dire che in casa la prima risposta era riservata al primo figlio, e lui veniva dopo, e in quel dopo maturava una riposta diversa, più calma, una risposta che aveva la stabilità della forma scritta. Non tutte le forme scritte hanno la stessa durata. Per esempio (io ne sono convinto), la storia dura meno della letteratura. E questo perché la letteratura (poniamo, il romanzo) dura a prescindere dalla verità che racconta, mentre la storia, appena si dimostra che non è vera, cade. Perciò c’è una responsabilità maggiore nello scrivere pagine che durano di più. La responsabilità può essere così alta, e lo sforzo etico di reggere l’impegno così logorante, che la scrittura genera la nevrosi, scrittura e nevrosi diventano la stessa cosa. Quasi mai lo scrittore scrive in pubblico, di solito si nasconde. O nasconde quel che scrive. Tolstoj lo nascondeva dentro gli stivali, dove chi lo spiava andava a frugare non appena lui era uscito. Leonardo lo nascondeva scrivendo da destra a sinistra. Come uno che oggi, usando il computer, mette una chiave d’accesso conosciuta a lui solo. Qui c’è il concetto che l’etica dello scrivere non è mai l’etica del vivere, del vivere in quel momento, ma è la rottura dell’etica imperante, e l’instaurazione di un’etica nuova. Perciò gli scrittori di denuncia sono inaccettabili dall’etica corrente, verranno accettati più tardi, quando si sarà instaurata l’etica che loro collaborano a introdurre. Bassani ha dovuto lasciare Ferrara, Moravia non lo potevan più vedere in Ciociaria, Pasolini è finito addirittura in carcere, Volponi s’e dimesso dal posto di lavoro. Noi viviamo dentro un sistema dove tutte le forze sono in equilibrio, morale-politica-religione-scuola-arte-letteratura-informazione, la luce che illumina i passi della nostra vita viene da tutto ciò che è gia stato espresso, e che crede di essere tutto l’esprimibile: colui che si mette a scrivere esprime qualcosa di nuovo, d’inatteso, e di temibile perché rompe gli equilibri preesistenti, sicché tutto quello che c’è lavora affinché il nuovo non sia detto. Non c’è mai bisogno di un nuovo scrittore. E’ lo scrittore che, scrivendo, deve creare il bisogno di sé. Lo scrittore riesce nella misura in cui crea questo bisogno. Da quel momento è un “classico”. Scrivendo, comunica un’etica, un’idea di bene, la “sua” idea di bene, che è insieme estetica e morale, che durerà più in quanto estetica che in quanto morale. Questo spiega perché raramente i grandi scrittori, quando cominciano, hanno successo. Perché non sono in sintonia col gusto corrente, il gusto della massa. Una volta Majakovskij si presentò a una conferenza, salì sul palco, cominciò a parlare e fu subito applaudito. “Mi applaudono – pensò con disgusto -, dunque non dico niente di nuovo”, e se n’andò. L’incrocio di un’opera col gusto della massa crea il fenomeno noto come best-seller: il best-seller è “sempre” un libro morto, perché è il risultato di un gusto all’apice della diffusione, quindi in fase morente. “Best-seller” e “libro reazionario” sono la stessa cosa. Perciò possono esistere dei manuali su come si scrive un best-seller, con l’indicazione di tutti gli ingredienti, e le relative percentuali: il best-seller deve corrispondere, non inventare, non sgarrare. E se un libro è reazionario, l’autore è reazionario. E se quell’autore, oltre ai libri, scrive articoli, saranno articoli reazionari. Un libro in sintonia col gusto presente è già un libro del passato. Perciò coloro che scelgono i libri da stampare, in una casa editrice, dovrebbero scegliere non libri che li confermano, ma libri che li smentiscono e li seppelliscono. Di tutti i lettori di manoscritti, quello che trovo piu interessante non è il mitico Bobi Bazlen, personaggio dello “Stadio di Wimbledon” di Del Giudice, che affrontava ogni nuovo testo sconosciuto ponendosi la domanda: “Risponde questo libro alla mia idea di libro?”, perché voleva vivere nei libri degli altri, che dunque dovevano scrivere perché lui vivesse; domandarsi se un libro c’è o non c’è ponendosi quella domanda, significa costringere il libro a confermarci; no, preferisco l’estetica applicata dall’umile cristiano-comunista Franco Fortini, che di fronte a un manoscritto poetico di Andrea Zanzotto ebbe l’onestà di scrivere suppergiù così: “Nulla di questo libro poetico corrisponde alla nostra idea di libro e di poesia; ma è un libro poetico; e dunque alla domanda: Stamparlo sì o no?, rispondo: Stamparlo subito, purtroppo”. In un certo senso, quella parte di cristianesimo-e-comunismo di Fortini che Fortini non riusciva a dire, era detto, in forme non fortiniane, nei versi di Zanzotto. Anche questa è una maniera per vivere oltre se stessi. Dunque, per scrivere. Questa unità tra vivere e scrivere fa sì che si scrive come si vive. La menzogna, l’insincerità nella scrittura è impossibile: il libro falso è quello che si chiama “un libro non-scritto”. Lo vedi subito, fin dalle prime righe. L’etica nella scrittura non può essere imposta, o è naturale o non c’è. Uno studioso francese ha scritto un libro sul rapporto tra scrivere e respirare: François Bernard Michel, “Le Souffle coupé, respirer et écrire (Gallimard), per collegare l’asma di Queneau ai suoi problemi esistenziali, la tosse di Paul Valéry ai suoi gridi, l’asma di Marcel Proust alla sua ricerca mortale del senso, lo spasmo alla laringe di Mallarmé alle sue pagine bianche… La conclusione di Michel è: si scrive come si respira. Allo stesso modo noi potremmo trovare una corrispondenza tra le scritture e le nevrosi di Dante, Petrarca, Tasso, Manzoni, e via via fino a Pasolini. Sono etici perché sono autentici, e viceversa. La malattia è il prezzo dell’eticità, il costo della scrittura. Allo stesso modo io credo che un critico fornito di buoni strumenti possa dire, leggendo una pagina di Parise, se l’ha scritta prima o dopo l’entrata in dialisi. L’entrata in dialisi corrispose ad un diverso scorrimento del sangue nelle vene, e il diverso scorrimento del sangue nelle vene gli dettava un diverso fluire delle parole nella frase, e una diversa cadenza della punteggiatura. Il senso è: scrivi come ti scorre il sangue. Poteva Parise scrivere diversamente? E’ come chiedergli di essere in dialisi senza essere in dialisi. La responsabilità sta nello scrivere per come si è. Rispondere della propria scrittura vuol dire rispondere di come si è. Nel mostrare come si è. Nel consegnare quello che sai, quello che sei. Questo è etico. Poiché si vuole scrivere “per sempre”, si risponde “per sempre” degli effetti della propria scrittura. Omero ne risponde ancor oggi. Consegnare quello che sei non significa consegnarsi ai contemporanei, che possono non accoglierti, bensì a coloro che verranno. Anche se non sai l’accoglienza che ti faranno. Lo scrittore che fa questo, è etico. Lo scrittore che non fa questo, non è che non sia etico, è che non è uno scrittore.
Ferdinando Camon
Vi invito a riflettere sul testo di Ferdinando Camon. E poi a dire la vostra.
Cosa ne pensate?
Esprimetevi con sincerità, ma con la massima educazione (rileggetevi il testo dell’ avvertenza sulla colonna sinistra del blog).
Sapete che ci tengo molto!
Grazie.
😉
Mi permetto di estrapolare alcune frasi particolarmente significative (ognuna delle quali, a mio avviso, meriterebbe di essere dibattuta a parte):
– Gli scrittori di denuncia sono inaccettabili dall’etica corrente, verranno accettati più tardi, quando si sarà instaurata l’etica che loro collaborano a introdurre.
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– Colui che si mette a scrivere esprime qualcosa di nuovo, d’inatteso, e di temibile perché rompe gli equilibri preesistenti, sicché tutto quello che c’è lavora affinché il nuovo non sia detto. Non c’è mai bisogno di un nuovo scrittore. E’ lo scrittore che, scrivendo, deve creare il bisogno di sé. Lo scrittore riesce nella misura in cui crea questo bisogno.
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– L’incrocio di un’opera col gusto della massa crea il fenomeno noto come best-seller: il best-seller è “sempre” un libro morto, perché è il risultato di un gusto all’apice della diffusione, quindi in fase morente. “Best-seller” e “libro reazionario” sono la stessa cosa.
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– Un libro in sintonia col gusto presente è già un libro del passato.
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– La menzogna, l’insincerità nella scrittura è impossibile: il libro falso è quello che si chiama “un libro non-scritto”. Lo vedi subito, fin dalle prime righe. L’etica nella scrittura non può essere imposta, o è naturale o non c’è.
il pezzo di camon mi sembra molto forte e serio. sicuramente fa riflettere.
forse si fa troppo presto a dirsi scrittori.
mah, sono curiosa di leggere il parere degli altri commentatori.
Molto bello il pezzo di Ferdinando Camon.
Però se dobbiamo “dibattere” siamo chiamati a esprimere anche opinioni in disaccordo, giusto?
Chiedo scusa al dr. Camon se mi permetto.
Io non sono molto d’accordo quando lei dice: “L’incrocio di un’opera col gusto della massa crea il fenomeno noto come best-seller: il best-seller è “sempre” un libro morto, perché è il risultato di un gusto all’apice della diffusione, quindi in fase morente. “Best-seller” e “libro reazionario” sono la stessa cosa.”
Si possono fare diversi esempi.
Ne faccio due. I primi che mi vengono in mente.
“Cent’anni di solitudine” di Marquez è stato senza dubbio un best seller. Può essere considerato un libro morto? Il risultato di un gusto all’apice della diffusione? Un libro reazionario?
Non credo.
Altro esempio: “Il nome della Rosa” di Umberto Eco, per restare in Italia.
Ehm, una precisazione!
Quello che Ferdinando Camon dice sui best seller è certamente vero nella maggior parte dei casi.
Volevo solo sottolineare il fatto che esistono importanti eccezioni.
Tutto qui.
“Camon subito santo”, mi verrebbe da dire parafrasando uno striscione dei tifosi della Nazionale. Apprezzo molto il fatto che uno scrittore affermato vada controcorrente. Mi sembra che in questo ricchissimo articolo dica tante di quelle verità che se ne potrebbe discutere per delle ore. Il punto che mi ha colpito di più è quando sostiene che essere uno scrittore significa soprattutto affermare con coraggio la propria individualità. E che l’arrivo di uno scrittore “nuovo” è il peggiore spauracchio per un mondo letterario spesso massificato.
Tuttavia anch’io, come Stefania, credo che esistano delle eccezioni. Agli inizi del Novecento, per esempio, ci furono degli scrittori che corrispondevano al ritratto di “uomo nuovo” che descrive Camon. Ma se il genio di Kafka fu riconosciuto solo post mortem, quello di Pirandello, vincendo le prime critiche, si guadagnò addirittura il Premio Nobel. Dipende da un insieme di condizioni… Proprio in nome dell’individualità, credo che ogni scrittore (e ogni uomo) faccia storia a sé.
Ogni singola ”frase minima” di questo netto e eccellente scritto di Camon andrebbe soppesata e sottoposta alla prova del nove della contraddizione con il suo esatto contrario. Ma purtroppo questo non e’ il luogo per riuscire in tale doverosa impresa (servirebbe un articolo vero e proprio).
Pertanto mi limiterei al momento a presentare all’autore e ai lettori di Letteratitudine due categorie di osservazioni piuttosto sbozzate e redatte di primo acchito, che sto producendo ora dopo aver letto due volte l’intervento dell’autore della ”Moglie del tiranno”. Ecco:
1) I passi coi quali discordo e perche’.
2) I passi coi quali concordo e perche’.
1)
– Camon, in questo punto ”…Chi parla bene non scrive bene, e viceversa. Sono due qualità distinte, una nega l’altra” vorrebbe dimostrare un concetto che ritengo vero solo per la narrativa e la poesia, mentre per altri campi della scrittura e’ indimostrabile; e’ infatti, al contrario, dimostrabile la dipendenza, almeno in molta filosofia greco-romana, della forma scritta da quella orale del dialogo – perche’ la filosofia, quando era grande filosofia, veniva creata con i dialoghi orali, dopo messi per iscritto; o anche modellata per iscritto imitando molto verosimilmente dei dialoghi orali (Il ”Laelius de amicitia” di Cicerone e’ un esempio di quest’ultimo metodo, imitatorio dei dialoghi reali). Almeno in questo campo del pensiero, insomma, chi ci puo’ assicurare che i dialoghi socratici scritti e da noi trovati non abbiano in realta’ ridimensionato, deviato o addirittura peggiorato le vere parole dette Socrate?
Inoltre, mi permetto di affermare che esistono tuttora delle persone – poche ma ci sono – capaci di parlare dando forma letteraria subito a quanto dicono, pur senza avere la penna in mano. Sono quelle persone che mentre parlano pensano con la punteggiatura.
– ”Un libro in sintonia col gusto presente è già un libro del passato” e ”Non c’è mai bisogno di un nuovo scrittore. E’ lo scrittore che, scrivendo, deve creare il bisogno di sé. Lo scrittore riesce nella misura in cui crea questo bisogno. Da quel momento è un “classico”.”
Bene. Ma se questo ipotetico scrittore riesce a far, appunto, nascere negli uomini suoi contemporanei questo bisogno e pertanto vende (da vivente) mezzo milione di copie di un suo libro, questo si definisce best seller, giusto? Ma e’ anche un libro buono perche’ l’autore e’ riuscito a ”creare il bisogno di se”’. La contraddizione alita fra queste righe. Il postulato zoppica, perche’ vale solo per le opere mediocri e vendute, senza considerare che esistono grandi opere molto vendute (una fra tutte: ”Il nome della rosa” di Eco).
