Dicembre 12, 2024

273 thoughts on “OMAGGIO A LEONARDO SCIASCIA (e al crollo del Muro di Berlino)

  1. La prima (come ho scritto sul post) riguarda un evento epocale, uno dei più importanti della storia recente: il crollo del Muro di Berlino (avvenuto esattamente vent’anni fa).

  2. Due eventi collegati dal decorso di due decadi, ma non solo (in un modo o nell’altro, sia Sciascia, sia la caduta di quel muro, hanno contribuito all’abbattimento di barriere).

  3. Peraltro Sciascia morì undici giorni dopo la caduta del muro di Berlino.
    Mi chiedo se ebbe il tempo (e la possibilità) di ragionare con il dovuto grado di analisi sulla portata storica dell’evento [Qualcuno ha notizie in tal senso?]. Un evento che riunificava una città (Berlino), una nazione (la Germania), un continente (l’Europa) segnati da una piaga profonda e dolorosa.
    Un evento che avrebbe rivoluzionato gli equilibri geopolitici del pianeta.

  4. Passiamo a Leonardo Sciascia (ci approssimiamo al ventennale della morte).
    Vi invito a ricordarlo attraverso citazioni, articoli e contributi vari.
    Anche in questo caso vi (pro)pongo alcune domande…

  5. Ho il piacere di segnalare il volume “Sciascia e la cultura spagnola” (Edizioni La Cantinella) scritto dalla docente di letteratura italiana in Spagana Estela Gonzàlez de Sande.
    Ne approfitto per ringraziare Laura Marullo per avermi messo a disposizione la sua recensione.
    (Spero di riuscire a coinvolgere nella discussione anche Estela Gonzàlez de Sande).

  6. Faccio tanti in bocca al lupo a “Il Narratore” per l’imminente uscita dell’audiolibro “A ciascuno il suo” (Il Narratore audiolibri) di Leonardo Sciascia.

  7. La caduta del muro di Berlino è una conquista, la morte di Sciascia è stata una perdita.
    Sul muro ho da dire poco, era giusto che non ci fosse ed è stato anche il frutto di un profondo sommovimento nella politica sovietica che lasciava ben sperare che anche laggiù ritornassero libertà e democrazia. I fatti, poi, hanno troncato questa speranza.
    Su Sciascia che, come forse tu sai, è uno dei miei scrittori preferiti, ho da dire qualche cosa di più.
    Non direi che ha lasciato un’eredità, piuttosto direi che è stato un uomo coerente alla continua ricerca della verità e da questo punto di vista è un esempio che va ben oltre la sua denuncia della mafia. Quel porsi la domanda del perchè di ogni cosa, di ogni comportamento, l’analisi finemente psicologica dei personaggi, quel cercare di capire cosa c’è dietro i silenzi e cosa celano le parole è una caratteristica tutta sua, inimitabile, eccezionale, stupenda. Ma non credo che possa considerarsi un’eredità, piuttosto è stato un legato quello di segnalare i continui contatti fra la la malavita organizzata e i politici. E’ un peccato però che i beneficiari, noi tutti, ce ne siamo dimenticati.
    Fra le sue opere per me Candido. Ovvero un sogno fatto in Sicilia, oltre a essere quella che mi è piaciuta di più, penso sia la migliore, con una visione sì utopistica, ma non tanto da essere completamente disancorata dalla realtà. Non è comunque un libro facile, come quasi tutti quelli di Sciascia e credo che a un ragazzo che non ha mai letto nulla di suo proporrei “A ciascuno il suo”, un po’ meno complesso degli altri, anche se non meno bello.

  8. Il muro… un incubo. Abbatterlo? Un sogno. Ma la vera utopia è quella di superare davvero i blocchi una volta crollate le ideologie. Possiamo dire che il capitalismo selvaggio e le mafie siano i veri frutti della libertà e della democrazia?
    Sciascia… quando morì non lo conoscevo ancora bene ma mi dispiacque la scomparsa di un uomo che intuivo intelligente, di uno scrittore che avrei amato e considerato tra i miei preferiti.
    Così iniziai a leggere le sue opere e ne fui conquistata.
    Ho appena finito di leggere (edito da Sellerio) URLA SENZA SUONO, sui graffiti, dipinti e disegni dello Steri, che ospitò il carcere dell’Inquisizione.
    Sciascia testimonia non solo la ricerca delle verità del passato indagate con passione e scrupolo di ricistruzione, ma anche la passione civile. Quelle mura vennero stravolte proprio da chi avrebbe dovuto proteggerle, perché il presente dimentica, occulta, distrugge.
    Sciascia ci manca. Chissà cosa avrebbe detto dell’Abruzzo, di Messina, del fango morale che tracima da TV e nuovi media…
    Leonardo, te ne ricordi, di questo pianeta?

  9. Ancora oggi, quando rivedo le immagini del crollo, le picconate sul muro, i giovani che passano da una parte e dall’altra, gente che si abbraccia…… mi commuovo.
    Già questo è un sogno divenuto realtà.
    Le aspettative? Sono diverse, ognuno ha le proprie.
    L’Unione sovietica aveva delle aspettative, la Cina altre. Così gli Stati Uniti.
    E l’Europa? Forse è rimasta un po’ troppo imbambolata dal sogno.

  10. L’opera omnia di Sciascia è già un’eredità di altissimo valore, non solo letterario ma anche morale. Non sarebbe male rileggerseli tutti, i libri di Sciascia.
    Ad un giovane direi di cominciare con ‘Il giorno della civetta’. E’ stato il mio primo libro di Sciascia. Ho cominciato da lì.

  11. La caduta del muro di Berlino ha segnato una svolta importante per la storia della democrazia ma ancora altre barriere devono essere abbattute in favore dei diritti umani. La Cina è un ostacolo tra i più gravosi.
    Di Sciascia, oltre alla produzione letteraria, ho sempre apprezzato l’impegno civile e la coerenza intellettuale. Non ho avuto il piacere di conoscerlo personalmente ma so che era un generoso, si prestava anche con i più umili. Un mio amico mi ha raccontato che una volta andò a trovarlo a Recalmuto (sebbene non lo conoscesse), bussò alla sua porta e gli chiese un parere sulle sue poesie. Sciascia lo accolse cordialmente, si fece consegnare il manoscritto, dopo un paio di mesi lo chiamò al telefono e gli pubblicò le poesie.
    Credo che la polemica sui professionisti dell’antimafia sia stata una cantonata da parte sua. Un errore come qualsiasi uomo sanguigno e di carattere può fare. Per il resto ben vengano gli uomini come lui, la Sicilia ne ha bisogno. E non solo la Sicilia.

  12. Certamente ricordo la caduta del muro di Berlino ma devo confessare
    che non mi suscitò particolari emozioni. Provai più perplessità che speranze. Ricordo i miei entusiami per Gorbaciov che fu duramente provato dalla perdita di Raissa, la moglie, e dagli attacchi di Eltsin, un ambiguo personaggio. Poi si è vista la decadenza dell’ ex Unione sovietica. Preferisco parlare di Sciascia del quale credo di aver letto tutto. Mi piace la sua scrittura limpida e il suo impegno civile. Il suo romanzo che preferisco e che credo sia il suo migliore è “Candido” nel quale la razionalità si incontra con l’ utopia. Agli adolescenti per avviarli alla conoscenza di questo grande scrittore consiglierei “Il giorno della civetta”. Buona serata a tutti. Franca.

  13. Grazie Massimo, abbiamo fatto del nostro meglio per riuscire a pubblicare in audiolibro questo importante romanzo di Leonardo Sciascia, e finalmente eccoci uniti per ricordare questo grande scrittore.
    Segnalo il link all’audiolibro in formato digitale per scaricarlo in MP3 http://www.ilnarratore.com/index.php?eshop_catlist=12&eshop_subcatid=13&eshop_prodid=356.
    E’ già disponibile all’ascolto anche una breve anteprima … perchè la memoria abbia un futuro!

  14. Ricordo il brusio della tv sulle picconate. La notte che scendeva su noi universitari che prendevamo un bus Catania-Siracusa. Ricordo che qualcuno disse: a Capodanno tutti a Berlino, e che l’anno nuovo sorse da lì. Dalle pietre sbriciolate sul colore. Dai ferri di strutture vacillanti. Inutili. Sul frastuono di un concerto che stanava la luna e smoriva sulle coppie allacciate.
    Ricordo poi quel mangiare il muro con le mani, quel volersi appropriare d’un pezzo di storia, di fango, di errori.
    Ricordo al giornale, quando il signor Motta intitolò il pezzo con queste parole:
    «Qui si sente che qualcosa sta per finire e qualcosa sta per cominciare: mi piace vedere quel che deve finire»
    E io chiesi: signor Motta, ma chi lo dice?
    E lui: è Candido che lo sussurra alla madre che vorrebbe portarlo via da Parigi e condurlo con sé in America.
    Candido di Voltaire?
    No, Candido di Sciascia.

  15. @ Renzo
    Qual è, secondo te, l’opera di Sciascia più… attuale.
    Lo chiedo in particolare a te perché hai dichiarato che Sciascia è uno dei tuoi scrittori preferiti.
    (Grazie per il tuo intervento).

  16. Mari, grazie anche te per il tuo intervento.
    Poni una domanda forte e al tempo stesso inquietante: possiamo dire che il capitalismo selvaggio e le mafie siano i veri frutti della libertà e della democrazia?

    Secondo te?

  17. @ Simona
    Simo, bellissimo (e lirico) l’accostamento tra la caduta del muro di Berlino e Sciascia… filtrato dalla tua esperienza.
    Grazie!
    Anche tu “Candido”, dunque…

  18. Se vi ricordate ne “La camera accanto n. 13″…
    http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/11/01/la-camera-accanto-13%c2%b0-appuntamento/
    … vi avevo anticipato che avei preso parte alla cerimonia conclusiva della prima edizione del Premio “Insula europea”.
    Vi faccio il resoconto nel commento che segue, con un articolo intitolato: “INSULA EUROPEA: doppio sogno tra Europa e Letteratura”.
    Quest’articolo (già apparso pochi giorni fa su “La poesia e lo spirito”) ha a che fare con l’abbattimento delle barriere e – indirettamente – con la caduta del Murodi Berlino (e il conseguente allargamento a Est dell’Europa).

  19. INSULA EUROPEA: doppio sogno tra Europa e Letteratura

    di Massimo Maugeri

    Giorno 30 ottobre ho avuto l’onore e il piacere di partecipare alla cerimonia conclusiva della prima edizione di un premio letterario molto particolare che – a mio avviso – merita di essere promosso: l’Insula Europea, un premio nato per valorizzare le opere di autori europei (non italiani) under 35, non ancora edite in Italia.
    Per il presidente del premio, prof. Carlo Pulsoni, “il desiderio dei creatori di Insula europea è quello di contribuire alla formazione d’una comune coscienza culturale europea. Come dimostra infatti il recente passato di varie nazioni del nostro continente (Germania, Romania, e soprattutto Italia durante il Risorgimento), la letteratura è stata uno degli elementi unificanti nella costituzione di un’identità nazionale”.
    Ecco. Io credo che già da queste frasi si intuisca quello che, nel corso di un mio intervento, ho definito come “doppio sogno”.
    Sono sempre stato convinto del fatto che la grande letteratura è quella che ha la capacità e la forza di reinterpretare la vita (di spiegarla, di farla comprendere, di guardarla dal di dentro)… non semplicemente di raccontarla. Reinterpretarla, dunque… posando lo sguardo sull’uomo e sulla sua vita; sulle sue abitudini, sulle sue qualità, sulle sue miserie, sulle sue gioie, sui suoi dolori.
    Sui suoi incubi. Sui suoi sogni.
    Laddove riusciamo a dare un valore così alto alla letteratura, nel momento in cui – attraverso la scrittura – lo sguardo di uno diventa lo sguardo di tanti… di moltitudini intere… ecco, a quel punto la letteratura unisce. A quel punto la letteratura diventa sogno.
    La letteratura è sogno.
    E attraverso questo premio la letteratura adempie al suo essere sogno incrociandone un altro: quello dei grandi padri fondatori di questa nostra Europa (Robert Schuman, Jean Monnet, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi) i quali, dalle macerie ancora fumanti della seconda guerra mondiale, sognarono un’Europa unita capace di lasciarsi alle spalle una storia intrisa di guerre e lotte intestine tra popoli e nazioni. Un grande sogno. Un percorso difficile, ad ostacoli, caratterizzato da passi avanti e passi indietro. Da successi e fallimenti. Un percorso che, tuttavia, non si è mai interrotto nel corso degli anni. Perché le difficoltà possono essere superate. Come diceva Schuman: “Gli alberi non devono impedirci di vedere la foresta”.
    Ed è stato particolarmente emozionante aver avuto la possibilità di sentire la voce e le parole dei vincitori di questa prima edizione del premio.
    Per il romeno Adrian Chivu “come ogni arte, la letteratura è un martello che dà forma al mondo, crea universi costituiti di piccoli e grandi dettagli della vita vissuta. La letteratura distrugge le barriere ideologiche, sociali, culturali e costruisce ponti, realizzando l’unità partendo dalla diversità e consolidando una coscienza europea che accetta l’idea della varietà culturale, sociale, morale”.
    L’olandese Christiaan Weijts ha dichiarato quanto segue: “Nel mio lavoro mi rifaccio costantemente alla letteratura e all’arte europea, da Dante a Shakespeare, da Tiziano a Modigliani, e dunque vedo l’Europa come un’unica identità culturale. D’altro canto, nel mio libro Via Cappello 23, esprimo anche le preoccupazione che avverto per la ‘vecchia Europa’ minacciata dalla globalizzazione, il turismo, la superficialità, il consumismo e così via. La metafora che uso è la città di Venezia, che sprofonda nel mare. Mi riferisco a un gondoliere che muore nel libro come il ‘Caronte della vecchia Europa’. ”
    Parole importanti, le loro… che, tra speranze e preoccupazioni, contribuiscono a portare avanti un sogno di “comunitaria condivisione”.
    Questo premio, peraltro, dimostra che anche le differenze linguistiche possono trasformarsi in opportunità. In questo caso – infatti – la diversità della lingua, anziché barriera, diventa pretesto, occasione, per portare avanti un’esperienza di condivisione e integrazione.
    Auguro lunghissima vita al Premio Insula Europea. E tanto successo, anche nell’ottica di contribuire a creare un’identità culturale comune degli abitanti di questa nostra vecchia terra chiamata Europa… con la speranza, infine, che gli editori italiani possano guardare con interesse alla opere di questi giovani autori europei per una possibile pubblicazione nella nostra lingua.
    Massimo Maugeri

  20. Sulla prima edizione del premio letterario Insula Europea
    di Carlo Pulsoni

    Con la cerimonia di premiazione dei vincitori, Adrian Chivu (Romania) e Christiaan Weijts (Olanda), si è chiusa, venerdì 30 ottobre, la prima edizione del premio letterario Insula europea. Prima di passare ai bilanci, ci pare doveroso ringraziare tutti i giovani studiosi (dottorandi, assegnisti, cultori della materia) che con il massimo impegno hanno letto i romanzi pervenuti, approntato schede valutative e soprattutto fornito alla giuria i primi abbozzi di traduzione dei testi. Senza di loro (in primis l’Associazione culturale Nube), il premio non sarebbe mai esistito. Venendo alle considerazioni che possiamo trarre da questa prima esperienza, nelle more delle pastoie burocratiche di Bruxelles e nel crescente euroscettismo di alcuni paesi, c’è bisogno, a nostro avviso, di pensare a qualcosa che unisca i popoli in attesa della costruzione dell’Europa politica. E questo qualcosa può essere rappresentato, nel suo piccolo, anche dal premio perugino Insula europea, nato proprio con l’obiettivo di contribuire alla formazione d’una comune identità culturale europea. Siamo ben consapevoli che si tratta per il momento di un sogno, come ha tenuto a rimarcare il critico letterario Massimo Maugeri, ma non per questo non va perseguito. Il nostro sogno è che un domani un qualsiasi cittadino della UE possa sentire come propri non solo i classici del passato già entrati nel canone occidentale (Omero, Dante, Shakespeare, Cervantes, Goethe e così via), ma anche gli autori delle generazioni successive, a prescindere dalle differenze linguistiche. Come ci ha insegnato il recente passato, sono anche i libri a forgiare le identità nazionali, e ci auguriamo quindi un domani anche quella europea. Non abbiamo certo l’ambizione d’affermare che i libri giunti al concorso sono quelli che formeranno il canone europeo, né sappiamo quanti di essi avranno la fortuna di essere tradotti in italiano: habent sua fata libelli. Su questo interverranno le case editrici e le loro politiche culturali. Ci piace però pensare che grazie all’inserimento online di tutti i titoli pervenuti (cosa rarissima, a nostra conoscenza, nei premi letterari), unitamente alla pubblicazione delle quarte di copertina, che, se assenti negli originali, sono state create ad hoc dai nostri collaboratori (compito non facile, come sa chi si intende di editoria), avremo fornito ai libri una visibilità tale, che potrebbe permettere loro una seconda vita nel nostro idioma. Non poco insomma per un mercato editoriale, sempre più dominato dalle multinazionali – come ha sottolineato la madrina della manifestazione Birgit Vanderbeke -, che concede ai libri una durata massima di tre o sei mesi, prima di mandarli al macero. E che il premio abbia riscosso un buon esito ce lo dimostra il numero notevole di accessi al sito http://www.insulaeuropea.eu. Solo nel mese di ottobre si sono avuti quasi ottomila contatti, ripartiti non solo tra le nazioni che hanno visto autori in gara (Spagna, Francia, Belgio, Olanda, Repubblica Ceca e Romania), ma anche tra paesi privi di partecipanti: Regno Unito, Danimarca, Germania e così via. Anzi è per noi motivo d’orgoglio riscontrare che molti accessi al sito provengano da stati esterni alla UE, quali la Norvegia, la Svizzera e la Federazione Russa: un’Europa letteraria virtuale insomma molto più ampia di quella politica, che pare riflettere quella “Casa comune europea dall’Atlantico agli Urali”, di cui parlò l’allora presidente dell’URSS, Gorbaciov, all’inizio degli anni ’90. Nello stesso modo in cui un atleta alla fine di una competizione faticosa come la maratona, ha già in mente la successiva gara, gli organizzatori di Insula europea fervono di idee per la seconda edizione del premio, confortati in ciò da mail di più autori francesi che chiedevano, ancora prima della cerimonia di premiazione del 30 ottobre, “comment parteciper au prix Insula europea 2010?”.

    Carlo Pulsoni
    (docente di Filologia romanza – Università degli Studi di Perugia)

  21. Il muro di Berlino. La sua caduta non mi entusiasmò, non per il fatto in sé, per il timore di ciò che sarebbe successo *dopo*. Si riunificava una Germania dopo averla scissa e punita, buon per i Tedeschi ( anche se cominciava per loro un lavoro assai più complesso di quanto non sia stato quello di Cavour…! 🙂 e segno inequivocabile del declino delle grandi potenze che avevano dominato dopo la fine della seconda guerra mondiale. Crollo del socialismo sovietico, dando la stura al capitalismo selvaggio odierno, pieno di follie ed incongruenze crudeli e, lentamente, anche l’accrescersi del disagio statunitense e della sua incerta capacità di mantenersi democratico ed esportare democrazia in operazioni che sembrano pace e sono, inevitabilmente, guerra.
    Il muro di Berlino per me fu occasione di perplessità che, ora, a distanza di 20 anni, sento ancor più accentuate.
    Preferivo la guerra fredda e le sue certezze. Mi piaceva quell’equilibrio sul filo del rasoio, che dava al mondo occidentale un suo ordine ed incuteva rispetto a quell’Asia e quell’Africa che ora costituiscono un pericolo maggiore, sia per l’economia occidentale che per l’integrità dei suoi valori peculiari e locali.

  22. Interessante l’accostamento dei due eventi.
    Il crollo del muro lo vissi con forte emozione. In quei giorni ascoltai più volte The Wall dei Pink Floyd. Avevo spesso ascoltato quel disco immaginando il crollo del muro di Berlino.

  23. Rispetto a Sciascia invece, non mi dilungherò: va letto *tutto*, per la sua scrittura elegante e pedagogica ( io apprezzo gli intenti in letteratura) e per la sua lungimiranza politica ( diceva che l’Italia si sarebbe sicilianizzata ma non nel senso buono del termine, alludeva alla mentalità mafiosa ed aveva ragione). Sciascia artista, profeta, filosofo e moralista. Sciascia narratore, faro fulgido, un ricordo affettuoso…

  24. Di Sciascia non conosco tutto, però è innegabile che abbia svolto un ruolo importante. La misura ce la fornisce anche l’interesse suscitato all’estero, soprattutto in Francia mi pare.
    Ricordo con particolare intensità ‘Todo modo’.

  25. @Massimo: quale è secondo me l’opera di Sciascia più attuale?
    Bella domanda e la cui risposta non è per nulla facile, perché, se è vero che Sciascia ha portato alla luce realtà volutamente celate, è altrettanto vero che è riuscito a indicarci gli sviluppi dei fenomeni ad esse connessi.
    Sarebbe sbagliato definirlo un veggente, perché non c’è nulla di arcano in questa sua capacità, frutto di un’analisi logica di una razionalità complessa, ma ineccepibile.
    Ci sono elementi di attualità in tutte le sue opere, ivi compresa Candido che giudico la migliore, ma forse quella che è più attinente alla situazione odierna è quella anche più ambigua. Mi riferisco a Todo modo, con quel dilagante clima di corruzione derivante da un torbido miscuglio dei poteri economici, politici e religiosi, che danno luogo a un superpotere mostruoso, quasi una divinità che stringe l’umanità in una morsa, e che, come ogni idolo, ha i suoi riti, fra i quali l’emblematico rosario recitato in parata, il sacro e il profano che si fondono. E’ marcata la presenza di una atmosfera nichilista , perchè questo superpotere distrugge tutto, corrodendo e minando anche se stesso.
    Pensiamo un attimo alla situazione attuale e il confronto purtroppo dà ragione a Sciascia.

  26. La caduta del muro di Berlino è indubbio che sia stata una svolta epocale,come si dice,eppure se penso alla parola demolizione mi resta in bocca un sapore amaro.Può dalla demolizione,che lascia pietre e cenere,nascere qualcos’altro?Ecco credo che al di là dell’evento in sè,grandioso,giustissimo,debba nascere la considerazione che si è demolito il simbolo di un’ideologia che non esiste più che non ha ragione di esistere,ma che deve essere riempita di valore nuovo,di ragioni nuove.E qui penso ad un servizio visto dove si parlava di una vaga nostalgia poco comprensibile sorta nell’animo dei berlinesi,come alla ricerca di un’unione d’intenti e di visione che va costruita colmando “una mancanza”.Siamo certi che che oggi la società possa offrire le risposte per colmare quel vuoto?Inoltre il muro visibile è crollato,abbattuto, e questa è cosa grande perchè nessun muro dovrebbe mortificare la libertà e la dignità dell’essere umano,ma quanti altri muri attorno a noi sarà più complicato demolire?Quelli meno visibili ai più,meno spettacolarizzati eppure così dolorosi e causanti fratture e morti.Penso alla mia città,ad esempio, al muro dell’omertà e dell’indifferenza che uccide ogni speranza di civiltà e di comunione,perciò in nome della costruzione,a seguito delle demolizione fisiche e di barriere immateriali,auspico per noi tutti che venga il momento della “ricostruzione”.A ragione ricordo Sciascia e suggerirei Il giorno della civetta,dove la magia del narrare si veste di una coscienza civile e di denuncia che oggi apprezzerebbe non solo Saviano,ma ogni ragazzo che voglia formarsene una.Proviamo a dedicarci alla costruzione.
    Un grande ringraziamento a Massimo e a tutti per le riflessioni.

