Nell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, e in collegamento con la rubrica “Graphic Novel e Fumetti“, ci occupiamo della graphic novel “I giorni del vino e delle rose“, di Diego Bertelli e Silvia Rocchi. Musiche di Gianni Niccolai (Valigie Rosse, 2016)
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Recensione di Claudio Morandini
“I giorni del vino e delle rose”, graphic novel appena pubblicata da Valigierosse, si presenta come un lieve un gioco di specchi che moltiplicano rimandi e suggestioni musicali, letterarie e visive. A dare il titolo al libro c’è un album dei Dream Syndicate del 1982 che si rifà a un film drammatico di Blake Edwards del 1962 con Jack Lemmon e Lee Remick (e le musiche di Henry Mancini, la cui canzone dal medesimo titolo si è meritata quell’anno l’Oscar ed è diventata uno standard jazz) il quale film si ispira a versi del poeta inglese Ernest Dowson (1867-1900), in particolare al celebre «They are not long, the days of wine and roses», a sua volta intriso di reminiscenze oraziane…
Ecco, il bel libro illustrato da Silvia Rocchi, scritto da Diego Bertelli e curato da Silvia Bellucci insegue questi legami, riallaccia questi rapporti: dapprima flirta con la memoria personale dei creatori, con la rievocazione delle sensazioni che l’album dei Dream Syndicate ha suscitato, gioca con la memoria, con le sottigliezze dell’amore; poi insegue la scoperta dell’importanza della musa malinconica di Dowson, e ascolta quest’ultimo discettare con amici nel suo salotto, lo osserva mentre dorme, pensa, beve, si tormenta, si consuma. Fedele al sottinteso sinestesico del titolo, mescola, senza forzare la mano, visione e tatto, olfatto e udito. Esplora i temi della memoria che riaffiora proprio quando la si credeva perduta, dello svanire del tutto, del precario conforto degli affetti, della bellezza, dell’amore sulla morte.
Le immagini (spesso sfocate, incompiute, ellittiche, galleggianti nel bianco della pagina, proprio là dove ci aspetteremmo maggiore nitidezza, come nei volti, qui invece lasciati sempre all’ombra, oscurati da pennellate grigie) e le parole (scritte tutte a mano, con una calligrafia volenterosa di quaderno d’altri tempi) si accompagnano alla mezz’ora di musiche composte appositamente da Gianni Niccolai, liberamente ascoltabili su soundcloud. Niccolai ha scritto un commento musicale che non diventa mai illustrativo, servendosi di un’elettronica anche in questo caso di asciuttezza ellittica: non tenta nemmeno di avvicinarsi mimeticamente alla fin de siècle di Dowson, parafrasando gli stili musicali dell’epoca, ma si muove tra reminiscenze elettroniche e qualche momento jazzistico. È musica che non si limita a fare da sfondo rassicurante, ma in un certo modo sfida il senso delle immagini e delle parole imponendosi come terzo elemento alla pari, anche a costo di provocare qualche attrito (ma gli attriti in arte sono sempre fecondi, soprattutto quando sono retti da un’intenzione vera): e nella sua ricerca di una autonomia pur nella sintonia non si spinge a insistite citazioni, al massimo rievoca un giro di basso da Steve Wynn e i Dream Syndicate, o ammicca lievemente a Henry Mancini nei momenti più jazzistici, ma questi momenti suonano come reminiscenze più che come vere e proprie citazioni.
Alla fine, un testo di Silvia Bellucci ripercorre le tappe della collaborazione tra gli artisti che hanno contribuito a creare l’album; e un’intervista di Riccardo Bargellini a Steve Wynn permette di rintracciare le vere fonti dell’album dei Dream Syndicate da cui tutto questo sofisticato e malinconico gioco di specchi è partito.
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