– ”La malattia è il prezzo dell’eticità, il costo della scrittura.” Anche in questo luogo e’ presente una forzatura fortemente idealistica, data forse da una concezione romanticamente eroica del mestiere di scrivere. In base a quale paradigma la scrittura deve per forza corrispondere a nevrosi e malattie della vita extra-letteraria? Per quale motivo? Per la sua durezza lavorativa? Per lo sforzo, compiuto dallo scrittore, di far coincidere le sue etica e morale con tutti gli ingredienti tecnico-linguistici di una narrazione? Allora questo starebbe a certificare che qualsiasi lavoro che non sia semplicemente manuale genera malattia o ne viene generato. Ribatto dicendo che i contadini analfabeti erano degli intellettuali dell’agronomia, pur non mettendo per iscritto le proprie conoscenze, eppure erano sani, integri, forti e compiuti, stabili sia mentalmente che fisicamente (almeno in genere).
Insomma, la bellezza dello scrivere, dell’esprimere la propria gioia interiore di stare al mondo e il proprio entusiasmo per l’amore verso la scrittura, la natura e gli uomini, mi sembra siano dei concetti sconosciuti o almeno non considerati per niente da Camon.
2)
Qui riassumero’ senza trascrivere.
– Il passo sopra criticato, dove parla della differenza tra scrivere e parlare – purche’ si intenda, invece di ”scrivere”, ”narrare” e/o ”poetare”. Se si parla di narrare e poetare, concordo. Altrimenti no.
– Dove Camon parla (questo anzi e’ il leit motiv dell’articolo, mi pare) dell’eticita’ insita nella – buona – scrittura e dice che la scrittura o e’ etica e autentica – dunque di conseguenza riporta la vita dell’autore – o tout court NON E’. Non e’ buona, si deve sottintendere, ma ciarpame, chiacchiera, commercio, avanspettacolo, vanto e sbruffoneria. Sono d’accordo, a patto che si salvi l’idea bontempelliana di ”parlare del sogno come se fosse realta’ e della realta’ come se fosse sogno”. E anche a patto che si veda della realta’ intima dell’autore anche in opere di fantasia quasi totale, onirica, anzi vaneggiante, come l’ ”Orlando furioso” o ”La Gerusalemme liberata”. Le modalita’ in cui un’anima vera si esprime, per l’appunto, possono anche essere quelle che acquistano gli abiti dell’assurdo e dell’irreale, dell’inverosimile – come nelle ”Metamorfosi” di Ovidio o nel ”Maestro e Margherita” di Bulgakov, nell’ ”Asino d’oro” di Apuleio. Anche la bellezza – diciamo ”teatrale”, o ”favolistica” – e’ bellezza, gioia ed armonia. Sempre che la Letteratura debba anche esser bellezza, gioia ed armonia, naturalmente. Gioco serio come quello dei nostri bambini.
Saluti Cordiali
Sergio Sozi
L’intervento di Camon mi sembra lucidissimo e interessante. Mi piacerebbe definirlo anche importante, ma alla sua importanza, aimè, dovrebbero concorrere le capacità di scrittori, editori, distributori, critici e librai. Quindi una chimera. L’intervento, comunque, rimane una sorta di monumentale manifesto per chi voglia aderirvi.
A me, inoltre, piacerebbe sapere da quando Camon ha maturato le convinzioni che esprime nel suo intervento. Mi piacerebbe, in sostanza, sgombrare il campo dall’ipotesi che dica quel che dice in quanto ormai (giustamente e meritevolmente) scrittore popolarissimo e affermatissimo.
Il suo intervento, poi, sembra vertere sulla letteratura “nobile”, quella dell’impegno civile e dei contenuti imperituri. Non dico che Camon dica questo, dico solo che questo percepisco. E se sbaglio sono abbastanza contento di errare.
Questo perché, personalmente, apprezzo l’etica anche in chi scrive libri di gastronomia o di punto-croce. Se cito un episodio che mi riguarda è solo per spiegare meglio ciò che penso.
Tempo fa un editore mi propose di scrivere un libro-inchiesta su una intricata vicenda criminal-giudiziaria. Mi garantì la stampa di numerose copie e grande diffusione nelle librerie. Insomma, dal suo punto di vista, riteneva quel libro importante e anche remunerativo.
L’ho ringraziato per la stima e la fiducia declinando l’offerta. A me di scrivere una cosa (forse ben vendibile) ma che non mi andava di scrivere non lo trovavo etico.
Le storie di criminalità sono il mio lavoro. I libri (almeno per me) sono un’altra cosa.
Che nei libri l’autore metta se stesso o ciò che a se stesso arriva dagli altri e dal mondo circostante poco importa. Si tratta comunque di emozioni vitali che lui filtra dentro di se come se avesse una spugna sul cuore per restituirle rigenerate dalla sua sensibilità.
L’autore, quindi, esprime e mette in gioco ciò che lui è anche attraverso cose e sensazioni altrui.
Ferdinando Camon saprà certamente di fenomeni editoriali studiati e programmati a tavolino.
Nella musica succede altrettanto.
Non condanno, magari a volte esce fuori qualcosa di valido anche da un assemblaggio artificioso.
Ma non è quella la strada che mi verrebbe facile percorrere. Paradossalmente faticherei come un camallo a scrivere ciò che è frutto di una precostituita strategia. Preferisco stancarmi gli occhi sulle righe che mi “divertono”. Ma vivo d’altro e posso permettermi questo atteggiamento “scapigliato”. Altri non so. Ognuno coltiva i suoi fiori.
Caro Camon, per punirla del suo rigore la condanniamo a imparare a memoria il soprastante intervento di Sergio Sozi. E non osi più urtare “l’etica” del nostro pensatore sloveno. Ecco! 🙂
P.S.
Quanto ho scritto e’ inesaustivo, ripeto – aggiungendo che forse puo’ esser successo a volte che grandi parole dette a voce abbiano avuto la fortuna di trovare dei grandi libri in cui esser ospitate. Nessuno puo’ dimostrare il contrario, puo’ soltanto supporlo.
Leggendo alcuni interventi, mi trovo con essi d’accordo. L’identità best seller = pattume non è una legge. Credo però che Camon facesse un discorso basato sulla generalità del fenomeno e/o che forse intendesse riferirsi a quei best seller preparati a tavolino in ogni loro fase: dalla scrittura, alla pubblicazione, al battage pubblicitario.
Di best seller ce ne sono vari tipi: Cent’anni di solitudine, Harry Potter o l’elenco del telefono. A ciasuno il suo.
Sissi’, sfotti, Enrico, sfotti, che appena avro’ finito di leggere il tuo romanzo ”Un te’ prima di morire” ti sistemo io per le feste comandate, col vestito alla marinaretta e lo scrimo a destra o a sinistra (niente allusioni politiche).
Tuo Affettuosamente Bastardo
S.
Infine, sperando di non essergli andato a nusea, vorrei porre una domanda a Ferdinando Camon:
la scrittura e’ un atto naturale o artificiale? (tengasi presente che anche il lavoro di un operaio sta nell’applicare delle ”cose” metafisiche – ossia almeno delle istruzioni che vanno capite, interiorizzate e infine applicate – a delle realta’ fisiche come la costruzione di un’automobile o altri tipi di realizzazione materiale, fisica.).
Grazie Mille
Sozi
Vorrei incontrare Camon per la strada e abbracciarlo come un’anima gemella che si riconosce. Non solo condivido tutte dico tutte le sue riflessioni, ma le trovo preziose, le trovo piene di senso e di poesia.
La scrittura non é mera condivisione di una storia, ma il consegnare se stessi alla Storia. Scrivendo rimetto il Sacro al giusto posto, il totem del passato e quello escatologico delle generazioni future a cui mi sto consegnando.
Scrivendo esorcizzo la morte attraverso un vero e proprio rito sciamanico, in cui tutto il corpo partecipa, sangue, ossa, umori e dolori si mescolano nella pozione che ci aprirà le porte degli inferni o dei cieli.
Grazie Camon, stamperò queste pagine e le attaccherò sul frigorifero. Come quelle donne grasse che appendono le foto delle modelle per ricordarsi che troppo cibo fa male.
Troppe chiacchiere, troppo narcismo, troppo idolatria, grazie Camon, le tue parole sanno di pane e formaggio, voglio farne tesoro e e memoria prima di accingermi ad imbrattare la perfezione del bianco.
L`articolo di Camon e` largamente condivisibile.
Eppure in esso traspare la sfiducia che tutto cio` possa diventare realta`.
Sembra quasi l`estrapolazione di un libro sacro : una enunciazione di virtu` che mai trovera` applicazione nella vita reale.
E` una cosa molto triste e pensarci bene.
Sono soppratutto d`accordo sull`affermazione che lo scrittore deve affermare la propria individualita` e che si scontra continuamente con il sistema vigente.
E` in fondo un don chisciotte e non si potrebbe chiedere di piu` ad una persona eticamente matura.
La responsabilità sta nello scrivere per come si è. Rispondere della propria scrittura vuol dire rispondere di come si è. Nel mostrare come si è. Nel consegnare quello che sai, quello che sei. Questo è etico. Poiché si vuole scrivere “per sempre”, si risponde “per sempre” degli effetti della propria scrittura. Omero ne risponde ancor oggi. Consegnare quello che sei non significa consegnarsi ai contemporanei, che possono non accoglierti, bensì a coloro che verranno. Anche se non sai l’accoglienza che ti faranno. Lo scrittore che fa questo, è etico. Lo scrittore che non fa questo, non è che non sia etico, è che non è uno scrittore.
Concordo e sottoscrivo. Mi rendo conto che queste parole di Camon sono pesanti e ci costringono (noi scrittori o autopresunti tali) a ripensarci e a meditare profondamente sul significato di ciò che scriviamo. Ma trovo anche un incoraggiamento a seguire quella che è la mia piccola etica: scrivere quello che sento, non quello che vende.
Laura
Come già affermato in altre pagine di questo blog, per me la vera dote dello scrittore è quella di vedere cose che gli altri non sanno vedere o che vedono senza la capacità di capirle e di interpretarle. Dal basso della mia bassezza –scusate il gioco di parole- di novella scrittrice, la parola è senza dubbio il modo più umano di rappresentare in qualche modo se stessi. Personalmente scrivo “sotto emozione”, non riesco semplicemente a legare parole che insieme risultino coerenti e piacevoli. Dentro deve prendere posto un’emozione, un guizzo, un moto per quanto piccolo.
Concordo pienamente con Laura Costantini, che mi ha di poco preceduta. Anche a me hanno fatto riflettere molto (oltre a tutto il resto dell’articolo, davvero interessante) le ultime frasi. Personalmente, nella vita come nella scrittura, ho sempre fatto scelte di cuore e mai di portafogli.
E questo, almeno per me, può definirsi etico.
A Silvia (no, questa mattina non mi sono svegliato credendo di essere Leopardi, è che rispondo alla Leonardi):
Sono d’accordissimo sulla seconda parte della tua affermazione. Cioè credo che lo scrittore traduce (anche) cose che gli altri percepiscono benissimo ma che non riescono a esprimere. Non certo perché lo scrittore sia più intelligente di loro, ma perché ha un modo diverso e/o particolare di comunicare. In uno dei miei precedenti interventi affermavo proprio che può essere naturale e creativo trasportare sullo scritto le emozioni vissute da altri e che questi altri ci hanno in qualche modo “invitato” a vivere attraverso loro.
A Sergio:
non ti temo 🙂
Ho letto e riletto, e riassaporato questo pezzo di Comon. Trovo sensate anche alcune obiezioni mosse nei commenti (non proprio sempre best-seller equivale a spazzatura, d’accordo) però, volendo tirare una regola generale, probabilmente si potrebbe dire che il 90% dei best seller rientrino nell’inutile ciarpame per sollazzare/solleticare le masse. L’eccezione è sempre possibile, per una serie magari fortuita di circostanze (e magari l’80% di quelli che hanno comprato “Cent’anni di solitudine” l’hanno trovato un polpettone di una noia mortale: l’hanno comprato perchè “si diceva fosse un capolavoro”, l’hanno letto a metà e poi lasciato esposto in libreria… Il che alla fine confermerebbe appieno la regola).
Però il discorso che fa Comon sull’etica dello scrivere è assolutamente da stampare, incorniciare e mandare a memoria. Corrisponde a quell’idea di scrittura necessaria, di scrittura saldata alla carne, alle ossa, al respiro che sento profondamente mia. E non parlo di ciò che scrivo, ma di ciò che leggo, della Letteratura a cui io metto la maiuscola, della Scrittura degna di tale nome.
“La menzogna, l’insincerità nella scrittura è impossibile: il libro falso è quello che si chiama “un libro non-scritto”. Lo vedi subito, fin dalle prime righe. L’etica nella scrittura non può essere imposta, o è naturale o non c’è”
Questo dovrebbe essere il vangelo, per chi scrive. Questo dovrebbe essere il criterio, per chi seleziona quali opere e quali no andranno ad affollare gli scaffali delle librerie, ora intasate di scrittura disonesta, di libri non-scritti, di pagine e pagine di niente ben confenzionato e destinato a un consumo veloce che intossica la mente, e irrigidisce le arterie dell’anima, peggio di quanto facciano i grassi idrogenati a quelle del corpo!
sabrina
Mi sono accorta ora di avere scritto (per ben due volte) Comon, anziché Camon. Chiedo scusa allo scrittore. La scrittura “da commento” evidentemente corrisponde più ai tempi concitati del parlato che a quello dello scritto.
Massimo, ho rilanciato questo tuo post anche qui:
http://balenebianche.splinder.com/post/14602098/Scrivo%2C+perch%C3%A8+non+sono+il+pr
(lì con le vocali al posto giusto…)
a volte,in maniera poco “comunista” ho pensato che il consenso del “popolo” (modo politicamente scorretto per definire “chi non se ne intende”) fosse per il mio romanzo sintomo di scarsa qualità. a quanto pare lo scritto di camon conferma le mie ipotesi. tuttavia, per non distruggere del tutto la mia autostima, ripenso a Le corbusier, il cui obiettivo non era “distruggere il popolo” bensì “distruggere i corvi dell’accademia” (da cui il nome). da quasi architetto e quasi scrittore, apro una finestra di speranza sul mio futuro.
per il resto, non si sia ipocriti nel dire che nessuno spera che il proprio libro abbia successo e diventi un best seller, facendo i romantici, posto che spero non tutti abbiano la presunzione di essere come garcia marquez o umberto eco (ovviamente me compresa).
il massimo? nessun compromesso tra la propria scrittura e “la formula da manuale per un best seller”.
il mio augurio per tutti noi.
