Marzo 19, 2024

734 thoughts on “DIBATTITO SUL ROMANZO STORICO

  1. Una discussione a cui tengo molto e che ci farà compagnia per un po’ di tempo (compatibilmente alla disponibilità dei quattro ospiti, protagonisti del post).

  2. Come avete già letto sul post stavolta ho deciso di invitare ben quattro autori: due scrittrici e due scrittori, per la precisione.
    Li ri-presento, sempre in rigoroso ordine alfabetico: Andrea Ballarini (foto in alto a sinistra, nel quadrante), Rita Charbonnier (in alto a destra), Marco Salvador (in basso a sinistra), Cinzia Tani (in basso a destra).

  3. Come dicevo, l’occasione è ghiotta.
    Avremo la possibilità di discutere, con i quattro ospiti, del romanzo storico in generale e delle loro opere più recenti.
    Nel farlo mi avvarrò anche dei contributi di Salvo Zappulla e Renzo Montagnoli (ne approfitto per ringraziarli) che hanno recensito, rispettivamente, i libri di Rita Charbonnier e Marco Salvador.

  4. Ecco… provate a rispondere alle domande!
    L’invito è rivolto a tutti… e, in particolare, ai protagonisti di questo post (che invito a interagire tra loro).
    Sono certo che ne verrà fuori una discussione molto interessante.

  5. Ovviamente oltre che sul romanzo storico in generale, la discussione verterà sulle quattro più recenti opere dei nostri amici/che scrittori/scrittrici protagonisti di questo post.

  6. Rivolgo questa prima domanda a Andrea Ballarini, Rita Charbonnier, Marco Salvador, Cinzia Tani…
    Come nasce questo nuovo romanzo? Da quale idea? Da quale esigenza?

  7. Ci tengo a ricordare lo slogan di questo blog: La libertà individuale, anche di espressione, trova argini nel rispetto altrui.
    E quanto indicato nella netiquette del sito:
    Letteratitudine nasce fondamentalmente come luogo di incontro. Per tale motivo si basa sui principii dell’accoglienza e della cordialità. Il creatore e gestore del blog ringrazia anticipatamente tutti coloro che, con i loro interventi, daranno un contributo a mantenere un clima di accoglienza e serenità.
    http://letteratitudine.blog.kataweb.it/category/aaa-nota-legale/

    Ne segue l’ovvio invito a un confronto rispettoso.
    Vi ringrazio anticipatamente.
    😉

  8. Accipicchia, siamo già in onda! Grazie, Massimo, per questo splendido post. Provo a rispondere alle tue domande.

    1) Mi sembra che un romanzo, per essere definito storico, debba obbedire a un semplice criterio: quello di essere stato scritto da qualcuno che all’epoca dei fatti narrati non era ancora nato. Oppure, deve essere stato scritto un minimo di cinquant’anni dopo i fatti narrati. La definizione (giustamente elastica) non è mia, ma è presa a prestito dalla “Historical Novel Society”: la trovate qui. http://www.historicalnovelsociety.org/definition.htm

    2) La funzione del romanzo storico non mi sembra debba essere troppo diversa da quella del romanzo puro: raccontare una storia nella quale diverse persone possano riconoscere qualcosa di sé o del proprio mondo.

    3) Il romanzo storico dovrebbe soprattutto evitare di essere un pedante sfoggio della cultura storica dell’autore!

    4) Di solito si sente affermare che l’interesse per questo genere sta crescendo. A livello personale posso dire che quando è uscito il mio primo romanzo, 3 anni fa, mi capitava di sentirmi fare domande del tipo: ma scusa, che razza di libro è? Cioè, parla di Mozart, ma non è un saggio su di lui o sulla sua musica… e poi ci sono dei personaggi realmente esistiti, ma scusa, Mozart quel giorno è veramente andato in quel posto a quell’ora? Eccetera. Ecco, per il nuovo romanzo queste domande non vengono più poste. Quindi forse è vero che c’è una maggior consapevolezza del genere. Provo a fare a mia volta una domanda: secondo voi si è più portati a guardare al passato in tempi di crisi e incertezza sul futuro?

    5) Nel mondo anglosassone il romanzo storico è sempre andato fortissimo e continua a farlo. Non a caso esiste addirittura una società dedicata a promuoverlo (la Historical Novel Society che citavo prima).

    6) Il più grande romanzo storico di tutti i tempi… mmm… che ne dite de I PROMESSI SPOSI?

    Un grande abbraccio a tutti, e in particolare a Cinzia Tani che è una scrittrice fantastica e ha presentato il mio nuovo romanzo a Roma con parole lusinghiere. Spero davvero che Cinzia abbia la possibilità di partecipare attivamente alla discussione. So che ha molte cose da dirci!

    Rita

  9. Caspita Massimo,post impegnativo,interessante assai.
    1.Oltre al fatto di essere scritto da qualcuno che segue all’epoca dei fatti narrati,come sopra detto da R.Charbonnier,la storia narrata dovrebbe avere verosimiglianza con l’epoca passata in oggetto,resituire al lettore riferimenti reali e certi entro cui far muovere l’immaginazione di storie frutto dell’invenzione dello scrittore.Ritengo però che un certo allargamento del genere sia lecito oggi,dopo tanti dibattiti illustri riguardo alle definizioni formalistiche di genere letterario,in quanto il riferimento al genere romanzo storico dipende anche dal contesto sociologico in cui viviamo e da cui trae sounto e punto di vista ogni critica.
    2.Riconoscere qualcosa di sè e del mondo,aggiungerei ricordare qualcosa del passato che in qualche modo potrebbe andare disperso,anche se attualmente fatto con minore pressione ideologica.
    3.Evitare di essere un manifesto più o meno velato di ideologie estreme, e di essere noioso.
    4.Secondo me sta indubbiamente crescendo l’interesse,forse perchè in un’epoca di tante incertezze l’immaginario colletivo ha necessità di cercare conferme nella certezza del passato.
    5.Come sopra credo.
    6.indubbiamente I promessi sposi,forse I Vicerè di De Roberto,non mi viene altro in mente,magari qualcuno aiuterà la memoria.
    Che bello tutti questi autori bravissimi insieme,un benvenuto anche da parte mia e tanti complimenti a loro!

  10. Che ne pensate anche de Il Gattopardo che sa coniugare ricostruzione storica e indagine raffinata della psicologia dei personaggi?
    Complimenti a Massimo, Salvo, Renzo per i bellissimi articoli,domani mi riservo di fare qualche domandina sui libri in oggetto.
    Abbracci

  11. Una domanda per tutti i quattro autori se possibile.
    Pensate voi che oggi il genere storico stia un pò stretto nelle definizioni,appunto di genere,formali e oggettive?Come e quanto è cambiato il genere del romanzo storico,che a vedere i vostri libri,di genere storico tutti,ma diversi per i temi toccati,allarga molto le possibilità del narrare pur restando nell’ambito del genere in questione?
    Vi ringrazio anticipatamente per la vostra disponiblità.
    A domani

  12. Eh, ma che bella combriccola!!! Onorato di farne parte. Un caro saluto a Rita Charbonnier, che ho avuto modo di conoscere in circostanze particolari, drammatiche direi. Magari più avanti lo racconto.
    Il romanzo storico, a mio parere, affinché non venga confuso per un saggio (come accennava Rita nel post precedente) deve far leva soprattutto su vicende inventate, che devono costituire il fulcro dello stesso romanzo. Ad esse l’autore deve saper inserire un contesto storico reale, attraverso documentazioni serie, frutto di ricerche e studi approfonditi. In fondo è anche una maniera per ristabilire verità su persone e fatti spesso sconosciuti o distorti. Ha un ruolo educativo il romanzo storico. D’accordo ancora con Rita sul Manzoni. Aggiungerei Walter Scott e i drammi di Shakespeare.

  13. Grazie delle vostre risposte! Ragazzi, qui si entra nel vivo della questione: a me sembra di poter dire che la “verosimiglianza” e i riferimenti “reali” siano difficilmente definibili e soprattutto soggettivi… gli storici hanno opinioni differenti quasi su tutto. E’ molto, molto difficile stabilire un confine tra il dato reale e il dato inventato. Se ne avete voglia date un’occhiata qui: http://ritacharbonnier.blogspot.com/2006/05/gli-scrittori-bugiardi-e-sfruttatori.html

    Ora devo scappare. Buona serata a tutti e a domani!

    P.S. Salvo, facce sogna’. Portace ner dramma.

  14. @Rita non mi provocare. Qui si tratta di raccontare cose scabrose. Un complotto, un tentativo di omicidio addirittura, che coinvolge anche Andrea Ballarini…ci fanno chiudere il blog.

  15. Proverò a rispondere alle domande, a modo mio s’intende…

    1 Romanzo storico perché unisce coscienze, azioni e pensieri individuali di protagonisti immaginari o no al movimento eterno di un periodo storico determinato, più o meno lontano nel tempo, con le sue belle figure tipiche, i suoi costumi, la mentalità, l’agitarsi di eventuali guerre, etc.etc.

    2 La funzione del romanzo storico è quella di qualsiasi altro romanzo, raccontare istruendo inconsapevolmente e se possibile senza la precisa volontà di farlo, ma per il puro piacere di narrare, il che non è poco…

    3 Dovrebbe evitare l’intento didascalico, il voler insegnare o ammaestrare per forza, la morale dall’alto, l’impartire una lezione scolastica. Operazione che andava bene ai tempi del Manzoni e della sua Divina Provvidenza, ma che oggi forse risulterebbe stucchevole.

    4 Il romanzo storico oggi in Italia sta poco bene, anche perché c’è un sacco di roba scadente in giro. I grossi editori aborrono le novità e puntano sul commerciale che ha una vita breve sul mercato, come un fuoco fatuo, destinato a non lasciare segni letterari di rilievo nella maggior parte dei casi. Molti autori sfornano romanzi tutti uguali come i biscotti di Nonna Papera. Si rischia di fare indigestione.

    5 Come sopra.

    6 La parola “di tutti i tempi” è troppo impegnativa. Esistono espressioni vuote di senso del tipo: “la donna più bella del mondo”. Si possono conoscere tutte le donne per giudicare quale sia la più bella? E chi giudica può essere poi all’altezza? Chi ha mai letto tutti i romanzi storici di tutti i tempi?
    Chi mai e da quale pulpito stabilisce che un romanzo è rappresentativo di un genere? E chi mai può dire quali sono le esatte caratteristiche di quel genere stesso? L’innovazione può consistere proprio nel rompere regole cristallizzate, rovesciandole, dimostrando che in fondo, l’arte regole non ha, almeno per l’artista puro.
    La letteratura per fortuna non è un’esatta operazione algebrica…
    Personalmente amo molto La chimera di Sebastiano Vassalli. L’ho letto qualche anno fa e ancora me lo ricordo…
    Leggetelo, se volete…

    Maria Antonietta Pinna

  16. Secondo me il romanzo storico italiano sta vivendo un buon periodo. Certo non è tutto oro quello che luccica. Conoscono bene il libri della brava Cinzia Tani, ma anche quelli degli altri autori presentati qui sembrano buoni.
    Interverrò dopo sulle altre domande.

  17. Maria Antonietta, grazie mille per le tue risposte.
    Sulla domanda 6) hai assolutamente ragione. E’ ovvio che è impossibile stabilire, in maniera soggettiva, “qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi”. Bisognerebbe averli letti tutti, certo. E la risposta sarebbe comunque soggettiva (appunto). Però è una “domanda-sondaggio”, la mia: chi vuole può esprimere il proprio parere (limitato, sì, per i motivi che abbiamo detto). Dalla “somma” dei pareri potremmo trarre, forse, un’indicazione.
    Ma l’intento ultimo di quella domanda è, ovviamente, giocoso (il “di tutti i tempi” bisogna leggerlo soprattutto in quest’ottica).
    Grazie per la tua risposta. “La chimera” di Vassalli è un ottimo libro.

  18. Rita Charbonnier e io abbiamo presentato il romanzo di Andrea Ballarini al Salone del libro di Torino.
    Salvo Zappulla, che era tra i presenti, ha conosciuto Rita (e Andrea) in quell’occasione (li ho presentati io).
    Non mi risultano tentativi di omicidio, ma mi piacerebbe saperne di più.
    😉

  19. Per il momento vi saluto. Non so se sarò in grado di tornare a intervenire più tardi.
    Intanto, sarà mia cura notificare agli altri autori “protagonisti” di questo dibattito l’avvenuta pubblicazione del post.
    Buona domenica sera a tutti.

  20. Non so definire cronologicamente il “Romanzo Storico”. Io scrivo solo romanzi storici. Anche i miei libri sui delitti sono storici. Ma ultimamente alla Mondadori mi hanno detto che il romanzo storico si ferma alla Rivoluzione Francese!!! Ovviamente non sono d’accordo. Secondo me è storico anche un romanzo ambientato negli anni trenta e quaranta, cioè quando io ancora non c’ero. tutto ciò che comporta lo studio di un periodo che non è il nostro secondo me è storico. come per il cinema. Se si pensa a un film negli anni cinquanta lo si definisce “in costume”, quindi storico perché bisogna ricostruire gli ambienti, i costumi ecc.
    Amo leggere i romanzi storici più degli altri romanzi perché mi offrono qualcosa in più, qualcosa che spesso non conosco e quindi mi sollecitano maggiormente a capire, confrontare, andare a cercare, studiare ecc.
    Gli italiani non hanno una grande tradizione romanzesca. Di solito sono più bravi a scrivere poesie e racconti. Ma se penso a due romanzi italiani del passato mi rendo conto che sono proprio storici: I promessi Sposi e Il Gattopardo. Per quanto riguarda i miei preferiti non ce n’è uno in particolare. Posso citare Il dottor Zivago, Guerra e Pace. Ma un meraviglioso romanzo storico è anche Il vangelo secondo Gesù di Saramago se vogliamo parlare di scrittori contemporanei. Temo però chi sotto il cappello di “romanzo storico” fa passare romanzetti approssimativi, privi di una ricerca accurata, inverosimili. Avventurette. E ce ne sono tanti. Mentre per quanto riguarda i romanzi seri come quello della Charbonnier che ho presentato in un’occasione ma anche l’ultimo di Melania Mazzucco, io li consiglierei alle scuole. Sarebbe molto più facile e appassionante studiare la scuola se magari durante le vacanze si potesse leggere un romanzo di questo genere.
    Oggi penso che il romanzo storico in Italia goda di buona salute, credo però che siamo solo all’inizio. Ma forse è un modo per recuperare una tradizione romanzesca molto carente nel nostro paese.
    Con questo saluto tutti gli amici che partecipano a questa discussione.

  21. Esiste un romanzo che si dice abbia inaugurato questo genere, mi riferisco a La principessa di Clèves, di Madame de Lafayette. E’ un’opera del 1678 che, fra l’altro, anticipa altre tematiche, fra cui la psicologia e il femminismo. Naturalmente anch’io non posso fare a meno di ricordare Ivanhoe, I promessi sposi, ecc., ma vorrei pure aggiungere Notre-Dame de Paris di Hugo. La funzione di questo genere di romanzo dovrebbe essere a mio avviso quella di recuperare frammenti di memoria, di farli rivivere affinché le generazioni successive possano far tesoro di esperienze e vicende a loro sconosciute (mi viene in mente lo “scrivere per educare” di don Lisander). Ecco, adesso che ho detto la mia, me ne vado a letto, l’età comincia a farsi sentire: buonanotte a tutt* e a domani.

  22. @Caro Massimo, visto che proprio mi tirate per i capelli, racconto l’episodio. Tu non ti sei accorto di nulla impegnato com’eri a firmare autografi alle tue fan.
    Mi trovavo a vagare in stato confusionale al Salone del Libro di Torino. Stavo malissimo, tremavo nonostante ci fosse un gran caldo. Ero appena sfuggito a un tentativo di avvelenamento da parte di Juliane Roderer e Caterina Schimdt, che mi avevano invitato a pranzo nel ristorante riservato agli agenti letterari stranieri. Cucina tedesca, naturalmente. Dio, ne liberi!!! Mi ero ritrovato seduto a un tavolo intento a districarmi tra salsine gialle, verdi, arancione; maionese color cane randagio, senape appiccicose, gelati mollicci come schiuma da barba. E intanto guardavo l’intonaco di fronte, dello stesso colore delle salse. E pensavo che sicuramente avevano rapporti di parentela. Alla mia sinistra Andrea Ballarini continuava a passarmi sottobanco le sue porzioni, forse coinvolto nel complotto. Insomma, sta di fatto che al termine del pranzo mi era venuta la febbre. Senonché mentre mi appresto a uscire dal Salone per rientrare in albergo, mi capita una visione, un sogno scaturito dal secolo scorso, una fata venuta fuori dalla lampada di Aladino: una dama in costume ottocentesco che mi mostra il suo romanzo. Leggo: “La strana giornata di Alexander Dumas” Titolo affascinante senza dubbio, se non altro perché fa riferimento al grande scrittore. Mi incuriosiva molto. Solo che in quel momento io stavo male e avevo un gran desiderio di vomitare. I bagni non sarei riuscito mai a trovarli. Il dècolleté della signora mi si parava di fronte, invitante. Resistetti alla tentazione. Va be’, decisi, compro il libro e torno in albergo. Alla cassa, tirai fuori il portafoglio e mi resi conto di possedere solo 50 centesimi (solita figura di merda) “Quante pagine mi vengono con cinquanta centesimi?” chiesi sconsolato. La commessa mi guardò storto. Per fortuna la dama intervenne a salvarmi e mi regalò il libro. Mi fece pure la dedica. “Buona lettura da parte di Rita Charbonnier”. In albergo mi piazzai subito a letto tremando per il freddo, cominciai a leggere il libro e fu la folgorazione, l’incanto, la resurrezione. Mi ritrovai proiettato dentro una storia bellissima, le pagine scorrevano una dopo l’altra senza sosta, i dialoghi affascinanti, la trama coinvolgente, i personaggi sembrava fossero lì, con me, nella stanza. In due ore divorai il romanzo. Mi era passata pure la febbre e mi sentivo già meglio. Potenza della scrittura.

  23. Il romanzo storico è malinconia per voci perdute, che nessuno saprebbe riportare in vita se non con la forza dell’immaginazione e della visione. E’ una frattura risanata dalla parola. Una feritoia lasciata aperta, che il narratore colma con pietà e nostalgia.
    Il romanzo è – sempre – un collaboratore di chi non può o non sa dire, un gran resuscitatore di ricordi e memorie. Può partire da piccole cose – oggetti, frasi, finanche una sola parola – e procedere a ritroso, ricostruire e ricrerare, ma sempre con l’intento di salvare ciò che , altrimenti, andrebbe perduto.
    Lo scrittore è un antagonista delle ombre e della morte, ma chi affonda nella storia con l’intento di incastonarvi la narrazione, raggela il tempo due volte…sia perchè restituisce un’epoca (e una lingua, e atmosfere, abiti, abitudini), sia perchè di quell’epoca raccoglie il dimenticato, le piccole storie oppure, nell’ambito delle grandi storie, le verità mai affiorate, o sussurrate, o covate.
    Questo restituire è un atto di pietà e di commiato, o di umiltà , anche, quando a rivivere sono gli ultimi.
    Ma è sempre capacità di commuoversi e vedere nella storia non un inesausto fluire senza ragioni, non una somma di date e momenti, ma noi e i noi che eravamo, i dubbi e le lacerazioni, gi appuntamenti mancati, gli amori perduti, i sogni sgranati e rincorsi.
    Il romanzo storico è – come dice Consolo – ciò che è la letteratura quando trasforma la vita ( ed è quindi vera letteratura): resti, archelogia. Ma un’archeologia che ricorda l’uomo e il suo destino, che lo interroga inessantemente sui suoi passi, e che di quei passi – deboli, fragili, addomesticati – vuole lasciare traccia.

    Bellissimo post. Bravissimo Massi. Complimenti a tutti gli autori!

  24. Ciao, Massimo.
    Un saluto a Rita, Marco, Cinzia e a tutti gli altri partecipanti.
    Provo a rispondere alle domande un po’ come mi viene. Per dire cose più intelligenti ho bisogno di molto più tempo.

    1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?

    Credo che si possa definire storico un romanzo ambientato in un’epoca anteriore a quella in cui viene scritto, che narri di avvenimenti almeno in parte inventati e per cui sia necessario reperire una documentazione in fonti disperse (altri libri, documenti, filmati, persone eccetera); insomma, un romanzo per scrivere il quale ci si debba procurare un certo numero di informazioni specifiche perché i caratteri del periodo trattato o gli avvenimenti narrati non sono universalmente noti; altrimenti forse si tratta di attualità.

    2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?

    Credo che la funzione di un romanzo storico sia la stessa di un romanzo tout court, cioè raccontare una storia in modo coerente e coinvolgere il lettore nel particolare universo narrativo creato. Anzi, forse il massimo sarebbe che il lettore pensasse di essere un contemporaneo dei personaggi.
    E’ vero che, a volte, il racconto storico consente di parlare di costanti dell’animo umano che si ritrovano quindi anche nella contemporaneità quotidiana, senza doversi impelagare in schieramenti ideologici. In altre parole, il romanzo storico può mandare un messaggio, purché non lo faccia apposta. Altrimenti è meglio mandare una mail.

    3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?

    Peccato numero uno: annoiare il lettore che ha tirato fuori dei soldi per leggerti con supermuscolari esibizioni narcisistiche. In altre parole: se uno dovesse scrivere una storia in cui a un certo punto, tra le tante cose che accadono, passa il camion che raccoglie l’immondizia, forse per questo dedicherebbe due pagine a spiegare i minuti dettagli tecnici della raccolta, dello stoccaggio e dello smaltimento dei rifiuti? Può darsi, ma poi perché meravigliarsi se il lettore sbadiglia? Come diceva Voltaire, il segreto per annoiare è dire tutto.
    Peccato numero due (più grave del primo): trasformare il periodo storico in oggetto in un fondale teatrale dipinto, usandolo essenzialmente per i suoi aspetti pittoreschi e scenografici, senza curarsi della pertinenza dei pensieri e delle azioni dei personaggi, con il risultato di far assomigliare il romanzo ai mobili in stile, in tutto uguali a quelli antichi, tranne per il fatto che si vede che sono finti. Fuor di metafora, un complotto di magia politica trovo abbia senso nell’Europa del Seicento, ma che rischi di essere un tantino anacronistico nel 1960. Oddio, in letteratura si può fare tutto, però…

    4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?

    Anche se non sono un esperto di romanzi storici, ne ricordo alcuni che negli ultimi anni mi sono piaciuti, tipo “Q” di Luther Blissett o “Manituana” di Wu Ming, giusto per citarne due degli stessi autori. Molto interessanti ho trovato quelli di Luca Masali incentrati sulla figura dell’aviatore Matteo Campini, dove a un impianto storico inappuntabile si accoppiano contenuti fantascientifici: ne risultano dei libri assolutamente originali che mi pare schiudano interessanti prospettive al futuro del genere.

    5. E nel resto del mondo?

    Nel resto del mondo mi sembra che il romanzo storico sia sempre stato piuttosto bene. Basta fare un giro in libreria per rendersi conto di quale straripante salute goda il genere. Fosse anche solo per la statistica, quella mole roba non potrà essere tutto ciarpame, no?

    6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?

    Anche se non lo è, perché ce ne sono di migliori dal punto di vista letterario e della pregnanza dei contenuti, nella mia mente – e nelle mie prime esperienze di lettore – romanzo storico vuol dire “I tre moschettieri”: il miglior plot mai scritto.
    Tra quelli più recenti, sicuramente “American tabloid” di James Ellroy: un misto di realtà e fiction di incredibile potenza sostenuto da un rigore stilistico unico.

  25. Il romanzo storico dovrebbe evitare che la storia assurga a mero ruolo secondario e, al tempo stesso, che venga sciorinata come un libro di testo.
    Deve essere nei personaggi, viverli e lasciarsene vivere, ma come un mostro che è dentro (oltre che fuori di loro).
    Mi viene in mente “Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino, dove l’azione è tutta incentrata sulle azioni dei partigiani, sulla lotta di confine tra le montagne, ma la visuale della storia, del nascente comunismo, della resistenza, è affidata a un bambino.
    E’ una prospettiva talmente inusuale che molti esitano a definire storico questo romanzo.
    Eppure lì la storia è tutto. Pervade come un’ombra. Solo, la sua voce si trasforma. Diventa incomprensibile, segreta, fatta di parole da decifrare.Di adulti da scrutare. Di mondi da attraversare.
    Ecco.
    Credo che quando la storia pervade la narrazione, dovrebbe interrogarci come un bambino, ma per il solo fatto di dipanarsi ai nostri occhi, simile a un mistero.
    Come un vento da afferrare solo a tratti. Per il resto, sfuggente. Assordante.Vivo.

  26. un post molto interessante. tutto da seguire. davvero complimenti.
    non sono un gran lettore di romanzi storici, ma i libri qui presentati mi hanno incuriosito parecchio.

  27. Sulla definizione di romanzo storico wikipedia si esprime in questi termini.
    – Il romanzo storico è un genere letterario nato nel 1819 dalla mente di Walter Scott, autore del primo libro di questo genere, chiamato Ivanhoe.

    Walter Scott creò un nuovo genere, il romanzo storico: Waverley, pubblicato nel 1814, ne è generalmente considerato il capostipite. Ciò nonostante, tematiche storiche erano già state trattate in passato: basti pensare, ad esempio, ai drammi di Shakespeare, che analizzavano la crisi del sistema feudale e l’autodistruzione cui si stava votando l’aristocrazia. –

  28. Dunque, secondo wikipedia il romanzo storico nasce nel 1819 grazie a Walter Scott. Gli scrittori invitati sono d’accordo?

  29. L’enciclopedia Encarta, invece, si esprime così
    – Alle origini del romanzo storico in Italia stanno le opere dello scrittore scozzese Walter Scott, che lanciò la moda di questo genere letterario in Europa. All’influenza ben documentabile di Scott vanno però aggiunti due elementi: la fortuna dei drammi di Shakespeare, che è il lontano archetipo del romanzo storico e del melodramma romantico, e l’opera lirica, che contribuì alla costruzione schematica di vicende e sentimenti. Numerosi furono infatti i libretti d’opera tratti dai romanzi di Scott, e uno venne perfino tratto dal Marco Visconti di Tommaso Grossi, musicato nel 1838 da Nicola Vaccai e nel 1854 da Errico Petrella. Di Scott, Gaetano Donizetti musicò Kenilworth nel 1829 (Elisabetta al castello di Kenilworth) e La sposa di Lammermoor fu musicata da Michele Carafa nel 1828, da Alberto Mazzucato nel 1834 e da Donizetti nel 1835 (Lucia di Lammermoor); nel 1832 venne presentato sulle scene l’Ivanhoe con la musica di Giovanni Pacini. –

  30. Prima di tutto, buona giornata. Poi vedo di rispondere ai quesiti di Massimo. Mi sembra però doverosa una premessa: purtroppo degli autori di cui si parla conosco bene solo le opere di Marco Salvador e quindi mi sarà impossibile interagire con gli altri tre per chiedere magari chiarimenti sui loro romanzi.
    1.Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?
    Dovrebbe ricreare, oltre a un’epoca, anche dei personaggi realmente esistiti, cosa quest’ultima assai difficile, perché sui comportamenti e sulle motivazioni degli stessi da parte di protagonisti della storia si possono fare solo ipotesi; quindi rimanere aderenti alla realtà è quanto mai difficile. Del resto il lavoro dello storico, non del romanziere, è quello di tendere ad appurare la verità, ben sapendo a priori che ciò non avverrà mai. Più semplice è invece il romanzo di ambientazione storica, in cui ferme restando le caratteristiche di un’epoca, i personaggi sono di pura inventiva. In ogni caso, il romanzo storico non deve essere un testo di storia e deve presentare dei protagonisti esistiti realmente, ma che appaiano plausibili nella struttura narrativa.
    2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?
    Deve avere la capacità, come in qualsiasi altro genere narrativo, di avvincere e coinvolgere il lettore, tentando di indurlo a immedesimarsi con uno dei protagonisti.

    3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?
    Beh che si riduca a un saggio storico.

    4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?
    Da noi non ha mai avuto molto fortuna, a differenza che nei paesi anglosassoni (del resto il capostipite del genere è l’inglese Scott). In Italia, inoltre, si legge poco e male e non tragga in inganno il rilevante successo di vendite dei lavori di Manfredi, perché è proprio questa dato che conferma che lì non ci troviamo di fronte a romanzi storici, bensì a una narrativa di sola ambientazione storica e che mira a esclusivi fini commerciali, così che i protagonisti sono descritti più secondo il gusto del pubblico che secondo quanto invece erano effettivamente.
    Diciamo una cosa chiara: il romanzo storico, non solo per essere scritto, ma anche per essere letto presuppone un livello di cultura medio-alto e da noi invece la massa ne ha uno medio-basso, a essere ottimisti, visto che ci sono quasi 5 milioni di analfabeti e ben 20 milioni di analfabetizzati, cioè di persone che hanno concluso la scuola dell’obbligo e che poi hanno disimparato le nozioni che erano state loro insegnate.

    5. E nel resto del mondo?
    Non è che conosca la situazione mondiale, ma nei paesi anglosassoni è un genere che va ancora molto.

    6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?
    Se non fosse che si tratta di poemi, mi verrebbe spontaneo di dire Iliade e Odissea; poiché invece la domanda specifica che deve essere un romanzo, devo dire che non mi è facile trovare una risposta, perché non sono pochi quelli di particolare valore. I Promessi Sposi sì ha una sua valenza, ma è più d’ambientazione storica, in quanto i protagonisti principali, Renzo e Lucia, sono di fantasia o quasi.
    Il problema è che ogni eccellente romanzo storico è relativo a uno specifico argomento e di quello tratta; di conseguenza un paragone non è possibile per esempio fra Ultimo parallelo, di Filippo Tuena, e La chimera, di Sebastiano Vassalli, oppure fra La palude degli eroi di Marco Salvador, e 1504-Notte all’Hostaria La Guercia, di Valentino Rocchi. Si tratta di personaggi troppo diversi l’uno dall’altro e anche di epoche differenti, pur restando quattro opere tutte di grandissimo valore.