  27. Massimo, se vai su BlogSicilia,Agrigento nella pagina Arte e Cultura trovi due miei articoli su Leonardo Sciascia. Il ricordo del più grande scrittore europeo (questo è il mio modestissimo parere) sarà completato con il Leonardo Sciascia, saggista: La corda pazza, Quaderno- i suoi scritti sul giornale L’ora- e A futura memoria.
    Ciao
    Piero

  28. il 1989 fu un anno fantastico (tranne che in Cina, dove le aspirazioni democratiche venivano soffocate nel sangue). Molti di noi già intuivano gli albori di una nuova era liberale che avrebbe visto diffondersi libertà e giustizia in tutto il mondo, come una cascata di fiori. Vent’anni dopo, sappiamo che le cose non sono andate così.

    Un populismo xenofobo assedia oggi le democrazie europee. I partiti socialdemocratici battono in ritirata, mentre a destra i demagoghi promettono di salvaguardare i «valori occidentali» dalle orde islamiche. I disastri economici degli ultimi anni sembrano confermare il monito che Mikhail Gorbaciov ha lanciato nel ventesimo anniversario del 1989: «Anche il capitalismo occidentale, ormai privato del vecchio nemico e immaginandosi vincitore indiscusso e incarnazione del progresso globale, rischia di condurre la società occidentale verso l’ennesimo vicolo cieco della storia».
    ….
    Lo scrive Ian Buruma sul Corriere di oggi

  29. In ogni caso mi sembra importante sottolineare le parole pronunciate ieri dal Capo dello Stato, il Presidente Giorgio Napolitano: “L’evento della caduta del Muro di Berlino, di cui oggi si celebra l’anniversario, è una data che al pari di quella del 9 maggio 1945 ha segnato uno spartiacque nella storia europea e mondiale del XX secolo.
    Si aprì allora la strada nella Germania dell’est, ma il cambiamento era già iniziato in Polonia e in tutti i Paesi dell’Europa centro-orientale, in direzione dell’affermazione dei diritti di libertà, che erano già stati sanciti, subito dopo la seconda guerra mondiale, in particolare con l’adozione della Costituzione a Roma e a Bonn, nei Paesi in cui erano stati sconfitti il nazismo e il fascismo.
    […]
    Questi diritti di libertà, a cominciare dall’articolo 21 della Costituzione sulla libertà d’espressione, sono principi democratici da tenere sempre cari, da preservare e da far vivere, in Italia e ovunque”.

  30. Siccome mi sembra importante copio tutto il testo, con il permesso del padrone di casa.
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    10/11/2009 – IL MURO – 20 ANNI DOPO. ANALISI DI UN PROTAGONISTA

    Ora giù il muro con la Russia

    MIKHAIL GORBACIOV

    Il 1989 è stato un punto di svolta per l’Europa e per il mondo, un anno in cui la storia è andata a tutto gas. Questa accelerazione è simbolizzata dalla caduta del Muro di Berlino e dalle rivoluzioni di velluto nell’Europa centrale e orientale. I regimi totalitari e autoritari sono usciti dal palcoscenico della storia. Quegli eventi, e il loro dispiegarsi pacifico, furono resi possibili dai cambiamenti avviati in Unione Sovietica a metà degli Anni 80. Li avviammo perché erano dovuti: rispondevamo alle richieste della gente, che mal sopportava di vivere senza libertà, isolata dal resto del mondo. In pochi anni i principali pilastri del sistema totalitario in Unione Sovietica sono stati picconati, preparando il terreno per una transizione democratica e per riforme economiche. Ciò che avevamo fatto nel nostro Paese, non potevamo rifiutarlo ai nostri vicini.

    Non li abbiamo forzati ai cambiamenti. Dall’inizio della perestrojka, ho detto ai leader del Patto di Varsavia che l’Unione Sovietica si stava impegnando in grandi riforme ma che dovevano decidere loro quello che volevano fare. Voi siete responsabili verso la vostra gente, dissi, noi non interferiremo. In effetti era una sconfessione della Dottrina Breznev, basata sul concetto di «sovranità limitata». Inizialmente le mie parole furono ascoltate con scetticismo. Noi però non abbiamo mai vacillato: per questo gli sviluppi europei del 1989-1990 sono stati pacifici e incruenti.

    La sfida più grande è stata la riunificazione della Germania. Nell’estate 1989, durante la mia visita alla Repubblica Federale Tedesca, i giornalisti chiesero a me e al cancelliere Kohl se avessimo discusso la possibilità di una riunificazione. Io risposi che avevamo ereditato quel problema dalla storia e che toccava alla storia risolverlo. «Quando?» chiesero i giornalisti. Il Cancelliere ed io indicammo il XXI secolo. Qualcuno potrebbe dire che siamo stati cattivi profeti. E avrebbe ragione: la riunificazione tedesca è arrivata molto prima; e per volere dei tedeschi, non di Gorbaciov o di Kohl. Gli americani ricordano spesso l’appello del presidente Reagan da Berlino: «Mr Gorbaciov, tiri giù quel muro!». Ma poteva farlo un solo uomo? Tanto più che altri mi dicevano: «Salva quel muro!»? Con milioni di persone che a Est come a Ovest chiedevano la riunificazione, dovevamo agire responsabilmente. Leader europei e americani accolsero la sfida, vincendo perplessità e paure. Lavorando insieme, siamo riusciti a evitare nuovi conflitti e a conservare la fiducia reciproca. La Guerra Fredda era finalmente chiusa.

    Gli sviluppi successivi, però, non sono andati tutti come avremmo voluto. L’ex Germania dell’Est ha capito che non tutto era perfetto in Occidente, soprattutto lo Stato sociale. Eppure, nonostante i problemi di integrazione, i tedeschi hanno reso la Germania unificata un esponente rispettato, forte e pacifico della comunità delle nazioni. Meno bene se la sono cavata i leader che danno forma alle relazioni globali, in particolare europee: l’Europa non ha risolto i suoi problemi fondamentali, non è riuscita a creare una solida struttura di sicurezza. Subito dopo la fine della Guerra Fredda, avevamo iniziato a discutere nuovi meccanismi di sicurezza per il nostro continente. Tra le varie idee c’era quella di un consiglio di sicurezza per l’Europa, con poteri ampi e reali.

    Con mio grande rammarico, gli eventi hanno preso una direzione diversa, impedendo che emergesse una nuova Europa. Al posto delle vecchie linee divisorie ne sono emerse di nuove. L’Europa ha visto guerre e spargimento di sangue. Persistono sfiducia e vecchi stereotipi. La Russia è sospettata di cattive intenzioni e disegni aggressivi. Sono rimasto sconcertato dalla lettera aperta che ventidue politici dell’Europa centrale e orientale inviarono lo scorso giugno al presidente Obama, chiedendogli di abbandonare la politica di apertura alla Russia. Contemporaneamente l’Europa viene trascinata in una polemica su chi abbia scatenato la Seconda guerra mondiale. Sono stati fatti tentativi per mettere sullo stesso piano la Germania nazista e l’Unione Sovietica. Tentativi sbagliati, storicamente falsi e moralmente inaccettabili. Chi spera di costruire in Europa un nuovo muro di reciproco sospetto e animosità rende un cattivo servizio al suo Paese e all’Europa. Essa diventerà un forte «global player» solo diventando davvero la casa degli europei, a Est come a Ovest. L’Europa deve respirare con due polmoni, come disse una volta papa Giovanni Paolo II.

    Come possiamo muoverci verso questo obiettivo? All’inizio degli Anni 90 l’Ue aveva deciso di accelerare il suo allargamento. Molto è stato fatto. Che cosa implicasse quel processo, però, non è stato abbastanza ponderato. L’idea che tutti i problemi europei si sarebbero risolti costruendo l’Europa «da Ovest» si rivelò men che realistica e probabilmente irrealizzabile. Un passo più misurato avrebbe dato all’Ue il tempo di sviluppare un nuovo modello di relazioni con la Russia e i Paesi che non hanno prospettive di entrare a breve nell’Unione. L’attuale modello di relazioni Ue con altri Paesi europei è basato sull’assorbimento del più alto numero possibile nel tempo più breve possibile, lasciando i rapporti con la Russia una «questione sospesa». Che tipo di Russia volete vedere: una nazione forte, sicura dei suoi diritti, o un fornitore di risorse naturali che «sa stare al suo posto»?

    Troppi politici europei non vogliono parità di gioco con la Russia. Vogliono che una parte sia maestra o accusatrice, l’altra alunna o imputata. La Russia non accetterà questo modello. Vuole essere capita, vuole essere trattata sullo stesso piano. Essere all’altezza delle prossime sfide storiche – sicurezza, ripresa economica, ambiente, immigrazione – richiederebbe un ripensamento delle relazioni politiche ed economiche globali. Io esorto tutti gli europei a prendere in considerazione la proposta del presidente russo Dmitri Medvedev per un nuovo trattato di sicurezza europea. Una volta risolto questo nodo, l’Europa parlerà a voce alta.

    Copyright Mikhail Gorbaciov, distribuito da The New York Times Syndicate

  31. Mi associo a quanto detto da Francesca Giulia. Il muro è caduto (e meno male: però se ne sono accorti tutti meno Berlusconi) ma ha lasciato uno spazio vuoto che poteva e doveva essere riempito da qualcos’altro: nuove idee, nuovi ideali, nuove possibilità.
    Il senso di vuoto invece mi pare che si espanda in continuazione, in una società che conosce crisi a ripetizione, in cui aumenta la distanza tra i pochi ricchi e i molti poveri, in cui la giustizia è ancora molto opinabile, il diritto viene spesso sbeffeggiato e calpestato e gli interessi economici (di alcuni) prevalgono sempre sugli interessi di tutti, sul bene comune.
    Molti muri, fisici e ideali, sono ancora in piedi e sembrano a volte si facciano sempre più alti.
    E questi erano temi cari anche al grandissimo Sciascia, autore molto attento all’impegno civile, anche se ammetto di conoscerlo poco (ho letto solo alcune opere: Il giorno della civetta, Il consiglio d’Egitto, Una storia semplice, ..). Vorrei leggere Candido, e forse presto lo farò, spinto anche da quanto alcuni ne dicono qui, tra questi commenti.

  32. Il crollo del muro di Berlino è stato una festa per tutta l’umanità. Giusto celebrarlo. Speriamo che, piano piano, cadano altri muri e barriere ancora presenti in varie parti del mondo.

  33. Poi, simbolicamente, si potrebbe far riferimento ai muri che costruiamo tra noi e l’altro. Perché la nostra è una società falsamente comunicativa, e spesso l’apertura per l’altro è solo di facciata.
    Ma questo è un altro discorso.
    Grazie per l’occasione di riflessione.

  34. Su Sciascia (dimenticavo).
    Il giorno della civetta è il più famoso, ma anche (secondo me) il più importante. Un romanzo spartiacque, che avrebbe lanciato Sciascia in Italia e all’estero. Da far leggere ai giovani come primo libro dell’opera sciasciana.

  35. Per tornare al grandissimo Sciascia,che i giovani dovrebbero leggere ma soprattutto capirne il pensiero,penso inoltre che sia estremamente attuale e pieni di contenuti e spunti riflessivi che quanto mai oggi farebbe bene stare a sentire.Con il permesso di Massimo,sperando di andare fuori tema,vi posto un link di un altro interessante video in cui le parole di Sciascia sono quanto mai anticipatorie,e tristemente vere.
    http://www.youtube.com/watch?v=vvbv2-DfZNU&feature=related

  36. Bel post. Io sono tra quelli che si sono emozionati nel vedere in pezzi quell’orribile muro. Certo, capisco che non tutte le aspettative sono state soddisfatte, ma meglio un’aspettativa insoddisfatta che un paese diviso.

  37. Mi incuriosisce il rapporto di Sciascia (grande intellettuale e grande scrittore) con la Spagna. Sono più noti i suoi rapporti con la Francia.
    Tra le sue opere prediligo “A ciascuno il suo”, un titolo che è diventato anche uno slogan.

  38. Lascio una citazione di Sciascia da “Candido”.
    *Noi siamo quel che facciamo. Le intenzioni, specialmente se buone, e i rimorsi, specialmente se giusti, ognuno, dentro di sé, può giocarseli come vuole, fino alla disintegrazione, alla follia. Ma un fatto è un fatto: non ha contraddizioni, non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario. (1977, p. 100)*

  39. vista l’impostazione del post, lancio una proposta: analizzare come e se Sciascia è letto e recepito nei paesi dell’est. e se la caduta del muro ha sortito effetti anche in questo. ciao.

  40. Intervengo al volo per ringraziarvi per i commenti pervenuti.
    Tornerò più tardi per raccogliere qualcuno degli spunti forniti.

    (p.s. Ne approfitto per dirvi che oggi la trasmissione “Letteratitudine in Fm” – su Radio Hinterland – non andrà in onda… ma tornerà la settimana prossima).

  41. Ho appena visto il tuo interessantissimo blog e mi sento quasi in dovere di scrivere.Ho pubblicato ieri sera nel mio blog il ricordo e la testimonianaza sul MURO di Berlino. Ero una giovanissima donna, quando nel 1984, mi trovai a visitare Berlino.Il Muro,quando apparve al Check Point Charlie mi lascio’ senza parole.Entrare nella DDr fu come andare verso l’ignoto.Non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile in una Europa già moderna accettare quella situazione.Ma non voglio dilungarmi. E’ già STORIA.Certo,quello che succedette dopo,sappiamo tutti cos’è ancora..Per quanto riguarda Sciascia mi sento doppiamente coinvolta.Primo come sua lettrice,secondo perchè vivo a pochi km di distanza da Racalmuto,suo paese natale.Cosa dire?Che sento la mancanza lella letteratura come denuncia?Che sento la mancanza di una voce ferma e decisa che entri nella coscienza della gente?Perchè le parole hanno un potere prorompente e se si vuole,e se si ha il coraggio di usarle in maniera intelligente ed arguta possono formare la coscienza di un popolo.

  42. Sto leggendo Bufalino (BLUFF DI PAROLE, Bompiani)…
    Sentite cosa dice:
    “Una trappola in cui i siciliani cadono volentieri: pretendere di capire la Sicilia prima di capire se stessi”…

    A proposito di capitalismo selvaggio e mafie: come dice Battiato, spesso le democrazie si inventano. Risultato: il comunismo in disarmo spesso ha creato disagio, speculazione, affarismi legati alla politica. Pensiamo a Putin, a Eltsin, ai loschi figuri del Kgb riciclati nei nuovi governi.

  43. Anche in Italia non è che siamo poi messi tanto bene. Pensiamo agli americani che nel dopo guerra inquinarono le elezioni in favore della democrazia cristiana. Pensiamo a gladio, al sequestro Moro, agli intrecci della mafia e la camorra con i politici locali. Di recente l’ex presidente della Regione Sicilia è stato condannato. E quel ministro dell’Interno che si faceva baciare la mano. E ancora: lo strapotere economico dell’attuale Presidente del Consiglio che vuole imbavagliare la stampa a suon di querele, che si fa le leggi ad hoc per evitare di essere processato e dichiara che non si dimettera neanche se verrà riconosciuto colpevole. E che tutti coloro che parlano male di lui sono comunisti: giudici, giornalisti e persino la moglie. La democrazia è un soffio di vento che vola sempre da un’altra parte. Una società equa e giusta non esiste, i potenti la manipolano a loro piacimento. Ogni tanto qualcuno si fa ammazzare per i propri ideali, qualche altro protesta e viene epurato ma in definitiva tutto rimane immutato. Il comunismo è stato seppellito, l’utopia del comunismo è stata cancellata. Il capitalismo sfrenato sta facendo sì che pochi uomini si stanno impossessando del mondo. Il profitto non guarda in faccia nessuno, la Terra è uno strumento da utilizzare e non da salvaguardare, i ghiacciai si sciolgono, il surriscaldamento avanza. I nostri governanti (di destra e di sinistra) se la spassano con escort e trans, la questione morale non interessa nessuno, il Papa volge il capo benevolo dall’altra parte e tutto viene perdonato, l’importante che gli oboli continuino ad arrivare. Non ci resta che piangere.

  44. Non vorrei che la memoria mi tradisse ma credo sia proprio in “Candido”
    una bellissima frase, esplicativa del rapporto di Sciascia con il denaro, la ricchezza. “La ricchezza è vuota ma bella. La ricchezza è bella ma vuota.

  45. Caro Maugeri,
    Sciascia mi ha fatto amare Pirandello, Consolo, Lucio Picccolo, Tomasi di Lampedusa, autori strani come Antonio Castelli, Angelo Fiore, etc. – mi ha fatto amare la democrazia, come giusta istituzione di ragione e passione.
    Un saluto, e.

  46. Caro Salvo, sono in sintonia con le tue parole appassionate.
    .
    Su Sciascia: una mia personalissima sensazione. L’ultima sua opera, il racconto “Una storia semplice”, pubblicata poco dopo la morte di Sciascia, sembra suggellare la vita e l’arte di questo autore grande e compassionevole (compassionevole: ricordate i passi finali dell’Affaire Moro?): l’amarezza, lo smarrimento di essere rinchiuso in un dedalo, in un labirinto senza uscita; nell’impossibilità d’un’etica salvifica alla quale tante energie aveva egli devoluto. Forse, infine, in barlumi di lucida disperanza, inframezzate da ampie zone buie, d’una sua personale liberazione.

  47. I muri invisibili e di gomma ci son sempre stati e sempre ci saranno. Vabbè, hanno abbattuto un muro di cemento. Almeno, per tutti i mattoni dell’universo, rallegriamoci un po’ 🙂

  48. @Renzo,@ Gaetano.
    Grazie, compagni. Fondiamo un nuovo partito, il partito degli sfigati, tre voti li prendiamo di sicuro.

  49. @Renzo. So bene che tu hai un debole per Silviuccio, non è un fatto politico il tuo ma proprio un legame di sangue (l’amore per le belle donne vi unisce). Ma poi perchè stiamo parlando di poltica? Ci tengo a precisare che io sono apolitico, apartitico, asociale, anoressico.

  50. Grazie a te, Francesca Giulia. Poni interrogativi più che legittimi…
    “Siamo certi che che oggi la società possa offrire le risposte per colmare quel vuoto? Inoltre il muro visibile è crollato, abbattuto, e questa è cosa grande perchè nessun muro dovrebbe mortificare la libertà e la dignità dell’essere umano, ma quanti altri muri attorno a noi sarà più complicato demolire?”

    Be’, verrebbe da dire che i muri invisibili sono i più difficili da abbattere…
    Grazie, Fran. Bello anche il link del video di Sciascia (sulla Costituzione) che proponi…

  51. Lo ribadisce anche Carlo: “Il senso di vuoto invece mi pare che si espanda in continuazione, in una società che conosce crisi a ripetizione, in cui aumenta la distanza tra i pochi ricchi e i molti poveri… “

    Grazie anche a te, Carlo.

  52. @ Margherita
    Scrivi: “Mi incuriosisce il rapporto di Sciascia (grande intellettuale e grande scrittore) con la Spagna. Sono più noti i suoi rapporti con la Francia.”

    Cercherò di fornirti più notizie sul volume “Leonardo Sciascia e la cultura spagnola”. Proverò a far intervenire anche la prof.ssa Estela Gonzàles de Sande.

  53. @ Grazia
    Benvenuta su Letteratitudine e grazie per il tuo intervento. Sottolineo queste tue parole (che sono parole di speranza): le parole hanno un potere prorompente e se si vuole, e se si ha il coraggio di usarle in maniera intelligente ed arguta possono formare la coscienza di un popolo.

  54. @ Salvo
    Quello che dici è giusto.
    Scrivi: Il comunismo è stato seppellito, l’utopia del comunismo è stata cancellata. Il capitalismo sfrenato sta facendo sì che pochi uomini si stanno impossessando del mondo.
    Ma non ci sono proprio alternative, secondo te?
    Secondo voi?

  55. @ Lorena
    Grazie, Lorena. Scrivi: vista l’impostazione del post, lancio una proposta: analizzare come e se Sciascia è letto e recepito nei paesi dell’est. e se la caduta del muro ha sortito effetti anche in questo.

    Vediamo se su questo punto riesco a fare intervenire il prof. Carlo Pulsoni (citato in precedenza).

  56. @Massimo: Certamente “Todo modo” è consigliabile ai giovani, purchè abbiano già letto altri libri di Sciascia e abbiano così potuto assimilare sia il suo modo di scrivere, sia la sua capacità di parlare del presente con un occhio al futuro.

  57. Su Sciascia credo sia importante sottolineare le parole che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha speso in occasione della giornata di studio commemorativa del ventennale della morte dello scrittore siciliano, organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura di Parigi e dalla Fondazione Leonardo Sciascia di Racalmuto:
    “Nel ricordo non solo del magistero letterario di Sciascia, ma anche della sua altissima dignita’ politica e morale (…) l’iniziativa parigina e’ quantomai opportuna per commemorare questo grande scrittore italiano del Novecento, fecondo interprete della realta’ del suo tempo, che attraverso un genere letterario di largo successo riusci’ nel difficile intento di comunicare i valori della giustizia e della ragione nei quali fermamente credeva. Appassionato conoscitore di Parigi e della cultura francese e motivato da un’autentica ispirazione illuministica europea, lo ricordo impegnato in una difficile esperienza politica in Parlamento e nel Paese in difesa dello Stato di diritto, per la causa della legalita’ e dei diritti civili, contro la mafia ed ogni forma di criminalita’ organizzata”.

  58. una curiosità su Sciascia. Sul suo epitaffio ha voluto che si scrivesse questa frase: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”.
    E’ appunto l’epitaffio che si trova sulla sua tomba a Racalmuto; la citazione è di Auguste de Villiers de L’Isle-Adam.
    In un manoscritto conservato dalla famiglia, Sciascia ha scritto: «Ho deciso di farmi scrivere sulla tomba qualcosa di meno personale e di più ameno, e precisamente questa frase di Rouget de l’Isle Adam: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”. E così partecipo alla scommessa di Pascal e avverto che una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano»
    ***
    (Matteo Collura, L’isola senza ponte. Uomini e storie di Sicilia, Longanesi). Per approfondire, v. Matteo Collura, Sciascia, svelato l’ultimo enigma, Corriere della Sera, 5 settembre 2007, p. 41.

  59. L’altissimo valore morale di Sciascia, ancor più delle sue ottime pagine, è il più importante lascito, la sua più grande eredità. Oggi, più che mai, se ne sente la mancanza.

  60. Ricordo il 1989 come un anno di grandi promesse. O premesse, se preferite.
    L’incontro tra il Papa e Gorbaciov. La caduta di Ceausescu, in Romania. Il riconoscimento a Solidarnosc. Le proteste studentesche in piazza Tiananmen. E molto altro.
    Già da qualche anno si stavano gettando le basi per la cessazione della Guerra Fredda. La caduta del Muro ne divenne l’emblema.
    Ecco, ricordo di essere stata felice, in quegli anni, semplicemente di “esserci”. Ci poter essere testimone consapevole di un transito, di un cambiamento epocale.
    Di aver pensato che qualcosa di nuovo stava nascendo. Che i capi di stato stavano pensando al bene delle Nazioni, che la gente avesse maturato consapevolezze di rilievo.
    Ricordo di aver riascoltato “The Wall” con questo atteggiamento commosso. Di aver riletto quel racconto di Sartre, “Il muro”. Di aver rivisto “Il cielo sopra Berlino” commuovendomi più dell’angelo caduto per amore, nell’osservare i graffiti sul Muro.
    E poi la musica, intorno a quell’evento. Waters che sembrava impazzito.
    Forse pensavo che, da quel punto in poi, si sarebbe potuto solo procedere in quel senso, avanti tutta verso una democrazia moderna e possibile. Globale, addirittura. Come se l’abbattimento del Muro potesse assurgere a esempio per tutta l’Umanità.
    I fatti successivi, il riacutizzarsi di tensioni tra Russia e Stati Uniti, e i tanti conflitti a sfondo razziale sparsi nel mondo, ci hanno riportati con i piedi per terra.
    Forse la speranza disattesa che più addolora (alla luce dei tanti fatti politici, bellici e sociali degli ultimi anni) è constatare che la Storia sembra non insegnare. Si ricade nello stesso errore.