Questo brano di Camon – che bello. Ci ho trovato anche io molte cose da sottoscrivere: L’idea dello scrittore che deve inventare la sua necessità, l’idea dell’inesistenza quasi logica del libro falso. L’idea dell’etica di rottura.
Ma sento qualcosa sotto con cui sono in dissintonia, qualcosa che riscontro spesso nel pensiero degli scrittori di professione – forse perchè non sono una scrittora di professione, e per mio sento la scrittura come una funzione psichica, un sesto senso da esercitare, un percettore alternativo di mondi. E siccome la vivo così la scrittura sia quando scrivo e – soprattutto quando leggo – non riesco a condividere del tutto gli stilemi cche si cercano intorno alla figura di scrittore, almeno in quanto scrittore. Perchè deve avere necessariamente un matrimonio con l’etica? egli trascrive un suo mondo con questo senso che ha in più. Ma tutti abbiamo un mondo etico.
E poi c’è questo senso del prestigio dell’autorialità vs i prodotti culturali mediatici implicitamente avvertiti come di seconda classe. L’uno crea un mondo e lo fa divenire necessario, l’altri imparano a mangiarselo. Ma è davvero così? davvero le etiche e i pensieri soggettivi possono germogliare come funghi in individuaalità prodigiose, quel gran figo dello “Scrittore”! senza che esso scrittore abbia parentele intense e debiti, e commerci con quel mondo che deve infrangere – o in caso confermare. (Perchè, una delle poche cose intelligenti dette una volta da Piperno: gli scrittori sono spesso dei reazionari, desiderano restaurare un mondo, che sentono di perdere: ce l’hanno nella testa e lo rimettono sulla carta).
A Morgana
Altro che, credo ci sperino tutti (me compresa) che il proprio libro abbia successo! La sfumatura sta nel fatto che chi lo scrive, voglio immaginare non lo faccia pensando ad un argomento di sicuro interesse, o a “un gusto all’apice della diffusione”, ma che lo faccia perchè ha qualcosa da dire e perchè lo sente.
dimenticavo di aggiungere che se trovi quella formula di cui parlavi, senza alcun compromesso con la propria scrittura…fammi sapere! 😉
Il tema lo trovo molto interessante, ma essendo straniera e non avendo mai studiato la lingua italiana, non ho nessuna misura per poter definire uno scrittore. Se scrivo è perché ho da comunicare qualcosa.
Joshoua
Scusatemi, non vorrei sembrare “scontata”, ma ho trovato il testo di Camon bellissimo, vero e coraggioso.
Un testo che dovrebbe essere preso e letto più volte come antidoto contro la banalità dilagante di gran parte della scrittura contemporanea, che poi ritorna nelle nostre letture.
Ringrazio Ferdinando Camon per avercelo donato e Massimo per aver fatto da tramite.
Smile
Anch’io ho trovato il pezzo di Ferdinando Camon molto forte. Complimenti.
Devo confessare di non aver mai letto libri di Camon. Per fortuna c’è sempre tempo per rimediare. Con quale libro mi consigliate di cominciare?
Magari con un po’ di faccia tosta rivolgo la domanda allo stesso Camon.
joshoua: avere qualcosa da dire fa la differenza, sempre! Ma come condivido il tuo pensiero! La forma è l’ultimo dei problemi perché gli arrangiatori ( e anche molto qualificati) non mancano; mentre i temi, i contenuti, i messaggi, I PENSIERI, sì, sono rari. Capita di leggere libri “sostenuti” e uscirne poi con una delusione disarmante. Il bello è, che la maggior parte dei libri sostenuti sono, secondo me, molto più reazionari dei libri amati dal grande pubblico. Non possiamo più massificare ed escludere, come fa Camon a priori. I tempi delle certezze sono finiti; Gomorra è un libro straordinario, Manituana pure, e Come Dio comanda altrettanto. E allora? Io mi sono letta tutti i finalisti del premio Strega, e li ho confrontati: il testo di Ammanniti è il migliore. Forte per la scelta dei personaggi, per la sua capacità comunicativa,per la scrittura semplice e scorrevole, per la storia e l’ambientazione. Il Bene e il Male affrontato in un linguaggio a misura dei giovani; vogliamo conquistare nuovi lettori, o no?
Mi sento futurista, “pronta al colore” per rinnovare le stanze chiuse di una cultura “colta” che ormai parla solo a se stessa.
Vi abbraccio tutti. Massimo, complimenti per il post! ( Sergio è sempre forte!)
Forse scriverò delle cose ovvie, ma io credo che dai primordi del segno recante il senso, la realtà già venisse alterata e che proprio in quell’inventare l’uomo proiettasse il suo desiderio di “altro”. Un po’ come per il pittore la trasposizione del reale in nuova apparenza. La parola proietta lo scrittore fuori da sé stesso, lo pone in una zona accessibile agli altri di cui diventa risorsa fruibile, nutrimento nuovo, sorprendente.
Quanto espresso da Camon mi trova daccordo, però mi apre ad ulteriori interrogativi: che cosa si puo definire “vero”, “reale”? E qual’è l’ambito della mistificazione?
A volte diventa una necessità sorprendere sé stessi, per uscire dal numero che inghiotte, spersonalizza e annulla. Allora ci si inventa una maschera, più o meno consapevolmente , che è fatta di tutta la storia dell’umanità filtrata attraverso il proprio pensiero, e di tutti i condizionamenti del contesto sociale in cui si è immersi. La chiamiamo Arte.
Penso che lo scrittore si faccia indicatore, di volta in volta, di quello che gli è congeniale, di ciò in cui far risiedere anche il proprio desiderio di mutamento.
Perchè mai temiamo la banalità? E che cosa è mai la banalità? A parte la radice della parola, non temiamo forse di sparire-morire senza aver almeno tentato di interagire?
Essere protagonisti,nell’accezione filosofica del termine, questo conta.
Cristina Bove
Non si può non essere d’accordo con Camon.
Le sue parole rivendicano la forza e il ruolo di una scrittura che si è forse perduta nel caos dei prodotti editoriali pre-fatti. Il problema è che forse, in generale, l’etica ha perso oggi il suo valore.
Quanti sono, oggi, coloro che ancora scrivono e fanno arte pensando all’etica e all’estetica? Pochi. Pochissimi.
Un bestseller commerciale si può leggere con piacere e può avere un’importante funzione di intrattenimento. Non lo nego.
Ma non dimentichiamo che c’è chi scrive per andare incontro ai gusti delle masse e c’è chi scrive per creare il bisogno di sé (come dice Camon).
La differenza di obiettivi è lampante.
Non abbiamo bisogno di scrittori-divi, abbiamo bisogno di scrittori capaci di segnare il nostro tempo da una postazione distante dalle luci dei riflettori. Più dietro le quinte, che sul palcoscenico. Più sostanza e meno ribalta.
Di giullari ne abbiamo anche troppi in quasi tutte le categorie.
zauberei scrive: “Perchè deve avere necessariamente un matrimonio con l’etica? egli trascrive un suo mondo con questo senso che ha in più. Ma tutti abbiamo un mondo etico.”
Io infatti penso che tu ti sia risposta da sola. Cioè, io non ho inteso le parole di Camon come un richiamo alla scrittura etica, se per etica intendiamo una morale generale. Io credo (poi se interverrà direttamente lo dirà meglio lui, magari…) che Camon richiami a un’etica della scrittura, intesa come onestà, come verità e nudità (dai condizionamenti commerciali) della parola scritta. Come dire che la parola scritta ha una sua etica, ha una verità a cui deve necessariamente aderire, se non vuole sconfinare nel libro non-scritto, nel libro compilato con i quattro ingredienti “giusti” per vendere e per compiacere ( e non è detto che poi venda davvero, perchè le variabili sono tante, ma questa è un’altra storia).
E questo non significa che lo scrittore debba starsene in una torre d’avorio e non farsi contaminare dal mondo. Anzi, penso che i grandi scrittori siano immersi fino al collo nel loro tempo. Che gli scrittori grandi sul serio siano quelli che hanno saputo farsi contaminare dal mondo, filtrarlo nelle proprie vene e trasfonderlo, così come emergeva, nella scrittura. Un libro “necessario” è figlio del suo tempo quanto del proprio creatore. Da questo binomio inscindibile la grande letteratura si è guadagnata la sua immortalità. Ed è forse questo che oggi manca, o fatica a emergere (tra le montagne di libri-niente), o che forse, chissà, verrà scoperto domani.
Ho già premesso che il discorso di Camon lo trovo lucido e che lo approvo in larga parte sebbene, suppongo, lui dorma sonni sereni anche in assenza della mia approvazione. Leggendo i commenti, tutti peraltro appasionati e sentiti, comincio a farmi venire il dubbio che si stia per stabilire che o si scrive secondo i principi di Camon oppure è meglio lasciar perdere. Non posso, ci mancherebbe, interpretare il pensiero del celeberrimo scrittore, ma io ritengo che egli abbia voluto esprimere un punto di vista indubbiamente essenziale ma non certo “dittatoriale”. Come nasce un libro valido? E, soprattutto, chi può arrogarsi il diritto di dare insindacabile giudizio di validità? A molti pittori veniva ordinato da un Papa: “dipingi una Madonna”. Quello, pagato, eseguiva. Magari quello, guarda un po’, era il Caravaggio.
Che possa esserci un suggerimento, un impulso o che tutto scaturisca liberamente dal cervello dello scrittore non mi sembra fondamentale. Mi pare, però, essenziale che comunque nell’opera lo scrittore si riconosca.
Hai ragione Sabrina, ma soffro di bastiancontrarite, e mi trovo d’accordo con Enrico gregori, sia nella lode A Camon, sia nel commento a seguire. Il fare letteratura è un impulso fluido che si ammischia a tante cose, e tutta questa nobilitazione non finisce che me ne taglia la metà?
E mi sembra che tu abbia colto nel segno, Enrico: riconoscersi in ciò che si scrive, credere nelle nostre stesse parole. Tutto quello che viene dopo è frutto di fattori variabili (la bravura oggettiva, i canali giusti, l’argomento azzeccato, la fortuna bella, buona e anche sfacciata, ecc..). Ma se non credo a quello che scrivo…che senso ha?
Meno male che trovo un po’ di alleati. A fronteggiare da solo Sergio Sozi non ce la faccio più. Come dice Christian De Sica quando si accascia sul volante….AIUTATEMIIIIII 🙂
Zauberei, no, io credo che semmai arricchisca… Personalmente preferisco gli “imbastardimenti” alle “nobilitazioni” poi… 🙂
Però un giorno sono andata in libreria, mi sono guardata attorno e mi sono detta “se vedo un altro titolo nuovo sui templari o sul graal vomito”
e la stessa cosa la vivo oggi con tutti quei finti o quasi-veri diari mal scritti e pruriginosi di ex cubiste-ex prostiture- pornoromantiche e così via…
Da qui forse viene la mia fame, al momento, di roba che abbia un po’ di sostanza, e il fatto che, seppur a malincuore, sia tornata a leggere quasi unicamente “classici”. So che suona come snobismo, e per questo dico a malincuore. Davvero vorrei essere rapita dalla lettura di un contemporaneo e a volte mi succede, ma davvero è dura, e tra gli italiani ancora di più.
Sembra che imperversi ovunque quella logica (incomprensibile, per me) da studio aperto, tipo “Un incidente ferroviario ha tenuto incollati i telespettatori alla tv? Perfetto, ora per due settimane bisogna sfornare un incidente al giorno, a costo di mandare gli inviati a svitare i bulloni delle traversine!”, quella logica del “cavalchiamo l’argomento del momento” decisamente svilente, per chi, magari, scrive onestamente, che di questo si tratta, mi sembra, nel pezzo di Camon: non di scrivere di temi “aulici”, ma di scrivere con onestà, di metterci anima e respiro.
E sono assolutamente d’accordo con Enrico Gregori. Nemmeno io penso che quello enunciato da Camon sia un dictat, sebbene forse oggi un po’ di intransigenza in più, nel valutare e nel determinare quali libri valgano sul serio sarebbe forse necessaria, no?
Se poi uno è Caravaggio, magari può scrivere anche la propria lista della spesa mettendoci più sostanza dentro di cinquanta mallopponi di Dan Brown. Questo, anzi, è probabile.
Wow, il mio partito cresce. E si stanno iscrivendo tante femmine. Chissà come ci resta male quel bellimbusto di Maugeri! 🙂
Secondo me il paragone con la pittura non regge. Dipingere “Madonne” era qualcosa di canonico. La scrittura è altra cosa.
Fatemi l’esempio di un grande romanzo scritto dietro commissione e mi convincerete.
Per Gregori: mi spiace, ma Massimo è impareggiabile. Rassegnati!
Ho fatto l’esempio delle Madonne, ma potevo scegliere paesaggi o statue affidati a scultori. Anche la Cappella Sistina fu “assegnata” e non mi pare opera di scarso pregio. Così come furono commissionati madrigali e pemi. Ribadisco più chiaramente: chissenefrega di come un’opera decolla, quel che conta è che arrivi in alto con la forza e il cuore di chi la crea.
ps: per il resto non mi rassegno, Erika! 🙂
Esempio di libri scritti sotto commissione, please.
Anche se stiamo andando fuori argomento…
Sabina sono solidale con te sugli attacchi de vomito e i templari. e anche io ho raptus di esigenze di autorialità eppure, l’autorialità non di rado è quel casuale talento in più su un genere molto battuto. A scuola almeno mi fecero due palle triple sul fatto che Dante l’Inferno non se l’era inventato tutto de suo, ma l’era tutt’un prolificare de inferni e paradisi e dannazioni e sculate. Per il resto scappo al lavoro e su questi temi ho un pensiero che me lo devo chiarire, me lo chiarisco e se è davvero chiaro poi lo riscrivo qui.