  31. si dice che in italia il primo romanzo storico fu Le ultime lettere di Jacopo Ortis di foscolo. siete d’accordo?

  32. Per Aurelio. Il primo vero romanzo storico italiano è “I Promessi Sposi”. L’indicazione delle ultime lettere di Jacopo Ortis come riferimento delle origine del genere in Italia secondo me è una forzatura. Ciao

  33. Un saluto a tutti e scusate il ritardo, ma io qui sono il nonno. I miei ritmi sono lenti.
    Un abbraccio a Massimo, ad Andrea, a Rita e a Cinzia (ordine alfabetico per cognome).

    1. Le caratteristiche, in realtà, sono riducibili a una sola: la credibilità. I personaggi di fantasia devono essere inseriti nell’epoca storica nella quale “vivono” in modo “possibile e probabile”. Le loro azioni, i sentimenti e i pensieri devono essere compatibili con la cultura, con le situazioni politiche, religiose, morali, e con la mentalità del tempo. In altre parole rimangono validi i dettami del Manzoni esposti in “Del romanzo e, in genere, de’ comportamenti misti di storia e invenzione”.
    2. Raccontare del passato per parlare del presente è una. (mica vero che la Storia è maestra.) L’altra è il poter essere un primo passo per approfondire un personaggio o un’epoca. In sintesi, un non noioso ma intrigante approccio alla storia.
    3. La falsificazione. Faccio un esempio per quanto riguarda il medioevo: con trenta chili di ferro addosso, con altri due in una mano e sei nell’altra (spada e scudo), le capriole, i duelli acrobatici, i movimenti felini, sono una incongruenza come le patate e il mais in una zuppa del duecento. Senza parlare dei castelli hollywoodiani e disneyani, dei principi azzurri e delle principesse del pisello. In particolare, sempre per il medioevo e in particolare per la condizione femminile dell’epoca, consiglio a tutti il trecentesco “De costumi e de’ reggimento delle donne” di Francesco da Barberino.
    4. A parte gli amici qui presenti (complimenti per la scelta, Massimo) e pochi altri, c’è un mucchio di “autoracci” in giro, e questo sta ghettizzando il romanzo storico. E dico “autoracci” non perché non siano degli ottimi scrittori, ma perché fanno soprattutto fantasy . Oddio, buon genere il fantasy se non lo si spaccia per realtà. Uno dei maggiori colpevoli del decadimento è il malefico “Codice da Vinci”, con la scarica di templari e Graal che a provocato. Una vera dissenteria. Ancora un po’ si dirà che la teoria della relatività era già scritta in aramaico in qualche cripta d’oriente! Non ci sono misteri nella storia, solo angoli oscuri ancora da esplorare.
    5. Vale quanto detto per l’Italia.
    6. Difficile citare un solo titolo. Comunque, oltre al capostipite Scott, a Guerra e pace, all’ottimo Gattopardo, mi tocca proprio votare “I promessi sposi”. Però da leggere almeno dopo i venticinque anni (quando l’odio scolastico si è affievolito) e saltando tutte le “dotterie” storiche.

  34. Simpaticissimo Marco Salvador,concordo sull’invadente scarica di templari e graal,mi ha fatto sorridere,purtroppo il mercato funziona anche così.una moda tira l’altra,e non sempre di qualità.Perciò per noi tutti è prezioso uno spazio come questo per confrontarci e parlare di letteratura,Letteratitudine diventa la nostra bussola.

  35. @Marco Salvador: in verità il nonno sono io, perchè sono più vecchio anche di te (di poco, circa 18 mesi, ma è così).
    Ecco, la falsificazione è stata posta da te in giusto risalto, e rendere plausibile vuol dire anche che l’autore di un romanzo storico deve ampiamente documentarsi, nel senso che prima deve fare lo storico e poi il romanziere. Quindi, il lavoro di preparazione diventa basilare, tanto che a un certo punto è preponderante rispetto alla stesura vera e propria del romanzo.

  36. da semplice lettore faccio tanti complimenti per l’organizzazione di questo dibattito per le cose dette dagli autori invitati.
    leggo ed imparo.
    grazie a tutti.

  37. mi convince il punto di vista di rita charbonnier. aggiungerei, forse, che il romanzo storico potrebbe (o dovrebbe) contenere un elemento saggistico che possa in qualche modo descrivere il periodo storico nel quale il romanzo è ambientato. senza esagerare, ovviamente, per non cadere nella ricostruzione storica vera e propria. in questo senso anche a me, per ora, viene in mente l’esempio lampante de “I promessi sposi”.

  38. di Antonella Roncarolo
    E’ stato un gradito ritorno nella nostra città quello di Cinzia Tani che, allo Chalet “da Federico” ha presentato il suo ultimo libro “Lo stupore del mondo” edito da Mondadori.
    Il romanzo racconta la vita di due fratelli gemelli dell’aristocrazia romana del tredicesimo secolo, uno con una grave deformazione al viso, e la storia d’amore tra Flora e Rashid due giovani siciliani la prima cattolica il secondo musulmano nella profumata e ricca Sicilia di quegli anni.

    La loro vita, le passioni, gli amori, i tradimenti si svolgono attorno ad un’ imponente figura storica, Federico II, nipote del Barbarossa, che tentò di unificare l’Italia.
    “Sono rimasta affascinata dalla figura dell’imperatore”, racconta la scrittrice, “dopo un viaggio in Puglia, nei luoghi dove Federico II è vissuto, è morto e che ha tanto amato. E’ un uomo di una modernità sconvolgente, studioso, amante dello sport e della vita nella natura, legislatore, diplomatico, un esempio da seguire”.

    Il pubblico, subito appassionato alle vicende del romanzo, ha posto numerose domande alle quali la scrittrice ha risposto con verve ed entusiasmo come ci ha abituati dai suoi programmi radiofonici e televisivi.

    Il prossimo libro che scriverà in tandem con il dottor Sorrentino, dopo il successo di “Panico”, sarà “La rabbia” e la promessa è stata quella di tornare a San Benedetto per la presentazione.

    17/07/2009
    ilquotidiano.it

  39. @ Cinzia Tani
    Cara Cinzia, grazie per essere intervenuta in maniera tempestiva. So bene che in questi giorni sei “itinerante” per le presentazioni del tuo romanzo.
    Hai scritto: “ultimamente alla Mondadori mi hanno detto che il romanzo storico si ferma alla Rivoluzione Francese!!!”
    Giustamente non sei d’accordo. E nemmeno io.
    E un romanzo ambientato – per esempio – nel corso della prima guerra mondiale, non potrebbe essere considerato un romanzo storico?
    Eppure la prima guerra mondiale si studia a scuola nei testi di storia.
    Chissà, poi, perché il riferimento – la linea di demarcazione “storica” – dovrebbe essere proprio la Rivoluzione Francese…

  40. Un saluto e un benvenuto a Letteratitudine anche ad Andrea Ballarini!
    Andrea – tra le altre cose – ha un senso dell’umorismo spiccatissimo… dal vivo fa proprio divertire.
    Metto in risalto questa sua frase che fa sorridere: “il romanzo storico può mandare un messaggio, purché non lo faccia apposta. Altrimenti è meglio mandare una mail”.
    Freddura!:-)

  41. @ Marco Salvador
    Caro Marco, benvenuto anche a te!
    Interessanti i tuoi consigli di lettura per chi volesse cimentarsi con la scrittura di un romanzo storico:
    – “Del romanzo e, in genere, de’ comportamenti misti di storia e invenzione” di Alessandro Manzoni
    – “De costumi e de’ reggimento delle donne” di Francesco da Barberino

  42. @ Rita Charbonnier
    Che cosa si prova a circolare nelle vesti di una dama dell’Ottocento in piena Fiera del libro di Torino?
    Raccontaci qualche aneddoto (a parte quello di Salvo che ti estorce una copia del libro ricorrendo a una banalissima scusa):-))

  43. Il dibattito si arricchisce e si infittisce! Rispondo prima a Massimo – che ringrazio ancora per la bellissima idea e la straordinaria ospitalità. Ovviamente leggendo l’episodio raccontato da Salvo mi sono ammazzata dalle risate. Che oltretutto lui attribuisca un valore taumaturgico al mio romanzo, beh… come dire… non ho parole per ringraziarlo!
    L’idea di presentarmi in Fiera in abito d’epoca mi è venuta una domenica guidando su una strada trafficata, e più ci pensavo e più mi veniva da ridere. Il giorno dopo ho chiamato in Piemme e si sono create due scuole di pensiero: chi si sganasciava esclamando: sììì! Grande idea! E chi avanzava qualche dubbio sul pericolo che la credibilità dell’autrice ne fosse compromessa. Ha vinto la prima scuola. Donne, devo dirvi una cosa: Dio strabenedica gli abiti moderni. Per mettersi quella roba ci vuole una buona mezz’ora e bisogna per forza farsi aiutare (nel mio caso dall’amica Ludovica de Caris e da Arianna Malacrida di Piemme), idem per togliersela di dosso. E poi PESA. E’ stata una fatica notevole e mi ha riportata ai tempi della mia attività teatrale. Ma è stato divertentissimo. L’abito scelto poi era perfetto. Non doveva essere una cosa sexy (Massimo, perdona Salvo, il cibo tedesco gli ha forse creato qualche allucinazione – e grazie per aver postato il video!) ma una cosa spiritosa, e forse ci siamo riusciti. Nel delirio della Fiera bloccavo i passanti parlando con un eloquio improbabile, che sapeva lontanamente di Ottocento, e firmavo le copie del romanzo con una pennaccia Bic rubata alla cassa dello stand, chiedendo umilmente perdono e dolendomi per l’assenza di una vera penna d’oca…

  44. @ Cinzia Tani: ancora molte grazie! E naturalmente sono d’accordissimo sulla tua definizione del genere.

    @ Simona Lo Iacono: ti ringrazio per aver introdotto una questione di grande interesse. Mi sembra di capire che, a tuo avviso, un romanzo per essere definito storico dovrebbe raccontare eventi fondanti del nostro passato (i cui effetti naturalmente viviamo nel presente), indipendentemente dalla data di nascita dell’autore. “Il sentiero dei nidi di ragno” (non smetto mai di stupirmi che Calvino lo scrisse a soli 24 anni) sarebbe storico in questo senso, nonostante racconti eventi dei quali l’autore fu testimone. E questo varrebbe anche per “La Storia” della Morante. Io però continuo a propendere per una definizione secca, asettica e nello stesso tempo elastica: un romanzo per essere definito storico deve essere stato scritto da qualcuno che all’epoca dei fatti narrati non era ancora nato. In questo senso, i due classici appena citati sarebbero “soltanto” due magnifici, grandissimi romanzi.

    @ Margherita: grazie per aver condiviso la voce di Wikipedia. Curioso che non contenga affatto una definizione del genere. Magari quando ho un po’ di tempo ce la metto io.

    @ Renzo Montagnoli e tutti gli altri: il tuo intervento ritorna alla questione della cosiddetta verità: “sui comportamenti e sulle motivazioni degli stessi da parte di protagonisti della storia si possono fare solo ipotesi”. Sono d’accordo. E forse sono un po’ troppo pirandelliana, ma non credo che esista una verità storica oggettiva.
    La questione della linea di demarcazione tra ‘vero’ e ‘falso’ è centrale nel romanzo storico. L’autore deve decidere fin dall’inizio quanta parte di invenzione inserirà nel suo racconto, e di quale natura; ma deve anche riuscire a non dare troppo ascolto alle voci dei paladini della verità. Sospetto che questi paladini tendano a inalberarsi (questo non è mai accaduto! Il tale personaggio storico non era veramente così!) non tanto per difendere i personaggi storici, quanto la loro visione dei medesimi, alla quale sono comprensibilmente affezionati. Non vedo un effettivo conflitto tra “vero” e “falso” e credo che l’opera di finzione sia semplicemente un altro tipo di realtà, che non è meno reale della vita reale, e ha pari dignità. Basata o meno che sia su fatti storici, l’opera di finzione, nel momento in cui riesce nell’intento di comunicare, entra nella realtà del fruitore e diviene così reale a tutti gli effetti.
    Inoltre, per tornare alle parole di Renzo, credo esista una differenza fondamentale tra il dato documentato e il significato (cause ed effetti) del dato stesso: il primo è un punto fermo, il secondo è inevitabilmente soggetto all’interpretazione. Nessuno dubita, ad esempio, che Mozart e suo padre abbiano compiuto tre viaggi in Italia tra il 1769 e il 1773, ma dell’impatto che tali viaggi ebbero sul carattere e la formazione musicale del compositore giovinetto gli storici della musica, giustamente, discutono. Il lavoro dell’autore di romanzi ambientati nel passato si esplica soprattutto all’interno dei significati, e poiché essi sono soggetti all’interpretazione anche degli storici, io rivendico la totale libertà dell’autore.

    Ora scappo. Ciao a tutti!

  45. Ho perso tutto il commento e devo ricominciare dai complimenti a Marco Salvador per il suo intervento. Da scrittrice anch’io (con Loredana Falcone) di due romanzi storici (Cinzia Tani fore ricorda New York 1920, venne anche alla presentazione) ambientati nel XX secolo (con buon pace degli esperti della Mondadori) posso dire che il romanzo storico è uno strumento come nessun altro per consentire al lettore un viaggio nel tempo. A patto che la documentazione sia rigorosa ma invisibile, che la vicenda sia credibile e ben inserita nel contesto. Scrivere un romanzo storico è soprattutto studio studio studio (laureata in storia moderna e contemporanea con una passione per la seconda guerra mondiale, so che lo studio e la documentazione sono tutto). Poi si passa alla creazione vera e propria e lì ci si deve dimenticare tutto ci che si è studiato, via nozioni, via date, via didascalie. Deve restare il SAPORE dell’epoca. E’ quello a fare la differenza.
    Adoro Valerio Massimo Manfredi e direi che il ciclo di *Alexandros* è assolutamente da leggere. Non me ne vogliano i Promessi sposi che a me hanno annoiato anche dopo i 25 anni 😉

  46. @Rita: è indubbio che lo storico può solo cercare di avvicinarsi alla verità, ma è consapevole che quella assoluta è impossibile da raggiungere. L’importante, perciò, per chi scrive un romanzo storico è di osservare scrupolosamente il rispetto degli elementi oggettivi, quali date e fatti. Poi, come lo storico tende a dare un’interpretazione delle cause, anche il romanziere ha giustamente questa possibilità.

    @Marco: Puoi dirci se hai impiegato di più a reperire la documentazione sulla famiglia da Romano o a scrivere il romanzo, che peraltro non è breve?

  47. @ Renzo Montagnoli: non solo la verità assoluta è impossibile da raggiungere, ma non mi sembra che esista. E chi l’ha detto che bisogna “osservare scrupolosamente il rispetto degli elementi oggettivi, quindi date e fatti”? Il tuo è un punto di vista. Condivisibile, naturalmente, o meno. A me sembra che il rispetto o il non-rispetto di date e fatti sia una libera scelta dell’autore. E da autrice, mi sentirei di affermare che è molto più complesso creare e onorare una verità psicologica che non attenersi a un rispetto scrupoloso delle date. Per ragioni di costruzione narrativa un autore può decidere di spostare leggermente una data, di concentrare in un arco temporale breve eventi che si sono dipanati per anni, o magari di aggiungere di sana pianta un personaggio. E’ una sua scelta. E nel momento in cui la compie, è consapevole che i paladini della verità, molto probabilmente, lanceranno i loro strali.
    Io proverei a conciliare le posizioni ponendo la questione in altro modo. Cito qui un articolo dell’autrice di romanzi storici Susanne Dunlap (che non è pubblicata in italiano) sulla Historical Novel Review:
    “Ed ecco la difficoltà principale che hanno gli scrittori con le figure storiche celebri: quella di superare le immagini consolidate e il forte attaccamento emotivo dei lettori rispetto a individui che essi sentono di conoscere già bene. Gli amanti di Mozart potrebbero trovare sgradevole vederlo dipinto come un ragazzino ambizioso ed egocentrico che, pur comprendendo i sentimenti di sua sorella, non riesce a distogliere lo sguardo dalla propria carriera. La Charbonnier ha risolto il problema (come fanno molti) nel concentrarsi non tanto sul personaggio famoso, quanto sui meno famosi individui che lo circondano. Mozart emerge come una personalità decisa e sanguigna nel romanzo, ma le nostre simpatie si dirigono senza dubbio sulla sorella repressa.”
    Quindi, forse, per lo scrittore non è tanto questione di attenersi a regole che prevedano il rispetto dei fatti, quanto di risolvere un problema narrativo: nel momento in cui mi occupo di, che so, Napoleone, devo fare i conti con il fatto che il lettore sente di conoscere già bene il personaggio.

    @ Laura Costantini: mi è molto piaciuto il tuo intervento. Studiare e poi dimenticare tutto, affinché resti il sapore di un’epoca!

  48. @cinzia, rita e laura.
    trovo assurdo porre un limite temporale per la definizione di romanzo storico. già parlare di ‘romanzo storico’ è una forzatura. come dice la’mico genna il romanzo è romanzo e basta, non importa in

  49. c….o! ho premuto un pulsante ed è saltato tutto. continuo qui.
    …quale epoca sia ambientato. tanto più che oggi il marchio ‘storico’ è quasi marchio infamante che spinge molti a riporre il libro nello scaffale della libreria appena lo nota. ma, accogliendo qui la marchiatura, il detto limite mondadoriano è prettamente politico. ambientare una storia nell’ottocento o nel novecento vuol dire toccare punti ancora senibili. la rivoluzione francese crea l’dea di uno sato etico e ha prodotto napoleone e la sua strutturazione burocratica dello stato, che ha prodotto la restaurazione madre del risorgimento, a sua volta padre della prima guerra mondiale (semplifico). la prima guerra mondiale ha dato la stura alle ideologie che hanno provocato la seconda ecc.
    insomma, c’è il rischio di impantarsi persino nella partitocrazia. ma è visione ristretta e un po’ ignorantella. faccio un esempio parlando del mio ultimo romanzo. la crociata contro ezzelino da romano e poi contro suo fratello alberico sono, pari pari, la rappresentazione nel mondo cristiano del fanatismo islamico con le sue al qaeda e le fatawa. analizzarne le conseguenze di allora dovrebbe essere indispensabile per comprendere cause e trovare soluzioni in grado di porre qualche rimedio oggi. ma, come dicevo, la storia non è maestra, soprattutto a causa dei molti allievi idioti.
    @amico renzo
    tenendo poresente che ho quasi quarant’anni di ricerca storica alle spalle, solitamente mi ci vogliono sei mesi per raccogliere i documenti e altrettanti per scrivere.
    @rita
    concordo con te in gran parte, ma spostare le date non mi sembra giusto. la scansione temporale, secondo me, deve essere rispettata il più possibile.

  50. @Rita e Marco: le date sono le uniche certezze; se modifichiamo quelle, nel romanzo di storico non c’è più niente. E giustamente come dice Marco la scansione temporale, cioè l’ordine logico è indispensabile, altrimenti si corre il rischio di stravolgere il personaggio.

    @Marco: sei mesi anche per quello che hai in cantiere ora? Per il ciclo dei Longobardi probabilmente non sono occorsi sei mesi ognuno, perchè una volta impostato il programma la ricerca è valsa per tutti, vero?

  51. @Marco Salvador. Sono d’accordo con lei. Voler a tutti i costi comprimere dentro un genere un’opera di narrativa è sempre limitativo e restrittivo, tuttavia ai lettori bisogna indicare il mezzo per identificare un libro, anche solo per sapere dove andarlo a cercare negli scaffali delle librerie. Mi pare di capire che le difficoltà maggiori per chi si cimenta a scrivere tali romanzi consista nel fatto di dover sempre mantenersi in bilico tra verità e finzione, tra ricerca e immaginazione. Basta poco a far pendere la bilancia dalla parte del saggio o della narrativa Non lo trova un po’ penalizzante nei confronti della libera espressione artistica?

  52. @ Marco Salvador: noto con molto piacere che ti stai appassionando alla discussione. Per comodità internettesca ti do del tu, sperando che non ti dispiaccia. Sulla definizione del genere sfondi una porta aperta. Chi mi conosce sa quanto il bollino “romanzo storico” mi dia fastidio. Nel mio caso, poi, è facile che si parli di “romanzo storico femminile”, il che mi fa venire potentemente voglia di dare un cazzotto in faccia al definitore. D’altra parte, qui ci è stato chiesto (giustamente) di dare una definizione, e anche se a uno spirito latino la definizione angloamericana da me citata può sembrare assurda, mi sembra anche (paradossalmente) la meno costrittiva e la più qualificante. In tale definizione si fanno rientrare anche “L’isola del giorno prima” di Eco e “Le ore” di Cunningham.
    Riguardo al rispetto delle date, bisogna vedere caso per caso. E’ ovvio che rendere coevi, che so, Napoleone e Mussolini è una scelta un po’ azzardata. Ma se invece ne venisse fuori un’allegoria fantastica sul potere assoluto, magari anche ben riuscita, ci sarebbe forse qualcosa di male? E soprattutto, non sarebbe un romanzo storico? E qui torniamo alla vituperata definizione: io credo che lo sarebbe.

  53. @Rita. Hai scritto due romanzi ed entrambi coinvolgono personaggi storici di primissimo piano. So che ne è nata anche qualche polemica con qualcuno dei loro amatori. Quanto c’è di rischio calcolato in te nel lasciare libera interpretazione alla tua fantasia quando descrivi i loro dialoghi, gli aspetti poco conosciuti del loro carattere, le debolezze?

  54. A mio parere il romanzo storico dovrebbe avere un piede ben saldo nella ricostruzione di un ambiente e/o di fatti del passato (qualunque passato, senza limiti particolari di date: odio gli steccati) e l’altro nell’invenzione e nella fantasia. Suo unico fine dovrebbe essere quello di attrarre il lettore grazie a quella ambientazione, a quella ricostruzione, magari arricchendola per farla scorgere anche sotto una luce diversa o per fare emergere gli agganci con la realtà odierna; ma popi farsi apprezzare per l’invenzione, un po’ come per tutti i romanzi.
    Tra quelli che ho particolarmente apprezzato ci sono sicuramente “I pilastri della terra” di Ken Follett (non che ami particolarmente quell’autore, ma quel libro fu capace di inchiodarmi per nottate intere, nelle quali non riuscivo a posarlo sul comodino), “La quarta verità” di Ian Pears, “La mirabolante avventura di John Lempriere, erudito nel secolo dei lumi” di Lawrence Norfolk (bisogna ammettere che la letteratura anglosassone primeggia ancora nel genere inventato da W. Scott), ma anche un delizioso “La vera storia del pirata Long John Silver” dello svedese Bjorn Larsson, capace di reinventare in quel romanzo sia la storia che la letteratura.
    In Italia ho visto qui citare Tomasi di Lampedusa, ma aggiungerei anche Sciascia, Bufalino e oggi Camilleri (i romanzi storici non “montalbaneschi” come “La stagione della caccia”, “La concessione del telefono”, ecc.).
    Si può parlare di una scuola siciliana di romanzo storico?
    Infine tra i grandi classici non dimenticherei “L’isola del tesoro” di Stevenson, “I tre moschettieri” di Dumas, e, prima di parlare di romanzi in senso moderno, le già citate “Iliade”e “odissea” e le tragedie storiche di Shakespeare (forse la massima espressione nel genere).

  55. @ Salvo: che bella domanda! Molte grazie. Farò un esempio pratico. Il mio nuovo romanzo, come ben sai, prende origine da uno scambio di neonati che avvenne a Modigliana, in Romagna, nel tardo ‘700. La prima presentazione si è svolta nella Biblioteca Comunale di quel graziosissimo paese. Lo scambio di neonati e la figura di Maria Stella Chiappini (la bimba scambiata) è una delle glorie locali, quindi puoi immaginare il dibattito che si è levato in una platea composta da persone che il baratto di neonati ce l’hanno nel sangue. Peraltro, in quel caso, la realtà storica è davvero un’opinione, poiché il baratto è rimasto un mistero irrisolto, e tra i testi antichi che ho consultato sulla faccenda vi sono diverse incongruenze. Alla fine della serata viene da me un signore di Bologna e mi fa: “Io la ammiro per il coraggio che ha nel sottoporsi alla tirannide della realtà storica… e mi chiedo chi glielo faccia fare.” Ecco, mi sembrerebbe di poter essere d’accordo con questo signore: la realtà storica per l’autore può anche rappresentare una tirannide. Perché è arbitraria, almeno in parte.
    Quando ho scritto il primo romanzo non avevo ancora incontrato i paladini della verità, quindi non sentivo di correre alcun rischio. Nel nuovo romanzo l’unico grande personaggio noto è Alexandre Dumas padre, le cui vicende biografiche sono però ignote ai più. Qui i paladini si sono palesati solo a Modigliana. E hanno fatto bene a palesarsi, ed io li ringrazio ancora per averlo fatto. Ma credo che nessuno al mondo potrebbe aver scritto un romanzo sul baratto di neonati che non violasse, almeno in parte, le aspettative di qualcuno di essi. E’ questo il rischio calcolato di cui parli: muoversi nel terreno indefinito che sta tra la propria visione e quella degli altri, tra cautela e libertà.

    Colgo l’occasione per ringraziare tutti quanti stanno dando un prezioso apporto alla discussione, con i loro interventi, e suggerendo titoli di grandi classici.

  56. Mi pare che non si sia compresa la distinzione fra romanzo storico e romanzo di ambientazione storica. Il secondo è molto più frequente del primo e consente alla creatività di avere libero corso, senza vincoli particolarmente ferrei, e probabilmente è quello che è più gradito ai lettori.

  57. Quello che dice Renzo è vero, c’è una sostanziale differenza.
    Ma allora il romanzo storico non nasce neanche con Ivanhoe, personaggio di pura fantasia, e dovremmo escludere pure i Promessi sposi, dove i personaggi storici non sono certo i protagonisti.

  58. A mio modesto parere è sufficiente che vi sia un “aggancio” con una qualsiasi realtà storica documentata. A prescindere dai protagonisti.

  59. Vi cito un esempio di romanzo storico: Ettore Fieramosca di D’Azeglio.
    Ma anche il romanzo di Salvador La palude degli eroi e, per quanto non l’abbia letto, penso anche La strana giornata di Alexandre Dumas. Ora lì ci sono come protagonisti personaggi realmente esistiti e quindi per forza di cose ci sono dei paletti che limitano un po’ le possibilità dell’autore. Altra cosa invece è se prendo un romanzo, bellissimo, come I pilastri della terra, dove i protagonisti sono inventati, ma non l’epoca, non il fenonemo della costruzione delle cattedrali, e quindi assistiamo a una vicenda di pura fantasia inserita in un preciso contesto storico.

  60. Noto che il dibattito si è lievemente infiammato… e di questo sono contento. 🙂
    Ho sempre creduto – e continuo a credere – nella possibilità di scambiarsi opinioni (persino opposte, talvolta) mantenendo intatto il rispetto reciproco. È possibile – anzi, probabile – che alla fine dello “scambio” ciascuno rimanga delle proprie idee. Oppure è possibile che qualcuno cambi il proprio punto di vista.
    Ma ciò che importa, ciò che conta, è che il confronto sano e rispettoso è sempre occasione di crescita.
    Ed è quello che sta accadendo qui.
    Da questo confronto sto imparando molto.
    Per questo vi ringrazio tutti di vero cuore.

  61. @Rita. Che vor di’ “in una platea composta da persone che il baratto di neonati ce l’hanno nel sangue” ? Se li scambiano per gioco? tu dai un neonato a me, io do tre vecchietti a te? Io per esempio ho sempre avuto questa fisima: di essere stato scambiato nella culla. Troppo fine ed elegante per essere figlio di contadini siciliani, sicuramente appartengo a qualche famiglia di imprenditori lombardi. Magari sarò stato scambiato con Renzo, lui sì che ha carattere siculo.

  62. Quel che intendo dire che anche nella definizione generica di romanzo storico sarebbe opportuno fare questa doverosa distinzione. Del resto, per quanto concerne il fantastico, lo stesso comprende numerose branchie, dalla fantascienza al gotico e così via, proprio perchè diversi sono gli aspetti tipici. E alloia perchè non farla per il romanzo storico?

  63. Le domande che ho posto all’inizio avevano la funzione di far partire la discussione… poi, naturalmente – così come è accaduto – posso trovarsi nuovi spunti.

  64. Sulla questione dei generi e delle etichette…
    In linea di massima sono d’accordo con voi. “Rinchiudere” un’opera dentro un genere è sempre una forzatura.
    Il mio romanzo “Identità distorte”, per esempio, (ormai estinto perché fuori commercio… ma lo cito perché qualcuno di voi lo ha letto) è stato definito: giallo, noir, thriller, romanzo sociale, romanzo filosofico, ecc.
    Tuttavia la necessità di “catalogare” un libro dipende da esigenze di mercato (a volte deprecabili, sì) e dalla necessità di fornire un’indicazione al lettore.

  65. È implicito che la distinzione “vera” bisognerebbe farla tra libri buoni e libri meno buoni.
    Ma anche in questo caso sarebbe frutto di opinioni personali e soggettive.

  66. @Massimo: Identità distorte appartiene più al genere Fantastico, secondo me, perchè ipotizza una società futura, anche se ormai assai prossima (un po’ come Orwell).