    Quanto a Sciascia, ciò che mi viene in mente quando penso a lui è la scena dell’atubus, tratta da “Il giorno della civetta”.
    La sua scrittura elegante, mai sopra le righe, cinematografica. E quello che c’è dentro.
    Buona proseguimento. Questo spazio mi piace sempre di più. Grazie Massimo!

    silvia

  61. @Massimo. La via da seguire l’ha indicata Gorbaciov. Un’ Europa unita è in grado di sedersi al tavolo delle trattative da pari a pari con gli Stati Uniti d’America, affrontare una politica di apertura verso i Paesi islamici, incentivare il processo di integrazione rispettando la diversità religiosa e culturale. Favorire una politica di sviluppo nei Paesi del Terzo Mondo in modo da frenare l’emorragia di clandestini che giornalmente sbarcano sulle nostre coste. A tal proposito trovo ridicolo l’atteggiamento e la presa di posizione di certi esponenti leghisti i quali pretendono di proteggere il loro territorio promulgando leggi razziali che non tengono conto dei diritti universali umani. Un governo, il nostro, che è diventato lo zimbello d’Europa. A proposito di Gorbaciov: alcuni anni fa ho avuto l’onore di trovarmelo fianco a fianco al Salone del libro di Torino. Lo ritengo uno dei più grandi uomini di questo secolo. Anche lui mi ha riconosciuto, dice che si collega spesso su Letteratitudine.

  62. @Renzo. Gorby l’ho conosciuto veramente, non sto scherzando. Ecco, una volta tanto che sono determinato a scrivere cose serie, arrivi tu e mi tenti, mi induci alle castronerie. Guarda che sono stato già diffidato più volte dal padrone di casa, per cui ti prego di mettere la testa a posto anche tu.

  63. Comunque l’idea di Salvo sul ruolo dell’Europa mi sembra l’unica valida ed effettivamente possibile, ma proprio per questo non verrà realizzata. Gira rigira ogni stato vuole imporre nel consesso europeo la propria supremazia e questo nuoce a un’effettiva unione non solo economica, ma anche politica. Se entro una decina di anni non si concretizzerà un’Unione Europea, così come pensata dai padri fondatori, temo che ci saranno delle conseguenze di non poco conto. Basta vedere l’Inghilterra che ancora vuole tenere la sua moneta, i suoi sistemi di peso e di misura ed e facile capire come un’effettiva unione appaia ancora lontana.

  64. Caro Massimo
    Ancora una volta una grande intuizione: l’Europa e Leonardo Sciascia accomunati da due anniversari che soltanto ad una considerazione superficiale sembrano non essere collegati. Un europeismo umanistico. Questo l’intento perseguito da Leonardo Sciascia nelle sue opere sempre volte ad inserire la Sicilia in quel moto di cultura europea da cui l’impostura della storia l’ha estromessa. Risulta a tal proposito di fondamentale importanza il libro di Estela Gonzalez De Sande, “Leonardo Sciascia e la cultura spagnola”, edito da la Cantinella, con introduzione di Sarah Zappulla Muscarà e foto di Giuseppe Leone. Un volume che ricostruisce con dovizia di particolari e fonti talora inedite il viscerale legame che unì Sciascia alla cultura spagnola nella quale il racalmutese scorgeva una comunione d’intenti culturali, ideologici, esistenziali che affondano le radici nelle comuni circostanze storiche e che gli consentono di rintracciarvi le origini della sicilitudine. Tanto da affermare : “Se la Spagna è, come qualcuno ha detto, più che una nazione un modo di essere, è un modo di essere anche la Sicilia; e il più visino che si possa immaginare al modo di essere spagnolo”. Invito l’autrice, Estela Gonzalez De Sande, Docente di Lingua e Letteratura italiane all’università di Oviedo, a prendere parte a questo interessante dibattito per raccontarci come è nata l’idea di avviare questa indagine nella quale ha attraversato il duplice fronte della cultura spagnola e siciliana.

  65. Eccomi di nuovo qui…

    Grazie a te, cara Laura… per la recensione e per questo tuo primo intervento. Attendo con gioia l’intervento di Estela dalla Spagna. In tal modo entreremo, anche qui sul web, nella dimensione di quell’europeismo umanistico a cui tu accennavi.

  66. Cara Estela
    raccontaci pure delle tue ricerche in Sicilia, dei viaggi di Leonardo Sciascia in Spagna. A proposito di quest’ultimo aspetto invito il Prof. Vicente Gonzalez Martin, cattedratico di Letteratura italiana nella prestigiosa università di Salamanca, straordinario promotore della cultura italiana non soltanto in Spagna, direttore della Cattedra Sicilia, fondata insieme a Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla nella volontà di promuovere gli scambi fra queste due civiltà consanguinee, studioso e amico di Sciascia, a prendere parte al dibattito per raccontarci, fra l’altro, il viaggio di Sciascia in Spagna nel corso del quale ha accompagnato lo scrittore siciliano nei luoghi della storia e della cultura spagnole.

  67. Intanto ne approfitto per ringraziare gli amici che hanno scritto i precedenti commenti: Claudio Rosoni (che ciriporta le belle parole di Napolitano), Dario (che ci racconta l’aneddoto dell’epitaffio), Ruggero, Margherita…

  68. Laura, ci siamo incrociati. Sono lieto di poter dare il benvenuto anche a al caro Vicente Gonzalez Martin… al quale chiederò notizie e aggiornamenti sulla “Cattedra Sicilia”.

  69. Caro Massimo, eccomi. Rispondo alla tua richiesta di ieri, relativa all’ultima opera di Sciascia.
    *
    “Una storia semplice” viene pubblicato, eseguendo le volontà testamentarie di Sciascia, lo stesso giorno della sua morte (e non poco tempo dopo, come imprecisamente scrivevo nel mio commento di ieri).
    Il lungo racconto è narrato in una prosa nitida ed essenziale. La trama attraversa con linearità (che diviene quasi inavvertitamente garbuglio labirintico) gli eventi intorno a un caso di omicidio, in un paese siciliano, e i suoi sviluppi investigativi. La soluzione delle indagini si rivela in conclusione come una falsa pista, che si frantuma in un disorientante gioco di specchi. Si intuisce finalmente chi sia il vero colpevole, ma costui rimarrà impunito, nel timore, da parte del principale testimone, di restare invischiato in una sorta di gigantesca tela di ragno.
    Non casualmente, il racconto ha in epigrafe una frase dello scrittore e drammaturgo svizzero Dürrenmatt, tratta dal romanzo “Giustizia”:
    “Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia.”
    Non a caso, dicevo, perché “Un storia semplice” evoca prepotentemente un’opera più nota di Dürrenmatt: “La promessa”, un breve romanzo pubblicato nel 1957, che presenta questo sottotitolo: “Un requiem per il romanzo giallo”. In esso si narra d’un delitto senza soluzione, d’un delitto che rimarrà impunito – d’un colpevole il quale, nonostante le prolungatissime indagini, non avrà mai un volto. Vi è qui quasi un destino ingrato, un Fato crudele, a nascondere nell’ombra, definitivamente, il criminale. Una prospettiva metafisica dunque.
    In Sciascia non c’è metafisica. Non le perfette astrazioni d’un Borges (Sciascia, amante dell’autore argentino, scriverà anche un breve racconto su di lui, che però, a mio parere, risulterà di approssimativa e fievole potenza narrativa). In Sciascia vi è invece la figura dell’Autorità, che schiaccia, l’ombra immanente d’un Padre kafkiano.
    Parlavamo di Letteratura. Non di rado, tuttavia, l’opera riflette le vicende esistenziali dell’autore. In “Una storia semplice” si addensa tutta la frustrazione di Sciascia per i tanti anni trascorsi a dibattersi nell’impegno civile e politico, nella lotta alla mafia (“Ho scritto questo racconto nell’estate del 1960”, scrive Sciascia nel 1972 in Appendice a una nuova edizione de “Il giorno della civetta”. “Allora il governo non solo si disinteressava del fenomeno della mafia, ma esplicitamente lo negava.”) e nelle vicende del suo mandato parlamentare devoluto ad indagare (invano, come in questo suo ultimo racconto) a favore dei lavori della commissione sul rapimento e la morte di Aldo Moro.
    Sciascia, infine, dopo aver varcato per decenni i confini italiani, per proiettarsi nello spazio della letteratura europea – attraverso l’opera dei francesi, soprattutto – sembra tornare alla sua terra, in uno straordinario rispecchiamento di vicende esistenziali: ritorna allo smarrimento d’un Mattia Pascal, al senso del dissolvimento incorporeo, nella riviviscenza d’una sua opera su un genio delle scienze, quell’Ettore Majorana alla cui scomparsa, avvenuta nel 1938, Sciascia dedica uno dei suoi libri più appassionati, quasi una identificazione. Per approdare, nei giorni estremi, alla radice spirituale d’un suo grande amore letterario, all’aspirazione d’una Provvidenza manzoniana.

  70. @ Salvo e Renzo
    Credo che la strada indicata da Mikhail Gorbaciov sia ragionevole… speriamo che quel “cammino” tracciato proceda con i minori intoppi possibili (al di là degli inevitabili problemi).
    Grazie mille anche a voi.

  71. Carissimo Massimo
    Grazie ancora una volta per avermi invitata in questo splendido luogo di confronto culturale. Insieme a te desidero ringraziare anche i tuoi ospiti che hanno espresso giudizi stimolanti sui due temi. Concordo con Renzo Montagnoli che ha ravvisato nella strenua ricerca della verità l’eredità più importante che ci ha lasciato Sciascia. Con Maria Luisa Riccioli che ha giustamente evidenziato la passione civile del racalmutese. Con Salvo Zappulla che ha sottolineato la generosità di Sciascia, chi lo ha conosciuto ha potuto apprezzare nel grande scrittore anche questa straordinaria dote umana. Last but not least, Simona Lo Iacono, che considero un’amica-sorella, così come Sciascia considerava Sicilia e Spagna. Simona, ti piace questo raffronto?

  72. Per ora devo chiudere, ma tornerò più tardi…
    Tra le altre cose avrò il piacere di inserire (e condividere con voi) l’introduzione di Sarah Zappulla Muscarà al volume “Sciascia e la cultura spagnola” gentilmente inviatami da Laura Marullo.
    A dopo!
    (E ancora grazie a tutti)

  73. Caro Massimo:
    Io non risponderò adesso alle tue domande, che mi sono servite per farmi ricordare che l’amore di Leonardo Sciascia per la Spagna ha motivato alcuni momenti molto felici della mia vita. Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Sciascia, quando l’invitai a fare una conferenza nell’Università di Salamanca nel 1982, ricordata dopo dallo scrittore in un articolo sul “Corriere della Sera” intitolato “A Salamanca, nell’Università di Unamuno”. Dopo Sciascia è stato presente nella mia vita in molti modi. Recentemente questa presenza si è evidenziata con forza quando si è pubblicato il libro di Estela González de Sande, “Leonardo Sciascia e la cultura spagnola”, perché, oltre a raccogliere minuziosamente ben elencati i riferimenti sciasciani alla Spagna, si studiano con rigore le cause e le motivazioni del vecchio e perenne amore dello scrittore di Racalmuto per il mio paese. Posso aggiungere un altro motivo di soddisfazione per questo libro: risponde, per metodologia e contenuti, ai presupposti scientifici della scuola degli italianisti dell’Università di Salamanca, che negli ultimi anni ha preso la Sicilia come riferimento italiano con la creazione e le azioni della Cattedra Sicilia, che dirigo.

  74. In attesa di dialogre con Estela Gonzalez De Sande, desidero proporvi una bellissima citazione di Sciascia che documenta come la Spagna abbia avuto un ruolo fondamentale nel processo di formazione umano, ideologico e culturale dello scrittore. Una influenza forse meno nota rispetto alla discendenza francese ma che finalmente Estela ha riportato alla luce, fornendoci migliori strumenti per approcciarci all’opera di Sciascia. Scrive a tal riguardo il racalmutese: “La guerra di Spagna mi rivelò il vero volto del fascismo, e mi spinse ad una ricerca di letture e di incontri umani cui debbo la mia formazione di uomo e (poiché mi trovo a scrivere) di scrittore”.

  75. Desidero esprimere la più viva gratitudine al Prof. Vicente Gonzalez Martin per il suo intervento ma soprattutto per il suo amore e per il suo impegno nel promuovere la cultura siciliana.

  76. Vorrei ringraziare Massimo per segnalare il mio volume sul rapporto Sciascia-Spagna, e accettare il suo invito a partecipare a questo dibattito.
    In risposta alla domanda di Margherita, devo dire che i rapporti di sciascia con la Spagna e con la cultura spagnola sono tanti e che questi riguardano sia aspetti intellettuali (rapporti con scrittori, letture e conoscenza della letteratura, della lingua e della storia spagnola), sia aspetti personali (amicizia con scrittori spagnoli, soprattutto il poeta Jorge Guillén, amore per il paese, per i suoi paesaggi e i suoi abitanti, ecc. ecc.).
    È vero che si sono scritte tante pagine su Sciascia e la Francia, ma gli studiosi di Sciascia sanno che la Spagna è presente in quasi tutte le sue opere. E questa presenza si materializza in continue citazioni di scrittori spagnoli, di costumi e di paesaggi che ritroviamo in tantissime opere dello scrittore. La Spagna è, inoltre, protagonista di alcuni romanzi o racconti come l’Antimonio, pubblicato nel 1961 con altri racconti ne Gli zii di Sicilia. E diventa protagonista in Morte dell’inquisitore con l’inquisitore spagnolo Juan Lopez Cisneros. Poi abbiamo uno splendido saggio intitolato Ore di Spagna dove lo scrittore esprime il suo amore per la Spagna attraverso un suo viaggio per la penisola iberica. Ma potrei citare molte opere in cui la cultura spagnola viene menzionata.
    Molto importante nella formazione del giovane Sciascia sarà la guerra di Spagna che coinvolse molti intellettuali italiani (Vittorini, Jovine, Lajolo, ecc.) e anche i rapporti storico-culturali tra la Sicilia e la Spagna. Questi due argomenti susciteranno molte pagine dello scrittore.

    E per finire vorrei rispondere ad alcune domande di Massimo. Secondo me la grande eredità di Sciascia è la sua imponente libertà di espressione e il suo impegno morale e civile. E aggiungo il suo contributo alla descrizione dell’essere siciliano, la sua preziosa analisi della “sicilitudine”.
    Ad un ragazzo io consiglierei di leggere qualsiasi giallo dello scrittore: Il giorno della civetta, Todo modo, Una storia semplice, Il Contesto, A ciascuno il suo…
    Estela González

  77. Caro Massimo, di Sciascia ho letto molto, conosco benino il libro” Porte Aperte”, (Adelphi) poiché lo recensii per ” La Voce del Campo”, dopo la sua intensa conferenza a Siena, sulla pena di morte. Spero di ritrovare l’articolo. Ho invece scovato ciò che disse della sua raccolta “Occhio di capra” (Einaudi). L’idea di scrivere un dizionario sul suo Racalmuto lo raccontò così:- Sei anni fa, in campagna, guardando il sole che tramontava dietro le nuvole che sembravano tratti di penna – un pò spento, un pò strabico come ingabbiato – qualcuno disse: ” Occhio di capra: domani piove”. Non lo sentivo dire da molti anni. Annotai l’espressione su un foglietto; e così ogni volta – da allora – che ne sentivo o ne ritrovavo nella memoria altre di uguale originalità e lontananza. Foglietto su foglietto, ” le voci” hanno fatto un libro esile quanto si vuole ma importante”-
    Questo minimo cammeo di Leonardo Sciascia, su una Sicilia familiare e antica, mi ricorda tanto gli affascinanti mestieri, mirabilmente descritti dal grande Gesualdo Bufalino. E poiché quello splendido tempo, colmo di amori, usanze e vari sentimenti, sembra che stia per sparire, con l’aria che tira…., usando un detto dialettale di Sciascia, speriamo di non finire anche noi ” a cuda di surci…”
    la vostra Tessy

  78. Cara Laura:
    Devo scusarmi per il mio intervento perché non avevo letto il tuo. A continuazione rispondo alla tua domanda.

  79. Il primo viaggio di Sciascia a Spagna risale al 1956. Poi il secondo si produce nel 1961. Nel 1982 visita Madrid e Salamanca invitato dall’Istituto italiano di cultura e dal dipartimento di Filologia Moderna dell’Università di Salamanca. poi torna a Salamanca nel 1984. Questi viaggi sono documentati dal proprio Sciascia nella sua opera Ore di spagna (1988) che include una serie di articoli pubblicati sul Corriere della sera.

  80. Carissima Estela
    Benvenuta e grazie per averci ricordato i fecondi rapporti fra Sciascia e la Spagna. Rapporti legati a luoghi, a fatti storici, a scrittori spagnoli. Vorresti esemplificare questi aspetti?

  81. Dalla comune dominazione araba prende l’abbrivio, secondo Sciascia, l’apparentamento fra Sicilia e Spagna, il dialogo assiduo fra due civiltà materiato da esperiene storiche di cui è traccia nei rispettivi territori, sicché, scrive Sciascia: “Andare per la Spagna è, per un siciliano, un continuo insorgere della memoria storica, un continuo affiorare di legami, di corrispondenze, di ‘cristallizzazioni'”.

  82. Vorrei ricordare, inoltre, che Leonardo Sciascia fu un raffinato traduttore dallo spagnolo, lo documenta pure Estela nel suo volume dove pubblica, fra l’altro, anche le traduzioni del “Llanto por Ignacio Sanchez Mejìas” di Federico Garcia Lorca, di “La velada en Benicarlò” di Manuel Azana, del poema “Lampedusa” di Jorge Guillen, di Morte del sueno di Pedro Salinas.

  83. Una menzione speciale merita poi l’ammirazione di Sciascia verso alcuni scrittori spagnoli fra i quali spicca Cervantes col suo Don Chisciotte, ma pure don Miguel de Unamuno, e soprattutto l’amicizia con Guillen, Alonso, Borges, Montalban.
    Estela, vorresti parlarci di questa fratellanza intellettuale?

  84. Cari Laura e Massimo:
    Vi ringrazio per offrirmi l’opportunità di intervenire nel dibattito e per includere anche il mio saggio su Sciascia.
    Vorrei rispondere alla prima domanda di Laura sull’idea di avviare l’indagine del rapporto di Sciascia con la cultura spagnola. Devo dire che il mio interesse per Sciascia risale agli anni universitari a Salamanca dove ho avuto l’opportunità di conoscere lo scrittore. Ho cominciato a leggere tutti i suoi romanzi e subito mi sono resa conto dell’amore di Sciascia per la Spagna. Poi ho voluto sapere perché questo amore, perché questa predilezione per la Spagna. Così ho cominciato a cercare e leggere tutto quello che aveva scritto Sciascia (articoli, recensioni, saggi, ecc.). E ho potuto verificare che la Spagna appariva continuamente nei suoi scritti. Per approfondire le mie indagini sono andata in Sicilia e lì ho trovato l’inestimabile aiuto della professoressa Sarah Zappulla Muscarà che mi ha procurato l’accesso alle biblioteche e alla fondazione Sciascia a Racalmuto.
    Vi saluto con le parole del racalmutese a proposito dei legami e l’affinità fra la Spagna e la Sicilia (un’altra questione che segnala Laura):
    “…andare per la Spagna è, per un siciliano, un continuo insorgere della memoria storica, un continuo affiorare di legami, di corrispondenze, di cristallizzazzioni”.

  85. certamente esiste una fratellanza con gli scrittori spagnoli. Condivide il dolore degli scrittori esiliati come Alberti e il dolore di Lorca fusilato. Questi scrittori non erano solo compagni di scrittura, erano anche amici e questo è motivo di ammirazione per Sciascia. Poi ci sono i grandi scrittori classici como Cervantes. Il Chisciotte è per lui un’opera straordinaria maestra di vita e l’autore gli interessa inoltre per i suoi possibli rapporti con il poeta siciliano Antonio Veneziano. Su questi rapporti chiederà informazione al amico Guillén.
    importante è anche Ortega e Gasset, filosofo e scrittore, dal quale “impara a capire il mondo contemporaneo”.

  86. Il suo interesse per la traduzione di scrittori italiani risponde al desiderio di conoscere e capire l’opera degli autori più cari. Azaña gli interessa per il suo ruolo di Presidente della II Repubblica spagnola e i suoi discorsi sulla situazione di Spagna negli anni precedenti alla guerra. Poi gli interessa la poesia dei poeti della Generazione del 27: Lorca, Guillén, Salinas.
    Ma è anche ammiratore di alcuni scrittori della generazione precedente, quella del 98, come Unamuno e Machado.

  87. Caro Vicente, cara Estela… intanto grazie per essere intervenuti.
    Come scrivevo sopra, questa nostra discussione si arricchisce grazie ai vostri interventi e al vostro supporto… e acquisisce quella dimensione europea a cui faceva riferimento anche Laura.
    Con te, caro Vicente, ci siamo incontrati un paio di volte (ma sempre qui in Italia… prima o poi verrò a trovarti lì, all’Università di Salamanca).
    E spero di poter incontrare quanto prima anche te, cara Estela. Dovessi passare dalle parti di Oviedo, mi farò vivo.

  88. A beneficio dei frequentatori di Letteratitudine dico che Vicente González Martín (che per anni è stato Presidente dell’Associazione degli Italianisti Spagnoli) è il direttore del dipartimento di filologia dell’Università di Salamanca. Ed è anche il direttore della “Cattedra Sicilia” istituita presso la stessa Università di Salamanca.
    La “cattedra Sicilia” si occupa di promuovere la cultura, la letteratura, il teatro, il cinema, il turismo, l’economia, le tradizioni della Sicilia nell’area ispanica attraverso la organizzazione di convegni, mostre, pubblicazioni, traduzioni che mettano in evidenza le caratteristiche peculiari delle due culture e dei rapporti che nei secoli hanno caratterizzato la vita dei due popoli.

    Ti ringrazio di cuore, caro Vicente, per il tuo grande contributo a favore della divulgazione della letteratura e della cultura siciliana in Spagna.

  89. Ora che ci penso, Vicente, da qualche parte devo avere un video con un tuo intervento. Se riesco a trovarlo lo inserisco su YouTube, nel canale video di Letteratitudine, e lo collego a questo post.

  90. Il libro, cara Estela, inizia con una citazione estratta da “Le parrocchie di Regalpetra”: Avevo la Spagna nel cuore. Quei nomi – Bilbao Malaga Valencia; e poi Madrid, Madrid assediata – erano amore, ancor oggi li pronuncio come fiorissero in un ricordo di amore.

    “Le parrocchie di Regalpetra” è stato pubblicato nel 1956… e già in quella data, come si evince dall’estratto, la Spagna era nella testa e nel cuore di Leonardo Sciascia.