Io, almeno io, per farti esempi di libri sotto commissione dovrei fare delle verifiche per evitare di dire stronzate. Ma, Erika, hai anche ragione sul fatto che si sta andando un po’ fuori tema. Il concetto era generale e generalizzto, più o meno come quello espresso da Camon.
@ Enrico, a proposito di arte e artisti: Brunelleschi per costruire la “sua” cupola, su commissione, ci mise 15 lunghi anni di trattative, infuriate, sgambetti, ritorsioni e contratti firmati e poi buttati al vento, non da lui ma dagli stessi committenti. Ma lui uomo, piccolo e mingherlino, rissoso e testardo alla fine ci riuscì , perché deciso a dimostrare, quella che tecnicamente, era solo una teoria. Pane e companatico.
Quello era il sistema; il committente e il valido maestro (o la bottega).
Vi ringrazio molto per i vostro commenti. Li ho letti tutti e li ho trovati molto interessanti.
Interverrò più tardi.
Voi continuate.
😉
E’ strano,ma quando decido di avvicnarmi ad un autore non comincio mai dal suo capolavoro,per cui invece di leggere ‘Un altare per la madre’ mi imbattei ne’La malattia chiamata uomo’ e ne rimasi talmente incantata da non poter resistere all’impulso di scrivere a Camon tutta la mia ammirazione(chissa’ se ne ricorderà).non dico questo per piaggeria o per vantarmi del mio fiuto letterario,ma semplicemente per dirvi ora che se voi, come me,avreste filtrato questo suo sfogo attaverso quelle pagine, non vi arrovellereste affatto sul senso delle sue parole:basterebbe capire che lui e’ un intimista,uno scrittore che non racconta ma si racconta fino alle estreme e piu’ crude verita’,senza pudore e senza compiacimento,la sua umanita’ ti trapassa come un pugnale.In quel suo racconto del lungo periodo di psicanalisi non tace pefino di aver vissuto un transfert con il suo medico.Cosa non rara,ma quello era un uomo,e nel 1981 quanti uomini avresti trovato capaci di simili confessioni?Come può non essere dirompente,etico e onesto uno scrittore così?Non si arrovelli il Gregori,nessuno mette in dubbio la sua onestà,ma non era di questo che camon parlava,il suo genere letterario e’ diverso,e il giornalista non ama dipanare i dissidi psicologici,l’anima dei suoi personaggi,a lui basta la vicenda,il dialogo,lo svolgersi del racconto giustifica lo sfogliare la pagina.Lo scrivere per camon e’ sofferenza,e’ lirismo,e’ una malattia che si chiama umanita’ da cui è splendidamente e spero inguaribilmnte affetto.
a m.g.
io mi arrovello solo quando la Roma perde o pareggia partite già vinte. mi stia serena 🙂
x Erica:
“Negli anni ’40 un collezionista di libri dà 100 dollari al mese a Miller per scrivere racconti sul sesso. Lui ne ride con l’amica-amante, e poi decide di renderla partecipe. Anaïs scoprirà così la libertà del sesso, diventando ben presto scrittrice apprezzata anche nel campo della letteratura erotica. Emblematico il suo più famoso libro Il delta di Venere.”
(da qui: http://www.logoslibrary.eu/pls/wordtc/new_wordtheque.w6_home_author.home?code_author=18450&lang=IT)
L’amante-amica di cui si parla è Anais Nin. e Il delta di Venere, se non ha la potenza dei Diari, è comunque un gran bel libro erotico, il migliore forse che io abbia letto.
🙂
Difficile non essere d’accordo con Camon. Difficile mettere in pratica quanto dice e rendere l’accordo vero e concreto sulla carta.
Bene l’etica, bene il creare il bisogno di sé, bene leggere per vaccinarsi contro la donbrownite, ma…
Sono d’accordo con Sozi – Enrico, rassegnati, ma sei “il terzo uomo” di questo blog, anche se io e Simona ti troviamo simpaticissimo… :-)))
Tornando a Camon: Dante e Bontempelli e Picasso e un bambino che gioca non sono meno veri ed etici di chi scrive “impegnato”, anche se si coglie benissimo il volare alto di Camon, un Jonathan Livingstone della scrittura che compatisce e forse un poco disprezza i compagni che mendicano avanzi dai pescherecci… Ma il gabbiano impara anche che il supercilio non si addice a chi ha attinto una verità superiore.
E lasciatemi divertire! Palazzeschi docet. Ammiro tanto la leggerezza di Calvino, molto più vero di tanti letteratucoli stipendiati dell’impegno…
Camilleri mi “diverte” nel senso pascaliano del termine: non possiamo vivere nell’angoscia dell’impegno a tutti i costi, delle spremute di cuore, dello scrivere annichilimento dell’anima.
Scrivere è gioia, è amare ciò che si fa. L’altra faccia dell’amore è il sacrificio, la sofferenza, la fatica, che nello scrivere ci sono, ma vengono sopportate come un giogo leggero perché c’è la passione, c’è la felicità del dire e dello scrivere. Non ci autoflagelliamo!
Verità sì, coerenza sì, no allo svendersi, ma trasmettiamo un’immagine positiva di chi scrive: è gente A CUI PIACE FARE CIò CHE FA. Che non può fare a meno di farlo.
Io ho parlato a sette mesi, ho iniziato a leggere a tre e a scrivere poesia a nove. Amo parlare e adoro scrivere. Le due cose non si escludono a vicenda. Canto bene – wow, Vanity Fair!!! – e mi piace ballare…
Scrivo perché amo farlo. Non ne posso fare a meno. Leggere è vitale per me come respirare. Anche io soffro di blocchi della respirazione e di blocchi della scrittura. Proprio perché ciò che amiamo è il nostro soffio vitale…
Socrate e Gesù parlavano benissimo ma qualcuno scrisse ciò che avevano detto… A proposito: cosa scrisse Gesù nella polvere mentre si discuteva se lapidare o no l’adultera?
Forse Gesù volle farci capire che le parole, dette o scritte, nulla valgono senza una forte volontà di bene. E qui dò ragione a Camon…
Se penseremo e sentiremo davvero ciò che scriviamo le nostre pagine non saranno lettere sulla polvere…
posso fare un esempio di un grande che scriveva per la pagnotta? Simenon.
poi possiamo discutere sul grande, ma si può non essere Proust e avere ugualmente valore notevole…
non mi lapidate per favore… 🙂
E’ tutto il giorno che rifletto sulle considerazioni messe in campo da Camon e da chi è intervenuto su questo sito. E che mi chiedo se ha senso, per quanto mi riguarda, parlare di scrittura. Il fatto è che per me scrivere non è un fatto mentale. O forse è meglio dire che non voglio, non voglio che diventi un fatto mentale. La verità è un proteo, ha forma inaspettata e sfuggente, e non si trova mai dove la stai cercando. Ci arrivi per percorsi laterali, evitando di fissare le cose direttamente, lanciando brevi pudichi timorosi sguardi in tralice. Non la troverai sfondando porte o sezionando, perché nell’opera di ricerca l’avrai distrutta, calpestata senza nemmeno accorgertene. E il processo creativo è qualcosa di così delicato e fragile, che non sempre sopravvive al bisturi e al microscopio.
Eppure conosco la rigorosa implacabile sincerità di Camon. La sua estrema nuda fedeltà a se stesso. E sento di riconoscermi interamente in questa affermazione: “La responsabilità sta nello scrivere per come si è. Rispondere della propria scrittura vuol dire rispondere di come si è. Nel mostrare come si è. Nel consegnare quello che sai, quello che sei.” E dunque prendo coraggio e provo a parlare di scrittura.
La mia sensazione, scrivendo, è quella di portare una grande responsabilità. Ma non è certo una responsabilità girata verso l’esterno.
Cerco di spiegarmi meglio. Quando scrivo spesso so che cosa voglio fare. Ho in mente il risultato che vorrei ottenere. E quindi rischio di usare parole scontate. Parole mentali. Cliché. (Scrittura da best seller, per dirla con le parole di Camon).
Quel che mi salva è che in effetti io non so come riuscire a raggiungere il risultato che ho in mente. So che quel che ho in mente non si può raggiungere attraverso processi razionali. Tutto quello che so è che per riuscirci l’unico modo è una totale fedeltà.
A chi? A che cosa?
Non al lettore. Mi perdoni chi legge. Se volessi esser fedele al lettore, probabilmente comprerei un manuale per scrivere best seller.
Ma neanche a una chimerica verità oggettiva. Così astratta e rarefatta da appartenere al mondo delle idee platoniche.
No. Si tratta di fedeltà a me stessa. Tutto quel che ho in mano è il tentativo, costante, di essere onesta. Onesta con me stessa, voglio dire. Posso cercare di raccontare le cose proprio così come le percepisco. Posso cercare di togliere veli invece di aggiungerne. Posso cercare di andare oltre la pelle. Esser sincera in modo feroce, fino alle ossa, fino alle budella. Esser fedele alla carne.
Ecco. Non ho altro modo.
E se qualcosa accade, accade così. Oppure non accade.
La mia responsabilità termina qui. Se qualcuno leggerà quello che è scritto, si assumerà le sue responsabilità. Ci metterà quello che è suo. Ma a quel punto, la responsabilità non è più mia. La mia parte l’ho fatta. Il resto è del lettore.
Chiedo scusa se non ho chiosato il testo di Camon. Ma sento che parlare di scrittura per me funziona solo in questi termini. Partendo da quel che la scrittura E’, per me. Partendo dalla concretezza. Dalla carne. Per il resto sono molto felice di ascoltare.
Grazie
Fiorenza Aste
Chiacchiere, solo chiacchiere. Maria Luisa e Simona mi trovano simpaticissimo e poi mi collocano terzo nella classifica maschile di questo blog. Dietro Massimo e Sergio, per giunta. Quale onta per me e quanta scempiaggine in quelle poverine. Ma allora, per ripicca, solo a Fiorenza mi rivolgerò.
Come la penso sull’intervento di Camon l’ho già detto tante volte che non ricordo nemmeno più cosa penso dell’intervento stesso. Ribadisco che nulla me ne può fottere se un autore si mette a tavolino dicendo “mo’ scrivo un best seller e vi spernacchio a tutti quanti”. Molti libri sono figli di fenomeni di costume. Oggi, ad esempio, imperversano i reality. Bene, ed ecco che, magari, uno scrittore dice “mo’ scrivo un bel libro sui reality. essi funzionano, ergo funzionerà anche il mio libro che ne parla”. Trattasi, evidentemente, di scrittura premeditata che però può non essere un omicidio. L’autore, per esempio, potrebbe scrivere un saggio o una storia con risvolti, dati, appunti e ragionamenti da far passare in secondo piano la furbizia dell’operazione. E magari in quel libro che non tratta certo di filosofia teoretica, l’autore ci si è impegnato con ricerche, interviste, indiscrezioni e colore. Ci ha sgobbato tanto perchè ci credeva, insomma, ci si riconosceva.
Il risultato è un libro etico oppure no? Per me è certamente un libro etico, ma che giammai leggerò. Non per prevenzione aristocratica, ma perché ai reality preferisco Tomas Milian che interpreta “er monnezza”.
Sarebbe sconveniente, chiedo, in questo dotto consesso pensare un po’ anche ai potenziali lettori? Già, perché la maggior parte di noi che partecipiamo a questo blog piangiamo come pallosissime prefiche di fronte all’evidenza che in Italia non si leggono i libri. Impallidiamo e lacrimiamo nell’apprendere che ci sono italiani che non hanno mai letto alcunchè al di fuori delle istruzioni del telefonino. Supponiamo, per miracolo, che qualche migliaio di nostri compatrioti decida “oibò, quasi quasi comincio a prendere in mano un libro. morderà?”.
Io penso che se un tizio decide di imparare a sciare, dovrà partire dallo spazzaneve in pianura e poi, man mano, dalla pista bianca in su. Se esordisce sulla nera si scassa un femore dopo due metri, e addio sci.
Credo che debbano esistere libri anche per chi vuole iniziare a leggere e decidere se continuare o meno. Non possono esistere solo pubblicazioni che persino Sergio Sozi digerirebbe ricorrendo al bicarbonato.
Credo, inoltre, che la stragrande maggioranza di ipercritici, superscrittori e empireointellettuali per i quali la letteratura va da Dante Alighieri in su, venderebbero volentieri la loro mamma a un esercito di ulani ubriachi e in astinenza sessuale da dieci anni, in cambio dell’idea di scrivere Harry Potter.
Non leggere, secondo me, è una colpa. Fare il possibile perché si continui a non leggere, è un reato.
:-)))
Un bacio Enrico. E’ un piacere ascoltarti.
Giusto, Enrico, io lo dico esplicitamente: NON SO SCRIVERE IN MANIERA TROPPO DIVERSA DA COME SCRIVO. Mica che non voglia: ci ho provato e riprovato ma non lo so fare. Ne’ Erripotter ne’ Sidnisceldon o Tomclensi dovranno mai temere Sergiosozi, perche’ Sergiosozi sta fuori dal mondo e per giunta il mondo gli fa abbastanza schifo. Sono uno uait nel nuar che ci circonda in questa pescolla detta ”Italia globalizzata”. E comunque non cambio mestiere, nonono’. Amo. E resto italiano viscerale e antico. Viscerale e antico, ossia fatto di solo cuore. Un cuore che invidia soprattutto un uomo: Francesco Petrarca. Lui e’ il mio signore in terra, il mio Virgilio e cicerone. L’Altro mi sta dentro e non serve nominarLo.
Sergio
Oibò. I baci in privato, please. Sennò a messer Maugeri e a tutta la sua corte di damigelle si scartavetra il piloro 🙂
Temo di sorprenderti fino a farti sobbalzare dal tuo vaso da notte, caro Sergio. Ma persino io ritengo Petrarca un po’ meglio della Rowlings. Ti voglio bene! 🙂
O Maria Lucia Riccioli: ciao bella. Da una parvenza di uomo.