  67. @Minchia Renzo. Se io per leggere un romanzo devo fare tutte queste distinzioni, me ne passa la voglia. E’ un romanzo storico? O d’ambientazione storica? E i protagonisti sono reali al cento per cento? O solo in parte? L’autrice si è mantenuta fedele all’epoca? O ha trasgredito. Meglio leggere un romanzo d’evasione, almeno se mi piace lo posso consigliare ai detenuti. In più mi fai indispettire la Charbonnier. Compra 10 copie de “La strana giornata di Alexander Dumas” e diffondilo, avrai reso un grande servizio alla Letteratura.

  68. Tornando al “romanzo storico”, il buon Carlo – qui sopra – cita “L’isola del tesoro” e “I tre moschettieri”.
    Sono romanzi storici o di avventura?
    E un romanzo storico che contenga, al suo interno, un enigma che deve essere risolto… deve definirsi “giallo storico”?
    “Il nome della rosa” di Umberto Eco è un giallo storico?
    È ovvio che con le definizioni possiamo giocarci all’infinito, anche se ogni tanto ci aiutano… semplificando (a volte anche troppo, lo so).

  69. @ Marco Salvador
    Hai scritto: “qualcuno mi ha fatto notare un mio strafalcione. non ‘de’ comportamenti’ ma ‘de’ componimenti’ ”

    Il tuo è stato un semplice lapsus. Io, invece, non ho giustificazioni… ho copiato pedissequamente il titolo dello scritto di Manzoni da te citato.
    Ricapitolando, il titolo corretto è “Del romanzo e, in genere, de’ componimenti misti di storia e invenzione” di Alessandro Manzoni.

    Per farmi perdonare vi indico un link dove, se non sbaglio, è possibile scaricare il testo: http://www.letturelibere.net/download.php?id=391

  70. @Salvo: Rita Charbonnier è “in parte” mantovana e mai, dico mai, andrei contro una virgiliana.

    @Massimo: ritengo che le definizioni dei generi debbano prescindere dall’opera. Tanto per farti un esempio, Italo Calvino, nei suoi romanzi, mescola sapientemente diversi generi, con risultati di straordinaria qualità, e quindi come potremmo definirli? La definizione di un genere, a parte i soliti concetti di dottima dei letterati, è più una scelta e una necessità degli editori.

  71. Ha ha ha ha haaaaaa!!!! Salvo, mi fai ammazzare dalle risate davanti al computer come una mattaaaa!!!
    Ma no che non mi sono indispettita… con un attimo di calma rispondo… eh eh eh… VI ADORO!

  72. Rita, stai in guardia! Salvo non fa altro che rivedere ossessivamente il video della dama dell’Ottocento alla Fiera del libro… in cerca della scollatura. 😉

  73. Ne approfitto per segnalare che domani, a Roma, alle 20.00 allo spazio Rinascita del Democratic Party – Terme di Caracalla – Andrea Ballarina presenta “Il trionfo dell’Asino”.
    Amici romani… accorrete!

  74. Caro Massi,
    io distinguerei anche il romanzo storico da quello storico metaforico ( a cui alludevo citando Calvino e che ha un rappresentante meraviglioso in Consolo).Il padre di questo genere nella letteratura italiana moderna è stato Alessandro Manzoni, lui ci ha insegnato cos’è il romanzo storico metaforico. Naturalmente c’è un’assoluta diversità tra i romanzi di Walter Scott da cui sembra che Manzoni abbia preso l’idea e I promessi sposi del Manzoni. In Scott non c’è metafora, sono delle storie romanzate, mentre il romanzo storico è un romanzo immediatamente metaforico perché parla del passato per illuminare il presente. Infatti quel passato che si è scelto di raccontare dice i fatti della nostra contingenza, del nostro presente: Manzoni parlava del ‘600 per parlare dell’800 perché nell’800 viveva gli stessi rischi. I rischi delle stesse follie, degli stessi marasmi sociali, degli stessi fanatismi, delle stesse pesti, delle stesse condanne, delle stesse torture. Il romanzo storico deve porsi il problema dei rapporti di frza, degli ultimi e dei primi. Deve sapere che la storia si gioca sul piano delle ideologie e delle apparenze.
    Quindi, credo che il romanzo storico – indipendentemente dal distacco temporale che l’autore ha dal periodo che racconta – sia quello in cui l’esame del tempo scruta comunque il presente e ci interroga.
    A mio avviso il romanzo storico deve giocare questa critica alle ideologie del Potere sul piano della lingua.
    La lingua deve accompagnare l’attraversamento nel tempo, dirlo ed evocarlo. Scardinarlo. Rivelarlo.

    Complimenti a tutte le voci in campo. Veramente interessantissime. Bravi!

  75. @Massimo: Calvino è uno dei pochi scrittori italiani non siciliani che mi piace. Sta a vedere che questa mia mania per gli autori siciliani sembrerebbe convalidare l’ipotesi di Salvo di uno scambio di neonati. E in effetti Salvo alto, biondo, occhi azzurri ha poco del siciliano…

  76. Allora, nel merito del romanzo storico e di ambientazione storica… è chiaro che tra l’uno e l’altro c’è differenza, nessuno lo può negare. Al momento, pensa, Renzo, io sto scrivendo proprio un romanzo di ambientazione storica. I protagonisti sono personaggi di invenzione e lo sfondo storico, reale, è quello della Roma durante l’era fascista. Olé! Ci sono anche dei personaggi realmente esistiti e famosissimi, peraltro in un’epoca diversa, ma sono sullo sfondo e sono evocati dai personaggi principali che vivono nel Ventennio. Ma proviamo un po’ a immaginare uno di noi lettori in giro per una libreria qualunque, una grossa, di quelle che hanno i generi sugli scaffali. Dove cercherà un romanzo del genere? Nello scaffale dei “romanzi di ambientazione storica”, distinto da quello dei “romanzi storici”? L’edotto commesso gli spiegherà la differenza, e lui se ne andrà a casa col cervello che fuma, dopo aver comprato l’ultimo libro della saga di Harry Potter. Inoltre, quello che mi infastidisce (e ti prego di scusarmi davvero, Renzo, è un mio problema) è lo stabilire delle regole che portano ad affermare quel che è giusto fare e quel che non è giusto fare. Sono d’accordo con Massimo che implicitamente afferma qualcosa tipo: l’unica cosa ingiusta da fare è un romanzo brutto. Per questo rimango così caparbiamente affezionata alla definizione degli angloamericani: per essere definito storico un romanzo deve raccontare fatti accaduti prima della nascita del suo autore. Mi sembra semplice e perfetto. Racchiude in sé lo storico e l’ambientato nella storia, e soprattutto tutti i bellissimi romanzi che i nostri amici hanno citato fino a qui. Racchiude in sé anche libri assai particolari, multitemporali, come “Le ore” di Cunningham… magari “La Storia” di Morante no, perché lei durante la Seconda Guerra era ampiamente nata… ma chissenefrega! E’ forse il romanzo più bello, profondo, terribile e catartico che abbia mai letto in vita mia! Leggere “La Storia” è un’autentica esperienza!
    Il seguito alla prossima puntata…

  77. No, mi sa che passo e chiudo. Avete detto tutto voi. E in realtà io ho commesso un errore logico. La distinzione tra romanzo storico e di ambientazione ha poco a che fare col posizionamento negli scaffali nelle librerie. Se ci attenessimo esclusivamente alle regole della vendita saremmo tutti fregati. Per il resto, viva gli scambi di neonati tra la Lombardia e la Sicilia e viva Letteratitudine e buonanotte!

    P.S. @ Salvo: “Che vor di’ ‘in una platea composta da persone che il baratto di neonati ce l’hanno nel sangue’? Se li scambiano per gioco? tu dai un neonato a me, io do tre vecchietti a te?” Non riesco a smettere di ridere…

  78. @Rita: qui si sta semplicemente a discutere, a portare avanti delle opinioni. Se tutti la pensassimo allo stesso modo, che vantaggi avrebbe la discussione? Del resto, proprio ritornando a Calvino, autore emblematico, lui è inclassificabile, e non è che abbia scritto della robetta, ma dei capolavori. L’importante è che uno scriva con il piacere di scrivere, perchè poi questo il lettore non superficiale lo avverte. Personalmente, se dovessi scrivere un romanzo storico, preferirei uno di ambientazione storica, un po’ come tutti i miei racconti sul tema della guerra, in cui i personaggi sono inventati, ma inseriti in un contesto preciso e documentato.

  79. @Rita: aggiungo che Simona, molto opportunamente, ha introdotto un’ulteriore distinzione, aggiungendo il concetto di romanzo storico metaforico, di cui esistono non pochi esempi e quasi sempre di elevato valore.

  80. P.P.S. Renzo, vedo che ami molto le distinzioni… va bene. A me dell’intervento di Simona è piaciuta moltissimo questa frase: “il romanzo storico è un romanzo immediatamente metaforico perché parla del passato per illuminare il presente”. Condivido e sottoscrivo. Grazie, Simona, per questa affermazione. Il romanzo storico ha senso soprattutto quando riesce a parlare del presente due volte.

    Grazie, ari-abbracci a tutti e ari-buonanotte!

  81. E allora ritorniamo a quanto detto dall’amico Marco Salvador, e cioè che l’uomo dalla storia non impara nulla, perchè finisce con l’essere una serie di eventi ripetitivi, un po’ come la moda, che un anno si ripresenta con modelli ispirati magari a una trentina di anni prima.

  82. Ecco la sorpresa…
    Ho appena aggiornato il post inserendo un video dove Cinzia Tani, Rita Charbonnier e Leda Melluso discutono del rinnovato interesse per il romanzo storico. L’intervista è condotta dall’amica Elisabetta Bucciarelli. Il video è stato registrato il 16 maggio 2009 per Booksweb.tv in uno studio all’interno della XXII Fiera Internazionale del Libro di Torino.
    Andate a guardare sopra, in alto, sul post…

  83. Auguro la buonanotte a Renzo… e ringrazio Carlo per aver segnalato il video che ha appena messo in rete booksweb.tv su “Letteratitudine, il libro”. Ringrazio booksweb.tv ed Elisabetta Bucciarelli (sempre lei) 🙂

    Colgo l’occasione per dirvi che molto probabilmente questo dibattito, che è ancora in corso, finirà su “Letteratitudine, il libro” (vol. II).

  84. Massimo, gran bella idea quella di mettere il video, sono molto felice! Hai fatto benissimo!
    Ancora grazie e buonanotte davvero a tutti (adesso giuro che spengo il computer…) e un abbraccio.

  85. Nei prossimi giorni mi piacerebbe approfondire la conoscenza dei quattro libri protagonisti di questo post e dei loro autori.
    Per il momento auguro a tutti una serena notte.

  86. Forse può valere la pena – almeno sotto il profilo culturale e letterario – riascoltare dalla viva voce di Benedetto Croce (una straordinaria conferenza tenuta nel 1936 alla Radio Svizzera) la sua distinzione tra romanzo storico (creato senza distorcere le fonti documentali) e le “vite romanzate” – “dove spesso si alteravano i documenti e si mescolavano spiritose invenzioni” – nonchè il suo affrettato vaticinio in relazione ad una rapida decadenza (che purtroppo non c’è stata) delle biografie e/o vite romanzate. Questo è il link della Radio Svizzera dove in un elenco di registrazioni (Voci) si trova il rarissimo audioclip della conferenza:
    http://www.rsi.ch/navigaletteratura/static.html

  87. Le opinioni sono assai interessanti; le distinzioni sono millimetriche; le teorie sono molte e quasi tutte plausibili. L’unico problema è che mi succede la stessa cosa che succede a George in Tre uomini in barca: ho tutti i sintomi e “l’unica cosa che mi parve di poter concludere di non avere era il ginocchio della lavandaia”.
    Non per svalutare i sagaci distinguo e i doverosi puntini sulle “i”, ma forse vale anche per il romanzo storico il principio di indeterminazione di Heinsenberg secondo il quale non si può misurare un fenomeno senza alterarlo. Per non rinunciare del tutto a tentare una definizione, da oggi comincerò a dire che scrivo dei non-istant books; peccato che assomigli un po’ alla non sfiducia.

  88. @rita
    contivido, io ho provato ad oppormi alla catalogazione. sia con francesca sia con mariagiulia. nulla da fare, cara scrittice al “femminile” (sana incazzatura la tua!). ma toglimi una curiosità: renzo ti fa mantovana; ma non sei una magnagatti?
    @tutti.
    cerco di spostare il problema dalle problematiche tecniche del romanzo storico alla sua funzione, con una domanda: il romanzo “storico” può o no servire a interpretare il presente? l’essere umano non è sempre lo stesso, stessa la corruzione dell’animo insita nel potere, anche il più piccolo?
    uno spunto: il mio maestro, il compianto ptof. c.g. mor, il più grande studioso di diritto intermedio della seconda metà del novecento, ai miei dubbi d’interpretazione di certi comportamenti e vicende medievali mi suggeriva: chiudi gli occhi, sposta personaggi e situazioni ad oggi e giudica con parametri moderni. troverai la soluzione, perché la principale motivazione dell’uomo, non importa l’epoca, è sempre la stessa: la sopravvivenza a se stesso. e per ottenerla, e diceva proprio così, fica, denaro e potere aiutano molto; e la donna, aggiungerva, tende a premiare chi li ottiene, per salvaguardare la propria discendenza.
    troppo maschilista, il buon mor?

  89. se dovessi indicare il romanzo storico per eccellenza non avrei dubbi. sceglierei ‘guerra e pace’. per quanto mi riguarda non solo è il più importante romanzo storico, ma è il più importante romanzo.

  90. caro salvador, sono d’accordo con lei. il romanzo storico può servire a interpretare il presente. certo che sì. secondo me, anzi, è una delle sue funzioni principali.

  91. e aggiungo un’altra cosa. un romanzo che aiuta a interpretare il presente, partendo dal presupposto che l’uomo è sempre lo stesso, ha una sua precisa ragion d’essere. altrimenti è destinato a perdersi, a essere dimenticato. sono troppo drastico?

  92. @giorgio amato.
    ti sei fatto un amico. però i lettori premiano i maneggiatori di “codici”, templari e simili amenità degne di voyager (se scrive cussì?). vuol dire che la maggioranza degli amanti del genere è composta da idioti?
    il mio target di lettori ha una cultura medio-alta ed è tra i 30 e i 40 anni. be’, capisco che il giovane deve sognare, imedesimarsi in un eroe invincibile e senza macchia che conquista la nobile e bellissima pulzella. ma gli ultraquarantenni? che sia l’andropausa che li riporta all’adolescenza?
    io sono tra i finalisti dell’acqui storia, ma so già che probabilmente non vincerò: la giuria dei lettori, quella che ha l’ultima parola, è composta da miei fuori target. amen.

  93. caro salvador, intanto mi affretterò ad acquistare il suo libro. mi ha proprio convinto.
    su camilleri farei un distinguo tra la saga di montalbano, che è ormai tirata un po’ troppo per le lunghe, e altri libri. il birraio di preston, per esempio, mi è piaciuto parecchio.

  94. @massimo
    su di me non troverai nulla, neppure una foto con banfi che pure ha utilizzato, per la sua ultima fatica rai, un mio romanzo (non storico, ovvio). sono un pessimo pr di me stesso, lo dice anche mia moglie.

  95. I primi romanzi di Camilleri sono bellissimi: ironici, scoppiettanti, pregni di quella sicilianità che in pochi sanno descrivere. Poi si è un po’ appiattito con la serie di Montalbano, come le telenovelle che cominci a seguirle col biberon e sei ancora lì a vederle con la barba bianca. Camilleri potrebbe pubblicare i necrologi di Agrigento e continuerebbe a vendere ugualmente. E’ uno di quei fenomeni commerciali che sfuggono alle regole. Ogni tanto si verificano. Come Letteratitudine, del resto. Chissà quali sono le componenti che ne hanno fatto un fenomeno della comunicazione virtuale. Probabilmente Camilleri non passerà alla storia della letteratura, nonostante il grande successo di pubblico. D’altra parte neanche Bufalino viene più ricordato, ma dire che è solo una moda mi sembra molto riduttivo.
    @Un caro saluto ad Andrea Ballarini.

  96. @salvo
    sarà che io sono rimasto a tomasi, brancati, patti ecc
    e a proposito, anche se non quaglia con l’argomento del dibattito: l’eleganza è la nobiltà sono proprie dei lombi contadini; qui in friuli, dove il matrimonio morganatico era norma fino a tutto il ‘400,
    cioè prima che venezia minacciasse la perdita dei feudi, sposare una villica era garanzia di miglioramento genetico. e poi, salvo, pensa a torino: me le ricordo le torinesi elegantissime e signorili, ma racchie da far piangere; poi sono arrivati i siciliani e finalmente le grandi gnocche sono comparse in via po.

  97. Interesante, vivace e istruttivo seguire questo dibattito.
    “Le memorie di Adriano” (yourcenar), questa è la mia scelta. Non so se sia il romanzo dei romanzi ma certemente è il mio preferito. Mi ha commosso la vicenda umana, mi ha interessato, incuriosito, stimolato a saperne di più, la vicenda storica.
    E, come dice giustamente Simona, ha acceso una lucetta sul presente.
    Il romanzo storico può essere ambientato anche nell’ieri più prossimo, ciò che lo distingue è l’ambientazione che assurge al ruolo di protagonista, così come il protagonista stesso.
    Un romanzo storico deve appassionare e coinvolgere come qualunque vicenda che non abbia luogo nè tempo, ma allo stesso momento deve essere supportato da riferimenti rigorosi e da una ricerca attenta su luoghi, linguaggi e modi di sentire.

  98. @Marco:il mio target di lettori ha una cultura medio-alta ed è tra i 30 e i 40 anni. be’, capisco che il giovane deve sognare, imedesimarsi in un eroe invincibile e senza macchia che conquista la nobile e bellissima pulzella. ma gli ultraquarantenni? che sia l’andropausa che li riporta all’adolescenza?

    Allora io sono l’eccezione che conferma la regola…

  99. @Marco carissimo. Mi piace questa tua presa di posizione in favore dei contadini. Io ogni tanto amo sparare le mie battute e come si sul dire “chi ci capita ci capita”. Pensa, se qualcuno mi chiede cosa ho imparato a fare di buono nella vita, rispondo: “Scrivere romanzi? ma quando mai. Fiabe? Peggio che andar di notte. Articoli di critica letteraria? ho rovinato involontariamente più d’uno scrittore (povera Rita). La ricotta! la cosa che più mi riesce meglio di fare è la ricotta. Densa, schiumosa, tenera. Così come mi ha insegnato mio padre. Le gnocche sono dappertutto, basta saperle trovare, anche aiutandosi con l’immaginazione. E se ti capita di incontrare a Torino una dama in costume ottocentesco, con una cuffia in testa, ingolfata come un furgone a nafta, con la fantasia cerchi di immaginarla in dècolletè, se no ti prende un colpo e schiatti all’istante.

  100. rispondo brevemente alle prime due domande: il romanzo storico, ovvero il genere letterario che preferisco in assoluto, per catturarmi deve innanzitutto essere veritiero, rispecchiare dati, fatti, luoghi e personaggi, svelarmisi come un film. Deve esserci coerenza, moltissima coerenza con la realtà del periodo in cui il romanzo viene ambientato… e proprio grazie a questa coerenza, spingermi ad approfondire una volta terminato il libro. Ecco, un romanzo storico ben scritto, deve sapermi incuriosire al di là del libro stesso.
    Ciao

  101. Prima di tutto rivolgo i miei complimenti agli autori di questi romanzi , così come ai recensori. Dei tre autori conosco Cinzia Tani che ho spesso seguito nei suoi interessanti programmi culturali.

    Gli altri comincerò a conoscerli leggendo i lorto libri 🙂

    A proposito del romanzo storico mi viene da pensare agli studi del critico Petrocchi sul romanzo dell’800; in particolare il critico rileva alcuni elementi necessari affinché si possa parlare di romanzo storico:

    – l’esplodere delle passioni civili
    – il gusto degli ampi affreschi storici
    – la necessità di rendersi conto del modo di vita delle classi popolari.

    Se mancano questi, o se non sono messi in primo piano, non si può parlare di romanzo storico.

    A tal proposito ad esempio c’è stato chi ha ritenuto I Vicerè di De Roberto ‘romanzo storico imperfetto’ perché alcuni di questi elementi passa in secondo piano, mentre in opere come quella manzoniania (più volte citata) questi elementi si trovano fortemente accentuati fin da principio.

    Non è facile etichettare un romanzo come storico, soprattutto nel momento in cui ci sono varie sfumature e, ribadisco anche in questa sede, i generi sono un parametro puramente convenzionale.

    P.S. scusate la brevità di questo intervento ma dovevo essere celere… approfondirò prestissimo.

    Un caro saluto a tutti i letteratitudiniani e ai brillanti autori.

  102. Saluti a tutti, scrittori e lettori. Un breve commento sul ‘romanzo storico’ che è pane per i miei denti. Concordo pienamente col primo intervento di Simona Loiacono. Il romanzo storico per me è quello che nasce dallo struggimento per voci perdute, storie dimenticate… Non inserisco personaggi di fantasia, non invento situazioni. Semplicemente cerco di analizzare gli eventi e, se ci riesco, scendere in profondità. Grande attenzione alla documentazione e cura nella scrittura. E anche un certo lavoro sullo stile. Ma queste sono cose essenziali per ogni romanzo.
    Per riassumere, le mie tre regole auree per il romanzo (storico o no) sono:
    1) non inventare nomi
    2) raccontare storie vere
    3) lavorare sullo stile

  103. Arrivo tardi il tempo sfugge il pipik scalpita e non posso leggere tutti i commenti.
    Ciao a tutti uguaglio però.

    ho sbirciato delle cose che dieca Simona Lo Iacono e sono d’accordo. Ma mi preme dire e chiedere a chi vuole rispondere, è la connotazione storica qualcosa che deve venire prima? Devo io scrivere un romanzo in quanto che storico, o la storia l’ambientazione sono degli attributi per quanto importanti di un qualcosa che è più importante o anteriore? COsa questa che riguarda sempre il genere: il genere è la direzione di una strada o il suo arredo (l’alberi, il numero di corsie etc.)?
    Io adolescenzialmente odio i promessi sposi, lo ammetto.

  104. Non amo i romanzi storici. LI ADORO.
    Sono felicissima che Massi dedichi questo post ad un genere – ma esistono ancora i generi? – che è parte della mia vita. Datemi il tempo di leggere tutti gli interventi e scriverò qualcosa di sensato.

  105. Concordo pienamente con Tuena, anche se io credo – sono manzoniana in questo – che storia e invenzione sapientemente mixate ci diano un buon romanzo storico. Invenzione non significa stravolgere la storia. Vuol dire inventare, TROVARE dal latino. Trovare in un periodo storico lontanissimo la storia che vogliamo raccontare. Nel rispetto massimo delle fonti, della domìcumentazione. La saggistica è altro. Il romanzo storico deve darci lo spirito di un’epoca: lo spirito vivifica, la lettera uccide (diceva un certo libro di genere indefinito… 🙂 ).
    Ciao Sabina!
    🙂
    Io amo tantissimo “I Vicerè” e non credo di sbagliarmi quando affermo che ritengo quel libro uno dei pochi a poter stare a pari con i contemporanei francesi o russi, per il suo senso profondo del trapasso da un’epoca all’altra, per il sentore di decadenza che li pervade, per l’attenzione al particulare – in ogni senso. Italianissimo, prima ancora sicilianissimo ma molto europeo, un affresco di ampio respiro che farebbe bene rileggere contro l’ombelicalismo…

  106. Un caro saluto a Mavie… cara, concordo con te. MEMORIE DI ADRIANO è uno dei miei libri preferiti in assoluto. Ambientazione – lo spirito, il Geist detto alla tedesca… dell’epoca è ricostruito con un fare che ha del miracoloso dalla Yourcenar, di cui amo tanto anche L’OPERA AL NERO e IL COLPO DI GRAZIA – , documentazione ai limiti del maniacale, scrittura geniale.
    A proposito: il cinema e la letteratura sono fratelli in questo. Visconti quando girava IL GATTOPARDO voleva che nei mobili ci fossero lenzuola asciugamani… perché, anche se non si sarebbero visti, lui per fare quel film aveva bisogno di sentire che ci fossero. Non so se è una leggenda metropolitana ma la posto perché mi sembra indicativa: quando uno scrittore di romanzi storici si documenta, ha bisogno di sapere molte più cose di quelle che scriverà. Non serve documentarsi per dire quanto si è stati bravi a rapinare archivi: le fonti sono come le lenzuola nei cassetti, poi parte il valzer e il Gattopardo balla con Angelica.

  107. Di Camilleri amo molto i romanzi storici: IL BIRRAIO DI PRESTON, frizzante storia postunitaria, bellissima, un fuoco di fila di invenzioni linguistiche. Anche UN FILO DI FUMO, oppure IL RE DI GIRGENTI, poetico e struggente. La saga di Montalbano è intrattenimento intelligente: diciamo la verita. Chi ha saputo ricreare un mondo? Personaggi seriali, sì, ma che si evolvono, in un’ambientazione insieme realistica e memoriale? Ironia, la Sicilia splendida e terribile…
    Di Simenon i romanzi non-Maigret sono meravigliosi, ma i Maigret sono classici ormai.
    Chi legge i romanzi storici di Conan Doyle? Solo Holmes è rimasto. Un mito.

  108. fatto riposino e poca voglia di scrivere, ma felice sorpresa per l’arrivo qui di un maestro: tuena.
    è un pezzo che non ci si sente, filippo. tutto bene?
    la tua idea di romanzo storico rispecchia la tua scrittura, visto che anche essa è struggente, profonda e complessa, ma non concordo con te se non sul terzo punto, e modificherei il secondo in “raccontare storie possibili”. altrimenti la mistificazione evitata nell’agire di personaggi inventati potrebbe esplodere nella psicologia di persinaggi reali. un abbraccio.
    @salvo
    a te la charbonnier ha segnato la vita. immagino quali erotici sogni hanno suscitato le sue vesti ottocentesche. prova inviarle un ups con ricotta, si sa mai che cada ai tuoi piedi. in quanto alla cultura contadina è una mia picca: cerco di infilarla in tutti i mie romanzi, per darle pari dignità di quella cittadina. la stessa battaglia che feci quasi trent’anni fa per l’archeologia. e ora, scavare necropoli rurali, fornisce un’enormità di informazioni sulla vita quotidiana. vedi gli ultimi strati scavati a poggibonsi (quelli longobardi).

  109. @ Elio Capriati: grazie per aver postato la MERAVIGLIOSA pagina web della radio svizzera nella quale si possono ASCOLTARE le voci di… ommioddio… Buzzati, Calvino, Moravia… sto ascoltando Moravia proprio adesso… viva la Radio Svizzera!!!
    @ Andrea Ballarini: in bocca al lupo per la presentazione di stasera a Roma.
    @ Marco Salvador: grazie della tua risposta. Lo scambio di battute tra te e Salvo è una delle cose più simpatiche e frizzanti di questa discussione! In effetti sono nata a Vicenza, ma la mia famiglia ci si trovava di passaggio; da piccola, per via del lavoro di mio padre, ho girato la penisola in lungo e in largo, Mantova compresa. Riguardo all’affermazione che citi… ehm… “la principale motivazione dell’uomo, non importa l’epoca, è sempre la stessa: la sopravvivenza a se stesso. e per ottenerla, fica, denaro e potere aiutano molto; e la donna tende a premiare chi li ottiene, per salvaguardare la propria discendenza.” Chiedi se l’affermazione sia troppo maschilista? Oh, qui toccherebbe aprire un post apposito… Riguardo a Camilleri, un po’ di tempo fa ho letto la sua biografia di Pirandello, “Biografia del figlio cambiato”. Mi è piaciuta molto. Peraltro mi sembra che lui preferisca definirsi un ‘narratore’, più che uno ‘scrittore’. Il che può significare molto.
    @ Salvo Zappulla: “E se ti capita di incontrare a Torino una dama in costume ottocentesco, con una cuffia in testa, ingolfata come un furgone a nafta, con la fantasia cerchi di immaginarla in dècolletè, se no ti prende un colpo e schiatti all’istante…” Ha ha haaaaaa!
    @ Valerio: grazie per aver postato la definizione di romanzo storico della Britannica: “un romanzo ambientato in un periodo storico e che intende trasmettere lo spirito, i costumi e le condizioni sociali di un’epoca passata con dettagli realistici e fedeltà (in alcuni casi solo apparente) ai fatti storici”. Insomma, la fedeltà ai fatti è qualcosa di assai importante per molti di noi…
    @ zauberilla: “la storia e l’ambientazione sono degli attributi per quanto importanti di un qualcosa che è più importante o anteriore”. Personalmente sposo questa ipotesi.
    @ Maria Luisa Riccioli: “Invenzione non significa stravolgere la storia. Vuol dire inventare, TROVARE dal latino. Trovare in un periodo storico lontanissimo la storia che vogliamo raccontare.” Sottoscrivo. E che bello il tuo blog letterario!
    Adesso scappo che devo finire di leggere un libro che mi hanno prestato e stasera dovrò restituire al legittimo proprietario. Guarda un po’, un romanzo storico… almeno così mi sembra di poter dire: è uno dei polizieschi di Lucarelli ambientati tra la fine del fascismo e il dopoguerra. Sono veramente dei bei romanzi. Quando leggo un libro bello mi sento così felice! Immagino anche voi…

  110. @marco, è ovvio che quelle regolette valgono per me, nel senso che non mi sogno di stabilire regole per altri. Te e molti altri scrittori scrivono benissimo secondo le loro. Proprio in questi giorni ho finito di leggere un bellissimo romanzo Cavallo nero carbone di Robert Olmstead (Einaudi) che stravolge le mie regolette, salvo la terza che è poi quella che conta: lavorare sullo stile.
    Se hai stile, ogni cosa che scrivi risulta credibile, efficace, reale.

    Una seconda osservazione sui termini cronologici del romanzo storico. Penso che non esistano. Nel senso che si può scrivere un romanzo storico anche scrivendo del presente. E’ il rapporto che l’autore stabilisce con il contesto a determinare la sua dimensione storica.