  91. Carissima Lauretta,
    paragone più intenso non potevi trovare per esprimere la nostra “sorellanza” ! Sciascia e la Spagna.
    Come dire l’uomo che si trova attraverso un’anima gemella.
    C’è un una trasposizione letteraria di questo amore di Sciasca per la Spagna. Ed è la novella “L’antimonio” dove l’autore racconta l’evoluzione spirituale di un giovane zolfataro siciliano che per sfuggire al lavoro pericolosissimo delle cave, si fa arruolare nelle truppe italiane che fiancheggiano l’esercito franchista e parte per combattere in Spagna contro i repubblicani. Man mano che comprende le ragioni sociali e le
    vere motivazioni di questa guerra, affiora in lui la coscienza di trovarsi dalla parte sbagliata. Di lottare controcorrente, rispetto agli ideali della propria classe. E’ un risveglio, un richiamo, una rimembranza del cuore.
    La distanza dall’Italia e dalla Sicilia migliora la sua capacità di giudicare i meccanismi che caratterizzano il paese e la società da cui proviene e quindi di prendere per la prima volta una chiara posizione di
    fronte al fascismo mussoliniano. «Seduto sulla scalinata di quella chiesa, ho capito tante cose della Spagna e dell’Italia, del mondo intero e degli uomini nel mondo» , e più avanti: «ma dalla guerra di Spagna,dal fuoco di quella guerra, a me pare di avere avuto davvero un battesimo: un
    segno di liberazione nel cuore; di conoscenza; di giustizia». Infine quando il protagonista torna a casa , nonostante la mutilazione a un braccio, prova la gioia dell’aver conquistato la coscienza di sé e di «tutte le cose del mondo», una gioia paragonata a quella procurata dalla lettura:
    “Insomma, mi era venuto il furore di vedere ogni cosa dal di dentro, come se ogni persona, ogni cosa, ogni fatto, fosse come un libro che uno apre e legge: anche il libro è una cosa, lo si può mettere su un tavolo e guardarlo soltanto, magari per tener su un tavolino zoppo lo si può usare o per sbatterlo in testa a qualcuno: ma se lo apri e leggi diventa un mondo; e perchéogni cosa non si dovrebbe aprire e leggere ed essere un mondo?”
    Ecco: credo che senza la Spagna Sciascia non avrebbe “riletto” la Sicilia. Senza lo specchio necessario non ne avrebbe colto il rimando, l’anima, le contraddizioni. Senza l’hispanidad non ci sarebbe stata la sicilitudine come dimora, conchiglia, connessione di valori.
    La sovrapposizione è continua. Di luoghi, di sguardi, di pietre, di chiese. Per esempio dove dice :«I mori giunseroalle rampe della scalinata, solo allora mi accorsi che la chiesa era precisa quella di Santa Maria del mio paese»; oppure«Era bella Cádiz, somigliava a Trapani, ma per il bianco delle case più luminosa».
    ***
    Quindi un abbraccio siciliano a tutti gli spagnoli intervenuti (bravissimi davvero) e uno specialissimo a Lauretta.

  92. Il libro è impreziosito dalle splendide foto di Giuseppe Leone (che anticipano il testo).
    Ne ho contate trentasei… trentasei bellissime foto che ritraggono Sciascia nel 1984 a Madrid, a Guadalajara, a Castiglia, a La Mancha, a Cordoba, a Granada, a Siviglia…
    In alcune di esse compare la moglie Maria Andronico, recentemente scomparsa…

  93. Prima di chiudere, come anticipato, inserirò l’introduzione al libro firmata da Sarah Zappulla Muscarà.
    Poiché il testo è piuttosto lungo – per esigenze “visive” – ho provveduto a dividerlo in quattro parti.
    Potrete leggerlo di seguito, tra i commenti…

  94. “Il beduino di Borges” di Sarah Zappulla Muscarà (parte I)

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    «Avevo la Spagna nel cuore. Quei nomi – Bilbao Malaga Valencia, e poi Madrid, Madrid assediata – erano amore, ancor oggi li pronuncio come fiorissero in un ricordo di amore». Corteggiata con lucida passione, la Spagna è, per l’innamorato Leonardo Sciascia, oggetto esclusivo di un desiderio che alimenta corrispondenza di amorosi sensi materiata da antica, assidua frequentazione. Ma pure sorprendente agnizione di una «ritrovata fraternità», platonica anamnesi di un luogo dell’anima in cui, borgesianamente, risiedette prima ancora di nascere, dolorosa diastasi dell’unità primigenia, rifrazione speculare di cui i demotipi di hispanidad e sicilitudine costituiscono modulazioni tonali di un analogico, comune sentire: «se la Spagna è, come qualcuno ha detto, più che una nazione un modo di essere, è un modo di essere anche la Sicilia; e il più vicino che si possa immaginare al modo di essere spagnolo». Giusto il dettato di Friedrich Nietzsche: «ciascuno diviene quel che è». Anche in virtù del forte nesso tra vicenda biografica e creazione artistica. «Il vero Don Chisciotte era nato in Alcalà de Henares nel 1547»: così Luigi Pirandello indicando come luogo e data di nascita del personaggio quelli dell’autore.
    Lungamente vagheggiata con bramoso desiderio di possesso, scrutata con i sensi protesi alla ricerca di una metà che ricomponga un Essere altrimenti dimezzato, la Spagna, come «un primo amore intenso e disperato», fa esplodere un’«emozione» tenacemente controllata dalla sempre vigile attività censoria di un razionalismo elevato a tutore del difficile, incerto equilibrio di chi, affetto da «nevrosi da ragione», vive una condizione di «pirandellismo in natura» e pugnacemente combatte contro quell’ambivalente società, «doppiamente non giusta, doppiamente non libera, doppiamente non razionale», che reitera la stanca tautologia di una storia di «sconfitte della ragione, sconfitte degli uomini ragionevoli». Salvifico credo, la ragione, mai disgiunta dall’idea di libertà, giustizia e verità, cui è delegato l’arduo compito di preservare dall’assurdità del reale, dall’inafferrabile identità, dalla pazzia in agguato, dal repentino incendiarsi degli animi di uomini che si muovono su una rovente e cruenta superficie sulfurea. Eppure lacerata dall’insidioso e insinuante fascino della consustanziale controparte irrazionale, dilemmatica nelle turbolenze delle aporie, dolente, angosciata nell’impossibilità di dare senso e significato all’esistenza. Nell’intrinseco potenziale destabilizzante, in virtù dell’incontenibile magnitudine del suo raggio, la passione, da parte sua, scandalizza il claustrofilo perbenismo della logica, spezza la circolarità conchiusa dei suoi criteri. Condannata come fattore di turbamento, addomesticata in funzione di una superiore istanza ordinatrice, acquisisce una connotazione semantica culturalmente e socialmente condizionata, sicché ubbidire all’imperioso richiamo degli impulsi, arrendersi alle lusinghe sinuose dei desideri si configura come una esplicita rinuncia alla temperanza e all’autocontrollo. È nello scomposto agitarsi di una ragione inerpicata tra le pieghe anfrattuose della percezione tragica dell’esistere, dannata alla coazione a ripetere un oscillante itinerario tra le secche di un alogico vivere e di un ipertrofico sentire, che s’innesca l’eterno belligerare di «logos» ed «eros». Suggestiva l’ipotiposi cui invita il pensiero filosofico. Nella tensione ad inseguire senza posa la verità, «eros» è proteso, con Platone, per il tramite della mediazione sintetica del «logos dialettico» e della «divina mania», al conseguimento di un processo gnoseologico che conduce alla «verità». E «l’anima che non ha mai contemplato la verità non potrà mai giungere a forma d’uomo», ammonisce l’ateniese. Quella stessa ricerca della verità, sempre negata ai vinti dalla storia, sulla quale Sciascia fonda l’irrisarcibile malinconia della sua pessimistica riflessione critica. Un disincantato filosofo pirandelliano, il racalmutese, alla stregua del giudice D’Andrea, pertinace sofista di ’A patenti, al quale il personaggio del primo giudice, smorzandone la carica argomentativa dell’incandescente «arrovello», così obietta: «E a tia sta filosofia, caro mio, ti fa infelici!». Le differenze ‘intellettuali’ fra l’area occidentale e quella orientale dell’isola, ricorda Vitaliano Brancati, risalendo a diverse dominazioni, e quindi a profonde ragioni geografiche, antropologiche, culturali: «Da questa parte [l’occidentale] sono entrati in Sicilia gli arabi, i cavilli, l’io e il non io, la malinconia e i musaici. Le sottigliezze e la malinconia sono andate a finire parte ad Agrigento, nella testa di Luigi Pirandello, parte a Castelvetrano, nella testa di Giovanni Gentile. Dalla parte orientale, sono entrati i fenici, i greci, la poesia, la musica, il commercio, l’inganno, la buffoneria e il comico: Stesicoro, Bellini, Di Sangiuliano, De Felice, Rapisardi, Verga, Martoglio…».
    Ma la ragione che presiede la curiosità analitica sciasciana, se si richiama al cartesiano «dubbio metodico», non ne condivide la pretesa d’infallibilità. Riconduce, piuttosto, a quella pascaliana «ragione del cuore» che guida problematici, inquieti uomini che «cercano gemendo», che s’interrogano, nell’amara consapevolezza di non poterne avere risposta, sul dramma del vivere. Fra l’aprioristico dogmatismo di una ragione convinta delle proprie illimitate possibilità e il più radicale scetticismo di quanti indicano nei sensi una fonte di conoscenza ingannevole, Pascal sceglie l’«esprit de finesse», quella comprensione intuitiva che procede dal cuore e approda ad una verità sia pure parziale: «è sulle conoscenze del cuore e dell’istinto che deve basarsi la ragione». E la mente corre alla conflittualità, alla frattura, alla dissonanza del «sentimento del contrario», che conferisce all’insensatezza del mondo una patina d’inquieta logicità («in momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente»), di cui parla Luigi Pirandello, profondo e spietato ragionatore a dispetto dell’appassionato e ardente sentimento della vita. Annota Giambattista Vico: «gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura». Uno slittamento nelle regioni dell’emotività che mina sin dalle fondamenta la struttura illuministica dell’edificio sciasciano sotto il quale scorre, come un fiume carsico, la materia magmatica della ricca tradizione letteraria siciliana di cui Italo Calvino ha sottolineato l’importanza già in una lettera del 1964: «ma tu hai, subito dietro di te, il relativismo di Pirandello, e il Gogol via Brancati, e continuamente tenuta presente la continuità Spagna-Sicilia: una serie di cariche esplosive sotto i pilastri del povero illuminismo in confronto alle quali le mie sono poveri fuochi d’artificio. Io mi aspetto che tu dia fuoco alle polveri tragico-barocco-grottesche che hai accumulato. […] Sii ispano-siculo e magari arabo-siculo fino in fondo e sarai universale».

  95. “Il beduino di Borges” di Sarah Zappulla Muscarà (parte II)
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    Rivelazione di verità attraverso le ragioni del cuore è, per Leonardo Sciascia, la scoperta della storia e della cultura ispaniche. Contrariamente all’inveterata, rigoristica interpretazione delle emozioni, nelle considerazioni cui lo riconduce la realtà spagnola, ragione e passione si assestano in un instabile regime di diarchia dove l’abile «gioco delle parti» definisce un’ossimorica solidarietà antagonistica, che il prevalere del sentimento vigorosamente spariglia, detronizzando la ragione e indicando nell’«amore intellettuale» una proposta di trans-logica. E non si tratta d’inconfessata palinodia, quanto di una più chiara definizione dei rapporti fra istanze razionalistiche e pulsioni emotive. Nel modello di scepsi che a Sciascia deriva dalle sollecitazioni culturali iberiche, la passione implementa la ragione, divenendo «fuoco nella mente degli uomini», mescidando, in una sapida manteca, capacità eristica e spirito dionisiaco. Con Hegel, «niente di grande è stato compiuto né può essere compiuto senza passione». Anche per il «fratello diverso» Sebastiano Addamo, cui lo unisce una comunione d’intenti esistenziali e letterari, l’impegno civile, la tensione morale, il pessimismo ontologico, permane in Sciascia l’«osmosi di motivi illuministici e razionalistici e di motivi romantici i quali ultimi gli provengono pure dall’intenso studio che va facendo della Spagna, che danno particolare suggestione alla pagina ma anche una certa tenuità ai motivi di essa». Tracciato fedele delle vibrazioni della tramatura emotiva, lo stile di Leonardo Sciascia, al quale Jorge Guillén riconosce «mente aguda, ánimo honesto y palabra sabrosa», pur restando fedele all’ispirazione rondista, subisce una sensibile trasformazione nella ritrovata dolcezza dei toni da effusione lirica, nell’impennarsi dell’espressività a svantaggio del procedere antifrastico, nella densità semantica che si dischiude in un ventaglio di significati riconducibili tutti alla sfera del sentimento, rafforzando la funzione comunicativa mediante una strategia impegnata ad istituire un clima d’intimità ma soprattutto una continuità morale e mentale fra Sicilia e Spagna. Lo documenta, guidandoci nell’alfabetizzazione di un inconsueto ‘lessico familiare’, l’analisi comparativa di Estela González De Sande, organica ed esaustiva disamina che, mettendo a fuoco, con rigore scientifico, il forte legame di Leonardo Sciascia con la cultura spagnola, getta fasci di luce su questioni cruciali dell’esegesi dell’opera sua, ponendosi come punto di riferimento imprescindibile, d’ora innanzi, non soltanto per gli studi sullo scrittore ma pure per quelli sui rapporti fra i due Paesi. È, quello di Estela González De Sande, parafrasando Leonardo Sciascia a proposito dell’opera di José Ortega y Gasset, uno straordinario viaggio di conoscenza che ripercorre tutte le tappe dell’opera del racalmutese restituendoci, attraverso la fitta, intramata rete di riferimenti e richiami, la mappatura precisa di luoghi reali e della mente di civiltà consanguinee, e perpetuando così quella fraternità intellettuale dallo scrittore insistentemente ribadita. E se, ancora con Leonardo Sciascia, un libro è «riscritto in ogni epoca in cui lo si legge e ogni volta che lo si legge», la ricognizione di Estela González De Sande della sua produzione letteraria attraverso la specola ispanica consente di cogliere l’ulteriore, «mutevole» verità ed avvicinarsi vieppiù alla «verità sempre da raggiungere».
    Sorretta dall’intrepido anelito alla giustizia che innerva l’habitus polemico di Sciascia, la componente emozionale della passione, nella sua valenza polisemica, insieme morale, ideologica, civile, intellettuale, sentimentale, nutre la denuncia del dolore umano, si carica di uno scatto d’indignazione, e deflagra, trasformandosi spinozianamente in azione, travolgendo la fragile armatura della logica, nell’urgenza della straziata partecipazione alla sofferenza del popolo spagnolo vittima della guerra civile, coacervo di «tutti gli errori e le speranze del mondo», «prova e sintesi di guerra mondiale»: «Nella primavera del 1939, quando Madrid cadde, odiavo talmente il fascismo da sentirmi sul filo della pazzia. Non mi pare di aver vissuto nella mia vita momenti di uguale passione: così intensa, così disperata»; «mai più avrò nella mia vita sentimenti così intensi, così puri. Mai più ritroverò così tersa misura di amore e di odio». Con Pierre-Joseph Proudhon, «si è veramente artisti solo dipingendo ciò in cui si crede, ciò che si ama, ciò che si spera o che si odia». È la fase di «astratti furori» di cui parla Elio Vittorini, impegnato a rubricare spettrali radiografie storiche del «mondo offeso», del «genere umano perduto» cui dà voce il grido di protesta del «más hombre». È il sentimento di appartenenza che lega nel caldo afflato dell’umana pietà le immemori esistenze di uomini perseguitati dalla storia: «Con la guerra di Spagna, la mia avversione al fascismo divenne netta, assoluta. Non sul piano ideologico, […] ma sul piano sentimentale, morale, intellettuale».

  96. “Il beduino di Borges” di Sarah Zappulla Muscarà (parte III)
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    Processo gnoseologico, scandaglio esistenziale, consapevolezza ideologica, reinvenzione mitica, rifugio onirico, l’esperienza bellica spagnola, ritmata sul rapporto tra avventura storica e risonanza interiore, attiva numerosi itinerari di ricerca confluiti nella trasfigurazione letteraria de L’antimonio. Il 24 settembre 1958, da Racalmuto, Leonardo Sciascia scrive a Giuseppe Bonaviri: «Ho lavorato per tutta l’estate a un racconto sulla guerra di Spagna – uno zolfataro nella guerra fascista di Spagna. Non so che cosa sia venuto fuori. Lo manderò a Calvino». Sostanzialmente frainteso l’intento di Sciascia da Calvino: «La guerra di Spagna può entrare indirettamente nella nostra mitologia individuale, ma – finché è vivo qualcuno che bene o male può parlarne per esperienza diretta – noi non possiamo raccontarla che indirettamente, cioè raccontare come è giunta a noi attraverso notizie e testimonianze d’altri. Non possiamo farne oggetto di un pastiche storico come potremmo fare per le guerre di Napoleone o di Garibaldi. A meno di fare una guerra di Spagna deliberatamente d’immaginazione, fantastica. Se vogliamo farla realistica, nel lettore resterà sempre quel senso d’insoddisfazione che danno le riproduzioni di fotografie troppo ingrandite e “retino” troppo largo». Né documentaristica ricostruzione storiografica, né invenzione fantastica, piuttosto esigenza non più prorogabile di affidare all’imperitura memoria della scrittura, forma assoluta di verità, un atto d’accusa contro l’immobilismo e l’impostura della storia che ripropone col suo ritmo salmodiante una condizione d’infelicità già consumata: «io scopro nella letteratura quel che non riesco a scoprire negli analisti più elucubranti, i quali vorrebbero fornire spiegazioni esaurienti e soluzioni a tutti i problemi. Sì, la storia mente e le sue menzogne avvolgono di una stessa polvere tutte le teorie che dalla storia nascono». «Che cos’è la storia se non la nostra immagine della storia?» si chiede Borges. Testimonianza civile, provocazione intellettuale, lezione morale ma pure intimo desiderio d’inserire la Sicilia in quel moto di cultura e di storia europea da cui una prolungata condizione di separatezza e una ininterrotta sequela di gesti mancati l’avevano costantemente estromessa. Appellandosi alla nozione di «Sicilia come metafora del mondo» che attiva l’artificio dello straniamento prospettico, Sciascia approda ad un europeismo umanistico che consegna l’empiria alla perdurante funzione mnesica.
    Assunta a modello ideologico, mitico, interpretativo, la Spagna apporta un contributo fondamentale alla formazione umana e intellettuale dello scrittore siciliano tale da configurare la prospettiva di una nuova genealogia sciasciana che concorre a meglio delineare la cosmogonia dell’opera sua: «La guerra di Spagna mi rivelò il volto vero del fascismo, e mi spinse ad una ricerca di letture e di incontri umani cui debbo la mia formazione di uomo e (poiché mi trovo a scrivere) di scrittore». Dall’intricata rete intertestuale di un affollato citazionismo emerge un assiduo dialogo con una cultura che risuona degli echi di affinità elettive, giacché «andare per la Spagna è, per un siciliano, un continuo insorgere della memoria storica, un continuo affiorare di legami, di corrispondenze, di “cristallizzazioni”». Un nuovo canone contribuisce a spiegare l’origine di quel clima intimistico e assorto di certe pagine, che non dipende dalla discendenza francese, offrendo valide alternative alla smaniosa indagine dello scrittore siciliano. Così la previsione di una nuova dimensione etica, come pure la volontà di coniugare ragione e sentimento, trova riscontro nel cattolicesimo eterodosso di Miguel de Unamuno: «No sé por qué no se haya dicho que [el hombre] es un animal afectivo o sentimental. Y acaso lo que de los demás animales lo diferencia sea más el sentimento que no la razón. Más veces he visto razonar a un gato que no reir o llorar». E inoltre, l’acuto sentimento del «troppo umano» pirandelliano nel «vivir desviviendo» di Américo Castro, il criticismo metodico nel «tema» di José Ortega y Gasset, l’aspirazione alla chiarezza stilistica nella sorvegliata eleganza dei poeti della «Generazione del ’27», l’anelito all’evasione dalla triste realtà nelle «gioiose intermittenze» dell’idealismo donchisciottesco, l’ironia sferzante nell’empito visionario del «teologo ateo» Jorge Luis Borges. Osserva Gesualdo Bufalino: «Borges prende Diderot a braccetto e gli parla piano all’orecchio». Una vertiginosa «illusione della trasparenza» che, quasi in un gioco di specchi, rinvia pendolaristiche ombre diafane dall’uno all’altro sistema letterario. Non sembra, in questa prospettiva, assumere Sciascia le sembianze del beduino di cui parla Borges, trasfigurazione acrona di Don Chisciotte, che, armato di ragione e poesia, ha il compito di salvare l’Arte? E prosegue la singolare esperienza viatoria dell’immortale personaggio cervantino nel pensiero dell’umanità.

  97. “Il beduino di Borges” di Sarah Zappulla Muscarà (parte IV)
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    Ma, annota Susan Sontag, «forma suprema di viaggio» è la fotografia. Eliottiano «correlativo oggettivo» delle ineffabili emozioni suscitate dai viaggi in Spagna, alla fotografia, come già alla letteratura, Sciascia attribuisce il formidabile potere di dichiarare guerra al tempo («nulla è più vicino all’abolizione del tempo, tra le rappresentazioni che l’uomo sa dare della propria vita, della fotografia; ma al tempo stesso, nulla ne è più lontano») e determinare la borgesiana vertigine di quella «magica contrazione dello spazio che implicitamente è, in tutta la sua opera, sortilegio di contrazione del tempo, sul punto della dissolvenza e dell’oblio», da cui scaturisce il concetto aristotelico dell’entelechia, essere nella perfezione, istante nel tempo, immagine nella quale si concentra tutto il senso di una vita in quell’attimo fissata. Un aporema che traduce la spinta metafisica insita nella perizia del logografo Sciascia capace di contenere nel recinto della forma l’estasi verso l’infinito della pagina scritta. Come nelle tele di Giorgio De Chirico, dove sull’ordine della geometria euclidea incombe il mistero.
    Ad affiancare il puntuale itinerario critico dei rapporti di Sciascia con la Spagna delineato da Estela González De Sande quello dell’occhio ondivago, ammaliatore dell’iconodulo impenitente Giuseppe Leone, amico, compagno di viaggi non soltanto reali di tanti scrittori di cui ha incomparabilmente fermato il ritratto. «Ladro di luce», «inventore di sogni», secondo la definizione di Bufalino cui si deve la plastica descrizione della sua singolare ars amandi fotografica: «È uno, Leone, che alla Sicilia s’accosta come a un impervio corpo di donna, e che si giova, per possederla, di tutte le arti che il suo privato Kamasutra oculare e tattile gli suggerisce: ora sfiorandola appena; ora facendole teneramente violenza; ora guardandola con finta pigrizia, come dal balcone di una stella remota; ora frugandola con le mani febbrili del cercatore di “trovature”». Il volto di un autore, il più «ignoto a se stesso», in quel «corpo a corpo amoroso» ha un’importanza primaria. «Crediamo di conoscerci, e ci ignoriamo. Pensiamo, operiamo, viviamo secondo questa interpretazione fittizia di noi stessi» avverte Luigi Pirandello. E non a caso Sciascia di ritratti d’autore è stato inguaribile, affascinato collezionista. Palinsesto di stratificazioni emotive multiple, il ritratto, scrittura palindroma di inguaribili piaghe interiori, barthesiana «storia di un’anima», ci restituisce il capitale narrativo di un volto in cui è condensata la biografia dell’autore. Del paesaggio interiore l’ortografia del volto, cui è consegnato il racconto di una vita, rappresentando il punto di emersione. Osserva Elio Vittorini: «come si potrebbe non leggere sulle facce degli uomini?». E James Joyce: «un ritratto non è una carta d’identità ma piuttosto il diagramma di un’emozione». La sequenza fotografica di Leone, narratore d’impareggiabile intensità, in virtù della capacità affabulatoria dei suoi scatti, mai separata dallo scrupolo conoscitivo e dall’introspezione psicologica, assurge a vero e proprio flusso di coscienza che infrange, con la sua foga ora monodica ora polifonica, la fissità degli schemi tradizionali, prospettando inedite, alternative forme. Scrive Antoine De Saint-Exupéry: «Non bisogna imparare a scrivere ma a vedere. Scrivere è una conseguenza». Un capitolo importante della storia della letteratura del secondo Novecento scorre nell’album fotografico consegnatoci da Giuseppe Leone, proponendo un approccio ermeneutico che tenta di fissarne la fisionomia sempre sfuggente. Del resto, con Sciascia, «che cosa è la fotografia se non verità momentanea, verità di un momento che contraddice altre verità di altri momenti?». Eppure ancor più significativa, nella sua consistenza concettuale, per quel mistero che non dice, mentre dall’altra parte dell’obiettivo ad un uomo è consentito afferrare un frammento di eternità. Una immagine, fra tante di grande forza evocativa, di quella primavera del 1984, rimane nella mente a suggello dell’amore di Sciascia per la Spagna. Quella che racconta la passeggiata, in compagnia della moglie Maria, «en un lugar de la Mancha». Al centro della ‘scena’, fulcro iconico ed emblema, due grandi giare di memoria pirandelliana, sulla destra una scultura del Don Chisciotte. Come a suggerire, complice testimone l’ingenioso hidalgo, nell’intreccio delle due culture supportato dal sincretismo dell’immagine, che soltanto per un guizzo beffardo della fantasia si può evadere dalla trappola esistenziale e, riparando nelle regioni dell’arte, trarne i «vantaggi dell’anima».