S.
O Enricuzzo soave: neanche il tuo collericherotico libro e’ riuscito a scalzarmi da tal giaciglio, vuoi lo faccia un’affermazione come l’amor pell’Aretino? Acqua di rose e violette, questa, amico mio. E ti voglio bene anch’io, perdinci, senza ironia!
S.
Apprendo, nelle tue sopraffine liriche, che il mio libro non ha scalfito manco un po’ la tua venerazione nei confronti del “Canzoniere”. Ma sei davvero incolto, allora! 🙂
P.S.
Qui il Maugger manca da molto e ci manca. Sara’ finito a letto. Ariosto ne cantera’ i sogni Lassu’, oltre il Settimo Cielo.
S.
Scusami, ma preferirei subito dire alla sig.ra Fiorenza che devo leggere meglio le cose interessanti che ha appena scritto poiche’ intendo risponderle.
Poi preciso, Enrico, che se mi metto sulla carta ti spennello un quadretto del Te’ e lo espongo sull’apposito ”post” (non qui dunque ma di sicuro, contaci. O forse spera che…).
‘Notte
Tuo
S.
Credo che l’idea della morale della scrittura sia profondamente vera. E che si avverta subito, come dice Camon, dalle righe di un testo. Tuttavia ritengo che la moralità non vada cercata tanto negli argomenti in sè o nel loro essere o meno in sintonia col gusto corrente e con la storia. Piuttosto nella ricerca che essi sottendono, nel viaggio sotterraneo che nascondono, e di cui la trama o i fatti non sono che la superficie, quasi increspatura di onde sotto la corrente.
Chi scrive compie un’avventura, prima di tutto, dentro se stesso. Se questa avventura è fatta con coraggio, senza infingimenti, col gusto di trovarsi e di trovare “un senso”, “una direzione” alla marcia, ecco: io credo che quella – come la vita – sia un’esperienza morale.
Al contrario, se la scoperta sottende altri obiettivi (il solo gusto del successo, la vanità, il confezinare prodotti commerciali), non solo non è morale ma è anche inutile, perchè chi viaggia sa che – più che la meta – il cuore cerca il cammino, lo sforzo dei passi, l’intravedere la luce e poi perderla, per tornare a lambirla il giorno dopo.
Alla fine, quando ogni strada è stata attraversata , ogni vicolo scoperto, ogni terra visitata, non si è più gli stessi.
Essere viandanti, nella vita come nella parola, esige l’audace sforzo di trasformarsi. Solo chi è disposto a farlo , senza velarsi ai propri occhi, compie un percorso morale.
PS
Caro Enrico, ricorda : il tre è il numero perfetto, quello della trinità. Non disperare. La terza persona congiunge le prime due.
Che divertimento, questa mattina, nel leggere i post di stanotte, soprattutto la “singolar tenzone” tra Sozi e Gregori. 🙂
A Fiorenza Aste
Mi ritrovo nelle sue parole e nell’idea che scrivere rappresenti noi stessi.
A Enrico
Mi ritrovo anche nei tuoi commenti, soprattutto nell’ultima affermazione. Ma anche quella relativa ad Henry Potter, lo ammetto, non era niente male 😉
Sono per la libertà. Per questo mi capita spesso di leggere, riflettere e non commentare. Perché siamo liberi di parlare (nel rispetto della decenza, dell’educazione e dell’etica), quindi non deve esserci necessariamente un commento conseguente.
Il fatto è che qui sto bene, e a volte lascio andare il commento d’istinto, consapevole che non sto dicendo granché di nuovo o originale (quindi non sono scrittore mi sembra di capire).
Sono lenta a giudicare, lentissima. Magari mi viene il gesto: libri che leggo e vorrei gettare via, ma che poi stringo in mano perché so che si fa fatica. Che di solito si ama ciò che si scrive. Ferocemente. Quindi. Giudizio tenuto nel cuore, e rispetto. Poi l’amore va ad altro.
So cosa si prova quando qualcuno ti sputa pubblicamente su uno scritto, senza averti chiesto cosa c’è dietro e perché e percome e se è vero che. Lo so e me lo tengo. Per fortuna ho lo spazio grande e profondo della medicina, dell arelazione con persone che soffrono per problemi drammatici: lì capisco e ridimensiono tutto.
Ciò che è importante è avere dentro alcune certezze, soprattutto quella di non avere fatto nulla di scorretto.
Il pezzo di Camon è forte, coinvolge e fa pensare. Non credo esista un VERBO assoluto, esistono persone che forse hanno più titolo a dare pareri. Quindi. Un inchino ai fuoriclasse e agli scrittori “veri”, una pacca sulla spalla e un sorriso a chi cerca di fare del proprio meglio.
Le affermazioni di Camon mi sembrano troppo perentorie. Non ammettono divagazioni tra le molteplici possibilità che offre la vita, e dunque la letteratura.
Sono perfettamente d’accordo nel ritenere che il prodotto preconfezionato non perderà mai la sua natura di oggetto, pur corrispondendo ai gusti di plastica della massa; ritengo, tuttavia, che la scrittura abbia dalla sua l’infinita libertà di creare mondi e mondi, quelli nei quali abitiamo e in cui vorremmo – attraverso la pagina scritta – far abitare gli altri.
E’ vero, la responsabilità di chi scrive è fortissima, perché costui divulga parole sulle quali chi legge esprime giudizi e fonda opinioni. Perciò l’etica. Ma anche la volontà d’infrangere schemi e mode per tendere a un nocciolo di verità. Che è quella dello scrittore – non del confezionatore di libri secondo regole standard – di colui che si serve della forma scritta per compiere un atto di creazione destinato a durare.
Cara Maria Giovanna, non posso che apprezzare sinceramente il rispetto che ha per gli scrittori, veri o aspiranti che siano. Di recente una mia conoscente ha pubblicato le sue poesie. Dico la verità, non mi sono piaciute. Ma mentre le leggeva, vedevo i lucciconi che le facevano brillare gli occhi, e ho compreso quanta fatica e sofferenza le fosse costato buttare giù quei versi.
Ho capito che non ci sono libri inutili. Ci sono libri che non piacciono e libri che incontrano il gusto di più lettori. Ognuno racconta la storia che vuole e, come scrive lei, solitamente la ama. Mi sembra sufficiente a giustificare il fatto che sia stata scritta.
Non mi pare che in quest’epoca siano gli scrittori ad essere i precursori di “nuove etiche” non più. Fanno molto di più un’operazione di borsa o un esperimento genetico. Non credo nemmeno che i best sellers siano libri morti, per il semplice fatto che è il medium stesso (il libro) in avanzato stato di decomposizione. A volte penso che più che di letteratura occorrerebbe parlare di criogenesi. Disperati tentativi di affidare ad un futuro lontano, un’epoca meno reazionaria della presente, la possibilità di tornare a respirare.
A Silvia: botta e risposta da me creato or ora da raccontare, se vuoi, alla tua amica poetessa. Se capisce, bene. Altrimenti, pazienza. Tu comunque hai il cuore d’oro. 🙂
“Ho fatto un vino buonissimo, ci ho messo tanto amore”.
“Ecco, la prossima volta mettici anche l’uva”.
Chi avrà il coraggio di scrivere ancora ?
Questo post dissuade, seleziona, condiziona, detta regole. Non c’è dubbio. E’ evidente che l’autore dello stesso ne ha facoltà.
Ciò che scrive Camon è talmente aureo che non può esistere diverso parere al riguardo.
Devo confessare, tuttavia, che la sola domanda che da sempre mi porto dentro è “per chi si scrive ?”. O, più correttamente, “chi è il principale destinatario della propria scrittura ?”.
Io non so molto di best-sellers o di libri reazionari. Tanto meno mi interessa capire chi scriva per professione e chi per diletto.
Ho letto molto nella mia vita e continuerò a farlo, ma lo faccio per diletto personale. Parimenti scrivere, non da scrittore a questo punto e Dio me ne scampi, ha per me una funzione terapeutica. Non riesco a concepire altra pulsione alla scrittura se non quella che soddisfa un bisogno personale, specifico. Se proprio è necessario compiere uno sforzo di catalogazione, altrimenti non si è meritevoli di appartenere a questo mondo, tale bisogno è quello di uno scambio a due direzioni tra chi scrive e chi legge.
A cosa serve, infatti, la scrittura o, ancora meglio, la poesia ?
Essa rimane come mediazione tra la perfezione alla quale aspiriamo e la limitazione del nostro essere uomini. Una dimensione della transizione dall’umano al divino, dal soggetto che scrive all’oggetto dell’ispirazione.
Scrittura dunque come bisogno di trascendenza da sè e, al tempo, soddisfacimento di un bisogno personale, appagamento di un desiderio. La dimensione del divino non è necessariamente super umana, potendola riscontrare in ogni cosa o persona con la quale veniamo in contatto e che per sua natura può assurgere a oggetto di ispirazione. Una scrittura istintiva, quanto può esserlo una pulsione d’amore nella quale ognuno difficilmente può mistificarsi e scegliere di essere altro da sè. Forse questo è etico.
Polluzione verbale, non in quanto autoerotismo, bensì quale bisogno d’amore a lungo cercato e solo alla fine corrisposto, quando si realizzi quell’incontro tra l’autore ed il suo lettore, sempre singolo, sempre unico. Destinatario individuale, anche se parte di una massa, dunque, mai una moltitudine indistinta. In tal senso non posso concepire, nel progetto, una scrittura per molti.
Questo post ha il pregio di toccare nel profondo chiunque provi a dare concretezza di parola scritta ai propri pensieri. E tutti hanno risposto secondo coscienza. Può esistere qualcosa di più etico ?
Quanti leggeranno ciò che scriviamo ?
E’ veramente importante tenerne conto quando nasce l’esigenza di scrivere ? Quell’esigenza che mi guardo bene dal chiamare ispirazione, ma che non riesco a concepire come “passione fredda”. Non sarebbe reale passione.
Il sottobosco della letteratura pullula di esseri che vagano con quattro fogli e che ogni tanto leggono a voce alta (anche in qualche post), senza reticenza, al di fuori di ogni cassetto o stivale. Oggi chi scrive è chiamato ad essere pubblico, ma non per il pubblico. Giacchè è dallo scambio e dal confronto che può nascere vera “diversità”.
Anche se quella pulsione non sarà stata di rottura, purchè onesta, essa sola lasceremo ai nostri figli. La mia eredità sarà solo di parole, senza altro lignaggio dal momento che non so essere altro che quello che scrivo. E tanto mi basta.
A Enrico:
beh, grazie, per il cuore d’oro 🙂
e per i versi che proporrò all’amica poetessa… e chi vuol capire capisca!
“Scusami, ma preferirei subito dire alla sig.ra Fiorenza che devo leggere meglio le cose interessanti che ha appena scritto poiche’ intendo risponderle.”
Aspetto la sua opinione, Caro Sozi. La leggerò con molto interesse. Buona serata a tutti.
Piccola considerazione per la sig.ra Maria Luisa Papini, non mia ma estratta dal volume ”Letteratura” della collana nota come ”Garzantina” (Milano 2003), ad vocem ”Dante Alighieri”:
”LA FORTUNA DELLA DIVINA COMMEDIA. La grandezza del poema dantesco fu subito sentita e riconosciuta anche dai contemporanei. Pochi anni dopo la morte del poeta la Commedia veniva letta in molte universita’. Boccaccio commentava alcuni canti dell’Inferno, per incarico del comune di Firenze. (…)”.
Dunque… das ist das, direbbe un tedesco. Andiamoci piano, prima di omologare la fortuna di Dante a quella degli avanguardisti. I motivi sono tanti. E’ inoltre risaputo che gia’ molti contadini quattrocenteschi (analfabeti) sapevano a memoria lunghi passi di Dante, e cio’ e’ accaduto fino a pochi decenni or sono.
Cordialmente
Sergio Sozi
Cara sig.ra Fiorenza Aste,
da quel che capisco, il Suo e’ un rapporto viscerale con la scrittura – intesa come disperata ricerca veritativa, disperata in quanto da Lei sentita come un processo impossibile se non condotto per via soggettiva e dunque mai rincorrendo chimere d’oggettivita’.
Percio’ in soldoni dice di dover, nello scrivere, esser fedele alla propria ”carne”, ovvero onesta fino in fondo; ma chiede al suo lettore – ad opera terminata – quanto segue (la cito letteralmente): ”La mia responsabilità termina qui. Se qualcuno leggerà quello che è scritto, si assumerà le sue responsabilità. Ci metterà quello che è suo. Ma a quel punto, la responsabilità non è più mia. La mia parte l’ho fatta. Il resto è del lettore.”
Bene. Ammiro la Sua coraggiosa asserzione – molto calviniana – che in pratica scinde in ”due etiche” il singolo problema etico della Letteratura, o meglio lo ”raddoppia”; Lei dice, insomma: io scrivo e lo faccio seriamente, poi chi legge cerchi di capirmi e di utilizzare al meglio quanto io credo di dire al meglio.”
Pero’ il problema resta tale, anche se riportato interamente sull’opera senza considerare la vita dell’autore: come capire – ossia in base a quali parametri – l’eticita’ di un’opera, la sua onesta’, la serieta’ del lavoro interiore dell’autore?
Ferdinando Camon cerca di esporre le sue opinioni in merito. Io ho detto sopra quanto avevo da dire a riguardo. Ho detto che non mi interessa l’uomo scrivente ma lo scritto di quell’uomo a se’ stante. Qui parte la mia ricerca di contenuti filosofici, morali ed estetici. Qui: dalle righe scritte e dalla loro relazione con me. E analizzando tali righe trovo che solo pochi grandi autori siano (o meglio siano stati finora) capaci con esse di rappresentare contemporaneamente sia la loro vita individuale che la summa delle vite altrui, nonche’ altre verita’ a tutti sconosciute ma esistenti, eterne. Dunque un vero scrittore, cioe’ un grande scrittore (tertium non datur), secondo me e’ al contempo un vate, un filosofo, un teologo, un grammatico e un drammaturgo.