  111. @filippo
    vale altrettanto per me e la seconda parte è magistrale. resta un problema e per non farla lunga ti racconto un fatto. a caldeggiare entusiaticamente la pubblicazione del mio primo romanzo è stato un noto critico letterario. gli ho chiesto se poteva scrivere qualcosa su ‘il longobardo’ e la sua risposta è stata secca: non recensisco romanzi storici, l’altro, se vuole, sì (il riferimento era a quello sugli anziani pubblicato da fernandel). e la sua espressione aggiungeva: non perdo tempo con generi minori. l’ho mandato in mona. perciò, e non parlo solo per me, hai voglia a lavorare sul testo, rimani sempre un ‘plebeo’ della letteratura quanto scrivi romanzi storici, non importa quante copie vendi.
    questo sta peraltro provocando un fuggi fuggi, tanto che due autori piemme, cercando riconoscimenti, usciranno con romanzi sulla prima e seconda guerra mondiale. e uno dei dei due, ottime vendite, mi ha confessato: parlando di fascismo, qualcuno dovrà pure prendermi in considerazione. non mi interessa se ciò accadrà: io continuo per la mia strada.
    @renzo.
    e menomale che si sono persone come te.

  112. Grazie, Rita! Ti dò del tu… sei brava e anche spiritosa…
    Verissimo, come dice Tuena, che l’autore stabilisce un rapporto con il contesto narrato – adesione, opposizione… – e determina la funzione storica del romanzo che scrive.
    Penso a Sciascia: la storia gli serve per interrogare il passato ponendogli domande del presente. Ho letto quest’estate IL SORRISO DELL’IGNOTO MARINAIO: bellissimo, pieno di passione civile, spazia da Antonello da Messina al 1860 e all’oggi. Intelligenza, ottima scrittura, senso della denuncia del male perpetrato oggi come ieri.

  113. @marco, sai che da un po’ di tempo mi punge vaghezza di scrivere un western? poi mi mandi l’indirizzo di quel recensore…

    @maria lucia, io penso sempre che quello che sappiamo su Napoleone e la campagna di Russia lo dobbiamo a Tolstoi. Chi si ricorda un cronista d’allora? Guerra e pace è così vivo che sembra scritto in presa diretta. Erano passati quarant’anni dalla guerra…

  114. Che emozione sentire Benedetto Croce! Grazie del suggerimento… ecco. Il romanzo storico ci fa sentire la voce del passato, quando non c’erano magnetofoni a registrarla. Ma per il principio di indeterminazione di Heisenberg, studiare qualcosa significa già modificarla. E certo, con la nostra sensibilità, cultura, mentalità. Dura spogliarsi dei filtri. Immedesimarsi.

  115. Devo dire che tutti i romanzi di Filippo Tuena sono storici, forse tranne quello fantastico ambientato a Milano. Anche Salvador ha una naturale propensione per il romanzo storico (la trilogia dei longobardi docet), ma scrive anche del mainstream e con esiti egualmente soddisfacenti.
    Insomma, se uno è uno scrittore, che cura al massimo il suo stile e ovviamente ha anche talento, è in grado di scrivere più generi, spesso e volentieri mescolandoli in un’unica opera. Al riguardo basta leggere uno dei romanzi di Calvino, dove sovente c’è il fantastico in più declinazioni, tranne il primo che scrisse, Il sentiero dei nidi di ragno, un’opera sull’esperienza partigiana di grande valore e dove c’è già qualche accenno a voli di fantasia.

  116. Una volta chiesi a un intellettuale siciliano cosa ne pensasse di una tale scrittrice che pubblica per Mondadori. Una che ha vinto anche premi prestigiosi. La risposta fu: “Ha una scrittura molto forte, peccato si limiti a scrivere romanzi storici, non si impegna più di tanto, si limita a svolgere il compitino da 6”. Mi chiedo a cosa sia dovuta questa scarsa considerazione per il romanzo storico. Forse perchè esige soprattutto un lavoro di ricerca, tecnico, in cui la creatività ha un ruolo secondario?

  117. Sposo in pieno tutto ciò che dice Maria Lucia. Quando anche io ho parlato di “invenzione” nel mio intervento di ieri mi riferivo esattamente a ciò. E concordo in pieno su ciò che dice dei Vicerè, di Yourcenar, di Camilleri.
    E mi vanno benissimo anche le regole che suggerisce Filippo Tuena (che bello il suo “Ultimo parallelo”, a mio parere il più bel libro italiano del 2007, almeno tra quelli che ho letto), purchè, come lui stesso ammette, si possano liberamente infrangere: che altro ci stanno a fare le regole sennò?

  118. Personalmente credo che ogni buon romanzo che si rispetti debba avere alle spalle una accurata ricerca,come dice Salvo, un lavoro tecnico,anche se parliamo di un dato campo di fiori,poi magari scopriamo che in quel periodo non esiste tale fioritura.Insomma il talento è sì fatto di creatività e capacità immaginativa,ma deve necessariamente avere dietro una accuratezza dei dettagli che ,se uno è bravo, non deve lasciar trasparire ,lasciando al lettore solo un senso di stupore nella magia della storia raccontata.Credo che il romanzo storico,fatto bene,come gli ospiti qui,sia una prova difficilissima,dura in cui quel mistero di unione tra tecnica lavorativa e immaginazione raggiunge il suo apice.In bocca al lupo agli autori per queste avventure di scrittura!

  119. A Salvo rispondo che la classificazione delle cose in “generi” porta troppo spesso a perversioni quale quella da lui stesso riportata, peraltro simile a quella già citata da Marco Salvador.
    Nella vita credo ci siano perversioni di altro genere, che danno ben maggiori soddisfazioni. Anche la pratica del sado-maso, per esempio, credo possa essere per taluni ben più soddisfacente che lo stabilire maggiore o minore valore ad un “genere” piuttosto che a un altro.

  120. @Carlo S sono d’accordo con te.Penso inoltre che sia poco attuale parlare di generei con parametri così rigidi come quelli adottati dal critico di cui accennava Salvo.La letteratura attuale ha dimostrato di creare opere interessantissime che si pongono a cavallo fra più generi,creando a loro volta nuovi generi letterari,insomma è un ciclo in evoluzione,rispecchia anche un pò i tempi .Qualche riferimento fondamentale tuttavia resta,ma non regole vere e proprie.

  121. @Carlo, ti prego, non parlare di perversioni, che poi si equivoca e mi accusano di pensare sempre a una cosa. A me, che ormai vado in giro col pannolone.

  122. @Salvo anche quello può essere sexy…dipende dall’occhio di chi guarda….(off topic).

  123. Notevole la provocazione di Salvo: il romanzo storico “esige soprattutto un lavoro di ricerca, tecnico, in cui la creatività ha un ruolo secondario”. La creatività avrebbe un ruolo secondario?! Accipicchia! E’ ovvio che non è così. Da parte mia non so dire per quale ragione la considerazione dei critici nei confronti dello storico sia così scarsa. Mi sembra che generalmente sia molto più considerato il noir – o sbaglio? Ed è quantomeno curioso. Forse su questo aspetto potrebbero illuminarci coloro che di romanzi storici ne hanno scritti e pubblicati più di due (come la sottoscritta) e quindi hanno idee più chiare e più fondate.
    Adesso vi saluto e vado a restituire lo storico di Lucarelli all’amico che me l’ha prestato (“Via delle Oche”. Mmm… mi era piaciuto molto di più “Carta bianca”).
    Un abbraccio e buona serata a tutti!
    P.S. Massimo ci ha gentilmente invitati a parlare dei nostri ultimi romanzi, belli evidenti in cima al post, con tanto di copertina e presentazione/critica, e nessuno ancora l’ha fatto… come mai? Chi comincia di bello?

  124. @Fg. Non è che conosci dalle tue parti un buon centro di riposo per anziani? Io e Renzo stiamo cercando un luogo lontano da tentazioni dove scrivere un romanzo storico a quattro mani. Si intitola: “Il ricordo della gnocca”. Dopo 50 anni dalla sua scomparsa (soprattutto per Renzo), penso che possiamo inserire il testo in questo genere.

  125. @Rita. Brava. Finalmente riporti la conversazione su argomenti seri. Allora scrivo seriamente. Io quando ho finito di leggere “La strana giornata di Alexander Dumas” l’ho apprezzato per quello che era: un’opera letteraria capace di trasmettermi emozioni e sensazioni piacevolissime. E ci tengo a precisare che io sono un lettore molto esigente, non sempre riesco a portare a conclusione le mie letture. Non mi sono chiesto se Maria Stella Chiappini fosse realmente esistita, se il padre adottivo fosse realmente un balordo appartenuto a questo mondo. Non me ne fregava nulla. Semplicemente mi ero gustato una storia intrigante, conversazioni piacevolissime tra Dumas e la chiromante, situazioni che mi tenevano incollato alle pagine. Ecco, credo che quando un autore è in grado di offrire questo al lettore, ha raggiunto il suo scopo. Il resto lascia il tempo che trova.

  126. Crado che si debba riflettere anche sul rapporto tra storia e lingua. Tra ricerca di verità, nella storia, e ricerca di libertà nella parola.
    Ce ne offre un esempio splendido Vincenzo Consolo, che del rapporto parola-storia ( e recupero della parola per non perdere la memoria) ha fatto il suo segno distintivo.
    Al punto che dove cambia la sua visione della storia, muta anche l’espressione linguistica.
    Tra il primo romanzo, La ferita dell’aprile (Mondadori, 1963) e l’ultimo,
    Lo spasimo di Palermo (Mondadori, 1999),infatti, il rapporto tra storia e parola — e quindi il senso della metafora del viaggio nel tempo— si modifica profondamente.
    Se fino a Retablo il viaggio è avventura conoscitiva e utopia, che dilatano il tempo, ingannano la morte ( la causa vera del viaggio, per Fabrizio Clerici, il protagonista di questo libro, “è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno dell’ere passate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni intendo come sostanza de’ nostri desideri”) , nella produzione successiva perde ogni connotazione conoscitiva, diventa
    nostos, amara verifica in un «paese piombato nella notte», «nell’Europa
    deserta di ragione»; Chino Martinez, il protagonista de Lo Spasimo di Palermo, ha infatti la consapevolezza che ogni viaggio è «tempesta, tremito, perdita, dolore, incontro e oblio, degrado, colpa sepolta rimorso, assillo senza posa».
    La modificazione del senso della storia modifica anche quello della parola,con un’accentuazione sempre più espressiva ed espressionista del suo linguaggio, e con un utilizzo in funzione narrativamente destrutturante, rispetto a un tradizionale concetto di romanzo.

    Volevo quindi chiedere ai quattro bravissimi autori in che modo concepiscono, nei loro romanzi, il rapporto tra lingua e storia, tra ricerca e parola.

  127. @Salvo e Rita: Brecht diceva che la prima funzione sociale di un’opera teatrale era il diverimento e questo concetto può essere esteso al romanzo. Quindi, al di là di ogni considerazione, è importantissimo, se non vitale, che un’opera letteraria avvinca, coinvolga il lettore, rendendo così possibile anche il sotteso invito alla riflessione su tematiche che possono essere anche complesse. Del resto è più facile far funzionare la mente se questa è stimolata adeguatamente. Una scrittura scorrevole, una trama interessante sono le basi per poter approfondire un discorso.

  128. @Renzo. D’accordissimo. Alla base di ogni opera frutto della creatività, sia essa un’opera letteraria, artistica, musicale, ci deve essere la capacità di trasmettere emozioni, non necessariamente divertimento, perché se quell’opera mi commuove fino alle lacrime ha raggiunto ugualmente il suo scopo. Ma lo scrittore (o l’artista) ha anche un ruolo più impegnativo, si può rendere portatore di messaggi, attraverso metafore o in maniera diretta, ribellarsi alle tirannie, educare il suo popolo, contribuire a spezzare catene, ristabilire verità. (Quanti vivono in esilio. Quanti sono stati censurati). Questo e altro ha il dovere di fare chi si considera un letterato.

  129. A proposito di censure: ne ho letta una nel sito di Rita Charbonnier, che davvero non si sa se ridere o piangere. La dice lunga su come siamo ridotti in Italia.

  130. Intanto un saluto e un ringraziamento personalizzato ai nuovi intervenuti: Elio Capriati (bellissimo il link che ci hai fornito), Marina, Giorgio Amato, Mavie Parisi, Paola, Valerio, Sabina Corsaro (che – tra le altre cose – è Dottore di Ricerca in Storia Moderna… con una tesi di dottorato sulla Sicilia Post-Risorgimentale attraverso un percorso tra Storia e Letteratura).

  131. Maria Lucia, possiamo dirlo che anche tu sei alle prese con la scrittura di un romanzo storico (ambientato in Sicilia) o è un segreto?
    Be’, ormai non è più un segreto…
    🙂

  132. @ Salvo: è quel che ho detto io. Quanto al divertire, non significa solo far ridere, ma anche commuovere, e infatti deriva da “devertere”, letteralmente volgere altrove, e poi per estensione ricreare.

  133. Un saluto e un ringraziamento speciale per i suoi interventi all’amico scrittore Filippo Tuena.
    Abbiamo avuto modo di discutere, qui a Letteratitudine, su due libri di Filippo:
    – “L’ultimo parallelo” (Rizzoli): http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/13/maurizio-de-giovanni-filippo-tuena/
    – “Michelangelo, la grande ombra” (Fazi): http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/09/michelangelo-la-grande-ombra-incontro-con-filippo-tuena/

  134. @Renzo. Bene. Vedi che siamo in sintonia! Speriamo che FG trovi il posto giusto, sono sicuro che scriveremo un capolavoro.

  135. Rinnovo a Marco Salvador gli auguri e i complimenti (ne avevamo già “parlato” per mail) per essere arrivato alla finale dell’ambitissimo premio acqui storia.

    Marco, non essere pessimista. Se vinci offri da bere a tutti, eh…

  136. Bella la domanda di Simona, dove chiede – ai quattro autori ospiti – in che modo concepiscono, nei loro romanzi, il rapporto tra lingua e storia, tra ricerca e parola.

  137. Torno alle domande iniziali del post.
    Vorrei riproporle e inserire, in sequenza, le risposte dei quattro protagonisti di questo post… in modo da consentire un miglior raffronto tra le opinioni espresse.

  138. 1. QUALI CARATTERISTICHE DOVREBBE NECESSARIAMENTE POSSEDERE IL ROMANZO STORICO?
    ANDREA BALLARINI: Credo che si possa definire storico un romanzo ambientato in un’epoca anteriore a quella in cui viene scritto, che narri di avvenimenti almeno in parte inventati e per cui sia necessario reperire una documentazione in fonti disperse (altri libri, documenti, filmati, persone eccetera); insomma, un romanzo per scrivere il quale ci si debba procurare un certo numero di informazioni specifiche perché i caratteri del periodo trattato o gli avvenimenti narrati non sono universalmente noti; altrimenti forse si tratta di attualità.

    RITA CHARBONNIER: Mi sembra che un romanzo, per essere definito storico, debba obbedire a un semplice criterio: quello di essere stato scritto da qualcuno che all’epoca dei fatti narrati non era ancora nato. Oppure, deve essere stato scritto un minimo di cinquant’anni dopo i fatti narrati. La definizione (giustamente elastica) non è mia, ma è presa a prestito dalla “Historical Novel Society”: la trovate qui. http://www.historicalnovelsociety.org/definition.htm

    MARCO SALVADOR: Le caratteristiche, in realtà, sono riducibili a una sola: la credibilità. I personaggi di fantasia devono essere inseriti nell’epoca storica nella quale “vivono” in modo “possibile e probabile”. Le loro azioni, i sentimenti e i pensieri devono essere compatibili con la cultura, con le situazioni politiche, religiose, morali, e con la mentalità del tempo. In altre parole rimangono validi i dettami del Manzoni esposti in “Del romanzo e, in genere, de’ componimenti misti di storia e invenzione”.

    CINZIA TANI: Non so definire cronologicamente il “Romanzo Storico”. Io scrivo solo romanzi storici. Anche i miei libri sui delitti sono storici. Ma ultimamente alla Mondadori mi hanno detto che il romanzo storico si ferma alla Rivoluzione Francese!!! Ovviamente non sono d’accordo. Secondo me è storico anche un romanzo ambientato negli anni trenta e quaranta, cioè quando io ancora non c’ero. Tutto ciò che comporta lo studio di un periodo che non è il nostro, secondo me è storico. come per il cinema. Se si pensa a un film negli anni cinquanta lo si definisce “in costume”, quindi storico perché bisogna ricostruire gli ambienti, i costumi ecc.

  139. 2. QUALE DOVREBBE ESSERE LA SUA FUNZIONE?
    ANDREA BALLARINI: Credo che la funzione di un romanzo storico sia la stessa di un romanzo tout court, cioè raccontare una storia in modo coerente e coinvolgere il lettore nel particolare universo narrativo creato. Anzi, forse il massimo sarebbe che il lettore pensasse di essere un contemporaneo dei personaggi.
    E’ vero che, a volte, il racconto storico consente di parlare di costanti dell’animo umano che si ritrovano quindi anche nella contemporaneità quotidiana, senza doversi impelagare in schieramenti ideologici. In altre parole, il romanzo storico può mandare un messaggio, purché non lo faccia apposta. Altrimenti è meglio mandare una mail.

    RITA CHARBONNIER: La funzione del romanzo storico non mi sembra debba essere troppo diversa da quella del romanzo puro: raccontare una storia nella quale diverse persone possano riconoscere qualcosa di sé o del proprio mondo.

    MARCO SALVADOR: Raccontare del passato per parlare del presente è una. (mica vero che la Storia è maestra.) L’altra è il poter essere un primo passo per approfondire un personaggio o un’epoca. In sintesi, un non noioso ma intrigante approccio alla storia.

    CINZIA TANI: Amo leggere i romanzi storici più degli altri romanzi perché mi offrono qualcosa in più, qualcosa che spesso non conosco e quindi mi sollecitano maggiormente a capire, confrontare, andare a cercare, studiare ecc.

  140. 3. CHE COSA – VICEVERSA – DOVREBBE EVITARE?

    ANDREA BALLARINI: Peccato numero uno: annoiare il lettore che ha tirato fuori dei soldi per leggerti con supermuscolari esibizioni narcisistiche. In altre parole: se uno dovesse scrivere una storia in cui a un certo punto, tra le tante cose che accadono, passa il camion che raccoglie l’immondizia, forse per questo dedicherebbe due pagine a spiegare i minuti dettagli tecnici della raccolta, dello stoccaggio e dello smaltimento dei rifiuti? Può darsi, ma poi perché meravigliarsi se il lettore sbadiglia? Come diceva Voltaire, il segreto per annoiare è dire tutto.
    Peccato numero due (più grave del primo): trasformare il periodo storico in oggetto in un fondale teatrale dipinto, usandolo essenzialmente per i suoi aspetti pittoreschi e scenografici, senza curarsi della pertinenza dei pensieri e delle azioni dei personaggi, con il risultato di far assomigliare il romanzo ai mobili in stile, in tutto uguali a quelli antichi, tranne per il fatto che si vede che sono finti. Fuor di metafora, un complotto di magia politica trovo abbia senso nell’Europa del Seicento, ma che rischi di essere un tantino anacronistico nel 1960. Oddio, in letteratura si può fare tutto, però…


    RITA CHARBONNIER: Il romanzo storico dovrebbe soprattutto evitare di essere un pedante sfoggio della cultura storica dell’autore!

    MARCO SALVADOR: La falsificazione. Faccio un esempio per quanto riguarda il medioevo: con trenta chili di ferro addosso, con altri due in una mano e sei nell’altra (spada e scudo), le capriole, i duelli acrobatici, i movimenti felini, sono una incongruenza come le patate e il mais in una zuppa del duecento. Senza parlare dei castelli hollywoodiani e disneyani, dei principi azzurri e delle principesse del pisello. In particolare, sempre per il medioevo e in particolare per la condizione femminile dell’epoca, consiglio a tutti il trecentesco “De costumi e de’ reggimento delle donne” di Francesco da Barberino.

    CINZIA TANI: Temo chi sotto il cappello di “romanzo storico” fa passare romanzetti approssimativi, privi di una ricerca accurata, inverosimili. Avventurette. E ce ne sono tanti. Mentre per quanto riguarda i romanzi seri come quello della Charbonnier che ho presentato in un’occasione ma anche l’ultimo di Melania Mazzucco, io li consiglierei alle scuole. Sarebbe molto più facile e appassionante studiare la scuola se magari durante le vacanze si potesse leggere un romanzo di questo genere.

  141. 4. QUAL È, A VOSTRO GIUDIZIO, LO STATO DI SALUTE DEL ROMANZO STORICO, OGGI, IN ITALIA?

    ANDREA BALLARINI: Anche se non sono un esperto di romanzi storici, ne ricordo alcuni che negli ultimi anni mi sono piaciuti, tipo “Q” di Luther Blissett o “Manituana” di Wu Ming, giusto per citarne due degli stessi autori. Molto interessanti ho trovato quelli di Luca Masali incentrati sulla figura dell’aviatore Matteo Campini, dove a un impianto storico inappuntabile si accoppiano contenuti fantascientifici: ne risultano dei libri assolutamente originali che mi pare schiudano interessanti prospettive al futuro del genere.

    RITA CHARBONNIER: Di solito si sente affermare che l’interesse per questo genere sta crescendo. A livello personale posso dire che quando è uscito il mio primo romanzo, 3 anni fa, mi capitava di sentirmi fare domande del tipo: ma scusa, che razza di libro è? Cioè, parla di Mozart, ma non è un saggio su di lui o sulla sua musica… e poi ci sono dei personaggi realmente esistiti, ma scusa, Mozart quel giorno è veramente andato in quel posto a quell’ora? Eccetera. Ecco, per il nuovo romanzo queste domande non vengono più poste. Quindi forse è vero che c’è una maggior consapevolezza del genere.

    MARCO SALVADOR: A parte gli amici qui presenti (complimenti per la scelta, Massimo) e pochi altri, c’è un mucchio di “autoracci” in giro, e questo sta ghettizzando il romanzo storico. E dico “autoracci” non perché non siano degli ottimi scrittori, ma perché fanno soprattutto fantasy . Oddio, buon genere il fantasy se non lo si spaccia per realtà. Uno dei maggiori colpevoli del decadimento è il malefico “Codice da Vinci”, con la scarica di templari e Graal che a provocato. Una vera dissenteria. Ancora un po’ si dirà che la teoria della relatività era già scritta in aramaico in qualche cripta d’oriente! Non ci sono misteri nella storia, solo angoli oscuri ancora da esplorare.

    CINZIA TANI: Gli italiani non hanno una grande tradizione romanzesca. Di solito sono più bravi a scrivere poesie e racconti. Ma se penso a due romanzi italiani del passato mi rendo conto che sono proprio storici: I promessi Sposi e Il Gattopardo.
    Oggi penso che il romanzo storico in Italia goda di buona salute, credo però che siamo solo all’inizio. Ma forse è un modo per recuperare una tradizione romanzesca molto carente nel nostro paese.

  142. 5. E NEL RESTO DEL MONDO?

    ANDREA BALLARINI: Nel resto del mondo mi sembra che il romanzo storico sia sempre stato piuttosto bene. Basta fare un giro in libreria per rendersi conto di quale straripante salute goda il genere. Fosse anche solo per la statistica, quella mole roba non potrà essere tutto ciarpame, no?

    RITA CHARBONNIER: Nel mondo anglosassone il romanzo storico è sempre andato fortissimo e continua a farlo. Non a caso esiste addirittura una società dedicata a promuoverlo (la Historical Novel Society che citavo prima)

    MARCO SALVADOR: Vale quanto detto per l’Italia.

  143. 6. DOMANDA-SONDAGGIO: QUAL È IL PIÙ GRANDE ROMANZO STORICO DI TUTTI TEMPI (QUELLO CHE POTREBBE ESSERE ELETTO COME “RAPPRESENTATIVO” DEL GENERE)? ha detto:

    6. DOMANDA-SONDAGGIO: QUAL È IL PIÙ GRANDE ROMANZO STORICO DI TUTTI TEMPI (QUELLO CHE POTREBBE ESSERE ELETTO COME “RAPPRESENTATIVO” DEL GENERE)?

    ANDREA BALLARINI: Anche se non lo è, perché ce ne sono di migliori dal punto di vista letterario e della pregnanza dei contenuti, nella mia mente – e nelle mie prime esperienze di lettore – romanzo storico vuol dire “I tre moschettieri”: il miglior plot mai scritto.
    Tra quelli più recenti, sicuramente “American tabloid” di James Ellroy: un misto di realtà e fiction di incredibile potenza sostenuto da un rigore stilistico unico.

    RITA CHARBONNIER: Il più grande romanzo storico di tutti i tempi… mmm… che ne dite de I PROMESSI SPOSI?

    MARCO SALVADOR: Difficile citare un solo titolo. Comunque, oltre al capostipite Scott, a Guerra e pace, all’ottimo Gattopardo, mi tocca proprio votare “I promessi sposi”. Però da leggere almeno dopo i venticinque anni (quando l’odio scolastico si è affievolito) e saltando tutte le “dotterie” storiche.


    CINZIA TANI: Per quanto riguarda i miei preferiti non ce n’è uno in particolare. Posso citare Il dottor Zivago, Guerra e Pace. Ma un meraviglioso romanzo storico è anche Il vangelo secondo Gesù di Saramago se vogliamo parlare di scrittori contemporanei.

  144. Ecco… mi sembrava interessante e utile riproporre le domande (e le risposte fornite) raffrontandole in questo modo.
    Naturalmente se qualcun altro ha voglia di fornire la propria risposta è il benvenuto…

  145. Adesso vorrei cominciare ad approfondire la conoscenza dei quattro libri presentati.
    Comincerei con quello di Cinzia Tani…
    So che Cinzia tra breve partirà all’estero e potrebbe avere problemi di connessione.

  146. Le frasi inserite come epigrafe mi hanno sempre incuriosito.
    L’epigrafe scelta da Cinzia Tani per il suo “Lo stupore del mondo” è la seguente (l’ho trovata molto bella):

    La distanza che separa l’incredulità dalla fede
    [è un soffio;
    quella che separa il dubbio dalla certezza è del pari
    [un soffio;
    passiamo dunque serenamente questo prezioso
    [spazio di un soffio
    perché anche la nostra vita è separata dalla morte
    [da un soffio.

    Omar Khayyam

  147. Ancora per Cinzia…
    una domandina sulle tue abitudini di scrittura.
    Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

  148. Bene. Nei prossimi giorni porrò domande simili (ma anche differenti) agli altri tre “protagonisti” di questo post.
    Ciascuno di voi, naturalmente, può porre domande.
    E la discussione sul romanzo storico in generale… continua!!!

  149. Cari amici, per il momento chiudo qui e vi auguro una serena notte.
    Perdonatemi se vi ho inondato con i miei commenti… ma purtroppo (tranne qualche eccezione) posso intervenire solo la sera.
    Ancora grazie a tutti e… buona prosecuzione.

  150. Avrei una curiosità per la gentilissima Cinzia Tani- a parte i complimenti per la sua attività ricchissima di spunti-.Quando si scrive di un personaggio storico così conosciuto e di cui è stato abbastanza scritto,quanta parte relativa all’invenzione lo scrittore si può concedere senza sentirsi un pò traditore di una figura storica già in parte disegnata?
    p.s.Cinzia Tani mi sarebbe tanto piaciuto seguirla in uno stage quest’anno a Roma da Perrone ,ma purtroppo non mi è stato possibile,spero che lei si renda nuovamente disponibile.( per il racconto noir).cari saluti

  151. una curiosità. pongo una domanda a tutti, scrittori e lettori.
    tempo fa, da qualche parte, avevo sentito dire che all’estero alessandro manzoni non è preso in grandissima considerazione come, per es., walter scott. è vero? vi risulta?

  152. @Simona. In che modo concepiscono nei miei romanzi storici il rapporto tra lingua e storia, tra ricerca e parola?
    Credo che nello scrivere un romanzo ambientato in un’altra epoca, soprattutto se è un’epoca lontana, sia necessario inventarsi una lingua. Nessuno ha idea di come parlassero veramente due locandieri nel Seicento; certo, ci si può fare un’idea sui testi dell’epoca, ma la lingua scritta è quasi sempre abbastanza lontana dalla quella di tutti i giorni. E allora non resta che cercare una soluzione che evochi il sapore di altri tempi, cercando tanto di evitare anacronismi ridicoli (difficilmente un locandiere del Seicento dirà “Bbella regà!” per esprimere approvazione), quanto di ammorbare il lettore con una lingua ricalcata sullo stile dell’epoca (quello delle fonti scritte, ovviamente, che è tutto quel che abbiamo): scelta quest’ultima che magari soddisferà l’ego dell’autore e i pruriti di qualche filologo pazzo, ma che inevitabilmente romperà le balle ai lettori.

  153. Discussione più che stimolante. Complimenti a tutti. Anche io sceglierei i Promessi Sposi come esempio eccellente di romanzo storico italiano. In assoluto opterei per Guerra e Pace.
    Sandra però non ha tutti i torti. se i Promessi Sposi, che è anche un romanzo storico, è il più grande romanzo italiano, è anche vero che impallidisce di fronte ai più grandi romanzi di altri paesi. Da questo punto di vista ha ragione Cinzia Tani quando sostiene che non abbiamo una grande ‘tradizione romanziera’.