  98. Bene… credo di avervi lasciato parecchio da leggere.
    Non mi rimane che ringraziare tutti gli intervenuti, augurandovi una serena notte.

    (Ma la discussione continua… )

  99. Ho letto con avidità il succulento scambio su Sciascia e la cultura spagnola. Grazie e davvero complimenti.

  100. uno dei libri più belli di Sciascia, che consiglierei a tutti -vecchi e giovani- è “Il consiglio d’egitto”. è uno di quei libri in cui Sciascia volge lo sguardo al passato per puntare il dito sul presente. particolarmente bello il passo dove si descrivono le torture inferte al Di Blasi.

  101. da “Il Consiglio d’Egitto”
    °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

    Ma nel ricordo s’insinuò, inquieto e dolente, il pensiero che anche i giudici e gli sbirri avevano avuto un’infanzia, (…) il pensiero che tra poco il fastidio dell’ufficio che stavano compiendo sarebbe stato sommerso dalle dolci nebbie familiari: il fastidio, cioè, di torturare un loro simile. Avrebbero mangiato e dormito, avrebbero giuocato coi loro bambini e avrebbero fatto all’amore; si sarebbero preoccupati del raffreddore del bambino o del cimurro del cane; il tramonto del sole, il volo delle rondini, il profumo dei giardini li avrebbe provocati alla malinconia o alla gioia. E ora stavano assistendo alla tortura. «Questo non deve accadere a un uomo» pensò: e che non sarebbe più accaduto nel mondo illuminato dalla ragione. (E la disperazione avrebbe accompagnato le sue ultime ore di vita se soltanto avesse avuto il presentimento che in quell’avvenire che vedeva luminoso popoli interi si sarebbero votati a torturarne altri; che uomini pieni di cultura e di musica, esemplari nell’amore familiare e rispettosi degli animali, avrebbero distrutto milioni di altri esseri umani: con implacabile metodo, con efferata scienza della tortura; e che persino i più diretti eredi della ragione avrebbero riportato la questione nel mondo: e non più come elemento del diritto, quale almeno era nel momento in cui lui la subiva, ma addirittura come elemento dell’esistenza).

  102. A Estela Gonzales De Sande, Vicente Gonzales Martin, Laura Marullo e Massimo Maugeri.
    Ho letto gli spunti ed il materiale che avete messo a disposizione sul rapporto tra Sciascia e la cultura spagnola. Bellissimi e di grande interesse. Grazie infinite.

  103. Caro Massimo, ho ritrovato il mio articolo
    e lo propongo come contributo.Grazie
    _______________________________
    IL Nuovo Campo 26 febbraio, 1998 – Cultura
    “PORTE APERTE”
    Alla coscienza critica e alla certezza del Diritto.
    di M.Teresa Santalucia Scibona

    Coerente al suo ruolo di scrittore rigoroso, senza
    cedimenti o imposizioni, Sciascia non transige sui
    valori essenziali dell’uomo e non rinuncia alla
    scomoda responsabilità di sentirsi “ coscienza
    critica”, che combatte da sempre l’ambiguità
    dei compromessi e si oppone allo “ strapotere
    dei poteri”.
    Anche se per dar spazio al suo innato senso di
    Giustizia e alla profonda libertà interiore rischia
    amarezza e delusioni o di essere frainteso e
    isolato. Tuttavia, la sua incessante voce di
    protesta non si limita al puro diletto letterario
    o alla mera suggestione ideologica.
    Nelle opere più incisive ( Le parrocchie di
    Regalpetra ’56; Gli zii di Sicilia ’58 ; Il giorno
    della civetta ’61; Il giorno della civetta ’63;
    A ciascuno il suo ’66; Toto modo ’74; Candido ’77;
    L’affaire Moro ’78 e altre) ,con vigore e passione,
    ha sempre privilegiato “ la cultura del diritto”.
    E’ infatti necessario mantenere integra la
    certezza del Diritto che rappresenta l’unico
    baluardo valido atto a garantire e conservare
    con salda e limpida giustizia, la libertà della
    persona umana che è il bene più esclusivo e
    vitale che l’uomo possieda.

    IMPEGNO CIVILE Parte II°
    Di M. Teresa Santalucia Sibona
    In una memorabile intervista lo scrittore
    sottolineo:-” Questa idea del diritto, mi porta
    oggi raccogliere tanti fastidi. C’è chi mi dice
    chi telo fa fare? Ma appunto perché non me
    lo fa fare nessuno io lo faccio.”
    Ogni suo lavoro è quindi un prezioso strumento
    di impegno civile, un’accorata denuncia delle
    storiche insanabili piaghe italiane.
    Il suo aspro giudizio sugli uomini e sulla
    storia, che nella sostanza si ripete, con le
    stesse connotazioni negative, serve a
    renderci vigili sulla rassegnata apatia con
    cui accettiamo e sopportiamo di venire
    invischiati nelle spire di questa violenza
    senza fine, che invade e sommerge ogni
    livello della nostra quotidiana esistenza.
    Anche se in “ Porte aperte”, l’autore
    afferma che:-“……spesso ci si sbaglia
    nel giudicare i nostri simili come del tutto
    simili a noi. Ce ne sono di peggio, ma ce
    ne sono anche di meglio”, come il mite
    piccolo giudice che in calzato dal pavido e
    gommoso conformismo, giganteggia per
    la sua integra statura morale.
    In questo breve romanzo, robusto e
    compendioso nei contenuti, Sciascia
    affronta la scottante tematica della pena
    di morte. Tale tipo di condanna, per la
    sua delicata natura l’ha sempre ossessionato.
    Egli la definisce una “tortura estrema” e
    condivide il pensiero di Savinio :-
    “ Non uccidere è un principio inderogabile
    e indiscutibile.”
    La pena capitale è stata abolita in tutte le
    Nazioni che si reputino civili, ma per Sciascia
    alcune non possono considerarsi tali nel
    senso ampio del termine, se applicando
    legalmente l’inumana sanzione penale,
    possono togliere la vita a una persona ,
    negandogli l’opportunità di riscattarsi per
    i gravi reati commessi.

    PIENO ILLUMINISMO Parte III°
    di M. Teresa Santalucia Scibona

    Non si possono infatti condividere le teorie
    politiche di coloro, che annullano l’incalcolabile
    valore dell’essere umano.
    Piero Calamandrei faceva notare che: “La pena
    di morte non può mai essere giusta anche se lo
    Stato lo proclama”.
    Lo scrittore con rammarico sostiene che ormai
    il diritto è divenuto una branca della letteratura e
    quindi siamo in pieno illuminismo.
    Ma il piccolo giudice sa che “ La letteratura
    non è mai del tutto innocente. Nemmeno la più
    innocente”.
    Nel suo cuore incorrotto e incorruttibile brilla luminosa”
    la passione del diritto, della legge della giustizia e per
    questo incontaminato amore è disposto a precludersi
    una brillante carriera.
    Egli non rinuncia ai saldi e ineluttabili principi morali,
    anche se dall’alto del suo scranno e della sua autorità il
    procuratore lo sollecita ad emettere una sentenza che tutti
    si aspettano “sbrigativa ed esemplare”.
    Del resto quel brav’uomo del procuratore “ma di
    brav’uomini è la base di ogni piramide d’iniquità”,
    gli ha fatto notare che la pesante condanna è del tutto
    giustificata e avallata dall’articolo scritto da Sua
    Eccellenza Rocco”sul ripristino della pena di morte”.
    Con tale garanzia lo Stato fascista, assicura
    tranquillità ai cittadini tanto che ormai possono
    dormire a “porte aperte.
    Suprema metafora dell’ordine, della sicurezza,
    della fiducia”.
    Con lucido disincanto e acuta ironia, Sciascia
    sottolinea l’impostura della multiforme
    definizione, perché con essa si può alludere alle
    fatidiche “porte aperte”degli intrallazzi e delle
    raccomandazioni che certe amicizie
    riescono a spalancare. Alla posizione di comoda
    indifferenza nei confronti delle ingiustizie e per
    un quieto vivere.
    Alle troppe verità taciute o alterate, come le notizie
    distorte dei giornali, che fanno apparire normali
    decessi, la morte dell’avvocato Giuseppe
    Bruno e del ragioniere Antonino Speciale.
    In realtà, i delitti sono stati tre perché l’assassino,
    con fredda determinazione e senza pentimenti, ha
    pugnalato la propria moglie e per vendetta personale,
    l’impiegato che l’ha sostituito nel posto di lavoro e
    il Capo Ufficio che l’ha licenziato .
    Una simile “belva” in teoria merita la massima
    condanna ed escludendo il giudice, persino i giurati
    all’inizio del processo sono propensi ad infliggerli
    la pena di morte.
    L’imputato è infatti, “ un personaggio vinto quanto
    quelli di Verga e sgradevole quanto quelli di
    Pirandello”.
    Di istinto, il comune ben pensante vorrebbe
    sbarazzarsi per sempre di un losco individuo
    che è un pericolo per la società.
    Sciascia con limpidità onestà intellettuale,
    ribadisce che la ragione deve in ogni caso
    prevalere sulla impulsiva violenza.
    Perciò, se si vuole applicare un’obbiettiva
    giustizia non si deve rispondere
    “con l’assassinio all’assassinio”.Anche se è
    difficile avvertire nei confronti dell’iniquo
    omicida, un sentimento di solidale pietà.
    Così il piccolo giudice ligio ai suoi etici principi,
    non condanna a morte il colpevole .
    Con questa inattesa e coraggiosa sentenza,
    si conclude l’apologo e ancora una volta
    il valido scrittore dimostra di essere
    “un non arruolato difensore del vero.”
    Tessy

  104. Mi scuso, era ” Il consiglio d’Egitto” del ’63, per la fretta, nel copiare ho
    sbagliato. @ Caro Massimo, questo incisivo romanzo non ti sembra molto attuale? Mi scuso anche per l’impostazione sprecisa dell’articolo, speriamo che almeno il contenuto sia ritenuto passabile.
    Un salutone. Tessy

  105. non so se può essere utile ai fini del dibattito, ma segnalo questa notizia presa da adnkronos
    Milano, 4 nov. – (Adnkronos) – Un libro sulla ”vita politica” di Leonardo Sciascia a vent’anni dalla scomparsa dello scrittore siciliano (20 novembre 1989). E’ quello che ha scritto un altro grande scrittore dell’isola, Andrea Camilleri, con il titolo ”Un onorevole siciliano. Le interpellanze parlamentari di Sciascia”, che l’editore Bompiani distribuisce da oggi nelle librerie (pagine 192, euro 12). ”Due siciliani nel cuore del potere: un libro imperdibile per i lettori di Camilleri e i cultori di Sciascia”, cosi’ lo presenta l’editore milanese.

    ”Lo scrittore fu eletto nel 1975 come indipendente al Consiglio comunale di Palermo nel Pci e poi nel 1979 si presento’ al Parlamento con i radicali, dove resto’ fino al 1983. Fu piu’ che altro un modo per avere accesso alle carte sul caso Moro, su cui scrisse appunto ‘L’Affaire Moro”’, ricorda Camilleri. Come onorevole Sciascia presento’ 11 interrogazioni su mafia e terrorismo: ”Io ho raccolto questo materiale per ricordarlo a tutti”, ha sottolineato l’autore di tanti romanzi bestseller con protagonista il commissario Montalbano. Poi, parlando con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ”giustamente” disse a Camilleri: ”Ma lei deve inserirci anche le risposte del Parlamento…Cosa che ho fatto”.

    Sciascia fece parte della Commissione Esteri in Parlamento, ma soprattutto s’impegno’ nella Commissione d’inchiesta per il caso Moro. Le interpellanze, a parere di Camilleri, risultano tutte ancora oggi di ”una sconcertante attualita’, come quelle sul decreto contro il terrorismo, sulla lotta alla mafia, sulle tangenti, sull’uccisione del giudice Ciaccio Montalto. ”Andrea Camilleri ce le racconta, mettendole, per la prima volta, a disposizione dei lettori italiani”, sottolinea Bompiani in un comunicato.

  106. Ecco uno dei passaggi più belli de Il giorno della civetta
    « Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, chè mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, chè la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo… »
    (don Mariano Arena al capitano Bellodi)

  107. Bella anche la conclusione con i pensieri di Bellodi
    « […] si sentiva come un convalescente: sensibilissimo, tenero, affamato. «Al diavolo la Sicilia, al diavolo tutto». Rincasò verso mezzanotte, attraversando tutta la città a piedi. Parma era incantata di neve, silenziosa, deserta. “In Sicilia le nevicate sono rare” pensò: e che forse il carattere delle civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalessero. Si sentiva un po’ confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia e che ci sarebbe tornato. «Mi ci romperò la testa» disse a voce alta. »

  108. Il romanzo che consiglierei ad un giovane che non conosce Sciasci aè proprio questo : Il girno della civetta.
    ciao a tutti.

  109. Il prof. Antonio Di Grado, ordinario di Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania mi ha cortesemente messo a disposizione degli articoli scritti appositamente per il ventennale della morte di Sciascia.
    Antonio Di Grado è un profondo conoscitore delle opere di Sciascia (e ha avuto modo di conoscerlo personalmente).

  110. A VENT’ANNI DALLA SCOMPARSA DI LEONARDO SCIASCIA di Antonio Di Grado (parte I)

    A vent’anni dalla scomparsa di Leonardo Sciascia (20 novembre 1989), può essere utile interrogarsi su alcuni temi-chiave della sua elaborazione: fra gli altri, su quello della mafia, coraggiosamente scelto dall’autore del “Giorno della civetta” e di “A ciascuno il suo” quando ministri e cardinali negavano l’esistenza stessa della piaga mafiosa, ma infine subìto come una croce da un autore che di tant’altro trattava ma che su quel tema fu appiattito a costo di feroci e ottuse polemiche.
    Ma se Sciascia non è solo mafia, e piuttosto rimanda a temi più vasti come la giustizia e la ragione, la scrittura e la morte, la memoria e l’inquisizione, pure non si può parlare di mafia senza citare Sciascia, le sue intuizioni anticipatrici, le sue polemiche generose e irritanti. Senza quei “gialli di mafia”, che pure erano ben altro e ben più che cronache giornalistiche o laiche omelie, non si potrebbe intendere quell’escalation dalle mafie rurali alla conquista della città e degli appalti, infine all’interna¬zio¬na¬lizzazione degli affari e dei legami mafiosi, che Sciascia fu comunque il primo, o uno dei primi, a prevedere, sia con circostanziate analisi sia con trasparenti metafore: come quella che prende a prestito dai botanici le valutazioni sulla «linea della palma», che progressivamente «va a nord», ovvero sposta la frontiera del costume e del sentire mafiosi ben oltre i confini entro i quali erano germogliati e si erano alimentati.
    Altre metafore, più astratte e più terribili, Sciascia va for¬giando, via via che la sua scrittura e la sua riflessione si approfondiscono e si complicano: e in primo luogo quella del «contesto» che dà il titolo al romanzo del 1971 e apre agli occhi del lettore (e dell’investigatore) gli inquietanti scenari d’un regime-piovra artefice d’intrighi e di crimini, ma quel ch’è peggio di una omertosa corresponsabilità dell’opposizione. E di una più profonda, irredimibile corresponsabilità del singolo: anche l’onesto investigatore, il dubbioso e colto Rogas, lungi dal condividere il fermo garantismo di Sciascia, consente che il reo-vittima Cres continui a farsi giustizia da sé, allo stesso modo, del resto, dell’eretico fra’ Diego di “Morte dell’inqui¬sitore” e del pittore di “Todo modo”.
    Sciascia fu un autore che programmaticamente «contrad¬disse e si contraddisse». In merito al problema cru¬¬cia¬¬le «del giudicare», angosciosamente dibattuto nel “Con¬¬¬testo”, problematicamente esitava tra il culto del diritto e la sete di giustizia, tra il garantismo connesso alla sua formazione illuministico-liberale e il giustizialismo di fra’ Diego La Matina (il suo personaggio prediletto!). Anche i suoi numerosi interventi in materia di mafia, e di lotta alla mafia, rientrano in questa dialettica, comunque più ricca di insostenibili verità e affilati paradossi di quanto non siano state le certezze di certi ayatollah dell’antimafia o, al contrario, di certi cultori d’un garantismo pro domo sua.
    Gli scritti sull’“Espresso” e sul “Corriere della sera” del¬l’ul¬timo decennio testimoniano dell’im¬pegno di Sciascia non per questo o quello schieramento ma per la quotidiana invenzione della verità, la meno accomodante, la più inedita e anticonformista. Si collocano, perciò, accanto agli “Scritti corsari” di Pasolini, così come Sciascia – dal processo al Palazzo di “Todo modo” all’“Affaire Moro, che si apre nel segno delle “lucciole” pasoliniane – si era trovato sempre più vicino all’impegno critico e alle battaglie civili, ma soprattutto alla figura di dolente testimone e caparbio “uomo-contro”, dell’amico poeta scomparso nel ’75.
    E dunque è alla letteratura che quegli scritti vanno ricondotti, non per sminuirli ma anzi per esaltarne la portata metaforica e lo spessore problematico: e infatti è a un Flaubert o a un Borges che Sciascia chiede, di volta in volta, le chiavi di lettura di un “contesto” mafioso sempre più indecifrabile, mentre gli interventi contro il “pentitismo” non sono che accorate repliche della “Storia della colonna infame” manzoniana; e il vituperato articolo del 10 gennaio 1987 intorno al cosiddetto “professionismo dell’anti¬mafia” (ma la definizione, e il titolo, erano redazionali, non di Sciascia) non fa che ribadire il tema del trasformismo delle classi dirigenti isolane, trasmesso da De Roberto e Pirandello a Brancati e a Tomasi di Lampedusa, come concreto rischio per i destini dell’antimafia.
    Ma ormai l’intellettuale, che prima e meglio di tanti altri aveva capito il fenomeno-mafia, confessava di non intenderlo più; e se sdegnosamente rifiutava lo stupido epiteto di “mafiologo”, a temi e problemi più vasti e insondabili applicava le forze residue: a un miraggio di verità e di giustizia che non poteva non coincidere, in ultimo, con la laica “contemplatio” della morte incombente.

  111. A VENT’ANNI DALLA SCOMPARSA DI LEONARDO SCIASCIA di Antonio Di Grado (parte II)


    Sciascia vent’anni dopo: come a dire la necessità di ripercorrere i temi, le piste, le congetture che questa figura pressoché unica di scrittore-intellettuale elaborò, e che la sua scomparsa ci ha consegnato come una gravosa eredità. Perciò, se nel precedente articolo ho sfiorato temi quali la giustizia e la mafia, oggi vorrei far cenno a un altro nodo e altrettanto centrale: la Ragione. E perciò al presunto illuminismo di Sciascia.
    Parole abusatissime, “illuminismo” e “illuminista”, soprattutto da quei critici-etichettatori che hanno preferito ancorare alla rassicurante fissità di una formula l’imprevedibile problematicità di un autore che della laicità più radicale e perciò autocritica, del “contraddire e contraddirsi”, fece la sua insegna.
    Di un autore che fu “illuminista” per coraggiosa e volontaristica scelta, contro un “contesto” protervamente immobilistico, e a dispetto di un oscuro retaggio di diffidenza e di sofferenza, di oltranze barocche e di sofistici cavilli e di penosa follia, che esiste – e resiste – nel patrimonio genetico, nel “sottosuolo” della coscienza isolana. E fu “illuminista” ma a costo di scelte molto nette: Diderot e Voltaire contro Rousseau, e con loro anche il post-illuminista Stendhal e il post-voltairiano Candido Munafò, protagonista di “Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia”, pronto a rinunziare laicamente “ai padri” davanti alla statua di Voltaire, e perfino il cattolico Manzoni, preferito all’illuminista Verri per dar conto delle umane, troppo umane aberrazioni della “colonna infame”.
    Un illuminismo, dunque, consapevole della propria fatale “dialettica”. E perciò disincantato, e perciò tanto più tenace quanto più è fragile, aperto a contaminazioni e a smentite. E come se non bastasse, complicato dal maledetto imbroglio di dover attecchire proprio in Sicilia (“un sogno fatto in Sicilia”, appunto), laddove il Settecento fu un’occasione perduta, un atto mancato: la mancata rivoluzione politica del Di Blasi del “Consiglio d’Egitto”, la mancata riforma religiosa e civile della “Controversia liparitana”: “Abbiamo tentato di inventare il cristianesimo in un paese che è cristiano solo di nome; e abbiamo dato alla vuota maestà del diritto un contenuto di umanità, di giustizia”.
    Di mancate rivoluzioni, vanificate dallo scaltro trasformismo delle oligarchie dominanti, è tramata tutta la lettura che Sciascia ci offrì, sulla linea di De Roberto e di Brancati, della storia della Sicilia (e non solo della Sicilia, se l’isola è “metafora”), dall’Unità all’antimafia. Valga per tutte una pagina pressoché ignota, che Sciascia dedicò sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 23 maggio 1982 all’ottocentesco don Liborio Romano, che fu al tempo stesso l’ultimo ministro dell’Interno del deposto Francesco II di Borbone e il primo del liberatore Garibaldi.
    A sorprendere e a intrigare Sciascia è lo sconcertante epitaffio sulla lapide del disinvolto ministro, che così recita: “Da XXIV anni / o Liborio Romano / la storia pende irresoluta sul tuo nome. / Ministro postremo del cadente Borbone di Napoli / additavi l’esilio al tuo re / e aprivi la reggia al dittatore inerme. / Custode delle autonomie regionali / e banditore d’una Italia federata / accettavi l’unità / senza protesta senza condizioni / e dal vecchio al nuovo principato passavi / come se due anime ti possedessero / e due leggi morali. / Ma le troncate insidie di corte / la servata incolumità pubblica / e il diritto nazionale / testimoniano che i peccati tuoi / furono i destini della patria”.
    Una “sintesi perfetta”: una legge, quella delle “due anime”, che da “peccato” si trasfigura in “destino” inculcando nelle stesse anime, da allora in poi, rimpianti pre-unitari e fervori unitari, fede monarchica e fede repubblicana, socialismo e colonialismo, fascismo e antifascismo, comunismo e atlantismo, europeismo e particolarismi regionalistici, rivendicazioni antigovernative e responsabilità di governo, e così via fino ad oggi.
    Ma lasciamo la parola a Sciascia: “All’invittissimo general Garibaldi”, che da Salerno stava per raggiungere Napoli, don Liborio telegrafò che la città con impazienza lo attendeva per salutarlo redentore d’Italia. Sicché, postremo ministro di Francesco, restò al suo posto come primo del redentore: poiché nessuno meglio di lui – e siamo ancora all’oggi – sapeva tenere a bada la camorra. E questo particolare può indurci alla considerazione che di anime ne aveva forse tre. E che cosa possono, di fronte a tanta dovizia di anime, quei poveri italiani che ne hanno una sola”.
    Anche Sciascia ne aveva una sola: e frattanto l’andava colmando, sull’onda d’un crescente disgusto nei confronti di realtà e vizi “irredimibili”, di predilezioni e contenuti che non sarebbe esagerato definire “metafisici”, arrestandosi solo, per coerente professione di laicità, davanti al “cancello della preghiera” intravisto, ma non varcato, dall’autobiografico protagonista de “Il cavaliere e la morte”. Era il 1988: un anno dopo si sarebbe inoltrato egli stesso in quei territori inaccessibili alla Ragione.