Il resto sono quelli come me: robetta che il vento disperdera’. Giustamente, perche’ il vento e’ sempre giusto e sa dove soffire con forza e dove non farsi neanche vedere.
Saluti Cari
Sergio Sozi
Correctio:
Nell’ultima riga del precedente testo: ”soffire”=”soffiare”.
Mi scuso con l’interessata per la svista di distrazione.
S.S.
Vi ringrazio ancora una volta per i vostri commenti.
Un ringraziamento particolare a coloro che mi hanno “linkato” dai loro blog: Zauberei, Sabrina Campolongo, Fiorenza Aste (spero di non dimenticare nessuno).
Aggiungo che Ferdinando Camon è stato fuori sede in questi giorni, ma ha avuto modo di dare una rapida occhiata ai vostri commenti. Dalle parole che mi ha scritto per mail ho percepito una piacevole sorpresa per la numerosità e la competenza dei commenti.
–
Spero, dr. Camon, che possa trovare il tempo per intervenire direttamente.
In ogni caso ne approfitto ancora una volta per ringraziarla per la disponibilità.
(off topic)
@ Sergio: sulla “Divina Commedia”.
Credo che la “Commedia” abbia dato fastidio a molti dei contemporanei anche per via della sua valenza politica.
Quanto a Boccaccio, mi risulta che fu colui che per primo usò l’aggettivo “Divina” per la “Commedia” di Dante. E in particolare in una sua biografia dantesca, “Trattatello in laude di Dante” del 1373… più o meno 70 anni dopo il periodo in cui, si pensa, sia stato scritto il poema.
70 anni non sono molti, se considerati in ottica di lungo periodo, ma da un altro punto di vista non sono nemmeno pochissimi.
A Massimo:
va bene: affermo che Dante fu Sommo sin da subito, nonostante i contrastanti giudizi dei suoi contemporanei sull’opera e sull’autore. Me ne assumo la responsabilita’ per intero.
La definitiva ”divinizzazione” scritta della sua ”Commedia” (o ”Comedia”), invece, le mie fonti dicono che sia dipesa da questa definizione che piu’ autori ebbero a dichiarare: il Boccaccio (come hai giustamente detto tu) ma anche C. Tolomei (nel suo ”Cesano”) e soprattutto, in via definitiva, nell’edizione del 1555, da Ludovico Dolce.
Sembra pertanto che, se oggi la chiamiamo cosi’, cio’ sia dipeso in larga misura dall’aggettivazione del Dolce.
Concatenazione, questa, di ”canonizzazioni”, che la dice lunga sulla fortuna dell’opera. Dal Trecento a oggi. Ininterrottamente. Altro che ”avanguardia”: Dante fu ed e’ l’autore di un testo sacro!
(Poi ognuno la pensi come vuole: non scrivo per combattere le opinioni altrui ma per esprimere le mie ed eventualmente anche rivedere e correggere queste ultime, quando ne sia il caso).
Saluti Cari a te e alla sig.ra Papini, che spero non se la sia presa per quanto ho sopra scritto e che considero tutt’ora giusto, anche se dissenziente dalle sue opinioni. Ripeto: scrivo quel che penso, non offendo nessuno.
Sergio
Caro Maugeri, sono io a ringraziarla per la preziosa occasione di riflessione che lei, insieme a Camon, ci ha offerto.
Ho letto con molta attenzione le sue argomentazioni, caro Sozi.
Mi prendo una notte e un giorno per meditarci sopra.
A domani notte.
Auguro una buona serata a tutti.
(off topic)
@ Sergio:
e infatti ho detto che Boccaccio fu “il primo a …”. Con Dolce ci spostiamo in avanti di ulteriori 200 anni.
Comunque concordo con te sulla assoluta grandezza del Sommo Poeta. Ci mancherebbe. Non per nulla ho inserito il post “Torniamo a Dante” tra i permanenti (colonna di destra del sito).
E non mi pare che tu sia stato offensivo nei confronti della Papini.
Ma ora da Dante torniamo allo scritto di Camon.
–
@ Fiorenza:
diamoci del tu, vuoi? E chiamiamoci per nome… qui siamo in famiglia!
Ciao.
😉
A Fiore’, ‘na notte ‘ntera pe’ riflette su quello che dice Sozi????? Ma fatte ‘na canna! 🙂
@ Fiorenza:
Fiorenza mi scuso per Enrico Gregori, ma dopo le partite della Roma lui diventà così.
😉
—
Ora torniamo all’argomento del post…
Mi ronzava l’orecchio e… PUF! spunta Enrico. Ciao bello! Per compiacerti ti dedico questi versi:
”Ed ora cantate, o Muse dell’Olimpo dagli accenti soavi, progenie dell’egioco Zeus, cantate la stirpe delle donne, che in quel tempo erano le piu’ prestanti e le piu’ belle sulla terra, e sciolsero la cintura virginale ed a causa dell’aurea Afrodite unendosi agli dei generarono figli dall’aspetto divino (…)”
(Esiodo, dal ”Catalogo delle donne”, vv. 1-5, trad. Aristide Colonna)
‘Notte, va.
Sergio
Ed ora tornateci voi, al tema, perche’ io sono distrutto e mi accomiato.
Bacioni e Sogni d’Oro a tutti
(ah! Ah! ”bacioni” detto da me suona paradossale come un Enrico che ammettesse seriamente la bellezza di almeno una rete che qualcuno avesse segnato alla Roma!)
Sergio
Carissimi tutti.
Accolgo con molto piacere l’invito di Massimo Maugeri a passare al tu. Se nessuno se ne dispiace, lo estenderei a tutti. E se qualcuno se ne dispiace, me lo dica, tornerò volentieri al lei.
A Enrico: un altro bacio ;-))) ma rigorosamente in pubblico… (la meditazione ha incluso anche il tuo messaggio; me la passi tu la canna, dunque?)
Chiedo scusa per i tempi lunghi, ma sono lenta. Ho bisogno di passarmi le cose dentro più volte, per sentire che sapore hanno per davvero. Se do una risposta immediata, sono quasi certa di dire le cose solo con la pelle. Solo con la mente. Ho bisogno, passatemi il termine, di “respirarci sopra” per un po’, in modo da dar loro il tempo di arrivare a una buona profondità. Questo perché nel procedere mi fido poco del pensiero razionale. Quando rispondo con la ragione ho spesso la sensazione di operare semplificazioni. Di sezionare l’intero in pezzetti. Oppure viceversa, di categorizzare e generalizzare.
E invece vorrei rispondere sinceramente. E questo per me significa partire dalla mia concretezza. Dall’orizzonte della mia esperienza pratica. Dal mio essere nel mondo.
Della scrittura ho già detto. Scrivere è essere. E’ un’incarnazione dell’essere. Uno dei modi che il mio essere nel mondo manifesta. (Disperato? Sì, certo. Anche. Ma non necessariamente. Anche esultante).
Non penso di poter dire molto altro.
Ma qualcosa posso dire sul leggere.
E, ancora, parto dalla mia pratica di lettrice. Non riesco a fare generalizzazioni. Non riesco neppure a stabilire se possono esserci dei criteri secondo cui decidere se un testo è buono oppure no. O parametri per decidere l’eticità o meno di un testo. Credo che la cosa non mi interessi.
Cerco l’essere umano. E lo cerco dovunque riesco a trovarlo. Negli incontri di ogni giorno a casa e a scuola, così come fra le pagine dei libri. E ogni volta che lo incontro, esulto.
Non c’è spettacolo più affascinante e commovente di un essere umano in movimento. Il suo esistere, il suo respiro, la sua fatica, il suo dolore. Le sue illuminazioni e le sue cocciute non visioni. Il suo svelarsi e il suo spaventato nascondersi.
Che altro.
Quando lo incontro in un libro, lo riconosco.
Che sia il Decamerone o la Commedia o una tragedia di Shakespeare o Moby Dick o un fumetto o un libro di Carver o di Simenon, o l’elenco del telefono, se lo incontro lo riconosco. E non lo faccio in modo consapevole, o seguendo dei criteri. E’ che mi si mostra. E’ lì. E vederlo e riconoscerlo è tutt’uno.
Non conosco altro criterio di ricerca.
E poi è vero, è buono quando uno scrittore non si sovrappone al testo. E’ buono il suo sparire e lasciare che siano le parole scritte a parlare. Perché è l’interazione fra lettore e testo scritto che genera frutti, e ogni intervento (razionale…) di chi ha scritto rischia di compromettere il raccolto.
Ma è anche vero che quando incontro lo scrittore, fra le sue pagine, mi commuovo. E incomincio a cercarlo. A seguirlo. Di personaggio in personaggio. Di libro in libro. Lo vedo muoversi dietro le infinite maschere che ha scelto per mostrarsi a noi, e ancora una volta, è uno spettacolo emozionante. Commovente.
L’essere umano, ancora una volta.
Che altro.
Buona serata a tutti.
Cara Fiorenza, grazie.
Sergio Sozi
Ammazza Fiore’, hai ammutolito Sozi tanto da ridurlo a una replica di tre parole. Che femmina! 🙂
Con te sara’ diverso.
Sergio
Cara Fiorenza,
grazie per il tuo intervento. L’ho letto con piacere e l’ho apprezzato molto.
Puoi considerarti come facente parte della famiglia allargata di Letteratitudine. In altre parole… sentiti “cooptata”.
Scrivi: “Cerco l’essere umano. E lo cerco dovunque riesco a trovarlo. Negli incontri di ogni giorno a casa e a scuola, così come fra le pagine dei libri. E ogni volta che lo incontro, esulto.”
Spero che “l’essere umano” tu possa trovarlo anche qui.
Io ce la metto tutta per dare un tocco di umanità a questo spazio virtuale. E gli amici che scrivono qui mi danno una grandissima mano in tal senso.
–
Detto ciò, consentimi di darti un suggerimento: non dare eccessiva confidenza a Sozi e Gregori. Sono due tipi diversi, ma accomunati dal fatto di possedere ego molto… “sensibili”. Meglio non dare troppa corda.
😉
Naturalmente scherzo.
Ciao.
Ha ragione Massimo: ho un po’ la coda di paglia su certe scelte fondanti della mia vita – di molte non parlo perche’ sono intime e le sa solo chi conosco personalmente, di qualcun’altra non ho troppe reticenze a parlare pubblicamente in luoghi civili e cordiali, sinceri come questo. In linea generale, personalmente sono tollerantissimo e chiedo scusa quando sbaglio, modifico le mie opinioni dopo averci pensato su molto. Insomma finche’ nessuno mi obbliga ad entrare nel gregge non mi arrabbio e sono di buona compagnia (spero). E Massimo in questo mi sembra molto simile a me… solo che lui in piu’ ha una pazienza da santo!
Buonanotte!
Sergio
Rilancio il post fornendo uno spunto “collaterale”.
Vediamo se riesco a farvi arrabbiare…
Abbiamo discusso sul “perchè scrivere” (e spero che continueremo a farlo all’interno di questo post).
Potremmo interrogarci sul “come scrivere” e sull’evoluzione dello scrivere.
Riciclo un mio intervento lasciato sul blog di Zauberei.
Come sapete Severgnini ha scritto e pubblicato un libro sulla scrittura volto a stigmatizzare gli errori marchiani (comunemente commessi) e a fornire delle “chiavi” agli scriventi improvvidi: “L’italiano. Lezioni semiserie” (Rizzoli).
Ora, io credo che la scrittura debba essere “in movimento”, che necessiti di scossoni, di spallate, di piccole rivoluzioni per salvarla dalla fanghiglia della staticità. Ma penso anche che per fare ciò sia necessario conoscere la scrittura “vigente” – e le sue regole – a menadito. Giusto per fare un esempio: il cubismo di Picasso (inteso come “rottura” degli schemi) passa da una grande conoscenza e interpretazione dell’arte pittorica. Non è che Picasso un giorno si sveglia e, senza aver mai dipinto in vita sua, dice a se stesso: “va bene, ora invento il cubismo”.
Non so se rendo l’idea.
Cosa ne pensate?
Sergio, ma stavo scherzando… 🙂
Comunque grazie per “la pazienza da santo”.
Molto felice di stare in famiglia.
Molto felice di condividere con voi cose profonde e dense.
Una buona notte a tutti, miei cari.
Colgo subito l’invito “cubista” di Massimo e dichiaro il mio favore a qualche misurata innovazione terminologica dettata soprattutto dalla pratica quotidiana, mentre dichiaro invece il mio incondizionato interesse per un diverso assemblaggio di frasi e periodi.
Non so, in sostanza, quanto bisogno ci sia di nuovi termini. Credo però che sia interessante (non dico certo indispensabile) un’alternativa alla costruzione del linguaggio scritto.
Tenterò un esempio. Scrivere: “il fiume scorre in maniera regolare fino a quando non raggiunge il mare” è senza dubbio corretto e descrittivo. Ma mi viene meglio e mi suona ancor meglio “Inesorabile quel fiume che scroscia su se stesso finchè nel mare non si sfracella”.
Sono, in sostanza, per l’onomatopeica delle senzazioni. Forse è un piccolo lusso che oggi possiamo concederci laddove Ariosto e Tasso raggiunsero l’apoteosi con la purezza dello stile.
@ massimo:
non ho un ego sensibile, ho un ego invadente e fastidioso. ma ciò non mi impedisce di interagire se e quando decido di farlo. diciamo che sono estremamente selettivo…e un bel po’ stronzo.
@sergio:
ma se adesso mi diventi tollerante, che gusto avrò mai più nel prenderti per i fondelli? 🙂
Massimo: lo so che scherzavi… pero’ e’ vero anche che sono un tantino suscettibile, su temi ”sensibili”. Ne faccio Mea culpa.