  154. @Andrea Ballarini: è la soluzione che anche io prediligo. Proprio perchè nell’inventare la lingua si fa un ulteriore viaggio. E nel viaggio (nel penetrare i segreti di un neologismo, di una percezione, di una traccia) ci si imbatte nella stupefacente capacità creativa della parola. La parola che crea (o ricrea) e la storia che rivive.
    Credo che sia una delle avventure più stimolanti per uno scrittore.
    Le soluzioni, naturalmente , possono essere tante ( e legate al gusto dell’autore).
    Ma credo molto nella pietas della parola, nel suo sapersi adattare alla voce che interpreta, alla sua miracolosa assonanza con un destino.
    Trovato quel destino ( e i suoi segreti, i suoi lamenti, i suoi misteri), penso che l’approdo della ricerca linguistica sia avvenuto. Che la parola restituisca al lettore e allo scrittore il suo scopo originario. Saper vedere. Oltrepassarci. Tagliare la nostra carnalità con uno sguardo obliquo, calante, impresso di un guizzo (forse imprendibile, ma per un attimo nostro) di conoscenza.

  155. Una domanda per Marco Salvador, di cui sono un lettore. Tra i suoi libri qual è quello a cui sente più legato, e perché?

  156. non è vero che a noi manca una ‘tradizione romanziera’. forse ci mancherà una tradizione di romanzi d’avventura (ci rimane salgàri) o epici. ma se la prima deriva dalla caremza di stimoli (colonie inesistenti ed emigrazioni di massa tardive), la seconda era quasi impossibile in un ottocento paralizzato da risorgimentalismo e clericalismo. poi, da poveri sudditi di potenze estere com’eravano, vergognosi dell’essere servi (franza o spagna pur che se magna), c’era la tendenza a mimetizzarsi fra i padroni e di conseguenza ad ammalarci di esterofilia. anche noi abbiamo il nostro ‘delitto e castigo’, quel grande romanzo di emilio de marchi intitolato ‘il cappello del prete’, ma vuoi mettere riempirsi la bocca di un cognome quasi impronunciabile come dostowyeski (che pure è un capolavoro)? chi ha letto de marchi fra di voi?
    invece, per la poca considerazione odierna del romanzo ‘storico’, a parte la colpa degli editori che marchiano con detta dicitura merdate terrificanti, anche qui, in parte, la questione è politica. i maestri del pensiero a lungo hanno asserito: il nostro paese, l’italietta, è stato un disatro per gran parte della sua storia; la monarchia ridicola, la prima guerra mondiale un crimine, il fascimo e il colonialismo tragiche buffonate ecc ( il neoralismo ci ha messo del suo nel mostrare i lati più miseri e degradati e sordi ha consolidato l’immagine di un italiano buffone e inaffidabile). potrei continaure per ore, ma giungo al punto: chi afferma il contrario è un idiota reazionario, probabilmente un fascista o, al limite, un amerikano che vuol creare un’epica tipo la loro che l’hanno fondata su dei bovari criminali e massacratori di indiani. l’ho provato sulla mia pelle. dopo l’uscita de ‘il longobardo’, una domanda mi ha perseguitato pure nelle paludate interviste rai: ma hai scritto un romanzo leghista? e pensare che l’avevo scritto proprio per combattere il montante celtsmo della mia regione!

  157. ‘il cappello del prete’ è un buon libro, ma paragonarlo a ‘delitto e castigo’ è un po’ ambizioso.
    insisto. la tradizione del romanzo italiano, che pure c’è, non è lontanamente paragonabile a quella francese, inglese o russa.
    dostowyeski è più difficile da scrivere che da pronunciare. infatti si scrive dostoevskij.

  158. @rino.
    intanto grazie per leggermi. risponderti è dura. sarà banale dirlo, ma son tutti ‘figli’. però ‘la vedentta del longobardo’ (orribile titolo voluto fa piemme) mi è particolarmente caro perché sono stati pochi coloro che hanno indivudato ‘la seconda lettura’ (c’è sempre nei miei romanzi), una alchemica trasmutazione del mercurio applicata all’animo umano.

    @andrea.
    inventare una lingua può essere un espediente interessante, ma testi in volgare d’epoca (magari solo gli interrogatori del sant’uffizio presenti in ogni diocesi), a partire dal ruzzante, non mancano. insomma, si sa come parlavano due tavernieri del seicento.

  159. comunque faccio tanti complimenti a lei, salvador, che ammiro e di certo la leggerò. la parte finale del suo precedente commento mi ha fatto sorridere.
    e mi scusi per il mio di prima, non volevo sembrare presuntuoso od arrogante.

  160. @lberto.
    perdonato. è che qui scrivo di getto e non controllo. comunque, comincia dall’ultimo. ‘la palude degli eroi’. un anno di riscritture. ciao, e senza rancore.

  161. ‘la palude degli eroi’ allora. affare fatto. lo leggerò con piacere e le scriverò privatamente.

  162. @ Simo. Tu ne hai scritto uno solo di romanzo, ma non dimentichiamo che al primo colpo ti sei aggiudicata il Vittorini Opera Prima (oltre al grande successo di pubblico che stai ottenendo, anche conseguenza del premio ma è ancora più importante del premio). Insomma, come dire, hai tutta l’autorevolezza necessaria per lasciare un segno importante in questo dibattito. La parola, l’uso del linguaggio che hai fatto tu nel tuo romanzo, a mio parere va oltre la ricerca, l’approfondimento, il calarsi nell’epoca in cui è ambientato il testo. Io parlerei, nel tuo caso, di sperimentazione linguistica. La parola come panacea contri i soprusi, l’arroganza dei potenti, la parola portatrice di un mistero arcano, magia e incanto, bestemmia e purezza. Ci ricordi che la comunicazione è la condizione primaria dell’essere umano. Ritornando a parlare degli odiati generi, ritengo che “Tu non dici parole” si colloca solo parzialmente tra i romanzi storici, è un romanzo sospeso tra misticismo e superstizione, tra reale e fantastico, tra verità e leggenda, tra mistero ed esoterismo ha una scrittura lirica e visionaria, uno stile personalissimo e inconfondibile.

    @ Marco. Credo che ben presto diventerò un tuo fan sfegatato.

  163. @ Salvo Zappulla
    Quand’è che secondo te un romanzo si può collocare integralmente tra i romanzi storici?

  164. @Annalisa. Boh, che ne so. Io non ne ho mai scritti, non ne sarei neanche capace, al massimo riesco a mettere insieme componimenti poetici di basso pregio.

  165. E allora, di riflesso, come fai a dire che “Tu non dici parole” di Simona Lo Iacono si colloca solo parzialmente tra i romanzi storici?
    🙂

  166. @Carissima Annalisa. Intendevo dire che la nostra Simo si colloca al di sopra di qualsiasi genere.

  167. A Filippo Tuena: sono d’accordissimo… anzi, se c’è un metodo per comprendere meglio un personaggio o un’epoca storica è proprio leggerne la trasfigurazione letteraria, anzi LE trasfigurazioni letterarie…
    Io credo che la letteratura sia come i sogni: trae i suoi elementi dal reale ma poi li trasfigura. Nonostante l’apparente deformazione un sogno può rivelarci a noi stessi più di quello che traspare dalla nostra vita conscia.
    Un romanzo è un sogno ad occhi aperti, un sogno fatto in presenza della ragione. Tramite le maschere – le PERSONAE – dei personaggi, tramite le loro azioni, l’ambientazione storica o contemporanea, i romanzi sono rivelatori di una cultura, di un’epoca, una spiritualità, una poetica individuale e storica…

  168. @avviso ai futuri scrittori.
    come membro della giuria di un importante premio letterario, ho appena gettato dalla finestra l’ennesimo romanzo con scrittura sincopata. quasi più punteggiatura che parole, frasi di una o due parole. inoltre anacoluti, anafore e anadiplosi a iosa. stale alla larga da certe pessime scuole di scrittura.

  169. Anacoluti,anafore e anadiplosi………mammamia,solo a nominarle mi pare di evocare la mummia di Tutankamon, sono anche peggio della febbre suina secondo me.Evitare,evitare,se le eviti non ti uccidono.
    (Ha ragione Marco Salvador……..).

  170. In attesa delle risposte di Cinzia Tani (credo che rientrerà in sede, a Roma, stasera… per poi ripartire) passerei ad approfondire la conoscenza proprio del libro di Marco Salvador: “La palude degli eroi”.
    Ma intanto vorrei approfondire la conoscenza dell’autore del libro…

  171. Sul sito della Piemme leggiamo questa scheda su Marco Salvador:

    È nato a San Lorenzo, in provincia di Pordenone, nella casa in cui vive tutt’oggi. Ricercatore e storico con un interesse particolare per il Medioevo, è autore di numerosi saggi. Per Piemme ha pubblicato una trilogia ambientata in epoca longobarda: Il longobardo, che ha vinto il premio “Città di Cuneo per il Primo Romanzo-Festival du Premier Roman de Chambéry” ed è in corso di traduzione in varie lingue, La vendetta del longobardo e L’ultimo longobardo. Per Fernandel ha pubblicato due romanzi d’impegno civile: La casa del quarto comandamento, che ha avuto due diverse trasposizioni teatrali e del quale sono stati opzionati i diritti cinematografici, dedicato alla condizione degli anziani nelle case di riposo, e Il maestro di giustizia sul problema dell’eutanasia.

    http://www.edizpiemme.it/pm/pmauthor.view?id=6328

  172. Invece, caro Marco, l’autobiografia che hai scritto sul tuo sito ha un taglio diverso:

    AUTOBIOGRAFIA
    (comunque e sempre provvisoria)
      Sono nato a San Lorenzo, un piccolo paese contadino del Friuli occidentale, il 10 novembre. Sul finire di una fredda notte, anticipatrice di una gelida brinata. L´anno era il 1948, memorabile per le frequenti e disastrose grandinate. Diciannove giorni dopo mio padre morì. Stava per commemorare la morte di mia sorella (1947) e festeggiare l´anniversario di matrimonio (1946). Ora, visto che pure mia figlia è nata a novembre e che l´incidente fatale di mia madre è accaduto a novembre, nessuno si stupirà se questo mese mi dà una certa agitazione. Nel bene e nel male.
      Ho frequentato i primi quattro anni delle elementari nel mio paese, in due pluriclassi. I, II e III con una maestra; la IV con un´altra, assieme a quelli di V che, ormai al giogo nei campi, potevano sfasciarti la faccia con una semplice manata. Ma nonostante mia madre pretendesse da me abiti puliti, una chioma piuttosto lunga e qualche goccia di colonia, la mia vita scorreva felicemente. E i miei coetanei profumati di stalla, rattoppati e liberi come fringuelli non mi coglionavano. Neppure per i bottoni rossi della mia tunica da chierichetto (tutti li avevano neri) e la cotta con pizzo rinascimentale da monsignore.
      Poi si misero in mezzo i parenti e amici. A nove anni lasciai la grande casa dove ero nato, e dove vivevamo da soli io e mia madre, e finii come interno dai Salesiani del collegio di Pordenone. Ricordo il primo dettato. Fin lì, avendo le maestre per casa, risplendevo per media dei voti. Al primo dettato salesiano (dieci righe con la regola che, partendo da dieci, ad ogni errore di ortografia si perdeva un punto) presi un bel -15. Ripetei la quinta elementare e odiai i salesiani. La vita era dura. Ci si alzava alle sei e mezza e si andava a dormire alle nove: circa quindici ore di lezioni e studio interrotte da una messa, una funzione religiosa e sole due vere ricreazioni, il tutto regolato dal suono della campanella o dal fischietto del Consigliere. Una severità da scuola militare, con regole ferree su comportamento, modo di stare a tavola, parlare, muoversi, rifare il letto, pulizia personale e così via. Però, oggi lo ammetto: devo ai salesiani gran parte di quello che so e che so fare. Mi hanno insegnato i ´metodi´. Come apprendere, come affrontare i problemi, come cavare il massimo dalle poche doti in possesso. Il tutto a suon di esercizi spirituali, analisi logica e versioni dal/al latino e greco.
      Ci stetti fino in quarta ginnasio. Alle soglie della quinta, dopo una vacanza estiva durante la quale rimasi fulminato dalla meraviglia del femminino, puntai i piedi e mi rifiutai di tornare in ´carcere´. Mia madre m´impose una scelta: o il classico in collegio o un diploma fuori. Scelsi la seconda opzione, con suo enorme dispiacere. Immeritatamente, e solo grazie ai miei nove in italiano e storia, divenni perito chimico. Furono anni goderecci, un´anticipazione del ´68, curiosi, ribelli, allegri, ideologici eppure senza odio e violenza. Quindi il tentativo di raddrizzare le cose, di tornare agli interessi veri con l´iscrizione a filosofia a Trieste prima e il trasferimento alla facoltà di psicologia a Padova poi.
      Le mie esperienze lavorative sono state varie e non tutte soddisfacenti. Sono partito come responsabile del settore AIL in un grande compagnia assicurativa e ho finito con l´occuparmi dei problemi degli anziani nelle case di riposo e di altri in istituti per umanità ´in sofferenza´. In realtà, ogni mia scelta è stata frutto di un compromesso o del mescolarsi di caso e necessità.
       Nell´insieme il tutto non è stato granché gratificante. Ma ho avuto una grande fortuna: una famiglia stupenda, sempre accanto a me, a partire da mia madre. Nel 1969 conobbi quella che è mia moglie da trentatré anni. Una donna splendida, in tutti i sensi. Da essa ho avuto due figli. Un maschio nel 1977 e una femmina nel 1986, dei quali vado orgoglioso. Ancora oggi viviamo tutti assieme nella grande casa dove sono nato.
    (tornate, troverete aggiornamenti…forse)


    http://www.marcosalvador.com/biografia.html

  173. @ Marco Salvador
    Pongo anche a te alcune delle domande rivolte a Cinzia:

    Come nasce “La palude degli eroi”? Da quale idea? Da quale esigenza?

    Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?

    una domanda sulle tue abitudini di scrittura.
    Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

  174. la nota biografica è un po’ datata, ma va bene così. mi dà fastidio l’incipit, del quale non riesco a liberarmi. sembra quasi sia straordinario vivere nella casa dove si è nati. ma per noi, nobili contadini in là con gli anni, è la norma. di più: sono stato partorito nel medesimo letto dov’è nato e spirato mio padre. quel letto è ancora là, ci dorme mia figlia: è convinta che sia un suo diritto ereditario. glielo confischerò solo per un attimo che spero sia lontanissimo: per spirarci anch’io.

  175. @Salvador:”invece, per la poca considerazione odierna del romanzo ’storico’, a parte la colpa degli editori che marchiano con detta dicitura merdate terrificanti, anche qui, in parte, la questione è politica. i maestri del pensiero a lungo hanno asserito: il nostro paese, l’italietta, è stato un disatro per gran parte della sua storia; la monarchia ridicola, la prima guerra mondiale un crimine, il fascimo e il colonialismo tragiche buffonate ecc ( il neoralismo ci ha messo del suo nel mostrare i lati più miseri e degradati e sordi ha consolidato l’immagine di un italiano buffone e inaffidabile). potrei continaure per ore, ma giungo al punto: chi afferma il contrario è un idiota reazionario, probabilmente un fascista o, al limite, un amerikano che vuol creare un’epica tipo la loro che l’hanno fondata su dei bovari criminali e massacratori di indiani. l’ho provato sulla mia pelle. dopo l’uscita de ‘il longobardo’, una domanda mi ha perseguitato pure nelle paludate interviste rai: ma hai scritto un romanzo leghista? e pensare che l’avevo scritto proprio per combattere il montante celtismo della mia regione!”.
    Concordo in tutto, ma non cominciare anche tu, visto che pure a me qualcuno chiede se il mio “Canti celtici” è un’opera che parla delle origini della lega. So anche che qualche leghista l’ha letto e, per fortuna, è rimasto deluso.
    Da noi non si può parlare di qualche cosa di un passato lontano (vedi il tuo caso con la trilogia dei longobardi) senza essere tacciati di leghismo, e pensare che come la lega si è inventata la padania, si è pure sognata, e del tutto a capocchia, le origini celtiche e riti relativi.

  176. @Paola. Fatti spiegare pure queste, così abbandoniamo il campo per sfinimento.

    allitterazione, anadiplosi, anafora, anastrofe, asindeto, chiasmo, climax, enallage, endiadi, epanadiplosi, figura etimologica, ipallage, iperbato, onomatopea, paronomasia, poliptoto, polisindeto, zeugma
    antitesi, eufemismo, ironia, ossimoro

  177. Ma come sei rugnusu, Salvo… Ho trovato molto interessanti le ultime considerazioni di Renzo, mi hanno fatto tornare a mente la beckettiana (si dice così?) “supinazione cerebrale” della nostra cara italietta…

  178. @Salvo: hai dimenticato:
    analogo, antonomasia, catacresi, iperbole, sineddoche, sinestesia, episinalefe, diafele, sineresi, pròstesi, anaptissi, paragoge, aferesi, apocope, tmesi.
    Per darti un aiuto, ti dico che, tranne la prima, le altre sono figure metriche di vocale, licenze poetiche e figure retoriche.
    @Rita: dai, un ultimo sforzo.

  179. @Rita, Renzo, barbara X

    Io ho poca dimestichezza col computer e non so come si fa a cercare. Fino a poco fa non sapevo cosa significassero quei nomi ma ho telefonato a Massimo Maugeri per avere informazioni, il quale mi ha assicurato che sono tutti nomi di antichi guerrieri longobardi caduti in battaglia. E se lo dice Massimo, non ho dubbi.

  180. @Salvo: prova a chiedere conferma a Salvador, che di longobardi se ne intende. Guarda, io sapevo appena chi fossero, ma dopo aver letto i libri di Salvador ho le idee chiare: non erano di certo gli antenati di Bossi e di Calderoli.

  181. “Anacoluto!”
    “Anacoluto a chi? Ma sta’ zitta, brutta anafora…”
    “Anafora? Ma come si permette? Lo dirò a mio marito. Se la vedrà con lui. E’ un esperto in anadiplosi. E se lo fa andare in endiadi è capace di spaccarle l’ossimoro… e le finirebbe con una pròstesi.”
    “Oh, tremo tutto. Una vera anastrofe. Ma sarebbe una minaccia o un asindeto?”
    “Faccia lei. In ogni caso le consiglio di imparare un po’ di allitterazione.”
    “Ma bene… ci diamo una calmata?”
    “Ha ragione, mi scusi. E’ che oggi sono un po’ stressata. Non so nemmeno come mi chiasmo.”
    “Tutta colpa del climax. Troppo caldo.”

  182. Dopo la parentesi scherzosa, passerei a qualche cosa di serio. La storia in Italia non piace molto agli scolari, un po’ come la geografia. Direi anzi che il popolo italiano presenta gravi lacune nella conoscenza della storia, imputabili anche a una materia bistrattata, sebbene così importante. Visto che non mi pare ci sia la possibilità di una riforma scolastica di tale portata che consenta agli allievi di amare questa materia e di apprenderla con spirito critico, pensate che il romanzo storico possa contribuire, almeno in parte, a risolvere questo problema?

  183. Secondo me sì, Renzo. Mi sembra un’ottima idea. Si potrebbe associare un romanzo a un periodo storico. Potrebbe essere più stimolante per i ragazzi.

  184. Grande Massimo!!!Che bel risveglio anacoluto che mi hai donato,grazie.Siete una forza ragà.

  185. Ottima idea. La prossima volta che qualcuno mi farà arrabbiare gli darò dell’anacoluto.

  186. Mi pare ottima anche l’idea di avvicinare i ragazzi alla storia attraverso la proposta di romanzi storici.

  187. @renzo e altri.
    no, la padania non l’ha inventata la lega. il termine lo si ritrova già in documenti dei secoli VII-X come sinonimo di pianura padana e monti limitrofi. soprattutto in occasione di sinodi.
    i longobardi sono antenati anche di calderoli, ma di più lo sono dei beneventani, salernitani, di acuni pugliesi, marchigiani ecc. quando al nord si erano già estinti o meticciati, al sud risplendevano. quel ladrone di carlo magno si è fatta mezza bilbioteca palatina rapinando pavia e ricattando salerno.

    RISPOSTA ALLA PRIMA DOMANDA
    fin da bambino sono stato un lettore feroce, inevitabile tentare di imitare o miei idoli. però la svolta è avvenuta verso il 17-18 anni (1965-66). prima giovanni arpino ha accettato un mio racconto per la rivista da lui fondata “il racconto” (che però ha avuto vita brevissima). poi, in mia assenza, un giorno pier paolo pasolini ha accompagnato a casa mia sua madre (era amica della mia e lui ci frequentava) e ha visto su di un tavolo il dattiloscritto del mio primo romanzetto. se lo è preso, lo ha letto e mi ha fatto i complimenti. poi è arrivata un’offerta di pubblicazione da un importante editore. però, sia lui sia l’editore, asserivano di dover fare un editing piuttosto corposo. io (il mona!) ho rifiutato sdegnosamente, ma ho capito che potevo farcela. be’, ho scribacchiato per trent’anni senza proporre a nessuno i miei lavori; così, come un passatempo, prefrendo i saggi e il lavoro. infine, nel 2002-2003, temporaneamente immobilizzato da un banale malattia non diagnosticata (artrosi gottosa), tra un voltaren e l’altro ho scritto due romanzi, li ho inviati agli editori e nel giro di poche settimane ho firmato i contratti. il resto è sotto gliocchi di tutti.

  188. @marco.
    E’ vero, hai ragione, qualche indizio su come parlava la gente secoli fa, da certi testi volgari si può ricavare. E a volte anche ben più di qualche indizio. Però resta il fatto che un testo, soprattutto se filtrato dalla sensibilità di un artista come, per esempio, il Ruzante, anche se ha indubbiamente a che fare con la lingua parlata, ha di certo molto più a che fare con lo stile del Ruzante.
    Non credo che sarei in grado di sostenere una singolar tenzone sul seguente concetto, ma ho l’impressione che la lingua parlata appena viene messa su carta cambi, si cristallizzi in una forma che nella realtà non esiste (sempre il principio di Heisenberg). Una discussione tra amici, per dirne una, è irriproducibile su carta: non ci saranno le stesse sgrammaticature, le stesse esitazioni, le stesse ripetizioni: a meno di non voler ammazzare i lettori (E questo, per la verità, è un problema che non riguarda solo il romanzo storico, bensì tutta la letteratura). E, allora, trovo che sia meglio inventarsi un modo di evocare il sapore di quella discussione sulla base del criterio della funzionalità: se funziona, va bene, anche a scapito della verità, ma mai della verosimiglianza. Non ricordo quale famoso uomo politico, forse era Disraeli, diceva “Se la versione è più divertente dell’originale, si racconti pure la versione.” Sono d’accordo.

  189. rispondo, in ritardo, alla domanda “che cosa dovrebbe evitare il romanzo storico”
    secondo me il romanzo storico dovrebbe evitare di trasformare il passato deformandolo a nostro uso e consumo. un rispetto e una ricostruzione filologicamente corretta mi sembra doverosa. anche perché dal confronto tra mentalità diverse avremmo occasione di crescere mentalmente. altrimenti ci bamboleggeremo sempre con l’idea che tutti abbiano avuto i punti di riferimento che noi riteniamo imprescindibili
    un caro saluto a tutti
    marina torossi

  190. – Bellissima l’epigrafe a firma di Omar Khayyam. C’è un motivo particolare per cui l’hai scelta? Che connessioni ha (se ne ha) con il romanzo?

    Ho scelto quei versi di Khayyam, grande poeta e filosofo e scienziato persiano. In qualche modo mi ricordava Federico per la sua grande erudizione. Poi ho voluto mettere i versi di un arabo, visto il grande interesse e amore di Federico per la cultura araba. Infine quei versi sono molto significativi per il mio libro che ha come uno dei temi principali il dubbio religioso, la ricerca di una fede. E la distanza fra credere e non credere, a volte, è proprio un soffio.
    Come quello tra la vita e la morte.

  191. – Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?

    Sono una maniaca dei sopralluoghi, degli studi, dei documenti che riguardano i miei romanzi storici. Vado a cercare le case dove avrebbero potuto abitare i miei personaggi. Ho scelto un luogo di Trastevere per i gemelli e due quartieri di Mazara del Vallo per Flora e Rashid. Ho visitato i monasteri, i castelli federiciani, i luoghi in cui Federico andava a caccia. Sono stata a Parma a cercare il luogo in cui poteva essere stata costruita Victoria, ecc.
    Poiché non ero sicura che i colombi viaggiatori avrebbero potuto portare il peso di una pagina di pergamena, mi sono informata presso le società colombofile in Italia; e poi sono andata a Fabriano dove mi hanno spiegato che nel periodo che mi interessava, in Italia, era arrivata la carta di stracci, quella leggera che i colombi potevano facilmente portare per salvare il manoscritto sull’ornitologia di Federico.

  192. – Come nasce questo tuo romanzo? Da quale idea? Da quale esigenza?

    “Lo Stupore del mondo” è un romanzo storico con un forte intreccio di passioni e gelosie, di vendette e amori forti e disperati che si snoda durante il periodo di vita di un grande sovrano: Federico II di Svevia.
    Federico viene raccontato soprattutto attraverso le emozioni che suscita nei vari personaggi.
    La bella Flora, siciliana, curiosa, che cerca disperatamente la religione ideale e che ama la libertà sopra ogni cosa e per ottenerla è disposta a combattere i pregiudizi dell’epoca nei confronti delle donne che erano spesso oggetto di scambio nei matrimoni combinati. Flora arriva alla corte di Federico per il suo immenso talento nel ricamo e sposerà uno dei cavalieri dell’imperatore. Ma il suo grande amore è Rashid.
    Rashid è arabo, è il grande amore impossibile di Flora, anche lui siciliano addestra gli uccelli, viene salvato da Federico che lo fa educare nel monastero di Montecassino e lo prende a corte perché si occupi dei suoi uccelli. Soprattutto dei colombi viaggiatori che costituivano il modo più veloce di comunicare di quei tempi. Anche Rashid, che poi prende il nome cristiano di Gabriele, ama Flora; ma ama di più Federico che lo ha incantato da bambino.
    Pietro e Matteo sono due gemelli nobili, romani, che vengono separati alla nascita da destini opposti. Pietro sfugge alle mani della nutrice alla nascita e rimarrà segnato per la vita da una deformità al viso. Diventerà un cavaliere mercenario, crudele, cinico, un grande campione, si macchierà di delitti orribili e nasconderà quasi a tutti la sua vera identità. Sarà l’amore a riscattarlo, quello per una donna disposta ad amarlo appassionatamente nonostante la sua deformità. Ma anche l’amicizia per l’uomo che lo ha fatto cavaliere e l’amore fraterno tardivo. Il gemello, Matteo, apparentemente molto più fortunato di lui, diventato cavaliere di Federico, si innamora di Flora e la sposa ma non conquisterà mai del tutto il suo cuore.
    Ho voluto raccontare un medioevo un po’ inusuale, diverso da come viene descritto di solito, cupo e violento. Certo, era un periodo travagliato dalle lotte fra i comuni, fra impero e papato, periodo in cui nasce l’inquisizione contro le eresie, periodo di crociate ma anche di San Francesco e della vita nei monasteri. Ho privilegiato la descrizione degli uomini, dei loro sentimenti, dei conflitti familiari, delle grandi ambizioni, degli atti di eroismo, delle gelosie e dei tradimenti, delle grandi passioni d’amore. Un medioevo luminoso e affascinante ambientato tra la Puglia e la Sicilia. Tutto si conclude con l’assedio di Parma, punto finale e cruciale nella vita di Federico e di tutti i miei personaggi.

  193. – Cosa ti ha affascinato di più nella figura di Federico II (che emerge dalle pagine del romanzo)?

    Federico aveva una personalità affascinante e poliedrica, era fautore della libertà di pensiero e di uno Stato laico contrapposto all’egemonia del Papato romano. Letterato, statista, condottiero, legislatore. Amava la cultura profondamente come dimostra l’università di Napoli, gli eruditi di tutto il mondo che ospitava a corte, il grande trattato che scrisse sugli uccelli, i numerosissimi castelli che fece costruire soprattutto in Puglia, ultimo dei quali è quel capolavoro di Castel del Monte. Uomo estremamente virile cavalcava meglio dei suoi cavalieri, era più esperto di loro nell’uso delle armi, eccellente nella caccia al volo ed era anche un grande statista visto che riuscì a vincere una crociata con la sola diplomazia, senza spargimento di sangue. Importantissime le sue leggi, le costituzioni Melfitane, fra cui ce n’è una contro lo stupro e contro la prostituzione. Quindi Federico si interessava profondamente alla realtà femminile.
    Fece di Lucera una città saracena da cui venivano le sue guardie del corpo e le donne del suo harem. Si muoveva come un principe orientale seguito da tutta la sua corte, dal caravanserraglio degli animali, dai falconi imperiali, dai suoi consiglieri, primo fra tutti Pier delle Vigne. E spesso, vedendolo arrivare, le città si arrendevano senza neppure cominciare a combattere.
    Le opinioni su Federico sono spesso discordanti ma non si può negare che la sua grandezza, un esempio da seguire nella nostra epoca divisa e arrabbiata, sta soprattutto nella grande tolleranza dimostrata verso le altre religioni e culture, la musulmana e l’ebraica, nell’aver voluto applicare il precetto della fratellanza e dell’integrazione razziale, nella volontà di unificare l’Italia dal punto di vista territoriale e legislativo ma anche culturale, linquistico, letterario. Un uomo in anticipo sui tempi che può essere considerato molto vicino alla concezione della moderna Europa.

  194. – Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?


    Scrivo sempre, appena ho un minuto di tempo. Magari cambio una parola, aggiusto una frase. Ma preferibilmente scrivo durante le vacanze e tutti i week end. Mi piace avere molto tempo davanti per concentrarmi, distrarmi, farmi prendere dai personaggi, sfogliare libri, rivedere le foto che ho fatto durante i sopralluoghi.
    Posso dire di non smettere mai di scrivere. Porto con me il computerino anche nei brevi viaggi per la presentazione dei libri.