  112. A VENT’ANNI DALLA SCOMPARSA DI LEONARDO SCIASCIA di Antonio Di Grado (parte III)

    «In-te-let-tua-le», sillabava Filippo Rubè, protagonista dell’omonimo romanzo di Giuseppe Antonio Borgese, mentre si guardava perplesso allo specchio della crisi ideale, politica e sociale di primo Novecento. E concludeva, sarcastico, con la più inclemente delle definizioni: «una cosa orribile, un mostro con due gambe, con due braccia e un cervello che mulina a vuoto».
    E noi c’interroghiamo come lui, ancora, a quasi un secolo di distanza. E tanto più siamo tentati di formulare bilanci altrettanto amari a vent’anni dalla morte di Leonardo Sciascia, che fu tra gli ultimi a incarnare quella controversa funzione, estinta con la scomparsa della sua generazione, quella (e cito soltanto i letterati) dei Pasolini, dei Calvino, dei Moravia.
    Sì, estinta. A meno che per intellettuale non s’intenda il propagandista d’una chiesa o d’un partito, d’un regime o d’una azienda; peggio: della grande Azienda tecnolatrica e telecratica che sta polverizzando, negli atenei come nei media, la cultura umanistica e il pensiero critico.
    E invece l’intellettuale, dal suo atto di nascita che risale al “J’accuse” di Zola (ma già la cultura russa aveva coniato la nozione di “intelligencija”), è altro: è l’uomo-contro, è l’apostolo e il martire del dubbio e del dissenso, della conoscenza come ricerca infinita e della comunicazione come spiazzante alterazione della prospettiva, come revoca in dubbio di certezze consolidate e verità di Palazzo.
    La sua dimora non va cercata, perciò, in una chiesa o in una lobby, in un partito o in un’accademia, ma sempre “in partibus infidelium”, in prossimità del rogo o dello scandalo, nel teatro di una coscienza tormentata dal rovello dell’autocritica, costretta a mettersi costantemente in discussione, a «contraddirsi» per «contraddire»: come non ricordare queste celebri – e abusatissime – parole di Sciascia? E come non affiancarle allo «scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te» esibito da Pasolini al cospetto delle ceneri di Gramsci?
    È una coscienza, dunque, quella dell’intellettuale laico, inevitabilmente costretta a fuoruscire dalle proprie certezze (fossero pure le più laiche, le più liberali), a demolire i propri miti e i propri “padri” (si trattasse pure del Voltaire di Sciascia e del suo Candido), per confrontarsi con l’altro da sé, per incarnare credibilmente le ragioni dell’avversario. Come faceva Sciascia facendo dialogare, in ogni sua pagina, Montaigne con Pascal, o Gide con Bernanos.
    O come quando – parlo sempre di Sciascia – opponeva ai suoi virtuosi portavoce, ai suoi caparbi detective, statuarie figure di antagonisti, credibili portatori di ragioni e culture antitetiche, e quanto mai veri, pulsanti di sangue e nervi, di idee coerenti e sinistramente affascinanti: come quel procuratore Riches del “Contesto” che reincarna e attualizza il Grande Inquisitore di Dostoevskij, come quel don Gaetano loyolesco-doroteo che in “Todo modo” celebra i funerali dello Stato immolandone i maggiorenti, o ancora come la vittima sacrificale, protagonista gloriosamente ingloriosa di una straziante ed evitabilissima Passione, dell’“Affaire Moro”.
    Ma non basta. Ricordiamo ancora una volta i congiurati della “Controversia liparitana”: “Abbiamo tentato di inventare il cristianesimo in un paese che è cristiano solo di nome; e abbiamo dato alla vuota maestà del diritto un contenuto di umanità, di giustizia”. Dunque l’intellettuale è non solo chi semina il dubbio, ma chi nel vuoto di idee e di moralità, e nello svuotamento delle grandi tradizioni ideali, se le addossa tutte e tutte le incarna, perfino quelle che non gli apparterrebbero, per difenderle dai loro sacerdoti, dai loro tralignati epigoni, per restaurare una pienezza di idee e una dialettica di punti di vista almeno, intanto, nell’affollato teatro della propria coscienza: che è, in opposizione al mondo esterno e alle opinioni correnti, il teatro della verità.
    Sciascia, Pasolini. E i loro scritti “corsari”, che ogni giorno ci imponevano di fare i conti con altre ragioni, di guardare da altre prospettive; di dilatare e talvolta stravolgere la nostra percezione, di smascherare alibi e slogan diffusi dal Potere e dai suoi cantori. Ma quell’intellettuale, quell’identità sfuggente e quel profilo acuminato, forse sono svaniti. Sopravvive, al contrario, l’erede dei chierici e degli ideologi che “suonavano il piffero per la rivoluzione” o l’organo per il consenso: ed è quel tecnico in camice bianco che alla passione dell’interpretazione e della demistificazione ha sostituito l’acritica e servile messa a punto dell’Ingranaggio, il Libero Mercato di saperi avalutativi e fungibili, l’opprimente incultura del management.

  113. A VENT’ANNI DALLA SCOMPARSA DI LEONARDO SCIASCIA di Antonio Di Grado (parte IV)

    Caro Professore,
    ricorda? La chiamavo così, anche se Lei detestava l’accademia, e la boria professorale, perché ero troppo coinvolto per chiamarLa retoricamente Maestro, e troppo consapevole dei miei limiti, e della differenza, per chiamarLa Leonardo.
    Caro Professore, dunque: un quotidiano mi chiese anni fa, in occasione di uno di questi venti tristi questo triste anniversari, di scriverLe una lettera. All’inizio m’era sembrata un’idea balzana e irrispettosa, e perciò avevo deciso di rifiutare; poi pensai che forse non c’era altra forma che questa, per chiederLe ciò che mi preme. Cosa? Non cosa pensa del lodo Alfano o quale sceglierebbe fra gli attuali schieramenti, per carità. So che il Suo giudizio sul presente ci manca – e come! -, ma mi ripugnerebbe infastidirLa con le gesta di Di Pietro, D’Alema, Berlusconi, Bossi…
    Altro vorrei chiederLe. Se se ne ricorda ancora, con amarezza e scontrosa nostalgia, «di questo pianeta», come recita l’epitaffio su quella lastra candida, a Regalpetra. E se, come il suo Vice de “Il cavaliere e la morte”, anche Lei «pensò: che confusione! Ma era già, eterno e ineffabile, il pensiero della mente in cui la sua si era sciolta». Insomma, vorrei chiederLe se l’ha varcato, ora, o è rimasto rispettosamente sulla soglia, quel «cancello della preghiera».
    Lo stesso giornale mi chiese, allora, un ricordo. Eccolo, e proprio in relazione a quelle pagine: un pomeriggio, nella hall d’un albergo di Enna, dov’eravamo per il premio Savarese. Dopo pranzo, quel giorno, Lei mi aveva donato, fresco di stampa, “Il cavaliere e la morte”. L’avevo letto d’un fiato, quello straordinario testamento laico, con un’ammirazione e una partecipazione pari allo sgomento crescente, pervasivo: tale era la prossimità, intellettuale, morale, fisica all’estrema soglia che quella contemplatio mortis rivelava. Corsi a cercarLa, a parlargliene; lo feci in quell’atrio, in ginocchio accanto alla sua sedia: come in confessione, e Le confessavo la mia ansia, la mia trepidazione, interrogando il Suo sorriso mite, irrimediabilmente ferito, e il Suo silenzio ch’era già parte «della mente in cui la Sua si era sciolta».
    Altri ricordi? Tanti. E tutti racchiusi in un piccolo pugno di anni, in una manciata di giorni. Incontri circondati e confortati dalla quiete meridiana della Noce, da quella austera dei libri che gremivano il Suo studio a Palermo, da quella calorosa e avvolgente dei Suoi ricchi silenzi, sospesi fra una sentenza memorabile e una battuta tagliente.
    Il primo vero incontro – il primo, cioè, in cui non recitassi solo da anonima ed emozionata comparsa – lo devo a Natale Tedesco. Fu lui a commissionarmi un volumetto su Sciascia per la collana La figura e l’opera, che allora dirigeva per la casa editrice “Il Pungitopo” di Marina di Patti. Eravamo all’inizio degli anni ottanta: anni opachi e grevi, in cui iniziava a dilagare nel paese quella marea di ottuso consenso e di ignavia intellettuale e morale che ormai ci sommerge. Anni che coronarono l’“involontario soggiorno sulla terra” di Leonardo Sciascia; e si sgranarono nelle sue mani come un rosario di misteri gloriosi e dolorosi.
    Fu Natale, dunque, a parlarLe di me e a presentarci. A Lei, prima che avesse in mano il mio volumetto, era piaciuto un mio saggio su Leon Battista Alberti: perché Lei, l’austero e schivo Sciascia, aveva entusiasmi da ragazzo; e si consegnava agli incontri e alle amicizie con un abbandono ch’era frutto della Sua illimitata generosità.
    La stessa generosità incondizionata Le dettò, più tardi, la decisione di nominarmi direttore letterario della Fondazione che gli sarebbe stata intitolata a Racalmuto. Fu sempre Natale a comunicarmelo, precedendo di pochi minuti una Sua telefonata. Corsi subito a Palermo, a casa Sua, per capire, per ringraziare, per tentare di dimostrarLe (io, forse, ancor più schivo di Lei) la mia commossa esultanza, la mia devozione filiale.
    Non so se sono stato all’altezza di quell’investitura. So solo che mai, da una istituzione o da un uomo, ho ricevuto né potrò mai ricevere un privilegio, un riconoscimento, un premio paragonabili a quelli che la sua stima e il suo affetto mi dispensarono.
    Arrivederci, Professore.

  114. Carissimo Massimo
    vorrei tornare sul filo rosso che lega insieme i vent’anni dalla caduta del muro e i vent’anni dalla scomparsa di Leonardo Sciascia. Ovvero la necessità di inserire la Sicilia nel moto della storia e della cultura europea. Sciascia realizza questo intento riallacciandosi alla Spagna, soprattutto alla Guerra fascista di Spagna che fu, come è stato ricordato, un momento cruciale per la svolta ideologica e letteraria dello scrittore di Racalmuto. Proprio di questo importantissimo tema vorrei continuare a parlare con Estela Gonzalez de Sande che dovrebbe essere collegata sul questo blog.

  115. Cara Laura:
    Certamente la guerra di Spagna è cruciale nella formazione ideologica e culturale di Sciascia. Quando ho letto le tue parole, mi sono venute in mente le parole dello scrittore ne L’antimonio che rispecchiano perfettamente il significato della guerra civile spagnola nell’opera e nella vita del racalmutese:
    “Tante persone studiano, fanno l’università, diventano buoni medici, ingegneri, avvocati, diventano funzionari deputati ministri; a queste persone io vorrei chiedere “sapete che cosa è stata la guerra di Spagna?Che cosa è stata veramente? Se non lo sapete non capirete mai niente del fascismo del comunismo della religione dell’uomo, niente di niente capirete mai: perché tutti gli errori e le speranze del mondo si sono concentrati in quella guerra: come una lente concentra i raggi del sole e dà il fuoco, così la Spagna di tutte le speranze e gli errori del mondo si accese: e di quel fuoco oggi crepita il mondo”

  116. Massimo, è il più bel modo per onorare la memoria di Leonardo Sciascia, perpetuare il suo pensiero e la straordinaria eredità civile e letteraria di un intellettuale al quale, scriveva il ‘fratello diverso’ Sebastiano Addamo, “dobbiamo sempre gurdare per sapere qual è la posizione più utile”.

  117. Sul blog abbiamo potuto leggere la famosa affermazione di Sciascia “avevo la Spagna nel cuore. Quei nomi- Bilbao Malaga Valencia e poi Madrid, Madrid assediata –erano amore, ancor oggi li pronuncio come fiorissero in un ricordo d’amore” e io vorrei sottolineare che quelle parole si riferiscono alla guerra di Spagna. Sono “ricordo d’amore” nel 1956 e cioè perfino vent’anni dopo la guerra. Secondo me illustra alla perfezione l’importanza di questo episodio della storia di Spagna e del mondo nello scrittore.

  118. È vero, Estela… la guerra di Spagna – per certi versi – ha “ossessionato” Sciascia…
    Perché, a tuo avviso? Perché Sciascia si è sentito così… “coinvolto”?

  119. Caro Massimo:
    Ho appena letto il nuovo post e mi sembra anche molto interessante. È da gradire le iniziative di blogs come letteratitudine con la sua intensa attività culturale.
    Grazie

  120. Cara Estela
    Grazie per aver ricordato questo splendido passo de “L’antimonio”, (già sottolineato con acume da Simona Lo Iacono, che saluto con immutato affetto). E’ la fase di “astratti furori” di cui parla anche Elio Vittorini, il suo grido di protesta sintetizzato nel “mas hombre”. Nel tuo libro, fra l’altro, evidenzi come fu proprio la guerra di Spagna ad alimentare l’antifascismo di Sciascia. Cito da p. 60: “Credo che dal mio istintivo laicismo sia nata l’avversione al fascismo. Dapprima vaga, imprecisa; poi, con la guerra di Spagna, sicura e motivata”.

  121. Si sente coinvolto dal momento in cui avverte un’ingiustizia e un abbandono da parte dei governi europei e americani.
    Poi ci sono anche gli italiani a intervenire, quelli volontari di Mussolini…
    Secondo lui “Non poteva essere giusta una guerra in cui come “volontari” venivano cacciati i morti di fame: ci doveva essere qualcosa, nell’Italia di Mussolini e nella Spagna di Franco, di ingiusto, di insensato, di indegno” (L’antimonio).
    È una idea che condividono molti intellettuali all’epoca come Jovine nel suo racconto Michele a Guadalajara, pubblicato nel 1945.

  122. Grazie, cara Estela. E grazie a te, Laura.
    Molto interessanti gli spunti che fornite.
    Per il momento sono costretto a chiudere qui… ma voi continuate pure.
    In serata (domani al massimo) spero di poter inserire ulteriori “contributi”.

  123. Si sente tutta l’indignazione di Sciascia per la sconfitta della ragione nella guerra di spagna. Un’indignazione che si tinge degli umori dell’umana pietà per la morte di poveri contadini siciliani che andavano a morire per fame oppure per la fucilazione di Lorca o per l’esilio degli altri scrittori: p. 63 “E Lorca fucilato. E Hemingway che si trovava a Madrid. E gli italiani che nel nome di Garibaldi combattevano dalla parte che chiamavano rossi. E a pensare che c’erano contadini e artigiani del mio paese, d’ogni parte d’Italia, che andavano a morire per il fascismo, mi sentivo pieno d’odio. Ci andavano per fame. […] Sentivo affocato pianto al pensiero di questi poveri che andavano a morire in Spagna”.

  124. Certo, Laura. Nella base dell’antifascismo di Sciascia e della sua ripulsa al regime di Mussolini c’è senza dubbio la Spagna perché questa gli fa capire la lotta ideologica del comunismo e del fascismo che darà luogo alla seconda guerra mondiale. Come dicevo è un’idea che condividono gli scrittori italiani perché vedono l’intervento dell’Italia in Spagna come un’ingiustizia contro il governo legittimo della Repubblica spagnola e poi contro quelli che non avevano armi, contro il popolo spagnolo.

  125. E inoltre, dalla parte della Repubblica c’erano gli intellettuali stranieri, Dos Passos, Malraux, Bernanos, Hemingway, ecc.
    E anche Hollywood, i registi, gli attori e comici come Charles Chaplin, che – diceva Sciascia- erano gli idoli dei ragazzi italiani.

  126. “Seduto sulla scalinata di quella chiesa, ho capito tante cose della Spagna e dell’Italia, del mondo intero e degli uomini del mondo”, così il protagonista dell’Antimonio. La Spagna dunque come modello gnoseologico, mitico, interpretativo.

  127. Approfitto per inserire alcuni versi del poeta siciliano (apprezzato da Sciascia) Antonino Cremona a proposito dell’indifferenza dell’Europa e degli Stati Uniti.

    Io so come la Spagna morì
    cme combattè dinanzi al mondo
    era nuda e fremente, sola e bianca
    com’era violenta e disperata
    prima che lo strupo calasse
    e il mondo
    la guardò morire

  128. Estela cara, nel tuo libro fai riferimento anche ad altri episodi della storia spagnola che esercitarono una straordinaria fascinazione nell’immaginario sciasciano. Fra questi l’epoca dell’Inquisizione e la figura dell’Inquisitore, sicché possiamo affermare, con Claude Ambroise, che Sciascia, autore di “Morte dell’Inquisitore” (opera fra le sue predilette), può essere considerato “lL’Inquisitore della morte”. Suggestiva immagine, non credi?

  129. Era la Spagna di “sangue e lacrime” del mondo. Modello di interpretazione del mondo come lo furono le opere “Obras” di Ortega y Gasset o il Chisciotte.
    Il suo testimone della guerra di Spagna è cruciale, anche se sia letterario.

  130. L’Inquisizione è l’altro episodio della storia spagnola che più gli interessa, ma in questo caso il suo interesse riguarda al ruolo dell’Inquisizione nella Sicilia. L’Inquisizione si presenta come legame della Spagna e la Sicilia, come punto di incontro nella storia. In Morte dell’Inquisitore si interessa per il suo concittadino Diego La Matina, ma sono molto importanti le sue indagini sull’istituzione religiosa della quale si è ben documentato: i primi inquisitori, il ruolo dei Re Cattolici, ecc.

  131. Certamente, il Chisciotte e il “desocupado lector”, impegnato nel piacere di leggere. E ancora Ortega y Gasset da cui Sciascia afferma di aver appreso il metodo per risalire al “tema”.

  132. Riporto le parole di Sciascia su Morte dell’Inquisitore:

    “L’Inquisizione spagnola pesò sulla vita e sulla cultura siciliana al di là di quanto i ragguagli storici (del resto sparuti) lasciano intravedere. La pubblicazione di un documento come questo riesce forse a darne misura, e comunque immagine immediata e atroce. Lo si può, in un certo senso, considerare un reportage”.

  133. E ancora, per tornare alla Guerra di Spagna, la figura di Manuel Azana, autore de La Velada en Benicarlò, tradotta da Sciascia e presidente della Rupubblica ai tempi della guerra civile. Un “personaggio eccezionale”, scrive di Azana Sciascia, “un uomo che seppe tenere un equilibrio assoluto tra la ragione e i sentimenti e seppe mettere la verità al di sopra di ogni altra cosa”.

  134. Lasciando la parola a Sciascia (come se lui fosse qui con noi per qualche minuto):
    “Il Don Chisciotte è un libro che dà una particolare gioia ai pochi che ancora lo leggono e fa parte delle conoscenze di molti che non lo leggono. Ma per coloro che lo leggono e lo amano è un libro unico”.

  135. E che dire della sua ammirazione per Jorge Luis Borges, definito da Sciascia “lo scrittore più significativo del nostro tempo, delle nostre vertigini. Lo definirei un teologo ateo. Che è poi, la teologia atea, il segno delle nostre angosciose contraddizioni”.

  136. Traduce l’opera di Azaña nel 1967. Dobbiamo dire che non è un’opera che abbia avuto molto successo in Spagna e che forse è rimasta un po’ sconosciuta. La spiegazione è più che altro politica perché quando si parlava di Azaña c’era sempre l’ombra dei pubblicisti nemici della Repubblica. Quindi Sciascia si propone di cercare la verità di questo personaggio attraverso la lettura di diversi libri.

  137. Un attimo, Laura, che sto cercando una citazione di Borges (al di là del mio libro) che ci può servire per chiudere questo dibattito.

  138. A suggellare la fratellanza fra Sciascia e la Spagna, ovvero fra cultura siciliana e cultura spagnola, l’amicizia fra Sciascia e Manuel Vasquez Montalban, autore molto apprezzato dal racalmutese. Nel tuo libro riporti un brano molto intenso e commovente a proposito del Premio Racalmare di Grotte che Sciascia avrebbe dovuto consegnare a Montalban e che l’aggravarsi della malattia non gli consentì. Vorresti parlarcene?

  139. Mentre attendo la tua conclusione borgesiana, io ti propongo quella relativa a Montalban. Scrive Matteo Collura a proposito della mancata consegna da parte di Sciascia a Montalban del Premio Racalmare: “Quell’8 di ottobre non aveva potuto alzarsi dal letto. E così era stato il premiato a fargli visita nella casa di Palermo […]. Si erano abbracciati, i due scrittori, e avevano pianto”. In quell’abbraccio il simbolo di una fraternità storica e culturale che si rinnova e che riguarda non soltanto i due scrittori ma complessivamente Spagna e Sicilia.
    Con questa bellissima immagine vorrei concludere la nostra piacevole ricognizione di luoghi reali e della mente, ringraziandoti ancora una volta per il tuo pezioso contributo. Laura Marullo.

  140. Nel 1960 scriveva Borges:“Un hombre se propone la tarea de dibujar el mundo. A lo largo de los años puebla un espacio con imágenes de provincias, de reinos, de montañas, de bahías, de naves, de islas, de peces, de habitaciones, de instrumentos, de astros, de caballos y de personas. Poco antes de morir, descubre que ese paciente laberinto de líneas traza la imagen de su cara”.
    Con queste parole esprimeva la sua idea di letteratura: una letteratura legata alla realtà, frutto delle esperienze, dei pensieri e delle immagini di un uomo lungo la sua vita. E questa, possiamo dire, è anche l’idea di letteratura di Sciascia.
    Un tema borgesiano ricorrente nell’opera di Sciascia è precisamente quello delle relazioni e coincidenze tra la letteratura e la vita.
    E questo ci serve per chiudere anche il tema della guerra di Spagna sulla quale, afferma il siciliano: “è stata un crogiuolo, ma l’oro puro che ne rimane è, come sempre, quello della verità. E della letteratura che della verità è figlia”.
    Grazie mille, Laura, per questa conversazione.

  141. Bella quella immagine simbolo della fraternità storica e culturale tra i due popoli.
    Cara Laura, ti ringrazio di cuore per i tuoi commenti e la bellissima interpretazione del mio libro.

  142. A te Massimo, ringraziandoti ancora una volta per l’affettuosa ospitalità, dedico un’altra immagine sciasciana: “Avevo Letteratitudine nel cuore”.
    Alla prossima: Laura Marullo.

  143. Cari tutti, in questi giorni mi trovo proprio a Berlino, sono arrivato qui l´´11, dopo le cerimonie ufficiali e apro ora il computer cercando di leggere ui vostri messaggi. Vista da qui e dopo tutta la faccenda del ventennale del muro, appare molto di piu´una questione mediatica e una kermesse politico mondana che ha lasciato abbastanya indifferente la popolazione locale. In compenso erano moltissimi gli stranieri presneti alla porta di Brandeburgo e le telvisioni, quella itlaiana ha fatto l aparte del leone a detta di tutti, mobilitando anche giornlaisti freelance che vivono qui e che si sono visti i loro pezzi utilizzati anceh nella trasmisisone di Vespa Altrri due dati interessanti: Il 9 novembre non e´una festivita´cvile in Germania, coem si potrebbe credere, le scuole non chudono la citta prosegue noramalmetne la sua vita. la seocnda caduta del muro in forma di domino ha suscitato un misto di risate e malinconia iondignaziione: ogni cubo del domino era psonsorizzato: da lontanmo in televisione poteva sembrare che fossero graffiti invece era la pubblicita´della Siemens, di altre aziende, persino di bar.