Eccellente idea quella di parlare ora anche sul ”come” scrivere. Io ho poco da dire, solo un manuale ”sacro” da proporre a tutti: ”Lo studio e l’arte dello scrivere”, di Umberto Panozzo, Le Monnier, Firenze 1961. Questo, credetemi E’ UN ALTARE ALLA NOSTRA LINGUA E UNA GUIDA CERTA PER NOI TUTTI!! VOLUME COMPLETO ED ESAURIENTE. Se non ce l’avete, procuratevelo in ogni maniera (o… ehm… inventatelo)!
Ri-buonanotte
Sergio
Vi fornisco un altro spunto.
Come sapete ciclicamente si parla di morte del romanzo. Da un certo punto di vista credo che questo argomento sia collegato al “perché scrivere”, a “come scrivere” e all’evoluzione della scrittura.
Nei commenti precedenti qualcuno di voi aveva fatto cenno al celebre romanzo “Cent’anni di solitudine” di Garcia Marquez.
Vi propongo un articolo di Natalia Ginzburg pubblicato su “La Stampa” del 6 aprile 1969.
A quel tempo la Ginzburg aveva 56 anni (se non sbaglio i calcoli).
“Lessico famigliare”, il suo romanzo più celebre, accolto da un forte consenso di critica e di pubblico, aveva vinto il premio Strega nel 1963 (dunque sei anni prima).
Ecco cosa scrive la Ginzburg.
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di Natalia Ginzburg
da La Stampa, 6 aprile 1969
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Tempo fa un giornale mi ha chiesto di rispondere alla domanda se credevo che il romanzo fosse in crisi, ma non ho risposto, perché le parole “crisi del romanzo” le trovavo odiosissime, evocando in me il loro suono unicamente romanzi brutti, e già morti e stramorti, il cui destino mi era indifferente. Credo d’aver pensato che non aveva senso ragionare tanto sul romanzo, e meglio era forse tentare di scrivere dei romanzi per seppellirli magari in qualche cassetto nel caso che non fossero vivi, se siamo o siamo stati dei romanzieri.
Poi ho letto Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, colombiano che vive in Spagna. Da tempo non leggevo più nulla che mi colpisse tanto profondamente. Se è vero come dicono che il romanzo è morto, o si prepara a morire, salutiamo allora gli ultimi romanzi che son venuti a rallegrare la terra.
Di Cent’anni di solitudine si è scritto e parlato molto, in ltalia e fuori, ma io lo amo tanto che ho paura che non se ne parli abbastanza, che la gente lo legga poco e che venga confuso fra i mille romanzi nuovi che escono e che ci affollano da ogni parte. Il fatto che escano sempre tanti romanzi nuovi non prova per nulla che il romanzo sia vivo. Se vi fosse ragione di pensare che la specie dei conigli sta per estinguersi, per lunghi anni vedremo ancora forme pallide e stanche di conigli, le quali continuerebbero a congiungersi, a inseguirsi nei prati e a popolare la terra. I segni d’una prossima morte della specie noi potremmo scorgerli in particolari minimi, un pallore o un vago languore nell’aspetto dei nuovi nati, una nostra diffidenza e malinconia nel guardare le loro evoluzioni sull’erba.
Il vedere in alcune di quelle forme la felicità e il desiderio di vivere sarebbe per noi doloroso, non destando in noi né desiderio di vivere né felicità, ma solo un amaro assentimento e un amaro addio. La stessa cosa avrei pensato dovesse accaderci riguardo al romanzo. La scoperta possibile d’un romanzo vivo, non provando per nulla che la specie sia viva, pensavo dovesse essere per noi dolorosa, perché unita a pensieri di compianto su quanto dicono che sta per sparire.
Ma, quando pensavo così, forse non ricordavo più che cosa fosse un romanzo vivo. Non ricordavo quanta vita porta in noi e come può di colpo, con la sua viva presenza, travolgere insieme le nostre vesti di lutto e la nostra intima lugubre indifferenza.
Ho letto Cent’anni di solitudine per caso, e l’ho cominciato senza voglia e con diffidenza. Come siamo diventati diffidenti. Siamo diventati dei cattivi lettori di romanzi. Inoltre i romanzi a cui tentiamo di avvicinarci spesso ci respingono indietro alle prime righe, oppure ci sembra leggendoli di mangiare pietre, segatura o polvere, oppure ancora li leggiamo distratti e tristi come se fossimo in piedi e, carichi di valigie nella sala d’aspetto di una stazione, pieni di tedio e di freddo.
Se il romanzo muore perché noi abbiamo cessato di amarlo, o se abbiamo cessato di amarlo perché pensiamo che tanto muore, io non lo so. Si è diffusa intorno a noi l’idea che esso è prossimo a estinguersi e questa idea è penetrata in noi come la sottile stanchezza avvelenata da romanzi brutti e da cibi morti. Si è diffusa l’idea che sia una colpa abbandonarsi a romanzi, che il romanzo è evasione e consolazione, e necessario è non evadere e non consolarsi, ma stare fermamente inchiodati nel mezzo della realtà. Siamo oppressi da un senso di colpa nei confronti della realtà. Questo nostro senso di colpa ci induce a temere i romanzi, come qualcosa che possa portarci lontano dalla realtà. E anche quelli di noi che non credono che non sia così, pure una simile idea la respirano, la subiscono e la patiscono, essendo un’idea sottilmente contagiosa e la nostra presente società umana è stranamente soggetta ai contagi, le idee vere e le idee false, si diffondono e si confondono sopra di noi come le nuvole, mescolandosi a incubi e spettricollettivi per cui non sappiamo più distinguere il falso dal vero.
Se tentiamo oggi di scrivere un romanzo abbiamo la sensazione di fare una cosa che nessuno vuole più, che dunque non è destinata a nessuno, e questo rende la nostra mano fiacca e la nostra immaginazione fredda e stanca e se tentiamo di leggere un romanzo abbiamo la sensazione che sia proibito e negato ormai l’abbandono a un mondo immaginario che altri ha creato per noi, e così, troviamo infiniti pretesti per non leggere quel romanzo e lasciarlo cadere: la nostra vita, troppo ansiosa e affollata di incubi e spettri privati e collettivi che ci assediano e ci incalzano da ogni parte.
Torniamo allora a volte ai romanzi del passato, come a una miniera di beni preziosi e vitali che il nostro tempo ha perduto. Ma isolarli nel passato è come averli custoditi sottovetro, come averli imprigionati nei musei della memoria. Abbiamo un estremo desiderio di romanzi nati dal presente, che portino i segni del presente, per mescolarli a quelli di una volta e amarli insieme. E un simile desiderio non sappiamo se sia condiviso da altri o se ormai a sentirlo siamo gli ultimi, se esso sia frutto di una nostra insensatezza di solitari o se sia generato da un’esigenza universale e essenziale.
Leggere Cent’anni di solitudine è stato per me come udire uno squillo di tromba che mi svegliasse dal sonno. L’ho cominciato senza voglia e aspettandomi d’essere sospinta indietro. Qualcosa ha incatenato la mia attenzione e sono andata avanti, avendo la sensazione di procedere in una boscaglia fittissima e verde, piena d’uccelli, di serpenti e d’insetti. Dopo averlo letto m’è parso d’aver seguito un volo d’uccelli rapidissimo e sterminato, in un cielo di sterminate distanze dove non c’era consolazione se non l’amara e corroborante coscienza del vero.
Ma non parlerò di questo romanzo e non tenterò di riassumerlo, amandolo troppo per poterlo commentare e chiudere in poche righe. Vorrei solo pregare chi non l’avesse ancora letto di leggerlo senza indugio. Io ho passato due giorni senza mai veramente staccare da quelle pagine il mio pensiero, tirando su ogni tanto la testa per guardare i luoghi e i volti che là vivevano, come contempliamo i tratti e ascoltiamo nel nostro cuore le voci delle persone che amiamo.
Dopo ho ancora letto e amato qualche altro romanzo, perché i romanzi veri hanno il prodigio di restituirci l’amore alla vita e la sensazione concreta di quello che dalla vita vogliamo. I romanzi veri hanno il potere di spazzare via da noi la viltà, il torpore e la sottomissione alle idee collettive, ai contagi e agli incubi che respiriamo nell’aria. I romanzi veri hanno il potere di portarci di colpo nel cuore del vero.
Questo romanzo è la storia di una famiglia in un villaggio. Probabilmente nel futuro non ci saranno più famiglie né villaggi, ma ci saranno solo villaggi e collettività. Esso è dunque l’ultimo o uno degli ultimi romanzi dove abbiano vita queste cose e vi si avverte la coscienza e lo strazio di essere fra gli ultimi, e insieme la grande e libera allegria e felicità di avere avuto ancora per esistere un breve istante. Nel futuro non ci saranno più romanzi di sorta, ma dovranno passare secoli, per la lentezza con cui si estingue la specie. Per qualche tempo, i romanzi non saranno che grida rotte e singhiozzi, poi calerà il silenzio.
La gente sarà gonfia di romanzi non scritti e storie sotterranee e segrete circoleranno nella profondità della terra. Per appagare la propria sete segreta, la gente inventerà dei surrogati, come ci saranno compresse e biscotti sintetici per sostituire il pane e l’acqua, così ci saranno dei surrogati dei romanzi, avendo gli uomini una fantasia geniale nel trovare dei surrogati alle cose di cui soffrono la privazione. Così passeranno dei secoli.
Poi un giorno il romanzo, come la fenice, rinascerà dalle sue stesse ceneri. Perché il romanzo è fra le cose del mondo che sono insieme inutili e necessarie, totalmente inutili, perché prive d’ogni visibile ragione d’essere e d’ogni scopo, eppure necessarie alla vita come il pane e l’acqua, ed è fra le cose del mondo che sono spesso minacciate di morte e sono tuttavia immortali.
Mi permetto di evidenziare quest’ultimo passaggio:
Poi un giorno il romanzo, come la fenice, rinascerà dalle sue stesse ceneri. Perché il romanzo è fra le cose del mondo che sono insieme inutili e necessarie, totalmente inutili, perché prive d’ogni visibile ragione d’essere e d’ogni scopo, eppure necessarie alla vita come il pane e l’acqua, ed è fra le cose del mondo che sono spesso minacciate di morte e sono tuttavia immortali.
Desidero ringraziare, innanzitutto, Massimo Maugeri e lo scrittore Ferdinando Camon, che si è reso disponibile in tutta onestà intellettuale, la Sua, in piena sincerità, combattuto, secondo me, tra il rigore necessario nell’affrontare la scrittura letteraria e lo studio costante dell’altrui letteratura; assieme alla Sua capacità di vivere interamente la propria vita e le proprie emozioni con responsabilità da trasmettere ad un lettore, prediletto, che si riconosca in Lui; contraccambiandoLo il Suo lettore con una probabile e vera “affinità elettiva “, questo è quello che ho percepito è sarebbe l’ideale incontro di comunione profonda tra autore e lettore; lo scopo principe ed unico che deve avere la letteratura, secondo me.Altrimenti l’autore si è reso incomprensibile ed il lettore ha letto un libro “inutile”, così detto “pensiero debole”.In buona sostanza, all’autore letterato, io credo, non debba riguardare la stratificazione del risultato di mercato di un suo romanzo, che attiene alle case editrici solamente, e tantomeno dei potenziali lettori.
Non credo che il premio Nobel 2006,Oran Pamuk, debba rincorrere il mercato editoriale e i lettori; verosimilmente, Giorgio Faletti per esempio, si sarà chiesto, sicuramente, come è stato possibile raggiungere risultati da Best-seller, prevalentemente, con il Suo primo libro: Io uccido. Pertanto, condivido pienamente il senso di quanto scritto da Ferdinando Camon: in alcune occasioni un libro può diventare un prodotto editoriale di successo e con una vita limitata nel tempo; oppure, un romanzo e il Suo autore vivranno per sempre nel tempo.
Secondo me,
la scrittura letteraria è un mix di: tecnica scrittoria,creatività, pensiero forte e va praticata con responsabilità, con lucidità, etica,obiettivi personali e condivisibili con gli altri.
Non si può scrivere per se stessi: bisogna restituire agli altri, le emozioni, le idee partite da molto lontano, da autori che ci hanno preceduto. Il “divenire” del genere umano che aspira a sublimare la realtà e non disperdere la memoria storica.
Volendo sdrammatizzare, la nostra emotività deve essere pronta ad integrare i fatti con l’amore, il dolore personale vissuti e convissuti. Per fare questo, Vi chiedo, che peso ha il letterato e la persona umana intrinseca dell’autore? I romanzi, del resto, non hanno risultati di mercato per tutti gli autori riconosciuti: lo scrittore è solo rispetto le nuove forme di comunicazione e il futuro sorta d’impegno a produrre opere a più mani; utilizzando e integrando la creatività affinché si possano rappresentare le idee, l’emozioni attraverso: il teatro, il cinema, la televisione, internet. Certo,questo è gia praticato.Certamente il romanzo non è morto, ma occorre che i nuovi media gli facciano buona compagnia. Inoltre, leggendo i Vostri sentiti,competenti,viscerali interventi prevalentemente delle Signore intervenute, ho creduto per un attimo che la letteratura potesse diventare una sorta di eucarestia, ho pensato al Caro Sergio Sozi, che permetta a chi si accosta e la pratica tutta la vita, se è capace ed è convinto, di produrre una nuova letteratura; assumendosi la piena responsabilità di continuare a trasmettere integrandola, la varia umanità delle genti che ci hanno preceduto.Non so capire personalmente, se ne valga la pena, anche, perché questo attiene al vero motivo che impedisce a qualcuno di scrivere per la continuità di quanto sopra, ho pensato a Vito Ferro. Ma che fine ha fatto? E alla New entry Giulio Prosperi: entrambi esponenti, secondo me, di una generazione moderna di aspiranti scrittori letterati, intellettuali, in attesa di giudizio. FateVi avanti, se credete opportuno, fateci sognare!