  195. @ Maria Lucia: Ciao!! ci ritroviamo in più contesti adesso e ne sono contenta! (off topic) 🙂
    Il Gattopardo, sono d’accordo con te, è tra i grandi romanzi del ‘900 che si sono basati sulla descrizione di una decisiva fase storica: basta sempre aver presente, però, che siamo in presenza del punto di vista dell’esponente di una specifica classe, quella della nobiltà in decadenza, protesa all’estinzione, quindi bisognerebbe sempre ‘fidarsi’ limitatamente (e non incondizianatamente) del quadro generale che egli offre della Sicilia e dei suoi avvenimenti, considerandone l’univocità della visuale.
    Ma credo che nessuno cerchi interamente e oggettivamente la storia solo attraverso un romanzo, per quanto questo possa essere pieno di riferimenti storici e possa, senza dubbi, rendere comprensibile in modo più immediato il corso di certi eventi e processi.

    @ tutti:

    Il romanzo storico offre al lettore molti più spunti e di certo è molto più coinvolgente del semplice fatto descritto in un manuale di storia perché c’è la suggestiva visione soggettiva del mondo (quella del protagonista o dell’autore), resa con una scrittura impeccabile, e ciò si fonde con la resa di dati potenzialmente oggettivi (ciò che fa di un un romanzo un romanzo storico è, come hanno detto gli autori stessi con cui abbiamo il grande piacere di conversare, il rigore della documentazione, delle ricerche di dati, fonti etc.).

    Cosa dire ad esempio de I miserabili di Hugo? Rientra tra i grandi romanzi storici:
    la descrizione del modo di vivere delle classi popolari, la denuncia dell’incapacità delle istituzioni sociali del tempo di evitare la dispersione del vivere nella legalità per chi nasce nella miseria.
    Ma non è da meno Dickens con la sua acuta osservazione della condizione dei bambini e del loro sfruttamento in una grande città come Londra (negli anni in cui circolava Rosso Malpelo di Verga del resto, ma è la campagna qui lo spazio descritto, non più la città).

    Potremmo includere inoltre, senza dubbio, Stendhal che col suo capolavoro riesce a renderci in pieno i caratteri dell’identità ecclesiastica di quegli anni e il buio dentro cui compiva i suoi atti e misfatti.
    Così come Gogol con Le anime morte, che oltre ad essere un romanzo ha anche i caratteri di una vera inchiesta del tempo, nel momento in cui recupera documenti e dati oggettivi delle modalità di tassazione degli appezzamenti di terra dei servi della gleba russi (si faceva pagare la terra, come si sa, anche di chi in realtà era defunto).

    Ai nostri giorni non so, sono rimasta (per motivi di ricerca e ‘affettivi’) più legata alla realtà tra ‘800 e ‘900 , ma ad esempio (pur non mostrando i caratteri rigorosi del romanzo storico) credo che lo stesso Stefano D’arrigo con la sua Horcynus Orca abbia realizzato un incantevole affresco storico:
    dietro quel linguaggio allusivo, metaforico c’è la descrizione di un momento storico, la denuncia del fascismo, le condizioni di vita di chi ritorna dalla guerra e vede tutto cambiato, stravolto.

  196. Ai tre autori in particolare chiedo:

    1) Il tratto distintivo è allora quello del linguaggio?

    Quindi, credo che una domanda vicina a questa l’abbia rivolta anche Simona Lo Iacono (che saluto affettuosamente), loro a quale tipo di linguaggio si ispirano per poter scrivere un romanzo storico, e soprattutto se si pongono il problema del linguaggio.

    Si può realizzare, secondo loro, un romanzo storico con un linguaggio ad esempio surrealista? La forma, dunque, è più determinante rispetto al contenuto?

    2) Come nasce l’idea di scrivere un romanzo storico? A cosa è legata l’esigenza di narrare, in parte o in un certo senso, la storia?

    @ Massimo:
    grazie, perché offri sempre le occasioni per confrontarci su grandi e interessanti questioni: Letteratitudine è una linfa per gli amanti della scrittura (per chi la crea e/o per chi la legge).

  197. 1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?
    Accuratezza della ricostruzione storica, capacità di avvincere il lettore con i fatti narrati.

    2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?
    Far evadere, istruire senza annoiare, far nascere curiosità per il periodo storico trattato.

    3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?
    Stereotipi e semplificazioni sull’epoca trattata.

    4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?
    Si importa molto, si produce poco di indigeno. Peccato.

    5. E nel resto del mondo?
    Decisamente migliore, sia come numero di libri che come incoraggiamento della produzione autoctona.

    6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?
    Ah, ardua domanda. Ce ne sono talmente tanti… ho adorato I tre moschettieri, la serie di Angelica, la serie de La straniera, persino Lady Oscar, i romanzi di Philippa Gregory, ultimamente i romanzi fanta storici di Gemma Doyle.. non saprei!

  198. SECONDA DOMANDA
    sulla faccenda della società (ormai ceduta) è presto detto. le genealogie erano di varia natura: da brevi per successioni, interdizioni e tutele (i legulei mi capiscono), a complicatissime per case farmaceutiche su famiglie dove una certa malattia era ricorrente, a quelle dell’industrialotto che sperava in nobili antenati (mai trovati, ma conti e baroni si davano da fare nei loro feudi e perciò….)
    le ricerche storiche erano invece richieste da enti vari e università su particolari personaggi o territori.

  199. @elena
    “Ah, ardua domanda. Ce ne sono talmente tanti… ho adorato I tre moschettieri, la serie di Angelica, la serie de La straniera, persino Lady Oscar, i romanzi di Philippa Gregory, ultimamente i romanzi fanta storici di Gemma Doyle.. non saprei!”

    ci stai prendendo per il c.?

  200. @ Marco Salvador: e se così non fosse?
    Alle interessanti domande sullo stile di Sabina Corsaro risponderò domani. Adesso devo occuparmi di imprescindibili questioni stilistiche: i dialoghi di una serie tivù. Buon anacoluto a tutti.

  201. @Marco”@renzo e altri.
    no, la padania non l’ha inventata la lega. il termine lo si ritrova già in documenti dei secoli VII-X come sinonimo di pianura padana e monti limitrofi. soprattutto in occasione di sinodi.
    i longobardi sono antenati anche di calderoli, ma di più lo sono dei beneventani, salernitani, di acuni pugliesi, marchigiani ecc. quando al nord si erano già estinti o meticciati, al sud risplendevano. quel ladrone di carlo magno si è fatta mezza bilbioteca palatina rapinando pavia e ricattando salerno.”
    E adesso chi ferma più Bossi e Lombardo…

  202. Cara Sabina, grazie a te. E grazie per il tuo dotto intervento. Per quanto riguarda il linguaggio ne hanno già in parte discusso Andrea Ballarini e Marco Salvador nei precedenti commenti.

    P.s. Prima o poi dovremmo deciderci a parlare di Stefano D’Arrigo in maniera adeguata.;-)

  203. Parliamo di Rita Charbonnier…
    Questa è l’autobiografia che troviamo sul suo sito:

    Sono nata a Vicenza, ma presto mi sono trasferita a Roma, dove vivo. Ho iniziato a leggere a quattro anni e a cinque ho ricevuto in dono la mia prima copia di Pinocchio; a otto scrivevo a macchina un giornalino di quartiere, anzi del caseggiato, che poi avevo il coraggio di vendere e che qualcuno aveva persino il coraggio di comprare. Suonavo anche il pianoforte, fin dalla più tenera età, con l’impeccabile tecnica che puoi ammirare nella foto a fianco.

    Dopo il liceo ho frequentato la scuola per attori dell’ Istituto Nazionale del Dramma Antico, a Siracusa. In realtà, quando mi presentai al concorso di ammissione, non desideravo fare l’attrice; pensavo piuttosto alla drammaturgia. Qualcuno però mi aveva detto che calcare le tavole del palcoscenico per un breve periodo mi sarebbe stato utile. Il breve periodo è durato quasi quindici anni.

    Ho debuttato con Lucia Poli, ho lavorato con il Teatro della Tosse di Genova, con La Contrada di Trieste e con il Teatro Stabile dell’Aquila; sono stata diretta, tra gli altri, da Antonio Calenda, Aldo Trionfo e Tonino Conte. Sulla scena recitavo, cantavo e talvolta ho suonato il pianoforte. Inoltre ho lavorato in televisione, con alcune apparizioni nella nota trasmissione Avanzi e nella meno nota Avanspettacolo (ma che aveva tra i protagonisti Franco Franchi e Ciccio Ingrassia).

    Poi ho avuto la fortuna di conoscere Nino Manfredi e di interpretare un ruolo importante nella sua commedia Parole d’amore… parole, nella stagione 1992/93. A lui sono legati i più bei ricordi della mia esperienza di attrice. Manfredi era straordinariamente generoso sulla scena. Al contrario di molti primi attori, che tendono a concentrare l’attenzione del pubblico su di sé, lui cercava di mettere tutti a proprio agio, e di valorizzarli. Era davvero un grande artista.

    A me però fare le tournées non piaceva. Grazie al teatro sono stata nelle più belle città d’Italia, ma il nomadismo forzato mi irritava e vivevo nella scomoda sensazione che alla mia attività mancasse qualcosa di importante. Allora presi a ficcare in valigia un computer portatile (eravamo negli anni ’90, quando i portatili sembravano portaerei) e ad annotare pensieri e inseguire progetti di scrittura ancora piuttosto vaghi.

    Iniziai a collaborare con una rivista di spettacolo. Il primo articolo che scrissi riguardava le donne registe, drammaturghe e compositrici: hanno dovuto lottare più degli uomini per esprimersi? Provai un intenso desiderio di raccontare la storia di Nannerl Mozart. Di lei sapevo solo che era stata una bambina prodigio, come suo fratello, e che ad un certo punto era caduta nel dimenticatoio.

    Era il 1996. Dieci anni dopo, La sorella di Mozart (Corbaccio) è uscito in dodici Paesi. Il mio secondo romanzo, La strana giornata di Alexandre Dumas, è stato pubblicato da Edizioni Piemme; adesso sto lavorando al terzo.

    http://www.ritacharbonnier.com/about

  204. Qualche domanda per Rita…

    L’aver fatto teatro, aver recitato su importanti palcoscenici in giro per l’Italia, pensi che abbia qualche influenza sulla tua scrittura?

  205. Ti ripropongo, più o meno, le stesse domande rivolte a Cinzia e a Marco…

    Come nasce il tuo romanzo “La strana giornata di Alexandre Dumas”? Da quale idea? Da quale esigenza?

  206. Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?

    Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

  207. @ Marco: stupendo Principe Valiant; confesso che non lo conoscevo. Lo adoro. Ho guardato la sigla 2 volte.
    @ Massimo, grazie, che bello, siamo alle domande per me! Risponderò in nottata… o al massimo domani.
    Un abbraccio e un auguro di trovare un Principe Azzurro Valiant a tutte le donne in linea (sempre che già non l’abbiano sotto mano).

  208. Bellissima questa discussione.Un dibattito fiume. Stupefacente.
    i commenti sono così tanti che forse si farebbe prima a leggere i libri presntati.

  209. COME È NATO “LA PALUDE DEGLI EROI”.

    Ezzelino da Romano’avevo studiato molti anni fa, con quello che allora era disponibile. Lo studio settecentesco di Giovanbattista Verci, le cronache dei contemporanei Gherardo Maurisio, Albertino da Padova e Salimbene de Adam, e tutta una serie di commenti alla nota citazione dantesca. Già allora un’idea me l’ero fatta: il personaggi, né migliore né peggiore dei signori suoi contemporanei, aveva subito, dopo la sua morte, una demonizzazione da parte guelfa ed ecclesiastica. Fino a punte di ridicolo con descrizioni fisiche assurde, attribuendogli origini demoniache e mistificando ogni sua azione. Non gli si riconosceva neppure il merito di aver contribuito a rendere Federico di Svevia lo ‘stupor mundi’ facendo per lui il ‘lavoro sporco’. Ovviamente mi divenne simpatico, ma lo accantonai.
    Arrivarono poi gli sgozzamenti e le guerre sante dei fondamentalisti islamici e,mentre borbottavo insulti nei confronti di questi, avevo continue sensazioni di deja vu. Mi ci volle un po’ per ricordare le crociate contro Ezzelino e suo fratello Alberico, ma una volta tornatemi alla mente e riletto il de Adam il parallelismo mi fu chiaro: quello che stavo vedendo accadere nel mondo islamico era esattamente la ripetizione di quanto avvenuto circa settecento anni fa nel mondo cattolico. E ho ripresto in mano i vecchi testi, ho cercato i nuovi (dove Ezzelino viene rivalutato), decidendo infine di scrivere qualcosa. Con una speranza: che l’islam non impiegasse, come è accaduto ai cristiani, quasi quattrocento anni per uscire dall’orrore.
    Attorno a questo nocciolo si è andato infine addensando il romanzo vero e proprio, con la sua ambientazione rigorosamente storica e i personaggi di fantasia a renderlo, almeno così dicono, avvincente.

  210. Aneddoti inerenti la ricerca? Di particolari non ve ne sono. Tanta polvere sulle scarpe (per visitare luoghi oggi impervi) se sulle mani nello scartabellare documenti originali. E una buona dose di starnuti, per una piccola allergia alla carta di tracci resa friabile dal tempo.

  211. Ultima.
    Io scrivo i romanzi in modo strano. Prima me li scrivo in testa in ore e ore di solitudine guardando le querce e gli olmi di casa mia, poi, ovunque mi trovi. in dozzine e dozzine di foglietti, scatole di sigarette, perfino pezzi di carta igienica. A quel punto, rigorosamente nel pomeriggio, scrivo al computer la prima stesura e la stampo. (Solitamente perdo giorni e giorni per l’incipit, che se non mi convince non riesco ad andare avanti.) Nelle mattinate correggo il cartaceo e riporto le correzioni sul testo word al pomeriggio.
    Poi ristampo, ricorreggo, e così via per almeno quattro stesure. A quel punto, e son passati mesi, metto via per qualche settimana. Riprendo l’ultimo cartaceo, rileggo faccio gli ultimi interventi, e invio il file a tre o quattro miei lettori di fiducia e all’editore. Attendo i consigli, valuto, modifico, correggo e finalmente siamo alla stesura definitiva. Che poi non è definitiva. Tra la consegna all’editore e le bozze continuo a ritoccare, per fare in modo che nelle bozze gli interventi siano veramente minimi.

  212. Salvo, sentiremo la tua mancanza!
    @ Marco Salvador, Cinzia Tani e tutti coloro che hanno fornito una definizione del genere “romanzo storico”.
    Cinzia ci riferiva, un po’ più su, che in Mondadori le era stato detto: il romanzo storico si ferma alla Rivoluzione Francese. Io ieri parlo col direttore editoriale di Piemme che mi dice: un romanzo ambientato nel Novecento, anche ai primi del secolo, non lo definirei storico. Quindi, per quanto noi possiamo divertirci a cercare una definizione univoca del genere, e arrovellarci sui significati della parola “storico”, sembra che dal punto di vista degli editori la definizione sia: romanzo ambientato parecchio tempo fa. Definizione, naturalmente, che riguarda l’inserimento in una certa “collana” e il posizionamento in una certa sezione in libreria. Ovvero, la comunicazione.

  213. @ Sabina Corsaro, Marco Salvador, Andrea Ballarini: LINGUAGGIO.
    E’ naturalmente una questione importante da affrontare, quando ci si accinge a scrivere un libro – storico o meno. Mi riferirei soprattutto ai dialoghi, poiché se n’è già parlato. Più, su Marco affermava che possiamo ben sapere quale fosse l’eloquio nei secoli passati, poiché le testimonianze dirette esistono; e Andrea rispondeva che il linguaggio parlato, antico o moderno che sia, non è mai riproducibile fedelmente. Da sceneggiatrice non posso essere del tutto d’accordo. Inoltre, la questione secondo me andrebbe posta in altri termini. Nulla di quanto appare nella realtà può essere interessante “così com’è” nell’arte (ovviamente). Se chiunque di noi si mette una videocamera in spalla e riprende due ore della propria giornata, non ne viene fuori un film, ma una gran rottura di palle. Inoltre, la questione non è se sia possibile o meno riprodurre fedelmente un linguaggio d’altri tempi, ma se sia UTILE. Per l’autore è una fatica improba e il risultato sarà probabilmente imperfetto; per il lettore la roba scritta nel Settecento è probabilmente indigeribile, a meno che l’autore non fosse, che so, Carlo Goldoni o altri geni in grado di travalicare i secoli.
    Nel mio nuovo romanzo, “La strana giornata di Alexandre Dumas”, è riportata una lettera del primo Ottocento: l’uomo che scrive comunica alla figlia di non essere il suo vero padre. Quella lettera esiste; sul mio sito ce n’è anche una riproduzione fotografica. Ma io non l’ho riportata nel libro così com’era. Era atroce. Qualche paroletta l’ho dovuta cambiare per forza. Allo stesso modo, vi sfiderei a dare un’occhiata all’autobiografia autentica della protagonista del mio romanzo, pubblicata per la prima volta in Francia nel 1830 (libro molto raro, poiché il Re dei Francesi fece distruggere tutte le copie che riuscì a trovare). Molto probabilmente non fu neanche lei a scriverla, ma qualcuno che lei pagò e rimase nell’ombra. È di una ridondanza agghiacciante. Altro che la scrittura sincopata della quale Salvador giustamente è stufo. I periodi durano una pagina e sono tutti una subordinata; a metà strada non sai più dove diavolo ti trovi. Inoltre la versione italiana è doppiamente atroce, perché fu tradotta frettolosamente.
    Già conosco le possibili obiezioni. 1: applichi lo stile moderno alle epoche passate, quindi stai violando la realtà. 2: “Il conte di Montecristo” è stato pubblicato nel 1844; se è vero quello che dici, perché è una lettura ancora valida?
    1: applicare lo stile moderno alle epoche passate è senz’altro una cosa da evitare. Ma non è utile tentare di riprodurre fedelmente gli stili del passato. L’operazione creativa dell’autore si attua nel territorio intermedio.
    2: vale quanto detto per Goldoni.

  214. Più tardi risponderò alle domande di Massimo. Grazie a tutti coloro che apprezzano la discussione e la definiscono interessante!
    @ Antonio Molfetta: “i commenti sono così tanti che forse si farebbe prima a leggere i libri presentati”. Divertente!

  215. Ecco, intanto, una breve nota biografica di Andrea Ballarini (dalla quale si evince il suo umorismo):

    Andrea Ballarini nasce a Milano il 13 agosto 1961. Dopo il liceo scientifico si iscrive inutilmente a Giurisprudenza e giunge alle soglie della laurea in Lettere Moderne, che non consegue perché dal 1989, dopo aver conosciuto il pubblicitario Enzo Baldoni si dedica all’advertising. Per vivere, da allora fa il copywriter, prima per una mezza dozzina di agenzie di pubblicità internazionali e poi come freelance. Per non morire scrive delle storie. Nel 2003 appare il suo primo romanzo “Giallo Viola – Casanova, il cinema e l’amore” da cui viene tratta una lettura teatrale a tre voci, rappresentata al Teatro dell’Archivolto di Genova nel dicembre dello stesso anno. Dal 2001 vive a Roma, ma continua a lavorare come copy freelance a Milano.

  216. Ti pongo le stesse domande rivolte agli altri tre autori:

    Come nasce il tuo romanzo “Il trionfo dell’asino”? Da quale idea? Da quale esigenza?

    Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?

    Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

  217. Intanto il dibattito sul “romanzo storico” si allarga.
    Ho aggiornato il post segnalando la partecipazione, nell’ambito della chiacchierata, di Filippo Tuena.
    Inoltre ho invitato a partecipare altri due scrittori di “romanzi storici” che pubblicano con la Newton Compton: Andrea Frediani e Giulio Castelli.

  218. Andrea Frediani vive e lavora a Roma, dove è nato nel 1963. Laureato in Storia medievale, pubblicista, è stato collaboratore di numerose riviste di carattere storico, tra cui «Storia e Dossier», «Medioevo» e «Focus Storia». Tra i suoi libri ricordiamo: “Il sacco di Roma”, “Costantinopoli, l’ultimo assedio e Attila”. Con la Newton Compton ha pubblicato “Gli assedi di Roma”, vincitore nel 1998 del premio «Orient Express» quale miglior opera di Romanistica, “Le guerre dell’Italia unita”, “Gli ultimi condottieri di Roma”, “Le grandi battaglie di Roma antica”, “Le grandi battaglie di Napoleone”, “Guerre e battaglie del Medioriente nel xx secolo”, “I grandi generali di Roma antica”, “Le grandi battaglie di Giulio Cesare”, “Le grandi battaglie di Alessandro Magno”, “Le grandi battaglie dell’antica Grecia”, “I grandi condottieri che hanno cambiato la storia”, “Le grandi battaglie del Medioevo” e i due romanzi di grande successo “300 guerrieri” e “Jerusalem”.

  219. Giulio Castelli, romano, narratore e saggista, è cultore e studioso di storia medievale e tardoantica. Giornalista professionista, ha coordinato i servizi culturali di due quotidiani e ha condotto trasmissioni radiofoniche. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo il romanzo “Il fascisti bile” e il pamphlet “Il leviatano negligente”.

  220. A settembre usciranno due loro nuovi libri: “I 101 segreti che hanno fatto grande l’impero romano” di Andrea Frediani e “Gli ultimi fuochi dell’impero romano” di Giulio Castelli (trovate le immagini di copertina in in alto, sul post).
    Avremo modo di parlare dei suddetti libri nel corso della discussione.

  221. @ Andrea Frediani e Giulio Castelli

    1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?

    2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?

    3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?

    4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?

    5. E nel resto del mondo?

    6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?

  222. Forse può valere la pena – almeno sotto il profilo culturale e storico/letterario – riascoltare dalla viva voce di Benedetto Croce (in una straordinaria conferenza tenuta nel 1936 alla Radio Svizzera) la sua distinzione tra romanzo storico (creato senza distorcere le fonti documentali pur ricorrendo all’immaginazione ) e le “vite romanzate” – “dove spesso si alteravano i documenti e si mescolavano spiritose invenzioni” – nonché il suo affrettato vaticinio in relazione ad una rapida decadenza (che purtroppo non c’è stata) delle biografie e/o vite romanzate. Questo è il link della Radio Svizzera dove in un elenco di registrazioni (Voci) si trova il rarissimo audioclip della conferenza:
    http://www.rsi.ch/navigaletteratura/static.html
    Quanto a me, da qualche anno mi dedico ad indagini mirate sulle principali famiglie straniere vissute a Napoli tra la seconda metà del XVIII secolo e l’inizio del XX (come ad es. la famiglia partenopea del pittore Edgar Degas) spesso dimenticate nella memoria collettiva della città pur avendo svolto ruoli di prestigio nel contesto storico dell’epoca oltre che ricche di avventure, passioni e segreti. Dopo averle studiate in termini scientifici, alla fine ho scritto due romanzi storici ricorrendo ad epistolari, carteggi e documenti familiari ed aziendali, che ritengo le fonti principali per “costruire” questo tipo di opere. Quindi, considerato il periodo storico affrontato, sono romanzi storici sia nell’ottica della Mondadori che in quella della Piemme anche se mi sembrano convincenti, in linea di massima, le obiezioni – sulla rigidità (strumentale) delle periodizzazioni – sollevate da Marco Salvador.
    La mia ispirazione letteraria è alquanto vicina a quella di Enzo Striano del quale condivido questa fondamentale riflessione: “(…) Il mio romanzo [Il resto di niente] vuol essere (oltre che memoriale di tempi irrimediabilmente perduti) ricerca delle cause remote del progressivo vanificarsi del ruolo di Napoli, intesa come uno dei luoghi canonici dello spirito e del mondo…ma anche ricerca del lento farsi, dalle ideologie d’epoca (illuminismo, arcadia, romanticismo), di talune convinzioni del nostro tempo che non paiono ultima causa del malessere in cui attualmente vivono e Napoli e l’Europa e il mondo.” Peraltro condivido l’opinione espressa in questo blog da Marina Torossi sul cosa deve evitare un “vero” romanzo storico.

    http://www.eliocapriati.it

  223. Complimenti a Salvo per il premio e grazie a Massimo per la notizia e per il link! Nonché per aver aggiornato il post invitando altri autori. Viaggiamo verso i 400 commenti…

    @ Maria Lucia: sì, ho fatto la scuola dell’INDA. Ho recitato al teatro greco e anche a Segesta. C’era ancora il professor Giusto Monaco. Bei tempi, ricordi meravigliosi. Massimo mi chiede gentilmente di raccontare qualcosa dell’esperienza siracusana. Beh, il biennio della scuola di teatro non poté che essere fantastico: avevo appena finito il liceo e iniziavo un’avventura artistica insieme a tanti altri ragazzi. Eravamo una ventina, alloggiati al Grand Hotel – prima che lo ristrutturassero. Anni dopo, passandoci davanti, non mi è sembrato più lo stesso luogo. Ai nostri occhi la struttura era affascinante proprio perché fatiscente: ci sembrava di stare in una sorta di castello alla “Frankestein Junior”. E per tutti i lavoranti dell’albergo avevamo crudelmente trovato un soprannome ispirato al film… mentre degli insegnanti di recitazione, canto, danza avevamo un’opportuna soggezione. Insomma, è stato un momento straordinario di crescita per me e per tutti gli allievi, fatto di vita comune, scorpacciate di pesce, trasgressioni, bagni di mare quando il clima lo consentiva, ma anche di lavoro duro e formante. Grazie per avermi riportata a quei tempi con il pensiero.

  224. @elio: ciao, ci ritroviamo!

    volevo tornare solo per un attimo sul discorso del linguaggio. al di là delle varie scelte stilistiche, esso deve rispettare le stese regole del romanzo storico: essere probabile o, almeno, possibile. per esempio io uso la finzione della cronaca in prima persona, come se fossi solo un trascrittore in lingua corrente di un testo antico. viene da sé, in questo caso, che non posso scrivere, in una ambientazione longobarda, “scattò come una molla” non sapendo assolutamente i longobardi cosa una molla fosse. oppure “chiese per l’ennesima volta”, essendo l’esponenziale altrettanto ignoto. ne deriva la necessità di una pulizia, nel testo, di tutti gli anacronismi anche linguistici.

  225. “Questa battaglia” disse Napoleone Bonaparte “è una vera pizza. Dovremmo vedere le schiere di fanti rincorrersi come Formula Uno sulla pista, e invece esse sono lente a guisa di risciò trainati da zoppi con protesi al titanio logorate. Oh, diavolo! Ci sono delle scie chimiche nel cielo! Ma lo spazio aereo non era stato interdetto?” 🙂

  226. Dopo le facezie (qualcuno vuol proseguire…?) inizio a rispondere alle DOMANDE DI MASSIMO

    “L’aver fatto teatro, aver recitato su importanti palcoscenici in giro per l’Italia, pensi che abbia qualche influenza sulla tua scrittura?”
    Immagino di sì. La musica e il teatro hanno uno spazio rilevante nelle storie che mi accingo a raccontare – quando si scrive bisogna parlare di ciò che si conosce, come si suol dire. La protagonista del mio primo romanzo (la sorella di Wolfgang Amadeus Mozart) è una musicista; la protagonista del secondo fece la cantante d’opera. Inoltre, l’aver avuto a che fare con attori (anche grandissimi, come Nino Manfredi) e musicisti di valore, mi ha dato un’immagine naturalmente positiva della “tecnica”, applicabile anche alla scrittura. Sul palco immagino di aver imparato a cogliere, e in qualche modo a prevedere, la reazione positiva che ha il pubblico di fronte a una drammaturgia ben costruita; quindi ho sviluppato una qualche consapevolezza dell’andamento, o della scena, o della battuta che potrebbero prevedibilmente “funzionare” (la certezza ovviamente non c’è mai).

    “Come nasce il tuo romanzo “La strana giornata di Alexandre Dumas”? Da quale idea? Da quale esigenza?”
    Stavo ancora facendo ricerche in biblioteca per il primo romanzo quando, sfogliando una vecchia enciclopedia, incontrai con lo sguardo una voce su una certa Maria Stella Chiappini (1773-1843) – cantante d’opera che scoprì di essere stata scambiata nella culla, lei di nobili origini, con un neonato di vile condizione; che poi divenne re di Francia! Presi subito un appunto su un quadernino. Mi piacque sia l’idea dei destini scambiati, sia il fatto che la protagonista fosse una cantante. Poi scoprii che Alexandre Dumas padre aveva raccontato la strana storia di Maria Stella nelle sue Memorie, parlando anche del proprio coinvolgimento nel grande scandalo che lei sollevò (se vi interessa, il capitolo incriminato è online qui: http://dumaspere.com/pages/bibliotheque/chapitre.php?lid=m3&cid=82). Quindi pensai di accostare queste due figure, una donna e un uomo, diversi per età, condizione, temperamento, convincimenti personali, ma in fondo assai simili…

  227. Continuo a rispondere alle DOMANDE DI MASSIMO
    “Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?”
    La prima parte della ricerca si è svolta in rete: cercavo di raccogliere la maggior quantità possibile di informazioni sullo scambio nella culla (tra Maria Stella e il neonato vile che poi divenne re di Francia), e sui luoghi nei quali avrei dovuto recarmi per ricercare “sul campo”. Da qualche parte trovai notizia dell’autobiografia che Maria Stella pubblicò in francese e contattai la Biblioteca Nazionale parigina, immaginando di andare fin lì per leggere il prezioso testo (che adesso è su Google Books! http://books.google.com/books?id=x9THYdrFwtcC&printsec=titlepage&hl=it&source=gbs_navlinks_s#v=onepage&q=&f=false).
    Contattai anche i discendenti di Maria Stella, che vivono in Inghilterra, e stavo già programmando un viaggio franco-inglese quando scoprii che nella Biblioteca Comunale di Modigliana (il paese nel quale avvenne lo scambio di neonati) c’era una copia dell’autobiografia tradotta in italiano. Cancellai il viaggio oltralpe e mi recai in Romagna. Mi bastò. Oltre a poter finalmente leggere il prezioso testo (che mi fu addirittura prestato) ho incontrato una straordinaria disponibilità da parte degli abitanti del paese, per i quali Maria Stella Chiappini è una vera e propria gloria; chi mi ha accompagnata a visitare i luoghi nei quali si svolse il baratto di neonati, chi mi ha mostrato la sua collezione di libri antichi sull’argomento, chi mi ha esposto il suo punto di vista…

    “Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?”
    Quando sono nel vivo, scrivo dalla mattina a tarda sera, con brevi pause-pasto. Mi chiudo in casa, spengo il cellulare e la connessione Internet, stacco il telefono fisso e via. Non voglio vedere né sentire nessuno. Chi mi è vicino lo sa e per fortuna rispetta questo isolamento. Fino a questo momento il mio lavoro sui romanzi è sempre stato molto diluito nel tempo per quel che riguarda la ricerca – non solo storica, ma anche e soprattutto psicologica – e molto concentrato ed esclusivo per quel che riguarda la stesura del romanzo vera e propria. Magari in futuro, crescendo e sperabilmente migliorando, cambierà.