    Quanto a Sciascia che dire: e´stato un amestro epr tutti, ne discutevo tempo fa con Vicenzo Consolo, osservando che se fosse vivo oggi (ma questo vale anche oper Psolini), le sue invettive, i suoi interventi civili cadrebbero nel nulla. Penmsp che sia vero purtroppo

  144. Grazie mille per il tuo commento e la tua testimonianza, caro Franco.
    Hai espresso un pensiero di Vincenzo Consolo – rivolto a Sciascia – che mi pare molto forte:
    è stato un maestro per tutti… ma se fosse vivo oggi (ma questo vale anche per Psolini), le sue invettive, i suoi interventi civili cadrebbero nel nulla…
    Credo che questa riflessione potrebbe essere oggetto di ulteriore dibattito.

  145. LA STAMPA – TUTTOLIBRI
    13/11/2009 – SCIASCIA INEDITO: Nuovo cinema Racalmuto tra sale e neve
    ———

    di LORENZO MONDO

    Vent’anni fa, il 20 novembre, moriva Sciascia. L’Associazione «Amici di Leonardo Sciascia» ha per l’occasione edito una cartella, a cura di Francesco Izzo, che contiene otto incisioni, due testi di Roberto Roversi e Angelo Scandurra e una poesia dello scrittore, «Due cartoline dal mio paese», che pubblichiamo in anteprima. I versi ritrovati risalgono al 1952, una plaquette in 111 copie con disegni di Emilio Greco dal titolo «La Sicilia, il suo cuore». Lo scrittore di Racalmuto l’aveva inviata due anni dopo a Pier Paolo Pasolini, corredandola di una richiesta: «Il mio lavoro va molto a rilento. Ho scritto qualche verso – e qualche noticina per i giornali. Ti accludo anzi un “campione” delle mie ultime poesie: francamente, dimmi quel che ne pensi».

    QUeste due poesie del «primo» Sciascia che, a esclusione degli empiti ribellistici, fanno pensare a Rocco Scotellaro, incuriosiscono per la loro eccezionalità nella sua carriera di scrittore. Colpiscono, in più, per l’intenso ma quasi ritroso attaccamento manifestato da quel maestro di scuola per Racalmuto, «il paese del sale, il mio paese/ che frana…». Ma suscitano in noi anche una particolare commozione perché, pubblicate oggi in esclusiva su La Stampa, riallacciano la sua figura a un giornale cui collaborò, con qualche intermittenza, dal 1972 al 1989, fino alla vigilia della morte.

    Amo in specie ricordare, oltre gli elzeviri di vario argomento, che a Sciascia piacque rinsanguare attraverso La Stampa, in ossequio alla diletta cultura francese, l’antica tradizione del feuilleton. E pubblicò a puntate, prima che uscisse in volume, La scomparsa di Majorana, un libro di forte implicazione morale, oltreché di congeniale resa pirandelliana. Ancora, dalla fucina del giornale (da certi documenti che gli feci allora pervenire) trasse ispirazione per il romanzo storico I pugnalatori, dove si tratta di una misteriosa setta che, antesignana della mafia odierna, agiva nella Palermo dell’Ottocento, dopo l’Unità. Ma, adunando i ricordi di una amichevole e fruttuosa frequentazione, e sulla scorta delle poetiche «cartoline», non si può fare a meno di citare uno dei suoi ultimi articoli, «Requiem per il cinema», pubblicato a piena pagina il 27 agosto 1989.

    Sciascia aveva appena visto Nuovo cinema Paradiso, di Giuseppe Tornatore, che gli sembrava esprimere, e quasi commemorare, una perduta nobiltà del cinema. Ma il film vale soltanto, per lo scrittore, come innesco di una rievocazione intensa di Racalmuto e della propria infanzia: quando in quel paese della Sicilia interna («isola nell’isola») si portava a valle la stessa «neve lontana» della poesia, per venderla a quattro soldi; quando arrivò, nel generale sbalordimento, la luce elettrica.

    E infine, nel teatro comunale, la prima proiezione cinematografica. Sciascia racconta che anche lui, anticipatore ed emulo del ragazzo di Tornatore (una apparente contraddizione che si scioglie nel tempo della scrittura) assisteva allo spettacolo in una posizione privilegiata, accanto alla cabina dell’operatore: ricevendone in dono frantumi di pellicole, fotogrammi di dive famose. La magia del cinema, a chiusura del cerchio vitale, sembra aggiungersi alle lontane cartoline, quasi a rendere più vivide per lo scrittore le nevi di una volta.

    (fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 14 novembre)

  146. Leonardo Sciascia è stato uomo di cultura a tutto tondo. Anche critico letterario. Grazie a lui ho scoperto Nino Savarese, Peppeantonio Borgese e Paolo Giudici.

    [URL]http://agrigento.blogsicilia.it/2009/11/la-corda-pazza-di-leonardo-sciascia/[/URL]

  147. Forse in pochi ricordano lo Sciascia critico letterario. Grazie a lui ho scoperto Peppeantonio Borgese, Nino Savarese e Paolo Giudici. Quella generazione che vissero la Dittatura fascista in tre modi differenti.
    Piero

    [URL]http://agrigento.blogsicilia.it/2009/11/la-corda-pazza-di-leonardo-sciascia/[/URL]

  148. Di Sciascia, scrittore liminare, eccentrico, contraddittorio, che si sentiva eretico, convinto che questo fosse uno dei principali doveri morali di un uomo di cultura, fondamentale resta la lezione (e l’interrogativo) sulla giustizia (e sulla legge, sua imperfetta rappresentazione). Manzoniano conseguente, d’una consequenzialità che si esplicita coi richiami continui alle due opere per lui fondamentali a capire l’Italia di ieri, di oggi e di domani, I Promessi Sposi e la Storia della colonna infame, Sciascia è stato l’ultimo rappresentante di una categoria ormai estinta con la sua morte: quella dell’intellettuale (parola, peraltro, da Sciascia poco amata) che della letteratura si serve come strumento d’indagine nelle pieghe della politica e della società. La letteratura come luogo della verità (pur essendo essa effettualmente “finzione”…), che smaschera la verità apparente della politica e della storia.

    Intellettuale scomodo, neoilluminista voltairiano, mai contento di soluzioni accomodanti, sempre a “frugare”, come osservava, sbigottito, don Abbondio nei riguardi del cardinale Borromeo, Sciascia fu (e rimane, assieme a Pasolini e a Calvino) la coscienza critica, il pungolo di un Paese che spesso alla letteratura si è rivolto per evadere, non per trarne spunti di riflessione e di messa in discussione delle inadempienze della politica, dei soprusi e delle “imposture” dei politici verso la comunità dei cittadini. D’altra parte, in un Paese come il nostro, che legge molto poco e, quando legge, lo fa con molta faziosità, Sciascia ha finito anche per essere frainteso, fino ad essere considerato fiancheggiatore della mafia, dallo scrittore Sebastiano Vassalli e dal mafiologo Pino Arlacchi, o un traditore dello Stato, come avvenne al tempo del processo delle BR a Torino, quando dichiarò di non essere “né con questo Stato né con le BR”.

    Scrittore tormentato, sempre alla ricerca di una verità ultima (in questo, cristiano più vero di tanti falsi credenti), assetato di giustizia in una terra, come la Sicilia, tramata di ingiustizie, Sciascia ci ha lasciato troppo presto soli in un tempo che di lui aveva tanto bisogno. Ma se la memoria ha ancora un valore (e nonostante Sciascia temesse che lo stesse irreparabilmente perdendo), “ce ne ricorderemo, di questo scrittore” e della sua nobile lezione civile e morale.

  149. @ Paolo Fai
    Caro Paolo, grazie per il tuo intervento.
    Ci tengo a mettere in risalto la frase conclusiva: se la memoria ha ancora un valore (e nonostante Sciascia temesse che lo stesse irreparabilmente perdendo), “ce ne ricorderemo, di questo scrittore” e della sua nobile lezione civile e morale.

  150. La prima ospite sarà una saggista e docente di lettere: Daniela Privitera.

    Daniela è docente di lettere ed insegna a Paternò (CT) presso la S. M.S. Virgilio. E’ dottore di ricerca in italianistica, già docente a contratto di Linguistica Italiana (2008) presso l’UniKore di Enna, borsista , tutor e contrattista presso l’univesità di Catania per i settori di “Letteratura italiana contemporanea e dialettologia italiana e siciliana”.
    Ha organizzato e partecipato ai seguenti Convegni:
    – “La sicilia. Storia di Parole ed immagini. Incontro con i Fratelli Taviani ” (Convegno AIIS/ATI, – Enna 2008)
    – Cesare Pavese e il Nostro Tempo (Enna 2008).
    – Rinarrare il Meriodione: cinema, letteratura, arte (Erice , 2009).

    Ha pubblcato i seguenti libri :
    – “Il mito vuoto e l’infanzia ritrovata. Saggi Pascoliani” (Aesse, 2001)
    – “Poesia… in forma di prosa” (Aesse, 2002)
    – “Africa, una letteratura possibile” (Catania, 2008)
    – “Per una letteura metatestuale del giallo siciliano”, articolo in Onomastica e letteratura, Rivista internazionale di Studi onomastici, Università di Pisa, 2008;
    – “Il giallo siciliano da Sciascia a Camilleri. Tra letteratura e multimedialità”, Kronomedia, 2009

  151. Ovviamente ho invitato Daniela Privitera per via della recentissima pubblicazione del suo saggio “Il giallo siciliano da Sciascia a Camilleri. Tra letteratura e multimedialità”, Kronomedia, 2009.
    Segue una breve scheda del libro…

  152. “Il giallo siciliano da Sciascia a Camilleri. Tra letteratura e multimedialità”, di Daniela Privitera (Kronomedia, 2009)

    Il saggio di Daniela Privitera è una breve escursione nei territori del giallo.
    Dopo una sintetica ed agile presentazione della storia del poliziesco classico, la diegesi narrativa si concentra sulla peculiarità del giallo siciliano che, secondo l’autrice, si rivela come un genere letterario ad alto livello di entropia, in quanto scardina gli automatismi strutturali del romanzo a circuito chiuso, tipici del poliziesco. Partendo da Sciascia (maestro esemplare del giallo atipico) e passando per Bufalino, Silvana La Spina, Piazzese, Enna e Camilleri, l’autrice ritrova un filo rosso che lega i giallisti siciliani alla sofferta indagine della problematicità del reale. Il noir siculo insomma, secondo l’autrice, diventa per i Siciliani, un “pre-testo” per disquisire e interrogarsi sui perchè della giustizia (umana o soprannaturale). Il giallo pertanto, per i nostri scrittori, diventa il colore di un popolo che tra le pieghe di una scrittura barocca, ironica, raziocinante e terragna grida la sua piccola ed unica verità: l’accettazione del mistero e la rinuncia all’eterno.
    La terza parte del saggio propone una rapida visione dei risvolti del poliziesco nelle realizzazioni teatrali e nelle riduzioni televisive e cinematografiche”.


    [Il saggio è stato recensito su Repubblica, L’Occidentale, La Sicilia, Il Corriere di Gela, Camilleri fans.club-Vigata Org, Nuova Polis, Azzurra Tv (Televisone di Agira – EN]

  153. @ Daniela Privitera
    Cara Daniela, ti invito a intervenire per fornirci ulteriori informazioni su questo tuo libro e per dire la tua su Sciascia (anche sulla base di ciò di cui si è discusso nel corso di questo dibattito).
    Ti ri-pro-pongo le domande del post (nel casoin cui ti andasse di rispondere):
    – Qual è, a tuo avviso, l’eredità principale che ha lasciato Sciascia?
    – Tra le sue opere, qual è quella che preferisci?
    – E quella che – a prescindere dalle preferenze personali – consideri la più importante?
    – Quale libro di Sciascia proporresti a un/a ragazzo/a che non lo ha mai letto?

  154. Ho aggiornato questo post (date un’occhiata su, in alto) presentando due ulteriori libri “sciasciani”.
    Uno dei due è quello di Daniela Privitera… (ne avevo parlato nei precedenti commenti): “Il giallo siciliano da Sciascia a Camilleri. Tra letteratura e multimedialità”, di Daniela Privitera (Kronomedia, 2009)

  155. L’altro libro sciasciano è firmato da Marcello Benfante ed è edito dalla Gaffi editore. Si intitola: “LEONARDO SCIASCIA. Appunti su uno scrittore eretico” (13.50 Euro, pagg. 182, 2009).

  156. Marcello Benfante è nato a Palermo nel 1955. Suoi racconti sono apparsi nell’antologia “Luna nuova” (Argo, 1977) a cura di Goffredo Fofi, in “Sicilia fantastica” (l’ancora del mediterraneo, 2000) a cura di Emiliano Monreale e in “Dalla parte degli animali” (l’ancora del mediterraneo, 2004) di cui è stato anche curatore.
    Ha pubblicato i romanzi brevi “Cinopolis” (Mobydick, 2006) e “L’ultima fuga del professor Severini” (Di Girolamo, 2006).

    Interviene sulle pagine palermitane di “la Repubblica” come opinionista e critico letterario, collabora al mensile “Lo Straniero” e fa parte della rivista “Segno”.
    Con Gaffi ha pubblicato nel 2008 la raccolta di racconti “Cassata a orologeria” e nel 2009 il volume di cui discuteremo: “Leonardo Sciascia, Appunti su uno scrittore eretico”.

  157. @ Marcello Benfante
    Pongo anche a te le “domande del post”
    – Qual è, a tuo avviso, l’eredità principale che ha lasciato Sciascia?
    – Tra le sue opere, qual è quella che preferisci?
    – E quella che – a prescindere dalle preferenze personali – consideri la più importante?
    – Quale libro di Sciascia proporresti a un/a ragazzo/a che non lo ha mai letto?

  158. Caro Massimo, a proposito di Sciascia vent’anni dopo , molto è stato detto e molto ancora si dirà (accade sempre nelle retorica celebrativa delle grandi occasioni!) ma, mi piacerebbe riflettere su alcuni temi che mi stanno particolarmente a cuore: il supposto pessimismo di Sciascia e l’irredimibilità della Sicilia (poco importa come afferma il prof. Di Grado se irredimibile sia stata definita prima Palermo e poi l’intera isola !).
    Non credo a un pessimismo di fondo del messaggio di Sciascia, uomo e intellettuale, nè all’idea immobile e gattorpadiana di una Sicilia irredimibile. Crederci, significherebbe negare dignità a questo intellettuale disorganico e non irregimentato .
    Sciascia crede , come tutti i liberi pensatori, nella forza della ragione e nella luce della verità proprio per questo “dice parole”.
    La parola scritta , dichiarata, raccontata demistifica e denuncia il sistema malato. Non predica , mostra il reale .
    La parola di Sciascia è (a mio modo di vedere ) simile – come diceva Majakovskij – a un atleta che scavalca la coltre di ogni cosa e quando supera ogni ostacolo non la puoi fermare.
    Da Siciliano “d’alto mare” , quale egli era , conobbe e denunziò i mali della sua terra (si ricordi l’avvertenza al Giorno della civetta nell’edizione uscita per le scuole medie (1972) ove egli, coi colpi taglienti e lucidi della sua scrittura, annota :”Ho scritto questo racconto nell’estate del 1960. Allora il Governo non solo si disinteressava del fenomeno della mafia, ma lo negava” e -aggiunge- “la mafia è un “sistema” che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel “vuoto” dello Stato ma dentro lo Stato.”); denunziò le collusioni di potere tra le le più alte istituzioni (Todo modo);non si arrese neanche di fronte alla morte dei suoi personaggi da romanzo (Rogas, nel Contesto). Si schierò sempre dalla parte della tolleranza; voleva si risparmiasse la vita a Moro, e per questo fu criticato. Linciato dal sistema per essere sempre stato un uomo “contro” “si appassionò sempre alla verità ma più ancora agli ingranaggi della ragione che la cerca.”
    Poliziotto di Dio , fu definito da Bufalino, e chi conosce Sciascia sa che , da testimone attento e viglie della storia del nostro tempo , ha sempre cercato le ragioni della verità e, nonostante le sconfitte, ha continuato a credere nella necessità di combattere.
    Per questo , per le sue parole dette , per le idee di chi crede nella redenzione e nell’uomo , i suoi Bellodi, i suoi Rogas sono dei Candidi che la storia di una Sicilia testarda ha ritrovato in Falcone , Borsellino, e in tutti quelli che nonostante tutto credono che contro l’irredimibile , l’uomo può ancora lasciare i segni di una civiltà dell’intelligenza in cui come Bellodi ognuno di noi “ci si romperà la testa”.
    Daniela Privitera

  159. Dalla scheda del libro di Marcello Benfante – “LEONARDO SCIASCIA. Appunti su uno scrittore eretico” (Gaffi) – emergono tre domande che potrebbero fornire ulteriori spunti di riflessione.
    Le metto in evidenza di seguito…
    Chi è oggi “l’autore”?
    Che rapporto ha con la politica, la società, i suoi stessi lettori?
    Ha ragione chi pensa a Roberto Saviano come all’erede dello scrittore di Racalmuto?

    —-
    (come al solito vi chiedo di esprimere le vostre opinioni con garbo e nel rispetto di quelle altrui).

  160. Caro Massimo, le tue domande come di consueto argute ed intelligenti, richiedono da parte di chi legge( e scrive) una particolare attenzione.Sono una donna che ha sempre vissuto la propria “sicilianità” con estrema lucidità e consapevolezza, che vive nella profonda convinzione che la ricerca della verità sia l’unica strada percorribile.A me sembra,ed è doloroso ammetterlo,che il tempo che stiamo vivendo,sia lontano dalla verità.Mi riferisco,volutamente, al Sud.Ad un Sud sempre più slegato dal nord.Di un Sud “lasciato in balia di eventi e persone che in maniera catastrofica sanciscono l’impossibilità di diventare altro”.Sciascia visse in una Sicilia ancorata alla vecchia idea di mafia.Sono passati vent’anni dalla sua morte.Morirono dopo di lui Falcone e Borsellino.Non riesco ad immaginare ,purtroppo,cosa avrebbe scritto Sciascia.So che dopo la loro morte,si levarono urla di disperazione,sembrava che quelle morti richiedessero l’urgenza del riscatto.La Sicilia morente chiedeva di continuare a vivere attaverso le parole coraggiose dei propri figli.Per tanto tempo si urlo’,si scrisse chiedendo giustizia.Si usarono parole forti.Gli scrittori, i giornalisti,persino la gente comune comincio’ ad usare con lucidità e “coscienza “le parole.” Sapevano” bene l’uso delle parole.Poi a poco a poco,lentamente si perse il rapporto tra le parole e la società.Le urla diventarono-voci.Le voci-bisbiglii.Ecco, in questo contesto, mi permetto di dire, le parole di Roberto Saviano sono urla disperate in un estremo silenzio.

  161. Caro Massimo,
    eccoti le mie risposte alle tue 4 domande:
    1) Qual è, a vostro avviso, l’eredità principale che ha lasciato Sciascia?
    2) Tra le sue opere, qual è quella che preferite?
    3) E quella che – a prescindere dalle preferenze personali – considerate la più importante?
    4) Quale libro di Sciascia proporreste a un/a ragazzo/a che non lo ha mai letto?

  162. 1) L’eredità più importante che Sciascia ci ha trasmesso è a mio avviso il concetto di verità intesa come letteratura. Nel duplice senso, direi, di una letteratura che rappresenta la più alta e la più profonda riflessione (anche come rispecchiamento) sulla realtà, che cioè ne rappresenta l’intima e ultima essenza; e anche di una letteratura che sempre si pone al servizio del vero con un impegno etico non meno importante di quello conoscitivo.

  163. 2) L’opera di Sciascia che preferisco è “Nero su nero”, una straordinaria raccolta di testi brevi, anche aforistici, di commenti, di brani di diario, di ricordi e annotazioni: un vero pozzo di san Patrizio da cui ricavare inesauribilmente materiali preziosi, spunti di riflessione, testimonianze lucidissime.

  164. 3) E’ difficile esprimere una gerarchia di valore. Ma certamente “Morte dell’inquisitore”, la straziante vicenda di Fra Diego La Matina, fra le sue opere è una delle più significative (ed è anche la più amata dall’autore), soprattutto perché pone al centro il grande tema dell’eresia, della persecuzione, della violenza del potere. Ma anche “Il giorno della civetta” ha avuto una funzione dirompente, portando nella nostra letteratura il dibattito, sempre omesso, della mafia con un linguaggio nuovo, demistificante.

  165. 4) “Una storia semplice”, proprio per la sua semplicità, per la sua struttura scevra d’ogni costruzione letteraria, si presta in modo specifico ad essere affrontata dai giovani lettori. Ma ho spesso verificato che un racconto perfetto e assai toccante come “L’antimonio” risulta particolarmente adatto a un lavoro didattico (sul fascismo, la guerra civile spagnola, la miseria brutale del mezzogiorno d’Italia).

  166. Caro Massimo , rispondo adesso alle prime domande che tu mi ponevi e cioè :1) Qual è, a vostro avviso, l’eredità principale che ha lasciato Sciascia?
    2) Tra le sue opere, qual è quella che preferite?
    3) E quella che – a prescindere dalle preferenze personali – considerate la più importante?
    4) Quale libro di Sciascia proporreste a un/a ragazzo/a che non lo ha mai letto?

    1) Dopo il mio intervento di ieri credo che apparirà a tutti chiaro (e di questo ragiono anche nel mio saggio ) che il patrimonio di Sciascia consista nella fede incrollabile che ciascuno deve nutrire nei confronti della verità , indagata attraverso il filtro della letteratura.
    Al concetto di verità aggiungo anche l’idea di giustizia che non può prescindere dal rigore etico di cui spesso (in questo nostro tempo) si sente la mancanza .
    “2) L’opera di Sciascia che preferisco è il Contesto: una lucida ricognizione sul tema della verità combattuta e ostacolata proprio da chi dovrebbe garantire la giustizia e l’acclaramento della verità:. Trovo terribilmente attuale il passo del libro in cui si legge : “si trattava di difen dere lo stato contro coloro che lo rappresentavano . Lo Stato detenuto”. Sciascia aggiunge che per liberare la giustizia e la verità si può tentare di aprire una “crepa nel muro” (l’intelligenza, la moralità , la letteratura). Ma io mi chiedo: se per Sciascia il compito dell’investigatore (colui che ricerca la verità) è quello di liberare la verità attraverso la letteratura e la ragione. Oggi , l’intellettuale ha la forza e la voglia di farlo?
    3)Sono anch’io del parere di Benfante . Ma credo forse che Candido. ovvero un sogno fatto…. racchiuda in sè molte delle idee di Sciascia su libertà , fede, ideologia e giustizia . La formazione è il nucleo fondante dell’individuo che spesso infrange i suoi sogni nella frantumazioni delle illusioni svuotate e annientate dal Potere .Candido è l’uomo libero che ha sempre sognato di essere . Sciascia sa che scrivere significa attuare il sogno fatto in Sicilia di essere onnipotente e libero, fuori dalle istituzioni come il giovane Munafò.
    E’ la più bella idea di libertà che si possa dare della vita parlando di essa ad un adolescente!

    4) La più importante e stimolante credo sia ,Il Giorno della civetta.
    Questo testo è l’esempio di un giallo-denuncia in cui la letteratura scende dal piedistallo e mostra il contesto della verità. Ritengo che il primo giallo di Sciascia sia fortemente educativo e per ciò merita di essere letto nelle scuole e utilizzato per fini didattici.