Ciao Massimo, grazie per il compito che ci hai assegnato in tua assenza e ,se mi consenti,ti accompagneremo virtualmente nel tuo viaggio, spero riguardi: il B to B, perché la cultura non paga il “giusto” a tutti , come non sempre dona loro la gloria meritata; continuo a pensare a Sergio Sozi. Chissà perché? Forse mi è simpatico in quanto che, è così onesto dal punto di vista intellettuale e sincero con Noi, può sembrare antico e così moderno, allo stesso modo, quando usa il fioretto con il Suo amico Enrico De Gregori. E Tu Massimo, te ne compiaci sempre! Con sincero affetto, il mio, rivolto alle persone che ho coinvolto, perché questo post è portatore sano di emozioni e sentimenti variegati; così l’ho percepito.
Luca Gallina
”In buona sostanza, all’autore letterato, io credo, non debba riguardare la stratificazione del risultato di mercato di un suo romanzo, che attiene alle case editrici solamente, e tantomeno dei potenziali lettori.”
Ho voluto qui riportare un frammento dell’incommentabilmente bello scritto di Luca Gallina anche – e non solo: soprattutto perche’ io a Luca gli voglio bene – anche dicevo per dimostrare, a tutti gli stanchi uomini che oggi tentano di scrivere soggiacendo alla decadenza complessiva italiana, quanto si possa credere nel potere assieme liturgico, poietico, sinergetico e catartico della Letteratura. Credere nella Letteratura, dice Luca, e’ credere nella nostra storia e dunque in noi stessi, come singoli ma soprattutto come… famiglia nazionale. E credere in qualcosa non vuol dire essere ottusi o limitati, anzi l’opposto: credere vuol dire fare sbagli e/o eccellenti azioni mettendocisi dentro senza stare a pensare ai meschini riscontri commerciali. Fuori dal commercio avviene la Letteratura. O meglio, allegoricamente, ”Ella viene”. A noi tutti.
Grazie, Luca Gallina.
Sergio
Caro Sergio, sono entrato per caso nella stanza e, mi sono meravigliato,non lo nego, compiaciuto perchè mi confermi che l’affinità elettiva ed emotiva esiste, tale da essere liturgica,tra autore e lettore:percepisco appieno la tua generosità nell’abbondandonarti, con rispetto e pudore,pur avendo la conoscenza dello stile e la cultura, alla scrittura letteraria continuando a nutrirti della letteratura che conosci e che scopri continuamente, sentendoti forse circondato: però questo,per me, non è sufficiente a capire il perchè, occorre assumersi la piena responsabilità e accettare di scrivere la continuità dei veri valori ,e delusione per gli stessi, delle genti anche attraverso il genere romanzo: tu ti assumi questa responsabilità, secondo me, ed è per questo che ti voglio bene: per la tua onestà intellettuale che ti porta a mantere ed alimentare,sempre,il dubbio su quello che attorno a Noi appare una realtà da raccontare.
Questo è quello che ho percepito e non voglio rileggere, ma ringraziarti per l’affetto e la condivisione del mio pensiero.
Luca Gallina
Quante considerazioni interessanti su cui riflettere…ed ecco l’urgenza di scrivere ancor prima di averle sviscerate tutte con attenzione e poi digerite e soppesate…ma se seguo questa pulsione e mi precipito sui tasti del pc non vuol dire che sono una scrittrice, non vuol dire che mai lo diventerò. Scrivere non è solo urgenza o ispirazione. Scrivere è compiere un atto di onestà verso se stessi e gli altri seppur incanalandoci dentro quella parte di noi che lo renderà qualcosa di unico, e avrà il nostro stile e ce lo renderà familiare, come i libri che ci accompagnano o i giorni che ci cambiano e che ci portiamo dietro. L’urgenza è un bisogno, la consapevolezza dell’urgenza mette in gioco la ragione e in questi rari casi diventa arte l’unione delle due. Per cui concordo pienamente con Camon, seppur provocatorio e a tratti contraddittorio. Leggo il suo articolo come un monito a noi tutti e a quel se stesso che si mette in gioco sempre, giustificandosi un pò quando eccede nell’intimismo o si ricerca il consenso degli altri, che non ci capiscono e ci giudicano. Non abbiamo chiesto di essere definiti scrittori, nulla vieta di sentirci tali, ma per esserlo dobbiamo coniugare il nostro bisogno di essere, di comunicare, di sentirci, con quello gli altri, rapportarci al mondo – seppur futuro – ci dà la misura di quello che facciamo e la responsabilità che ne deriva.
Caro Luca,
tu mi hai scritto sopra:
”Occorre assumersi la piena responsabilità e accettare di scrivere la continuità dei veri valori ,e delusione per gli stessi, delle genti anche attraverso il genere romanzo: tu ti assumi questa responsabilità.”
Ed io sono con te d’accordo. Solo che, nota bene, io piu’ che un romanziere sarei un novellista. Il mio fiato oltre le trenta-quaranta pagine di narrazione non dura. O meglio, il mio respiro e’ fatto cosi’: passi non lunghi, magari medi. Se no perde d’intensita’ e non da’ il massimo. Quando si lavora artigianalmente sulle parole per me sovente e’ cosi’ – ed anche per altra gente -: se non si vuol perdere tempo, un racconto ben fatto dice tutto. Le storie lunghe le scrivano i geni.
Col solito affetto e stima
Sergio
Caro Sergio, ho condiviso la tua candidatura di Italo Calvino e mi è caro Goffredo Parise – “Sillabari” – : cosicché non disdegno i racconti che ritengo più intensi ed, inoltre, esaltano la nostra bella e complicata lingua italiana.La brevità e sintesi del testo scritto è frutto del nostro tempo: la responsabilità è della televisione,ora si mette anche internet, e i giornali quotidiani si leggono poco, tanto più i libri di genere romanzo.
La lingua scritta viene violata, alla stregua della lingua parlata sempre più frammentaria; tutto ciò è poco aulico: docet i telegiornali, per esempio.Questa è la mia teoria che andrebbe bene,anche, nell’altra stanza dove sostengono una lingua viva,moderna,farcita di slang,inglesismi: la scrittura letteraria è tale perchè non rinuncia alle proprie origini – perfino dialettali – ma sa rappresentare le idee,tutte, in modo comprensibile ed esteticamente e musicalmente “accettabili”, nel rispetto di una grammatica e sintassi,giustamente, rigorosa.Pertanto,se non sappiamo scrivere è meglio parlare e se non sappiamo parlare correttamente la nostra lingua italiana: rinunciamo ai nostri personalismi ed ambizioni discutibili sulla scrittura letteraria; pur continuando a srivere e a parlare come mangiamo, secondo me.
Caro Sergio, scusa la mia polemica ma, volevo in qualche modo essere d’accordo con te.
Ricambio la stima e l’affetto
Luca Gallina
Luca,
in poche parole tu mi dici: impariamo a scrivere e a parlare meglio o facciamo il possibile, vero?
Io piuttosto replicherei pacificamente con solo una cosa (che io faccio):
studiamo. Sempre. Bisogna studiare l’italiano. Ecco tutto.
Ciao, caro!
Sergio
Condivido in pieno il pensiero di Camon. Aggiungo che – visto quanto poco renda scrivere al giorno d’oggi – è bene farlo solo se per noi è davvero essenziale.La scrittura deve essere un’urgenza, una necessità, altrimenti molto meglio fare altro.
Gordoiano Lupi
http://www.infol.it/lupi
Gentilissimo maestro Camon, volevo ringraziarla per la provvidenziale boccata d’ossigeno ad una scrittrice profondamente amareggiata.
Scrivere è fatica, dolore, malattia che inevitabile, come un’ospite indesiderato, si presenta all’incauto che mai avrebbe immaginato di doverla affrontare. Non sono una professionista, mi cinemto in questa ardua sfida da un paio d’anni e certo non posso proporre un genere di scrittura raffinato, eppure la critica mossami dalle case editrici, dagli agenti sopratutto, riguarda essenzialmente il genere, chiamiamola fantascienza, più che altro la libertà di esprimenrsi al riparo da qualsiasi vincolo.
Mi esortano a cambiare argomento, storie improponibili veicolate da situazioni altrettanto inaccettabili, immagini il disgusto di questi poveretti costretti ad assistere allo scempio delle loro solidissime convinzioni.
Devo insistere? O piuttosto continuare a riempire il silienzio della libreria, dove il mio scrivere è sempre ben accolto.
Perdoni lo sfogo di una voce assente.
Trovo molto interessante il discorso sui tempi della letteratura.
Non condivido, invece, l’affermazione “il best-seller è “sempre” un libro morto, perché è il risultato di un gusto all’apice della diffusione, quindi in fase morente. “Best-seller” e “libro reazionario” sono la stessa cosa.”
Non la condivido perché è solo passando attraverso le vendite ed il successo (immediato o postumo) che un libro è veramente “vivo”, nel senso che, pubblicato in migliaia o milioni di copie, riesce a lanciare i suoi semi (buoni o cattivi) in giro per il mondo.
Se un libro non vende, non ha visibilità, il suo messaggio si perde.
Non mi pare giusto disprezzare gli autori di best-seller, anche se è chiaro che spesso il loro è un prodotto “industriale”, perché sanno riconsocere il gusto del pubblico, perché sanno toccare le emotività vere della gente.
In un best-seller può esservi innovazione e creatività. Non è giusto pensare che debba essere “reazionario” per definizione.
La differenza tra l’inventiva e il “progresso” di un libro di successo e di uno che successo non ha, sta nel fatto che il primo dona al mondo la sua “novità” (anche se piccola), mentre il secondo, forse, cerca una novità eccessiva, che il mondo non è pronto a ricevere, che il mondo non desidera.
Caro Maugeri, nella sterminata quantità di risposte che la mia “Etica dello scrivere” sta ottenendo mi fermo, com’è giusto, sulle critiche. I consensi fanno piacere, ma le critiche fanno ragionare. La più costante è che molti best-seller non sono prodotti ma opere, che durano. Sì, ma non tutti quelli che vengono citati: alcuni, famosissimi, sono in realtà prodotti da una grande cultura, anche letteraria, ma tuttavia prodotti, e cioè confezionati. Caratteristica dei best-seller è di essere vivi finché gli autori sono vivi. Ma poi la morte degli autori è la loro morte. La carica di rivoluzione che un’opera introduce nella storia della letteratura, sta nel fatto che quell’opera modifica il senso delle opere precedenti, anche di secoli precedenti: arrivano i “Ragazzi di vita”, e i “Malavoglia” cambiano senso, non sono più quello che erano. Se i “Ragazzi di vita” non avessero ottenuto questo, oggi non li leggeremmo più, a prescindere dalle copie allora vendute (che comunque non furono molte). Vedo che in qualche e-mail si parla dei giudizi dei dirigenti editoriali: guardate che i dirigenti editoriali sono la longa manus con cui la casa editrice, che cerca il prodotto e non l’opera, seleziona tra i manoscritti che tocca. Io ricordo come esemplare l’atteggiamento di Franco Fortini, che leggendo un manoscritto poetico di Zanzotto (per la Mondadori), scrisse al suo datore di lavoro: “Niente di questo libro corrisponde al mio criterio di poesia, è un libro che mi smentisce, però sento che è poesia, e dunque alla domanda: pubblicarlo o no?, rispondo: Pubblicarlo subito, purtroppo”. Ma quanti sono a leggere i manoscritti così? I consulenti cercano libri che li confermino (in un certo senso: vogliono scrivere attraverso gli autori che ospitano nelle loro collane), e i libri che confermano i consulenti possono vendersi bene, ma ripetono l’esistente. Quando nasce un bambino, l’ostetrico scrive nel registro: “Vivo e vitale”, vivo vuol dire che in quel momento respira, ma vitale vuol dire che è destinato a respirare anche in futuro, non morirà. Per un prodotto, vivo è più importante di vitale, perché i libri vivi rinforzano la casa editrice, la sua potenza economica, mentre i libri vitali si vendono meno ma sempre. E’ quel “meno” il problema. Perciò, detto fra noi, gli scrittori sono cattivi dirigenti di collana. Funzionano meglio gli scrittori medi (non dico mediocri). Vittorini, per esempio, funzionava benissimo. Un nuovo libro, introdotto in un catalogo editoriale, modifica quel catalogo, e il catalogo (giustamente) si oppone ad essere modificato. Questo è un problema dello scrittore ma anche dell’editore: è l’urto fra l’arte e la borghesia. Grazie di ospitarmi. Ferdinando Camon
Carissimo dr. Camon,
la ringrazio di cuore per questo suo nuovo e ottimo intervento, così ricco di considerazioni e citazioni. Sono molto onorato della sua presenza. Consideri Letteratitudine come casa sua.
Spero possa tornare ancora a trovarci.
Grazie ancora.
Massimo Maugeri
La scrittura è verità, libertà ed arte quando la scrittura entra nel mondo della moda (americanismo, orientalismo, tecnologismo….) o nel paradigma etico, sociale o politico corrente perde il” pensiero perenne”.
La vera faccia della scrittura autentica è senza tempo qualsiasi sia il contenuto che esprima.
Infatti non è importante l’oggetto del narrare, ma il modo con cui esso si sente e si vive nella sua totalità da parte dell’autore, insieme all’arte che questi possiede per comunicarlo agli altri.
Una scrittura di tal genere ha in sè, come dice Camon, etica ed estetica
ossia il senso della perennità.
Oggi scriviamo tutti. Questo dilettantismo però è l’aspetto positivo del cambiamento. Una purificazione collettiva , uno svecchiamento per entrare nella post -modernità anche se ritengo,che il fenomeno non sarà mai letteratura con la L maiuscola.
Non si scrive per i contemporanei, ma per i posteri. Scrivere è mandare un messaggio nella bottiglia attraverso l’oceano della storia. Magari ci leggerà il nostro vicino di isola, magari il messaggio s’incaglierà nelle secche del tempo, magari giungerà a qualcuno che usa una lingua ormai diversa. O che non sa leggere. Ma se si crea il miracolo della comunicazione, della trasmissione del pensiero – non ci pensiamo mai, ma è di vero miracolo che si tratta se piango per dei versi scritti in un’altro continente, in un’epoca che non è la mia – allora di tratta di Letteratura.