    Mi sembra sia tutto. Passo. Abbracci.

  228. Buonasera a tutti
    Chiamato in causa da Massimo Maugeri, che ringrazio, mi cimento anch’io nelle risposte ai quesiti. D’altronde, dopo aver pubblicato una quindicina di saggi storici, mi sono tuffato nella finction, scoprendo, durante la stesura dei miei primi tre romanzi, che è molto più esaltante “creare” storie che raccontare i fatti degli altri…
    1) Un romanzo storico, secondo me, deve rispettare le boe rappresentate da ciò che conosciamo dalle fonti storiche, e riempire gli spazi tra l’una e l’altra con la propria immaginazione (al contrario della cinematografia, che quelle boe le “stupra” con estrema disinvoltura). Nel romanzo “Un eroe per l’impero romano”, uscito tre mesi fa, ho ambientato la storia durante le campagne daciche di Traiano, delle quali non si sa quasi nulla, a dispetto della loro importanza nella storia di Roma. Di boe ne avevo poche, pertanto ho dato ampio spazio all’immaginazione, senza mai allontanarmi, tuttavia, dal verosimile. Adesso, al contrario, sto scrivendo una trilogia su un personaggio di cui si sa molto; di boe ce n’è una ad ogni pagina, e renderlo avvincente è molto più difficile: il bello di un romanzo, di solito, è che puoi portarlo nella direzione che preferisci; se una via non ti porta da nessuna parte, ne scegli un’altra. In un romanzo storico, non sempre puoi fare così!
    Inoltre, il romanzo storico deve deve essere un romanzo vero e proprio, con una cadenza, un ritmo e un’intensità pari a qualsiasi altro thriller o storia intimistica. Il rischio, spesso, è di eccedere in descrizioni per mostrare che ci si è ben documentati sull’epoca storica, perdendo di vista però la trama, la caratterizzazione dei personaggi e il ritmo. Mi è capitato di mollare parecchie letture per questo motivo: se voglio conoscere a fondo usi e costumi degli antichi egizi, mi compro un saggio, ma se voglio divertirmi leggo un romanzo!
    2) La sua funzione, credo di poter dire in base alla mia esperienza con i lettori, è anche quella di portare la storia anche a chi non ne mastica o non se ne interessa particolarmente. Ciò rende molto difficile la stesura di un romanzo storico: bisogna scriverlo circostanziato, per non farsi accusare dagli appassionati di superficialità, ma non troppo approfondito, per non annoiare i profani….Invidio chi scrive i romanzi rosa, talvolta!
    3) Come ho già scritto, vanno evitate le descrizioni prolisse e gli “stupri alla storia”. Qualche forzatura cronologica è ammissibile, per rendere più coinvolgente la vicenda; talvolta, per esempio, mi capita di dovervi ricorrere per creare un montaggio parallelo degli eventi descritti secondo una prospettiva bi/trifocale. Mi sento un po’ in colpa, sul momento, ma poi mi dico che è a fin di bene….
    4) In Italia il romanzo storico era pressoché scomparso. Adesso, complice l’incremento di divulgazione storica promosso dai media negli ultimi anni, sta proliferando, mi pare.
    5) All’estero è sempre andato forte. Esistono certi autori, come Bernard Cornwell, per esempio, che vendono milioni di copie in tutto il mondo e ben poco da noi. Perfino su Roma, c’è grande abbondanza di autori stranieri, ed è davvero un paradosso. Ma d’altronde, anche la produzione di studi e monografie in ambito saggistico sull’Urbe è più ampia all’estero che in Italia…
    6) Io vorrei andare in controtendenza e considerare un’autrice più recente rispetto ai grandi classici. Considero il ciclo su Roma della McCullough un esempio perfetto di romanzo storico: documentato come nessun altro, avvincente, con personaggi stupendamente caratterizzati…
    Andrea Frediani

  229. @Andrea Frediani ( e a tutti gli altri bravissimi autori):
    Marguerite Yourcenar definiva il romanzo storico “la presa di possesso di un mondo interiore”…E’ d’accordo?
    Un abbraccio a tutti (buon viaggio, Salvo!)

  230. Più che altro, si viene “risucchiati” da quel mondo interiore…ci si cade dentro.
    Quando ho scritto Jerusalem, avevo previsto che i miei personaggi percorressero i tunnel sotto la città e, in ottemperanza alla fonte che ne parlava, che l’esercito crociato facesse il giro delle mura per espiare i propri peccati prima dell’assalto finale. Ebbene, sono andato a Gerusalemme e ho fatto le stesse identiche cose, non solo per capire tempi e distanze, ma anche il punto di vista dei miei protagonisti.
    Per certi aspetti, quando crei o descrivi un personaggio di un’altra epoca, dopo un po’ non fai altro che seguirlo nel suo percorso. Ed è difficile uscire dal suo mondo, prima che il romanzo sia concluso. Per questo, io non riuscirei mai a scrivere un romanzo a pezzi e bocconi; tutto di seguito, piuttosto. Entrare e uscire dal quel mondo è molto più faticoso che rimanerci per tutto il tempo necessario…

  231. Concordo… scrivere un romanzo storico è entrare in un mondo, mettere i nostri piedi sulle impronte del nostro personaggio. All’inizio è faticoso, poi diventa una full immersion e ti sorprendi a pensare: COSA FAREBBE O DIREBBE LUI/LEI?
    E immergersi nei luoghi è fondamentale, non come fondale da trovarobato, ma per capire meglio il nostro personaggio…

  232. Gentile Maugeri,
    ecco le mie risposte alle domande poste:
    1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?
    Credo che il romanzo storico debba essere anzitutto un romanzo. Spesso i critici letterari amano inserire questo tipo di narrativa tra le specialità “minori” come il giallo, la fantascienza, l’horror, ecc. Io sono convinto che non esistono letterature di serie B. Se un romanzo è un romanzo, sia erotico o thriller, è sempre e soprattutto un romanzo. “I promessi sposi” è un romanzo storico? O non è piuttosto il romanzo più importante del nostro Ottocento? E “Guerra e pace”? E, ancora in tempi più recenti, “Le memorie di Adriano” non è forse un capolavoro indipendentemente dal fatto di essere ambientato venti secoli or sono? Di conseguenza la mia opinione è che non debbano esserci caratteristiche particolari.

  233. 2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?
    Un romanzo storico può enfatizzare più la parte avventurosa o quella psicologica oppure l’ambientazione. Comunque è importante che non si concentri sul solo plot, ma che i suoi personaggi possano fornire emozioni e che l’autore voglia trasmettere qualche cosa al lettore senza limitarsi a raccontare una storia più o meno interessante. Per esempio, con “Imperator” e “Gli ultimi fuochi dell’impero romano” ho tentato di narrare i meccanismi del potere e della decadenza, due fenomeni che, secondo me, sono strettamente connessi.

  234. 3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?
    Di stravolgere gli eventi. Un conto è colmare i moltissimi vuoti di conoscenza grazie all’ausilio della fantasia e dell’invenzione romanzesca. Un conto è inventarsi fatti mai accaduti. Spesso ci si trova di fronte a fonti lacunose, ma quanto è noto va rispettato.

  235. 4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?
    Abbastanza buono. Mi pare ci sia un risveglio di interesse. Soprattutto per l’antica Roma e per il Medio Evo, grazie all’epica dei Templari. Ma, in quest’ultimo caso, c’è sempre il rischio di slittare nel fantasy.

  236. 5. E nel resto del mondo?
    Mi pare che anche all’estero ci sia una generale attenzione. Questo è un paradosso. Tanto più il pubblico ignora la storia, tanto più ci sono molti che si interessano. Però non so dire se questo sia veramente un bene. Appunto perché ciò che soprattutto appassiona non è la realtà, ma il mistero. Personalmente non amo molto i misteri.

  237. 6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?
    Il premio qual è? Un milione di dollari? Per la letteratura italiana direi senz’altro “Il Gattopardo”.
    Spero di essere stato esauriente e avere risposto a tono. Grazie e cordialità,
    Giulio Castelli

  238. @ ciao marco, piacere di ritrovarti.
    Mi aggancio alla tua considerazione sul lessico del romanzo storico e sulla sua necessaria contestualizzazione. Certo per chi affronta periodi di ardua documentazione, come quello dei longobardi nel tuo caso, è ancor più importante scegliere attentamente il linguaggio dei protagonisti oltre che ben calibrare la struttura dei dialoghi contenuti nel testo. Resta peraltro un pilastro imprenscindibile del R.S. il rispetto del “verosimile”, come dici tu unitamente ad Andrea Frediani.
    Quanto a me l’osservanza di tale “canone” è stata resa più facile sia per le ambientazioni dei miei romanzi (800 napoletano) sia perchè mi attengo, per quanto possibile, ad un utilizzo “filologico” degli epistolari dell’epoca, veri e propri “motori narrativi”, ovvero autentiche miniere letterarie ricche di appassionanti vicende ed intensi sentimenti.
    Facendo un esempio ne “I segreti di Degas”, in termini di scrittura ho cercato di osservare un’ intonazione stilistica piuttosto sostenuta e fedele, per quanto possibile, alle atmosfere tipiche degli ambienti socio-familiari dell’epoca, anche quando ho scelto di ravvivare il racconto con espressioni in lingua francese o in dialetto napoletano. La terminologia, inoltre, risente alquanto dello studio documentale dei carteggi che sta alla base dello scritto: un esempio lampante è l’impiego dei riferimenti temporali tipici del calendario rivoluzionario francese. Comunque, laddove il documento e la lettera tacevano o facevano solo balenare gli aspetti più intimi della vita quotidiana è intervenuta la fantasia.
    Nel caso del Degas “napoletano” ho anche tenuto conto che molti degli avvenimenti erano scanditi dai ritratti di famiglia eseguiti dal pittore in varie circostanze.

  239. Con un po’ di ritardo, ma rispondo alle domande di Massimo.
    -Andrea, nella tua biografia leggiamo che “per non morire” scrivi storie. Al di là della battuta, cosa intendi? Vorresti parlarcene?

    Da vent’anni a questa parte faccio il copywriter, cioè creo campagne pubblicitarie per i clienti delle agenzie per cui lavoro; per la precisione curo le parole che vengono utilizzate in quelle campagne. Il che, in pratica, significa che qualunque idea, per non dire qualunque parola (e quando dico qualunque intendo veramente qualunque, dalla “e” congiunzione in su), viene anatomizzata, sindacata, discussa, criticata, modificata, eliminata, diminuita, aumentata, deformata da almeno una decina di persone. E, in una buona metà dei casi, si tratta di persone che non hanno preclare cognizioni di comunicazione. Spesso, quindi, il ruolo principale lo gioca l’irrazionalità: “No, la parola ineguagliato non mi piace; troppe vocali.” (Giuro, me l’hanno detta!).
    Non che la cosa mi scuota più di tanto, perché fa parte del gioco e, del resto, la deontologia si ferma dove comincia l’accanimento terapeutico, per cui dopo un ragionevole numero di permutazioni cabalistiche dello stesso vocabolo vale la massima “attacca l’asino dove vuole il medesimo”. Peraltro, non sempre i prodotti per cui profondo coppie di aggettivi rientrano nella sfera dei miei interessi prioritari: per esempio, gli assorbenti igienici (pratici e sicuri) o le motofalciatrici da giardino (potenti e veloci) mi lasciano piuttosto tiepido.
    Ecco allora che, dopo anni di questo trattamento, il rischio del cinismo si fa più presente. Ma se una certa quota di cinismo è indispensabile per lavorare in pubblicità, una dose eccessiva può avere esiti letali sulla credibilità professionale, perché non si può proprio digitare qualunque cosa ti venga richiesta solo perché ti è stata richiesta. Da ciò nasce la necessità di compensare scrivendo qualcosa di tuo, la cui necessità venga da te e non da una committenza troppo spesso devastata dal marketing. Insomma, è una forma di legittima difesa per evitare il rincoglionimento precoce e l’indigenza.

  240. – Come nasce il tuo romanzo “Il trionfo dell’asino”? Da quale idea? Da quale esigenza?

    Volevo scrivere una storia sul teatro, che è un soggetto molto fotogenico. Prendete una qualunque storia e metteteci un teatro, poi prendete dei teatranti e fateli muovere e parlare e, a meno che non siate proprio negati, è probabile che ne verrà fuori qualcosa di interessante.
    E’ una cosa nota da tempo: perfino Shakespeare nell’Amleto ha messo in scena del teatro nel teatro e l’esito non è stato così male; e La comedia in Comedia è il titolo di una delle più famose commedie dell’Arte del Cinquecento. Per citare qualcosa di più recente, in campi limitrofi mi vengono in mente L’ultimo metrò di Truffaut o Nel mezzo di un gelido inverno, un piccolo e delizioso film di Kenneth Branagh del 1995: ovviamente ce ne sono infiniti esempi.
    Il mondo del teatro è divertente, interessante, colorato e, come altri microcosmi che riproducono in piccolo la varietà del macrocosmo (hotel, navi, squadre di calcio, classi scolastiche) è una specie di lente di ingrandimento attraverso cui le passioni e i pensieri dei personaggi risultano evidenziati. In più, il teatro ha in sé quell’elemento magico, quasi miracoloso, che si materializza ad ogni “su il sipario”, per cui gente adulta e magari serissima nella vita, paga un biglietto e sceglie di farsi raccontare da altre persone adulte una storia buffa, triste, paurosa o avventurosa, proprio come si faceva da bambini. E mentre al cinema il racconto è fatto una volta per tutte ed è rivolto a un pubblico indefinito, qui ci si rivolge ad personam a ciascun spettatore, qui e ora.
    Tra tutte le forme teatrali la Commedia dell’Arte è tra le più magiche, quasi una sorta di spettacolo quintessenziale, giacché esiste solo nel momento in cui va in scena, perché le parti non sono scritte, ma improvvisate (anche se non proprio create dal nulla) dal talento degli attori. Aggiungete che gli scavalca montagne dell’Arte facevano una vita molto movimentata, che spaziava tra bettole e postriboli, corti nobiliari e palcoscenici improvvisati, piazze in tumulto e ville patrizie, viaggi da tregenda e alcove regali… mi sembra che ce ne sia più che a sufficienza per evitare di scrivere uno di quei micidiali romanzi autobiografici di certe brillanti promesse.

  241. – Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?

    Una volta ho provato a fare una lista dei libri utilizzati nel corso della scrittura dell’Asino e sono arrivato a 52 o 53. Alcuni li avevo già, molti me li sono procurati qui e là, setacciando le librerie milanesi alla ricerca di volumi fuori catalogo di cui era rimasta una copia coperta dallo smog dei secoli dietro gli scaffali dei best sellers.
    A Venezia ho esasperato un libraio di Campo San Luca affinché mi facesse avere il terzo volume di un libro sui teatri veneziani del Seicento prima della fine del mio weekend lungo in laguna: lui mi aveva proposto di spedirmelo entro una decina di giorni, ma ormai ero entrato in una tale frenesia molesta che per liberarsi di me me lo ha procurato a tempo di record.
    Alla libreria del Castello Sforzesco di Milano ci ho messo un mese a ottenere la copia fotografica (80×60) di una carta topografica di Parigi degli anni ’70 del Seicento, dopo aver passato un pomeriggio rantolando per la polvere e sfogliando un album più grande di me di piante di Parigi sotto gli sguardi severi di due studiosi che, a giudicare dall’età, dovevano essere seduti là dentro dai tempi della Giovine Italia.
    Ho letto più cattivi romanzi e saggi di nessun interesse in quegli anni che nel resto della mia vita, perché ogni volta che trovavo un accenno, che spesso poi si rivelava superficialissimo o inutile, a qualcosa che avrebbe potuto servirmi mi sciroppavo il malloppo, quasi sempre fino in fondo, nella speranza che almeno un particolare interessante si annidasse in quel mare di superfluità.
    Poi, grazie al cielo, a casa mia è arrivata Internet.

  242. – Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

    Alla mattina non riesco a fare niente. Prima delle undici fatico ad articolare concetti elementari e il centro del linguaggio non si attiva mai veramente prima di pranzo. Non vi dico quando mi tocca fare qualche presentazione a un cliente: invecchio tre anni al colpo.
    Il Mac è comunque acceso dall’alba, più per scaramanzia che per altro, poiché se è acceso è sicuro che non mi viene da scrivere. Anche se è spento, ma se è spento ho i sensi di colpa.
    Dopo il pranzo comincio a mettermi al lavoro, ma tra internet, tv, cd e telefono cazzeggio fin verso le cinque. Tra le cinque e le otto ho un fugace momento di lucidità e di produttività per cui, se mi deve venire un’idea, è probabile che mi venga allora.
    Poi, nuovo cazzeggio tra pre-cena, cena, post-cena, uscite serali eccetera.
    Tra mezzanotte e le quattro del mattino sono al meglio e scrivo abbastanza bene, anche perché a quell’ora, con tutto quel silenzio, il cazzeggio sembra fuori luogo. Quando la temperatura scende fisiologicamente vado a dormire.
    Ovviamente va così quando non lavoro. Quando lavoro, restano comunque delle ore di scrittura tra mezzanotte e le due o le tre. Per fortuna dormo poco e in pubblicità non si comincia quasi mai prima delle dieci.

  243. The historical novel is a literary genre characterized by the attempt to fuse strong dramatic plot lines and credible human psychology, within a setting constituted from specific historical detail (typically based upon diligent research into actual events, locations, and characters, as well as cultural customs, costume, and speech).

    Nathan Uglow, Trinity and All Saints College, Leeds

  244. Tra i romanzi storici utili alla comprensione del nostro paese bisognerebbe ricordare almeno I Vicerè e non trascurerei neppure il pocoi noto I Vecchi e i Giovani di Pirandello. Il capolavoro? Accanto ai Promessi Sposi, romanzo storico per antonomasia, metterei sicuramente La Certosa di Parma, che forse romanzo storico in senso stretto non è, visto che ama dilatarsi nelle forme dell’immaginario, ma che è comunque, se non altro per intensità amorosa, capace di penetrare miserie e grandezze dell’essere italiani. Che poi, a ragionarci su, nel difficile equilibrio tra tensione immaginativa e scrupolo della documentazione, è forse la forma di romanzo storico più moderna: vedi le tanto citate Memorie di Adriano.

  245. Arrivo qui da un motore di ricerca. Curiosavo sul romanzo storico. Sono rimasto affascinato dal dibattito. Complimenti.Bellissimo sito.

  246. Concordo con Bianchessi, che ha citato alcuni tra i miei libri preferiti… durante questa estate sto facendo scorpacciate di Ottocento: I VECCHI E I GIOVANI è meraviglioso. Racconta la delusione postrisorgimentale. Attualissimo nella sua analisi della bancarotta del patriottismo.
    IL GATTOPARDO e I VICERE’ non hanno bisogno di presentazioni: il Risorgimento visto attraverso la caduta degli dei, i nobili Salina e Uzeda. Il secondo è una vera e propria saga familiare che non ci fa sfigurare nel panorama europeo coevo.

  247. Eccomi di nuovo qui. Ringrazio tutti per i nuovi interventi. Mi pare che questa discussione stia continuando a svilupparsi in maniera molto interessante. Ne sono felice.

  248. Intanto ringrazio Rita Charbonnier e Andrea Ballarini per le loro splendide risposte.
    Unite a quelle già fornite da Cinzia Tani e Marco Salvador credo che forniscano indicazioni fondamentali su ciò che significa scrivere un romanzo storico… anche in termini di serietà, impegno e abnegazione.

  249. Un saluto e un ringraziamento ai due nuovi ospiti/protagonisti di questo post: Andrea Frediani e Giulio Castelli.
    Benvenuti a Letteratitudine, e grazie per le belle risposte!

  250. @ Marco Salvador
    Grazie mille per la definizione di romanzo storico di Nathan Uglow (Trinity and All Saints College, Leeds) inserita nel tuo precedente commento.
    C’è qualche benemerito/a che ha voglia di tradurre in italiano?

  251. Comincio con il romanzo di Giulio Castelli:

    “Gli ultimi fuochi dell’impero romano” è il seguito ideale di “Imperator”, una saga che narra la dissoluzione della civiltà antica ormai avviata verso il Medioevo
    È l’anno del Signore 458 e l’imperatore Maggioriano tenta di restaurare l’impero d’Occidente ormai sull’orlo del collasso. Il giovane Ascanio, affascinato dal mito della gloria e delle armi, decide di seguire suo zio, il ministro Pietro, nella spedizione che dovrà riconquistare gran parte della Gallia, della Spagna e dell’Africa romana. Ma, una volta raggiunto il quartier generale di Maggiorano, Ascanio scopre che qualcuno sta complottando contro di loro. In un susseguirsi di avventure, tradimenti e scontri sanguinosi, attraverso gran parte dell’Europa e del Mediterraneo, Ascanio diverrà sempre più consapevole della fine di un grande impero.
    “Gli ultimi fuochi dell’impero romano” è l’affresco di un’epoca: nell’atmosfera torbida e conturbante del V secolo il lettore si ritroverà a camminare tra le strade di una Roma decadente, ma ancora piena di fascino e mistero, con i suoi templi abbandonati, le sue chiese grandiose, i fedeli intransigenti, gli ultimi filosofi pagani e i ricchi nobili sempre più chiusi nel loro mondo dorato oramai giunto alla fine.

    (dalla nota dell’ufficio stampa Newton Compton)

  252. Il libro in uscita a settembre di Andrea Frediani – “I 101 segreti che hanno fatto grande l’impero romano” – non è un romanzo, ma una via di mezzo fra un manuale e un saggio.

    I soldati romani non portavano sempre uno scopettone in testa. Cesare non disse mai: «Il dado è tratto». Le matrone facevano mettere le parrucche perfino alle statue. L’irreprensibile Catone il Censore era un abile chef, soprattutto di dolci. Alcuni dei più grandi generali dell’esercito romano erano barbari. Roma aveva delle zone a traffico limitato, già a quei tempi. Le donne si mettevano sterco di coccodrillo come fondotinta. La morale sessuale romana era molto rigida. Le catacombe non erano rifugi per i cristiani perseguitati…
    Ecco alcuni dei “segreti” della civiltà romana, qualche picconata ai luoghi comuni che, alimentati da film, documentari e testi giornalistici spesso superficiali e frettolosi, da troppo tempo si trascinano nell’immaginario popolare. E poi ci sono i segreti del successo di Roma antica. Quelli che hanno fatto di un piccolo villaggio sorto su un monticello l’impero più potente della storia. Sono le formule magiche che hanno permesso all’Urbe di superare qualsiasi nemico od ostacolo: la forza delle legioni, l’ambizione e le intuizioni di certi grandi uomini, la bontà del modello confederativo, la tolleranza religiosa e il rispetto per gli dèi, i legami clientelari, le straordinarie opere di alta ingegneria. Un campionario istruttivo di curiosità su Roma antica, su ciò che è andato perduto e su quanto ci è rimasto, nei costumi e nelle abitudini di una società, quella contemporanea, che deve a quella antica molto più di quanto si pensi. Ignorarlo sarebbe imperdonabile.


    (dalla nota dell’ufficio stampa Newton Compton)

  253. Appena tre mesi fa, invece, è uscito il nuovo romanzo di Andrea Frediani: “Un eroe per l’impero romano”.
    Un romanzo che è stato per il primo mese tra i primi venti libri di narrativa italiana più venduti.
    Mi piacerebbe parlarne perché è più “in tema” rispetto all’altro libro in uscita a settembre.
    Ecco alcune informazioni:
    È il 101 d.C., l’anno in cui Roma, all’apice della sua potenza ed espansione, intraprende forse la sua più grande e meno conosciuta guerra: la campagna per la conquista della Dacia, l’odierna Romania. Il carismatico imperatore Traiano guida l’impresa, ossessionato dall’idea di emulare le gesta di Alessandro Magno. Ma se i romani possono mettere in campo la disciplina, la strategia e la collaudata forza delle legioni, i daci, condotti dal re Decebalo, hanno fama leggendaria di essere uomini dal sovrumano coraggio, guerrieri pronti a tutto. E a contrastare la minaccia dell’invasore appaiono anche alcune misteriose creature, assetate di sangue romano. All’ombra delle operazioni dirette da Traiano si intrecciano i destini di due fratelli romani: Tiberio Claudio Massimo, valoroso cavaliere, soldato ambizioso e determinato, e Marco, indolente e refrattario alle responsabilità. Tiberio passerà alla storia come colui che catturò il temibile Decebalo: la colonna traiana e la sua stele ritrovata nel secolo scorso lo raffigurano mentre tenta di impedire al sovrano nemico di suicidarsi. Marco invece è un frumentarius, una spia, un infiltrato nelle file daciche, eppure per la vittoria finale anche le sue mosse sotterranee risulteranno decisive. In un incalzare di scontri, missioni segrete, assedi e inseguimenti, mentre la polvere dei campi di battaglia fa da contrasto alle viscide dispute di potere all’interno dello stato maggiore romano, Andrea Frediani dipinge un affresco potente della formidabile macchina da guerra romana, nella quale l’efficienza e la disciplina regnavano in misura pari alla corruzione e al privilegio di ceto, e scolpisce la storia di due uomini alla ricerca di un’identità.

    Qui, potete visionare il bel booktrailer:
    http://www.youtube.com/watch?v=hlTsp5SrZUk

    E qui trovate altre informazioni e la rassegna stampa del libro:
    http://www.newtoncompton.com/index.php?lnk=101&ISBN=978-88-541-1444-9&idaut=61;&idcur=

  254. Adesso vorrei porre le “solite” domande ad Andrea Frediani (in seguito le porrò anche a Giulio Castelli)…

    Andrea, da dove deriva la tua passione per la storia e per l’impero romano?

    Come nasce il tuo nuovo romanzo “Un eroe per l’impero romano”? Da quale idea? Da quale esigenza?

    Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?

    Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

  255. The historical novel is a literary genre characterized by the attempt to fuse strong dramatic plot lines and credible human psychology, within a setting constituted from specific historical detail (typically based upon diligent research into actual events, locations, and characters, as well as cultural customs, costume, and speech).

    Nathan Uglow, Trinity and All Saints College, Leeds

    Il romanzo storico è un genere letterario caratterizzato dall’intento di fondere una forte trama drammatica con tratti psicologici credibili, all’interno di un’ambientazione costituita da dettagli storici specifici (solitamente basati su una diligente ricerca su fatti realmente accaduti, luoghi e personaggi, come pure sui costumi, l’abbigliamento e il linguaggio).

    Concordate?

  256. Ringrazio molto Rita Charbonnier per la sua esaustiva risposta, gli interventi sono tutti interessanti e i post si moltiplicano così velocemente (già a distanza di mezza giornata dall’ultimo collegamento ne trovo decine in più) che non è facile poi leggerne tutti i contenuti, ci vuole del tempo…. 😉

    Riguardo quanto riportato da te Maria Lucia, concordo pienamente, soprattutto sull’aspetto legato ai costumi del tempo, lo stesso De Roberto definiva il suo capolavoro un grande romanzo di costume contemporaneo.
    Notte a tutti!