  167. Il Festival dell’Utopia di Biancavilla, appena concluso, ha introdotto in prima assoluta, rispetto all’Università di Catania, gli articoli della Sicilia e molti altri interventi, che si sono succeduti nell’arco di un mese a questa parte il collegamento tra Sciascia, la caduta del Muro di Berlino e il Candido (l’utopia delle idee in Sicilia). Abbiamo composto questo mosaico chiedendo inutilmente la collaborazione di alcuni docenti di Catania. Costoro, interpelati direttamente dai ragazzi, hanno rifiutato il loro invito. Salvo poi successivamente adottare i loro temi (come mai tanto interesse sul Candido, ve lo siete chiesti?) senza ritenere degna una semplice citazione del lavoro di ricerca e di analisi di 30 giovani organizzatori del Festival.
    Eccezion fatta per Maugeri che, non solo ha ospitato il nostro Festival nel suo magnifico blog, ma ha anche accettato di far parte della giuria del Premio intitolato “Sciascia: un sogno fatto in Sicilia”, Premio sponsorizzato dalla casa editrice Adelphi. Ne ha parlato anche il TG3 della Rai.
    Con lui, Domenico Seminerio, e molti altri nomi celebri della letteratura. Il corrispondente del Tg 2 della Rai, Giovan Battista Brunori, ha mostrato nell’ambito del Festival, le immagini dei tre tg della Rai nel giorno della caduta del muro, 20 anni fa, collegando tutto questo ad una mirabile lezione di giornalismo televisivo.
    Con un po’ di amarezza devo dire che i ragazzi hanno appurato come a distanza di 20 anni dalla caduta del Muro di Berlino, vi siano numerose barriere da abbattere, prima fra tutte quella imposta da chi si è servito delle loro idee per scrivere e pubblicare articoli, piccandosi di ricerche “sottratte” al loro progetto, senza neanche citare che a Biancavilla vi era un Festival che ne ponderava con loro l’argomento.
    In passato, da studentessa universitaria, ho avuto la fortuna di conoscere un Premio Nobel americano per l’economia e di collaborare con un prof. della Yale University. Allora potei rendermi conto del grande divario tra il modo di rapportarsi con gli studenti da parte dei docenti americani rispetto a certi “professori/giornalisti/ricercatori” nostrani. In Italia, ma soprattutto in Sicilia, la cultura viene ancora scambiata con il potere che pochi esercitano sui molti. In tal modo si vorrebbe confermare che il sapere, appannaggio di pochi eletti, vada calato dall’alto a molti poveri giovani ignoranti. Ma come insegna il Candido di Sciascia, la vera cultura, cari SIGNORI, è un movimento delle menti, che sfida i centri di potere, chiusi e arretrati nell’affermazione sterile di un compito assai proclamato ma in effetti disatteso. Quale compito? Quello di saper muovere le coscienze e di generare fiducia nella capacità stessa delle idee di cambiare la realtà.
    Fiducia che il nostro Festival ha potuto comunque mantenere e instillare. Ancora un grazie ai nostri veri fautori di cultura, tra i quali Maugeri. Il suo blog in fondo è davvero una piccola Parigi virtuale.
    Alfia

  168. Cara Alfia,
    grazie, intanto, per il tuo commento e per i complimenti che fai a Letteratitudine. In genere evito di considerarlo (e di parlarne) come “il mio blog”. Preferisco considerarlo come il “nostro blog”, proprio perché nasce da una mia grande esigenza di condivisione… e il “frutto” che ne deriva nasce dal contributo di tutti. Del resto, – come recita il sottotitolo – Letteratitudine è “luogo d’incontro” (non di scontro) tra scrittori, lettori, librai, critici, ecc”.
    Ho dato spazio (e con vera gioia) al bellissimo Festival dell’Utopia di Biancavilla grazie alla (altrettanto bella) mail inviatami da Antonio Lanza (uno dei giovani organizzatori del Festival). L’ho fatto qui…
    http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/10/12/dare-spazio-allutopia/
    … organizzando un dibattito (poi rivelatosi molto interessante e fruttuoso) dedicato all’utopia (ho inserito anche il video del TG3 che citi).
    Io, più che in una Utopia, credo a un Sogno: far sì che questo spirito di condivisione di cui ti accennavo non venga intaccato da (anche naturali) screzi, polemiche e recriminazioni.
    Lo so che non è facile, ma – come diceva Schuman rispetto al sogno dell’Europa unita (cito il mio articolo/commento del 10 novembre 2009 h.12:36) – “Gli alberi non devono impedirci di vedere la foresta”.
    Per questo ringrazio te e tutti coloro che – con i loro splendidi interventi e contributi – hanno reso questo post (e il dibattito che ne è seguito) davvero bello… almeno per me.
    Grazie di cuore a tutti.

  169. E grazie anche a Daniela Privitera e Marcello Benfante per i loro commenti (e per le risposte alle mie domande).
    Marcello Benfante, molto gentilmente (e dietro mia richiesta), mi ha inviato la “premessa” del suo libro.
    La inserirò più tardi in un successivo commento.

  170. Come promesso… la “premessa” (scusate il bisticcio di parole) del saggio di Marcello Benfante – “LEONARDO SCIASCIA. Appunti su uno scrittore eretico” (Gaffi). 🙂
    Commento a seguire…

  171. Dal saggio di Marcello Benfante – “LEONARDO SCIASCIA. Appunti su uno scrittore eretico” (Gaffi)

    PREMESSA
    GIORNI INFELICI SENZA LEONARDO SCIASCIA


    Da giovane mi capitava talvolta di incontrare Leonardo Sciascia per le strade di Palermo e di non trovare mai quel pizzico di cortese invadenza e di gratuita intraprendenza che mi consentisse di dirgli che ero un suo appassionato lettore.
    Ogni tanto mi studiavo un ipotetico approccio, il più discreto possibile, il più scevro da ogni implicazione utilitaristica o encomiastica. Ma, come già avevo sperimentato per le tecniche di abbordaggio delle ragazze, fare dei piani d’azione era come votarsi in anticipo all’immobilismo.
    So che qualcosa di simile è successa a tanti che avrebbero voluto come me porgere un omaggio disinteressato a quel maestro appartato, ma vigile e combattivo, e però non hanno mai osato farlo, magari per quel pudore della sapienza che Sciascia ispirava con i suoi modi probi e parchi, con la sua eleganza schiva e rustica.
    Per noi tutti era comunque una consolazione, una rassicurante certezza, la sua presenza in città, il suo essere sentinella della ragione in una Sicilia e in un’Italia che invece sempre più sembravano (ed erano, e sono) terra di conquista del nonsenso, della follia e della violenza.
    Antonio Motta, sensibile letterato del Gargano al quale si devono alcune belle pagine dedicate a Rigoni Stern e a Bufalino, ha raccontato con rara grazia memorialistica il suo incontro con lo scrittore di Recalmuto in un soave libretto intitolato “Giorni felici con Leonardo Sciascia”.
    Fin dalla prima volta, nel settembre del 1983, a colpirlo sono gli occhi di Sciascia, “il tratto più straordinario della sua persona”, insieme a un certo sorriso ironico e sulfureo. Occhi difficili da esplorare e rappresentare, quasi sottratti alla propria profondità, “come se volessero decifrare un mistero infinito”. Occhi “perforanti” che a Motta suggeriscono il ricordo di Brunetto Latini che aguzza lo sguardo “come ‘l vecchio sartor fa nella cruna”.
    Non senza una rispettosa e quasi devota timidezza Motta si è accostato allo scrittore siciliano, il quale tuttavia, in questo rapido e affettuoso ritratto, viene spesso colto nella sua fragilità, anche prima dell’annunciarsi, per sintomi e presagi, del subdolo male che infine lo avrebbe ucciso vent’anni fa.
    Nel ricordo di Motta, in questo bozzetto biografico fatto di minimi appunti, di sottili sensazioni, Sciascia è uno “scrittore nudo, insicuro”, un uomo “indifeso” e “vulnerabile”. Anziché sminuirla, questi tratti di debolezza esaltano per contrasto la figura morale e intellettuale di Sciascia, la potenza della sua scrittura e della sua “agra intelligenza”. E infatti Motta testimonia di uno Sciascia che “emanava un’attrazione fatale”, facendo cenacolo intorno a sé, pur senza mai cedere alla presunzione egocentrica di quei meschini letterati capaci solo di parlarsi addosso.
    Oggi quel suo sguardo acuto, quella sua veritiera nudità, ci mancano. E perciò ci sentiamo più insicuri e vulnerabili. Questo senso di solitudine lo avvertiamo per le strade di Palermo, sempre più anonime, sempre più desolate, nonostante la folla di eventi più o meno culturali che le intasa.
    Così è ovunque, ormai, si dirà. Certo, è l’Italia tutta che diventa sempre più ottusa e volgare. Ma non di meno è qui, in questo nostro contesto degradato, che noi percepiamo una penosa sensazione di vuoto e di nausea, di crisi e di deriva.
    In una lettera a Motta , datata Palermo 24 giugno 1976, Sciascia scrive: “Sono nato in Sicilia, ci vivo da cinquantacinque anni, la soffro, mi “duele” (“me duele España”, diceva Unamuno: come di una parte del suo corpo). Essendo scrittore, non potevo non «scriverla»”.
    Ci “duele” ancora oggi la Sicilia. Proviamo un dolore quasi fisico per lo stato in cui versa, per il suo abbandono, per il suo smarrimento. Il compito che ci attende è trasformare questa sofferenza in pensiero, in scrittura, in un rinnovamento morale e culturale. Un impegno, insomma. Il vituperato e malinteso impegno.
    Ma scrive ancora Sciascia in quella lettera: “Si capisce che mi considero uno scrittore politico. In effetti, non c’è scrittore che non lo sia. Ma lo si è in due modi: o si offre la propria «irresponsabilità» al potere o la propria «responsabilità» a tutti. Io ho preferito questo secondo modo”.
    Che è una chiave di interpretazione della buona letteratura, intesa come espressione di una coscienza civile, ma anche della buona politica, intesa come servizio e assunzione di responsabilità nei confronti della comunità in cui si opera.
    Se la politica, secondo Savinio, “espelle l’intelligenza come corpo estraneo”, l’intelligenza (e quindi anche la letteratura) non può tuttavia fare a meno di una politica solerte nell’assolvimento dei propri doveri anziché nella rivendicazione arrogante e abusiva dei propri privilegi.
    A un dibattito organizzato da Antonio Motta sulla letteratura pugliese, Sciascia affermò che i tratti distintivi della letteratura italiana sono il regionalismo, ovvero un ineludibile provincialismo, e l’assenza di una dimensione etica: “La letteratura italiana è sprovvista di questo senso morale, manca del tutto la letteratura memorialistica, mancano i diari che sono il segno di una mancanza di società, e mancando la società mancano i problemi morali”.
    Anche qui l’indicazione è chiarissima: uscire dall’isolamento e dal compiacimento regionalistico, pur raccontando con dolore la propria terra, e assumere un punto di vista morale, cioè in ultima analisi politico, possibilmente attraverso forme da sempre disattese o trascurate come il memoriale e il diario.
    Ancora, insomma, la letteratura come “buona azione”, alla Courier. Il libro inteso come atto riparatorio, come ciò che “riscatta una terribile azione” (Sciascia lo dice a proposito de “La scomparsa di Majorana”, riferendosi all’orrore della guerra atomica). Ovvero l’intento sovrumano di Borgese, che Sciascia elesse a proprio motto, di espungere dalla scrittura ogni apologia dell’abiezione.

  172. Caro Massimo ecco un passo del mio saggio (spero riuscirà a suscitare il vostro interesse)
    Dalla Premessa
    Il perchè di una scelta

    Paraletterario o Kitsch, sottoprodotto della letteratura alta o esempio di Trivialliteratur, il romanzo poliziesco, piaccia o no ai guru della critica accademica e militante, sembra essersi imposto come un genere che ha conquistato, sopratutto negli ultimi anni, una notevole fama legata alla crescente misura del suo successo. Esso ha fatto impennare la percentuale delle vendite presso una vasta cerchia di lettori che, a dispetto dei critici, non è “esclusivamente” identificabile con la massa informe della “plebe” incolta o con la fascia d’utenza di un pubblico di media cultura. E tuttavia, anche se il noir sembra ormai destinato – in linea con le tendenze europee di Francia e Germania – a scalare la vetta del successo, persiste ancora una certa ritrosia (nell’ambito della critica) a considerare il giallo un vero e proprio testo letterario.
    É stata questa la ragione principale che mi ha spinto ad occuparmi di questo genere, che così faticosamente stenta ad acquisire cittadinanza letteraria, oltre al fatto (singolare rispetto al canone del poliziesco) di ritrovare nel giallo contemporaneo forti caratteri di atipicità rispetto alla più classica delle mystery story. Ma il successo del giallo non è limitato solo alla scrittura, ma si estende anche ai mass-media e ai nuovi mezzi di comunicazione mediatica come Internet.
    Perché accade tutto questo? Forse per la facilità di coniugare la leggibilità del poliziesco con il bisogno di pacificazione interiore che ognuno di noi proietta nell’illusione dell’Happy end del giallo classico, oppure perché ciascuno, ergendosi a superuomo, prova ad immedesimarsi nell’investigatore, immaginando di salvare l’umanità dal male? Le ragioni potrebbero essere tante non esclusa quella della pubblica tematizzazione della morte. Viviamo, infatti, in una società in cui l’evento mediatico s’impadroni-sce dei valori tradizionali e li depaupera provocando uno smarrimento nello spettatore che per-cepisce il disagio del disorientamento che si traduce nella paura della propria morte.
    La letteratura poliziesca e le fiction ad essa legate familiarizzano con essa e la elaborano freudianamente. In altri termini, l’elaborazione collettiva del lutto legata alla spettacolarizzazione della morte altrui ci aiuta ad esorcizzare le nostre ataviche paure, attualizzando una moderna catarsi in cui il giallo diventa l’emblema della società dello spettacolo nella quale, nostro malgrado ma con qualche furtivo compiacimento, viviamo. Da genere di consumo a nuova forma di conoscenza del reale il giallo piace anche perché, a sentire Umberto Eco in Po-stille a Il nome della rosa:
    “… il romanzo poliziesco rappresenta una storia di congettura, allo stato puro. Ma anche una diagnosi medica, una ricerca scientifica, anche un’interrogazione metafisica sono casi di congettura. In fondo, la domanda base della filosofia (come quella della psicoanalisi) è la stessa del romanzo poliziesco: di chi è la colpa?”.

    Ma il tema della colpa è alla base di tanta letteratura “alta” (si pensi a Kafka, Svevo) e questo basti a nobilitare il genere bistrattato del giallo che proprio da un semiologo del livello di Eco è stato scelto come impianto del suo testo più noto Il nome della rosa. Il romanzo, pubblicato nel 1980, si sviluppa inizialmente sul canovaccio del giallo classico (la ricerca di un assassino che insanguina l’abbazia), per poi complicarsi artatamente in un megatesto in cui tout se tient attraverso una sapiente e versatile fruibilità a diversi livelli di lettura che fanno del Nome della rosa un romanzo ora storico, ora psicologico, ora intertestuale, ora poliziesco. Il risultato? Una sintesi grandiosa, una lezione di alta letteratura in cui Eco dimostra che per l’artista autentico è possibile seguire una terza via che escluda sia l’estrema banalizzazione della letteratura d’appendice a puro veicolo commerciale, sia la condanna aprioristica della letteratura di genere a paraletteratura da parte dello snobismo accademico .
    In definitiva – secondo Eco – il problema di una cultura alta e bassa non esiste di per sé ma è una conseguenza della forma mentis della cultura d’elite che si ostina a considerare opposti e non complementari i vari livelli intellettuali. Anche l’uomo colto può, secondo il se-miologo, in certi momenti leggere Pound, in altri rilassarsi e leggere Simenon o Camilleri. In questa prospettiva si potrà giungere ad un’analisi seria che porti a considerare anche la narrativa di consumo su un piano di maggiore dignità culturale. Ma la domanda, tuttavia, rimane sempre la stessa: perché piace il giallo?
    Forse perché lukacsianamente la scrittura, interprete della realtà, percepisce i disagi di una società in cui il mistero, il disorientamento e l’enigma continuano a farla da padrone. Pertanto, se la letteratura alta non si fa carico di accogliere questi richiami, essi emergono dall’inconscio collettivo per affiorare fra le righe della cultura di consumo in cui il giallo, per le sue caratteristiche di linguaggio, temi e ricerca, rappresenta lo strumento più adatto a descrivere le tensioni sociali e gli enigmi irrisolti della nostra società. Ma se la letteratura si autocondanna al disincanto e non si sporca le mani nel sociale, quella che i critici definiscono “paraletteratura” sta forse tentando “di ricominciare a salvarsi attraverso la scrittura” (Claudio Magris.)

    Consentimi pure di citare la peculiarità del saggio (l’atipicità del giallo siciliano) attraverso un rapidissimo flash (non è campanilismo!!!) sugli scrittori siciliani e il poliziesco

    Dal Cap.II Il giallo siciliano
    …il destino degli intellettuali siciliani che si sono cimentati nel giallo è quello che secondo la definizione di C. Ambroise rivela la vera natura degli uomini di lettere: quella di collocarsi nello spazio della polemica, di contrastare l’organicità del siste-ma.E, infatti, se si esclude qualche isolata eccezione, si scoprirà che il giallo siculo di poliziesco spesso conserva soltanto la tecnica perché la coscienza di sguardo dell’investigatore si situa sempre in una dimensione labirintica che scavalca le false verità del mondo e si relaziona con l’oltre.
    Quale meraviglia, allora, se nei polizieschi di Sciascia il caos alla fine permane pur essendo strettamente marcato dalla “Grazia illuminante” della Ragione? E perché dovremmo stupirci dell’ironica tragicommedia del bufaliniano Qui pro quo quando a rivelare l’In-concludenza della Vita è il senso pirandelliano dell’esistenza? O ancora quale stranezza noteremmo nei gialli raffinati ed ironici iperletterari e disincantati di Piazzese, o in quelli malinconici e decadenti di Enna, o in certe performances di sicilitudine di A. Camilleri?
    Nel plot intricato dell’anima umana, il giallo diventa una sofferta indagine, per gli scrittori siciliani che ne scompaginano le ferree regole per restituire alla realtà del caos la finzione letteraria della verità.
    Il noir siculo perciò si scompone, diventa un pretesto per disquisire ed interrogarsi sui perché della giustizia (umana o soprannaturale?); i cronotopi classici sconvolgono i tradizionali dati spaziali del poliziesco per diventare categorie allusive di anime inquiete e recalcitranti recalcitranti di fronte alla povera idea della prevedibilità del mondo.
    Vicini all’Etna ricco di leggende e stracolmo di miti, gli scrittori siciliani, animati dal-l’implacabile fuoco della conoscenza, anche quando non vivono nei luoghi natii, si lasciano ammaliare irresistibilmente dal pirandellismo intrinseco della loro terra, specchiandosi nella vita che è un teatro sul quale però non cala mai il sipario.
    Il palcoscenico ideale del mistero e della tragediatina, così cari ai Siciliani, diventano inconsapevolmente proprio quell’“isola di luce e di lutto” di bufaliniana memoria, in cui l’evento drammatico del delitto va oltre la classica rottura di un ordine iniziale per parafrasare soluzioni sempre più inquietanti e meno definitive.
    La ricerca della verità, nell’inchiesta del noir siciliano, diventa pertanto una sorta di work in progress che accompagna il cammino stesso dell’esistenza, stemperandosi nei molli profumi dell’isola, stordita dallo scirocco e dal-l’ingiustizia ma miracolosamente risanata da un salutare e connaturato umorismo.

    “… il romanzo poliziesco rappresenta una storia di congettura, allo stato puro. Ma anche una diagnosi medica, una ricerca scientifica, anche un’interrogazione metafisica sono casi di congettura. In fondo, la daraletterario o

  173. Bellissimo questo post, soprattutto per l’accostamento di Sciascia al Muro.
    Ah, Sciascia.
    Ho iniziato a leggerlo quando avevo 14 anni, al primo ginnasio, grazie alla mia professoressa di lettere, Agata Ferro. 14 anni dopo continuo a leggerlo, a scoprire quanto siano attuali i suoi ragionamenti, quanto sia disperato e tuttavia necessario porre al di sopra di tutto la Ragione, per capire, fare luce anche dove la Storia sembra più oscura e “sragionata”.
    Leggiamolo e (fondamentale) ri-leggiamolo.

  174. A proposito di Sciascia (grazie per essere intervenuto anche qui, caro Luciano)… sto leggendo con estremointeresse il numero di novembre del bimestrale di letteratura “L’immaginazione” – diretto da Anna Grazia D’Oria – che dedica ben 30 e più pagine al nostro caro Leonardo con contributi di vario genere…
    Spero di avere la possibilità di parlarne in maniera più analitica.

  175. La prima (come scrissi nel post in questione) riguardava un evento epocale, uno dei più importanti della storia recente: il crollo del Muro di Berlino, avvenuto il 9 novembre del 1989 (la ricorrenza coincide proprio con la giornata odierna).

  176. La seconda segnava l’anniversario della morte di un grande della nostra letteratura, che si celebrerà tra qualche giorno: Leonardo Sciascia(scomparso il 20 novembre del 1989).

  177. Mi sembra un accostamento molto interessante.
    Il crollo del muro di Berlino è uno spartiacque nella nostra storia.
    C’è un prima e c’è un dopo.
    E quel prima e quel dopo sono proprio segnati dal crollo del muro.

  178. Anche la letteratura degli ultimi decenni, e anche di più, è stata rivoluzionata da scrittori che hanno indicato nuove forme espressive e nuovi contenuti.
    Sciascia è uno dei questi.
    La sua mancanza è attenuata dalla presenza dei suoi libri.

  179. Massimo caro, che bello leggere questo post e il forum che si è sviluppato nel 2009.
    Nei prossimi giorni proverò ad intervenire anche io.
    Per il momento, grazie di tutto.

  180. Ciao a tutti. A proposito dei 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino è stato interessante assistere ai festeggiamenti della Germania.
    Alle 10 del mattina del giorno delal celebrazione si ode uno squillo di tromba (a evocare quello che secondo la Bibbia fece crollare le mura di Gerico).

  181. Poi la cancelliera Merkel (che, ricordiamolo, è cresciuta nella Germania Est) ha tenuto un discorso e posato una rosa in uno dei pochi tratti di Muro ancora esistente, a Bernauer Strasse, in ricordo delle persone che morirono cercando di fuggire.

  182. È stato anche inaugurato un museo del Muro di Berlino.
    Ha detto la Merkel: «Noi abbiamo la forza di volgere le cose al bene: questo è il messaggio del Muro di Berlino. Il muro ha dimostrato che i sogni possono diventare realtà e noi vogliamo condividere questo messaggio con i nostri Partner nel mondo».

  183. In tema economico c’è da sperare che i i sogni della Germania (poltica del rigore) smettano presto di diventare l’incubo di altri paesi.

  184. Altrettanto importante la celebrazione di Sciascia, un grande della Letteratura.
    Mi limito a dire (e mi dispiace farlo) che di scrittori della sua levatura oggi, in giro, non se ne vedono.
    Non se ne abbiano a male gli scrittori che leggessero queste mie parole.

  185. E’difficile abbattere i muri, soprattutto quelli cerebrali eretti dalla “mentalità”. Leonardo Sciascia ci ha provato percorrendo una strada quasi impossibile, laddove il territorio impone altri percorsi vicini ai labirinti e spesso senza uscita. Si contrappone dunque il concetto di libertà in contrapposizione alle catene … Significativa l’opera dei due artisti berlinesi dei palloncini luminosi liberati per abbattere la barriera di confine: spero che l’allegoria artistica non traduca che “i palloni” tedeschi volano verso l’alto cavalcando l’economia ed il progresso, mentre noi stiamo a guardare con il nasino all’insù….

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