  257. – Andrea, da dove deriva la tua passione per la storia e per l’impero romano?
    Chi ha quarant’anni o poco più, come me, ricorderà che oltre un trentennio fa i bambini non disponevano di videogiochi, nintendo vari e tante stazioni tv. Si leggeva, si giocava con i soldatini o con le automobiline. Ecco, io leggevo e giocavo con i soldatini. E leggevo molta storia, perché mio padre, militare, era un appassionato e aveva molti libri storici a casa. Ricordo che i primi film che ho visto al cinema, prima ancora dei dieci anni, sono stati “Lawrence d’Arabia” e “La battaglia di Midway”. Poi, a nove anni ho letto “La storia di Roma” di Indro Montanelli e sono rimasto folgorato. Ho deciso che da grande avrei fatto la stessa cosa: divulgazione storica, e subito ho scritto un volumetto sulla pirateria, copiando dall’Enciclopedia Disney perché, come dice Stephen King, l’emulazione precede sempre la creazione.
    Come nasce il tuo nuovo romanzo “Un eroe per l’impero romano”? Da quale idea? Da quale esigenza?
    L’idea, in realtà, l’ha avuta l’editore. Un giorno mi ha detto: “Frediani, perché non scriviamo un romanzo su Traiano? Non l’ha mai fatto nessuno” Ho risposto: “Se non l’ha mai fatto nessuno, ci sarà una ragione. E la ragione è che non ci sono fonti. Più che un romanzo storico, rischierebbe di essere un fantasy”. Ma le sfide mi piacciono, e ho accettato. C’era questa faccenda del ritrovamento della stele del cavaliere, raffigurato sulla colonna traiana, che ha portato all’imperatore la testa di Decebalo. Era un ottimo spunto di partenza. Ho immaginato che avesse un fratello e che i due modificassero negli anni il loro carattere sotto la pressione della guerra. E ho giocato con la loro identità, immaginando una resa dei conti proprio nella colonna traiana. Questo ciò che avevo in mente prima di iniziare. Il resto mi è venuto mentre scrivevo.
    Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?
    Per la prima volta, non sono andato sul posto (nei due romanzi precedenti, ero andato alle Termopili e a Gerusalemme). Questo perché non ambiento il romanzo in un posto specifico ma, oltre che a Roma, nell’intera Romania, e sarebbe stato molto dispersivo. Ma mi sono valso di consulenti molto ferrati in materia, un’archeologa rumena, per esempio, e di specialisti in ricostruzione storica. E’ un romanzo molto crudo, nel quale volevo che emergesse il significato della massima di Tacito “Fanno un deserto e lo chiamano pace”. Avendo già pubblicato in passato “I grandi generali di Roma antica”, avevo già approfondito la figura di Traiano e delle sue campagne, e ho riversato nel romanzo le mie conoscenze.
    Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?
    Fino a poco tempo fa, scrivevo solo quando avevano termine le rogne quotidiane, ovvero quando la gran parte della gente di abbandona sul divano a guardare la TV o si addormenta con un libro sulla pancia, distesa lungo il letto. Ciò vuol dire dalle 22. E non finivo finché non avessi scritto almeno 5 pagine (in genere dopo 2/3 ore). Adesso i tempi si sono ulteriormente ristretti, e poi ci ho preso la mano; quindi scrivo in qualunque momento mi venga offerta l’opportunità di farlo. Se ho un’ora a disposizione, ciò vuol dire che ho la possibilità di scrivere almeno due pagine. Sono un convinto assertore della massima di Stephen King: se si vuole che un libro risulti avvincente, non andrebbe scritto in più di tre mesi. Naturalmente, nel caso di un romanzo storico, un periodo altrettanto lungo dovrebbe precedere per lo studio della documentazione, la preparazione di una trama efficace e la caratterizzazione dei personaggi… Talvolta restringo i tempi di questa fase perché, dopo 15 saggi storici pubblicati, qualcosa ho immagazzinato. Ma devo pur sempre approfondire ulteriormente: se in un saggio sulle battaglie scrivo che, prima dello scontro, un comandante romano compiva un sacrificio per ingraziarsi gli dèi, in un romanzo devo descriverlo, questo sacrificio: devo far recitare al personaggio le formule, devo scrivere come era vestito e cosa accadeva. Una volta ho letto una discussione su un forum, nella quale si affermava che scrivere un saggio storico è più difficile che scrivere un romanzo storico. Be’, non ne ho mai sentita una più grossa… ecco, questo potrebbe essere un ulteriore motivo di dibattito in questa sede!

  258. “scrivere un saggio storico è più difficile che scrivere un romanzo storico. Be’, non ne ho mai sentita una più grossa… ecco, questo potrebbe essere un ulteriore motivo di dibattito in questa sede!”

    Concordo pienamente con lei Andrea Frediani, potrei scrivere un saggio storico (impiegando anni tra carte, documenti, fonti etc.), ma non credo che saprei scrivere un romanzo storico: lì oltre alla conoscenza della storia ci vuole la componente artistico-formale che fa sì, appunto, che un asettico saggio storico diventi poi un romanzo.

    Complimenti per i suoi saggi, sarò curiosa di leggerne alcuni 😉

  259. Un po’ di vanteria.

    Marco Salvador, La palude degli eroi, Edizioni Piemme.
    L’autore ricostruisce in maniera puntuale e minuziosa il suo scenario storico inserendo personaggi e invenzione credibil e vivi e proponendo al lettore una scrittura scorrevole, intensa, mai banale. Felice l’idea di raccontare la storia attraverso le tavole di un percorso iconografico (pp. 373, 73). La trovata facilita la ricostruzione dell’epoca medievale in cui il romanzo si svolge, e fa rivivere pittorescamente la vita di corte come l’ha immaginata un Norbert Elias. Guido da Romano è al centro di una vicenda viva, emozionante, anche attuale, il cui significato è la scelta fra pietà e giustizia, conflitto radicale dell’epoca rispecchiata.

    (Motivazione della giuria della Sezione Romanzo Storico, presieduta da Camilla Salvago Raggi (moglie di Marcello Venturi, fondatore del Premio Acqui Storia, recentemente scomparso) e composta da Mario Bernardi Guardi, Gianfranco De Turris, Elio Gioanola, Alberto Papuzzi e Francesco Perfetti.)

  260. “Nella sua lettera a Monsieur Chauvet, Manzoni diceva che i poeti non hanno il dovere di ‘inventare i fatti’, bensì quello di colmare gli spazi tra essi, le lacune della Storia, e di raccontare ciò ch’essa sottace, i sentimenti e i pensieri degli uomini, la loro speranza, la loro rabbia o la loro malinconia di cui si sono perdute le tracce. Lo storico accerta e racconta gli eventi e lo scrittore cerca di immaginare e di raccontare come gli uomini li hanno vissuti………L’originalità non consiste nei fatti, bensì nel significato che il racconto conferisce ad essi: nelle ‘Memorie di Adriano’ Yourcenar non inventa nessun dettaglio e nessuna figura,ma reinventa e ricrea tutto, e si potrebbero fare altri esempi…”
    (Claudio Magris: “Là dove muoiono le metafore” in “Alfabeti” – riediz. di un precedente articolo su Jacomuzzi)
    …e io un altro lo farei con “Giuliano” (l’apostata) di Gore Vidal, del 1962, un altro magnifico esempio di ‘romanzo storico’ denso di significati per l’uomo di oggi.
    Come si può non essere d’accordo con il Manzoni e con Magris?
    Personalmente ritengo che poi il valore del romanzo diventi imperituro se quel significato (o altri significati ancora più nuovi) resteranno nel tempo, anche per il lettore di domani o di dopodomani.
    Questo è quello che dà valore ad un’opera letteraria, storica o non storica che sia, questo è quello che mi interessa e credo interesserà sempre un lettore, bando a tutti le regole e paletti (fedeltà o infedeltà alla realtà, epoca di cui si parla, ecc.)

  261. Do ragione naturalmente anche a Sabina Corsaro, ma dipende da quale genere di romanzo storico si voglia narrare e faccio due esempi contrastanti.
    Pur non trattandosi di romanzo storico (ma l’esempio secondo me calza a pennello lo stesso) ma semmai di fantascienza, per scrivere ‘Il quinto giorno’ l’autore Frank Schatzing si è documentato per diversi anni sulla biologia, specialmente marina (il libro, che peraltro mi ha inchiodato alle sue mille pagine per giorni e notti, quasi come ‘I pilastri della terra di Follett’, verte sulla vita -a noi sconosciuta per il 95%- negli abissi), tanto che con tutto il materiale preparatorio raccolto è riuscito a pubblicare anche un bel libro di divulgazione scientifica: “Il mondo d’acqua – alla scoperta della vita attraverso il mare” che mi sentirei di consigliare a qualsiasi interessato all’argomento.
    Credo un lavoro preparatorio non dissimile sia alla base del magnifico libro di Filippo Tuena, di cui qui si è già parlato.
    Ma come contraltare (e qui ritorno a Magris) non bisogna dimenticare anche gli autori che ‘… a pieno titolo, si prendono il diritto di inventare i fatti o di deformarli anche nel modo più grottesco e surreale, sfuggendo così alla prigione del reale come il barone di Munchhausen a cavalcioni della sua palla di cannone.”
    Alla fine è il risultato quello che conta, ci sono libri belli e libri brutti, indipendentemente dall’impegno profuso dall’autore.
    E quel risultato dipende dal significato dell’opera.

  262. Aggiungo, nel ringraziare Sabina Corsaro per i complimenti, che mentre un saggio deve dare soprattutto informazioni, un romanzo deve suscitare EMOZIONI. E vi sembra facile suscitare emozioni nel mare di indifferenza che ci circonda?
    Suppongo che, a sostenere tesi tanto balzane siano quelle stesse persone che leggono i romanzi storici solo per giocare alla “caccia all’errore”. Sono talmente impegnati a scovare strafalcioni storici che leggono il romanzo come correttori di bozze, senza farsene coinvolgere emozionalmente e senza quindi poter capire il messaggio che l’autore intende dare.
    Lo dico con una certa cognizione di causa perché anch’io, da ragazzo, avevo un po’ questa tendenza, nei romanzi come nei film. Ma poi sono cresciuto…

  263. Nella prima riga del mio intervento sovrastante mi accorgo di un refuso: leggasi “Do ragione naturalmente anche a Sabina Corsaro, ma dipende da quale genere di STORIA si voglia narrare e ….”
    Sorry

  264. La ‘caccia all’errore’ di cui dice Frediani è sì ampiamente praticata. Ma di semplice sport di poco conto si tratta, e come tale a mio parere va preso.

  265. @ Giulio Castelli

    Da dove deriva la sua passione per la storia e per l’impero romano?

    Come nasce il suo nuovo romanzo “Gli ultimi fuochi dell’impero romano”? Da quale idea? Da quale esigenza?

    Ci racconterebbe qualche aneddoto su come ha svolto le attività di ricerca?

    Scrive preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

  266. Buona domenica a tutti! Conoscevate questo sito?
    http://romanzistorici.wordpress.com/
    L’autore afferma: “Questo blog nasce da un mio malessere quando mi accingo ad entrare in una libreria: la quasi certezza che nella libreria non sarà presente un reparto dedicato al genere del romanzo storico.Di solito, questa tipologia di romanzi è annegata all’interno di gialli, thriller, fantasy ( e qui spesso piango..), romanzi d’avventura.
    L’intenzione è di dare dignità a un genere, quello del romanzo storico, e di dedicargli un piccolo spazio virtuale.”
    C’è anche un’intervista con Marco Salvador!

  267. Grazie a te, Massimo, per l’ottimo post. Siamo alla soglia dei 400 commenti e questo testimonia quanto l’argomento sia stimolante e “tiri” l’interesse. Ma poi questo interesse si riscontra anche in libreria (nel mondo anglosassone sì, ed è cosa nota, ma qui in italia?) ?

  268. Recentemente un libraio mi ha detto: “Ormai la gente non vuole più thriller, vuole romanzi storici”. Non ne sono ancora tanto convinto. E’ vero: in Italia, in libreria spazi appositi non sono previsti, e i romanzi storici di successo non fanno certo i grandi numeri di vendita dei thriller di successo (a meno che non vi si cimenti un Ken Follett, beninteso). Sono anche un po’ ignorati dalla critica, che ancora li considera un sottogenere trattandolo come è sempre stata trattata la fantascienza.
    Ma voglio essere ottimista. Magari ci troviamo nella classica fase di transizione, nella quale l’interesse del pubblico precede quello delle “istituzioni editoriali”, che alla fine si adegueranno…

  269. Concordo con Frediani e la cara Sabina… certo che chi scrive o dice certe cose non le ha mai sperimentate!
    Penso a Citati, che scrive saggi romanzati o romanzi saggistici, non saprei definirli. Anche un saggista può raccontare in maniera godibile, ma un romanzo è un’altra cosa. Non migliore o peggiore ma diversa.
    I romanzi storici spesso non vengono letti in Italia perché c’è una scarsa cultura di base: la gente spesso non comprende i riferimenti più semplici. Mi duole dirlo ma credo che sia proprio così.
    Molti pretendono di studiare la storia leggendo Dan Brown.

  270. Gentile Massimo Maugeri,
    le rispondo subito domanda per domanda.
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    – Da dove deriva la sua passione per la storia e per l’impero romano?
    E’ una passione che scoprii da ragazzino trovando un volumone di storia romana con tante belle illustrazioni nella libreria di mio nonno. Quindi un caso. Ma in realtà, a parte un esame universitario, da allora non me ne ero più occupato. E non sono un giovane!

  271. – Come nasce il suo nuovo romanzo “Gli ultimi fuochi dell’impero romano”? Da quale idea? Da quale esigenza?
    In realtà si tratta della stessa esigenza che mi ha spinto a scrivere “Imperator”. Infatti “Gli ultimi fuochi”, pur essendo un romanzo del tutto autonomo, è anche il seguito di “Imperator”. L’esigenza è quella di esaltare lo spirito civico, l’intransigenza nei confronti della corruzione, il disprezzo per la gestione del potere fine a se stessa, la visione della decadenza. Si tratta di spinte forti e del tutto attuali. Quando mi sono imbattuto nella figura di Maggioriano, un imperatore quasi sconosciuto (tranne a Voghera – sic! – dove gli hanno dedicato un viale), ho scoperto che aveva lo stesso desiderio di lottare contro questo degrado con grande senso dello stato. Di battersi contro l’intolleranza, il fondamentalismo (allora cristiano, ma vale oggi per quello musulmano), l’arroganza della ricchezza. Insomma un uomo estremamente moderno, ovviamente nei limiti del suo tempo. Da queste mie parole capirà che non sono affatto un anarcoide. Sono convinto che l’anarchia e il mancato rispetto delle leggi favoriscono soltanto i prepotenti.

  272. – Ci racconterebbe qualche aneddoto su come ha svolto le attività di ricerca?
    Beh, aneddoti veri e propri non ne ho. Ma la cosa più dura è stata cimentarsi con il latino dopo decenni. Poi il latino del 5° secolo! Gli autori di quell’epoca, per il nostro gusto, sono grandi seccatori e scrivono in modo insopportabile. Se vuole divertirsi (si fa per dire), legga Sidonio Apollinare (che è anche uno dei protagonisti de “Gli ultimi fuochi”).

  273. – Scrive preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o le è indifferente?
    Mi è indifferente. Scrivo in modo disordinato. Vengo preso da abulie che possono durare settimane e da improvvisi furori narrativi.

  274. Saluto il caro Giulio. Il suo precedente, istruttivo e intenso romanzo è l’ultimo che ho letto, prima di arenarmi, da oltre sei mesi a questa parte, su “Le benevole” di Littell, che è un capolavoro assoluto ma faticosissimo da leggere.
    Per riallacciarmi a quanto ha detto Maria Lucia Riccioli, è probabilmente vero che la gente, spesso, non è in grado di comprendere i più semplici riferimenti storici. Eppure, “I pilastri della terra” se lo sono letto a milioni, perché “rassicurati” dal nome dell’autore. Credo si possa aggiungere che sono anche prevenuti, e quindi si accostano con estremo sospetto al genere storico. La storia? Che palle…sarà come quella che ci insegnavano a scuola! Ecco cosa senti dire in giro…

  275. @ Carlo e a tutti
    È vero. Questo post sta riscuotendo molto interesse. Infatti a breve lo inserirò nella lista dei “post permanenti”. E credo finirà anche nell’elenco dei “più commentati”.

    Mi sto accingendo a pubblicare un nuovo post, ma spero (e auspico) che qui il dibattito continui.

  276. il “cuore” del blog romanzi storici è luigi corazza, ci trovate pure inerviste a valeria montaldo, carlo grande e carla maria russo. non ha certo la visibilità di massimo, ma cerca di dare una mano al romanzo storico.

  277. @andrea.
    “Recentemente un libraio mi ha detto: “Ormai la gente non vuole più thriller, vuole romanzi storici”. Non ne sono ancora tanto convinto.”
    Neppure io ne sono convinto, Andrea. Ma il direttore editoriale di Rita e mio, un pilastro dell’editoria detta “signora bestseller”, però ci conta.

  278. Sì Marco, anche i miei editori ne sono convinti. E ho imparato a rispettare il loro intuito. D’altronde, ho imparato da tempo che l’autore, tra tutti quelli che si occupano di editoria, è quello che ne capisce di meno… Infatti, da un po’ mi limito a scrivere e basta, senza avventurarmi in strategie di previsione che, anche sui miei lavori, si rivelano immancabilmente erronee…

  279. Adesso chiedo a tutti e sei gli autori protagonisti di questo post (Andrea Ballarini, Rita Charbonnier, Marco Salvador, Cinzia Tani, Andrea Frediani e Giulio Castelli di fornirci (se possibile) un “assaggio” delle loro opere che abbiamo qui presentato.

  280. Cinzia Tani, prima di partire, mi ha inviato per email una selezione di brani tratti dal suo romanzo “Lo stupore del mondo”. Direi di partire proprio da questo libro…

  281. da “Lo stupore del mondo”, romanzo di Cinzia Tani (Mondadori, 2009)
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    PRIMO BRANO: INCIPIT DEL LIBRO E ALTRO BRANO. SUI GEMELLI

    Pag: 9
    Nacque per primo e la nutrice se lo lasciò sfuggire dalle mani. La madre, che spingeva il secondo bambino, trattenne il respiro; le donne che la assistevano rimasero in attesa. In basso, sul pavimento, il neonato giaceva immobile. Fu un lunghissimo doloroso attimo di silenzio. Poi il piccolo mosse le gambe ed emise un lamento.
    Più tardi la nutrice si gettò ai piedi della sua signora chiedendo perdono, scongiurandola di non cacciarla via. Aveva aiutato tanti bambini a nascere senza commettere mai uno sbaglio, una disattenzione. Li aveva allattati, cresciuti e nessuna famiglia si era lamentata di lei. «Ma quel tuono improvviso mi ha spaventata a morte» cercò di giustificarsi. Il boato inatteso aveva scosso tutti e la donna aveva perso la presa sul neonato. Giulia Graziani, ancora stordita dai dolori del parto, acconsentì a tenerla. Poi, quando fu sola, ripensò al tuono. Un sole limpido aveva illuminato la mattinata di maggio, niente faceva prevedere un temporale in arrivo, niente giustificava quel tuono. Allora tremò perché credeva ai presagi.
    I migliori medici di Roma si susseguirono per due interi giorni nel palazzo di Trastevere, ma tutti convennero che non c’era niente da fare per il piccolo. Il viso era irrimediabilmente rovinato dallo spostamento della mandibola e dall’affossamento che la caduta aveva provocato nella guancia sinistra. Il bambino, battezzato Pietro, pianse continuamente, per mesi. E poiché piangendo obbligava suo fratello Matteo a fare altrettanto, fu ben presto alloggiato in un’altra stanza. Soltanto in braccio a Luisa, la nutrice, sembrava trovare un po’ di pace; lei allattava entrambi ma il senso di colpa per l’accaduto la rendeva più generosa verso il gemello sfortunato e lasciava che Pietro rimanesse più a lungo attaccato alla mammella. Dei due era il più vorace, la sua fame sembrava inestinguibile. Matteo invece succhiava dolcemente e non protestava quando veniva allontanato dal seno della balia per far posto al fratello.
    *************
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    Pag. 14
    Pietro vagabondava per le strade semideserte del quartiere, i primi tempi guardingo, sfiorando i muri, tentennando a ogni passo, poi, mano a mano che cresceva, più sicuro, intenzionato ad assorbire nello sguardo il comportamento delle poche persone che incrociava, osservando, registrando tutto. A ogni passeggiata si spingeva più lontano, costringendo il servo a camminate estenuanti. Pietro gioiva della desolazione della città, andava alla scoperta di ruderi e rovine, esplorava palazzi esteriormente impeccabili ma vuoti al loro interno, poiché tutto era crollato durante le grandi piogge o in una delle numerose piene del Tevere che in poco tempo sommergevano intere zone della città. Posava lo sguardo su edifici avvolti dai rovi, si inoltrava in quartie¬ri invasi da erba e sterpaglia. Le torri difensive che sempre più numerose sorgevano nei quartieri benestanti svettavano lugubri nell’oscurità. Le statue, gli archi trionfali, i portici ricoperti di marmo, le colonne e i monumenti che alla luce del sole parlavano dello splendore della città imperiale, di sera sembravano macabri fantasmi. La notte Roma brulicava di criminali e debosciati, di ubriachi che crollavano fuori dalle taverne, di tagliagole che aspettavano nei vicoli bui chi osava avventurarvisi. Lui non li temeva: questa atmosfera di decadenza e disfacimento si confaceva al suo stato d’animo e avrebbe prolungato le sue escursioni fino a notte fonda se il servo non l’avesse convinto a tornare.
    ——
    Copyright Mondadori e Cinzia Tani
    (diritti riservati)

  282. SECONDO BRANO: SU RASHID e FEDERICO
    —–
    Pag. 98
    Mentre si prolungavano i combattimenti sulle montagne contro i musulmani irriducibili che, venuti a conoscenza della tragica fine del loro capo, lottavano con maggiore furia, l’imperatore lasciò il campo di battaglia con una piccola scorta. Seguiva con lo sguardo alcuni uccelli in volo che appartenevano a una specie che non conosceva.
    L’ornitologia era la sua più grande passione. Non solo studiava il comportamento dei falconi che utilizzava per la caccia, era interessato ai volatili in generale e sull’argomento manteneva una fitta corrispondenza con diversi studiosi che vivevano nei paesi arabi. Leggeva anche molti libri, ma soprattutto amava osservare gli uccelli direttamente. Stava tornando al proprio accampamento quando, attraversando una piccola radura circondata da cespugli spinosi e qualche rado albero, si accorse della presenza di un ragazzo seduto in terra, circondato da merli, fringuelli, passeri. Rimase a contemplare la scena per qualche minuto. Il ragazzo distribuiva agli uccelli le bacche che teneva nelle mani raccolte a scodella e contemporaneamente emetteva certi fischi e gorgheggi che sembravano ipnotizzare i pennuti.
    Rashid alzò lo sguardo perché la figura di un cavaliere si era messa tra lui e il sole. Fu come abbagliato dalla visione del purosangue sontuosamente bardato e dall’uomo che lo montava. I capelli rossi, lo sguardo acuto, il portamento regale, i colori accesi del suo mantello e gli stivali lucidi formavano una visione fiabesca.
    «Chi sei?» gli chiese il cavaliere.
    «Sono Rashid Mughaviz…» rispose il ragazzo mettendosi in piedi. Solo allora si accorse che intorno a quel cavaliere ce n’erano altri quattro. Si tenevano qualche passo indietro, in silenzio.
    «Mughaviz… vuol dire guerriero. Non hai l’aria del guerriero…» gli disse notando il pallore del viso e l’estrema magrezza del corpo.
    «Tu parli l’arabo?» chiese, stupito.
    «Certo» proseguì l’uomo in arabo. «Allora? Come mai sei qui da solo?»
    «Non mi piacciono i combattimenti…»
    «Eppure a pochi metri da qui si sta combattendo… perché sei venuto sul monte?»
    «Mi hanno portato i miei genitori…»
    «E dove sono i tuoi genitori?»
    «Li hanno presi prigionieri…»
    «Quando?»
    «Giorni fa… non me lo ricordo…»
    I primi guerriglieri catturati erano stati convinti a salire sulle navi che avrebbero dovuto portarli in Tunisia ma in realtà erano stati gettati in mare chiusi in sacchi di juta. Le donne, i bambini e i guerriglieri che avevano ceduto le armi successivamente cominciarono a essere trasferiti nella città di Lucera, in Puglia, perché formassero una comunità araba agli ordini dell’imperatore.
    «Ti piacciono gli uccelli?» chiese il cavaliere.
    «Sì… li addomestico…»
    «Anch’io li amo. Soprattutto i falchi. Vieni… monta sul mio cavallo… ti porto via da qui…»
    Rashid provò qualcosa che negli anni seguenti avrebbe cercato invano di spiegarsi. Una specie di innamoramento fulmineo, un incantamento che lo rapì a se stesso. Non si chiese niente, dimenticò la battaglia, i suoi genitori e tese le mani al cavaliere.
    —–
    Copyright Mondadori e Cinzia Tani
    (diritti riservati)

  283. TERZO BRANO: SU FLORA E GABRIELE
    ——-
    Pag: 206
    Flora addolcì l’espressione fredda che aveva assunto all’inizio del colloquio e baciò Gabriele sulle labbra. «Come può finire una cosa così? Non pensi che il destino ci abbia fatti incontrare da bambini perché costruissimo qualcosa insieme?»
    «No, non credo nel destino. Credo nella volontà degli uomini.»
    Lei lo abbracciò e gli sussurrò dolcemente: «Siamo ancora in tempo. Non c’è stato niente tra me e Matteo. Se tu vuoi io non lo sposerò».
    Lui le prese il viso fra le mani e lo guardò con calma, lasciando che il desiderio lo invadesse completamente. Lo sentiva nelle viscere, nello stomaco, all’inguine, nelle gambe, nei polpastrelli che percorrevano le labbra della donna che amava, gli occhi, la fronte. Quando non ne poté più, quando non riuscì più a resistere alla tentazione di stringerla ancora una volta e portarla sul letto, spogliarla, guardarla, amarla, la allontanò bruscamente.
    «Non ti posso amare» le disse. «Semplicemente non posso. Non riesco a darti tutto. C’è una parte di me che non ti apparterrebbe mai e tu non lo sopporteresti.»
    «Sì, lo so. Ti hanno strappato la tua religione e hai fatto dell’imperatore il tuo dio» disse in tono duro, addolorata per essere stata respinta. «Io non ti potrei mai dare quello che ti dà lui.»
    «Non è questo, Flora. Sono io che non potrei mai darti quello di cui hai bisogno.»
    Non riuscì a controllare un lieve tono di sfida. «Come puoi sapere di che cosa ho bisogno?»
    Gabriele pensò che non avrebbe retto all’urto dirompente delle sue domande. Prima o poi l’avrebbe presa fra le braccia e ne avrebbe distrutto l’avvenire. Fece uno sforzo e, senza guardarla negli occhi, provò a ferirla.
    «Hai bisogno di un uomo come Matteo. Lui ti ama molto più di me.»
    «Bene. Sposerò Matteo visto che ho anche la tua benedizione.» Si voltò e se ne andò.
    Gabriele la guardò mentre si allontanava e sentì che qualcosa gli si strappava dentro. Poteva fermarla ma Flora era il sogno della sua vita e doveva rimanere tale, non voleva niente di più. Gli era appartenuta totalmente solo prima di possederla. Nel dormitorio del monastero di Montecassino pensava a lei ogni notte. La introduceva di nascosto negli scriptoria per farle vedere i libri illustrati, la portava nei boschi a scoprire i nidi degli uccelli mimetizzati fra gli alberi, rispondeva alle sue domande strampalate senza mai ridere di lei. Da quando l’amore li aveva uniti a Mazara, sentiva di averla perduta. Il ricordo del suo corpo l’aveva torturato durante i mesi passati in Terra Santa e poi ancora in Puglia. Il desiderio di rivederla era un sentimento feroce che non aveva niente di poetico e lui aveva cercato di combatterlo. In seguito, ogni volta che erano stati insieme, nella sua stanza, in mezzo ai prati, all’ombra delle querce nei giorni più caldi, aveva sentito che lei non gli apparteneva più di quando era solo un sogno. Gabriele aveva venduto l’anima all’imperatore per un suo sguardo, per la sua benevolenza, e Flora doveva proseguire la sua vita con qualcun altro. Era stata la sua amante segreta quando ogni ragazza faceva progetti per un giusto matrimonio, non poteva trattenerla di più. Lei avrebbe attribuito la fine al suo amore debole, senza sapere che era la forza del suo amore che la respingeva. E Gabriele era consapevole, in quel momento più che mai, che l’avrebbe rimpianta ogni istante della sua vita. Eccola, ancora la vedeva, attraversare il giardino col suo passo spedito di piccola guerriera.


    Copyright Mondadori e Cinzia Tani
    (diritti riservati)

  284. Ringrazio Chiara Ferrero dell’ufficio stampa Mondadori per avermi autorizzato a pubblicare i suddetti brani.
    Auguro a tutti una buona serata e una buona prosecuzione.

  285. Caro Massimo,
    io credo che questo sia uno tra gli argomenti più propensi ad aprire prospettive infinite, soprattutto perché ci pone di fronte ad una querelle secolare e esistenziale se vogliamo: da una parte la verità e dall’altra l’immaginazione; dove e come porre un confine?
    Ogni autore imprimerà il suo stile (linguaggio, forma, coscienza) facendo la sua scelta.

    @ Carlo S.:
    siamo d’accordo in linea generale, nello specifico intendevo proprio i romanzi storici in senso comune, in senso noto, secondo i canoni tradizionali.
    Di certo non è la meticolosità a fare di un romanzo storico un bel romanzo, ma non esiste romanzo storico senza meticolosità nella ricerca delle informazioni.

    @ Maria Lucia:

    nomini Citati e vai al cuore della questione: i suoi sono anche per me saggi romanzati, ma del resto anche Debenedetti è più un narratore che un mero critico. La differenza la fa allora la scrittura, le immagini e le emozioni che un romanzo è in grado di suscitare

    E a questo punto mi rivolgo a Marco Salvador:

    Norbert Elias è un altro esempio di sociologo-storico narratore, con la sua meravigliosa concezione del tempo esistenziale: il tempo non come percezione innata dell’uomo ma come risultato di un rapporto con la società, col mondo: se viene meno questo anche il tempo si frantuma e diviene qualcosa di non più percepibile.

    Uno scrittore di un romanzo storico deve fare necessariamente i conti col concetto di tempo.

    Con calma leggerò con piacere i brani estratti dai vostri libri.

    Buona serata a tutti voi.

  286. Ho letto il romanzo di Cinzia Tani. Bellissimo.
    Per me le pagine più interessanti sono quelle che descrivono Roma ed i personaggi mentre si sta per celebrare l’incoronazione di Federico II

  287. Forse sono un po” in ritardo ma intervengo lo stesso, il dibattito è davvero importante. Il romanzo storico affascinerà sempre e ben venga questo! Provo a rispondere alle domande dichiarando prima di tutto il mio stupore rispetto alla definizione di romanzo storico ripresa da molti. Non è una ploemica stratta contro le definizioni che sono utili sempre se le si prende con intelligenza, ma quando una definizione è talmente restrittiva da tenere fuori per esempio un romanzo come I miserabili (il suo autore nasce nel 1802 e parla di eventi comnpresi fra il 1815 e il 30 e lo scrive nel 62 e quindi a una distanza che l’istituto inglese citato considera troppo breve) allora penso che ci si trovi di fronte a una definizione troppo povera per essere presa in considerazione. Ma anche romanzi formalmente in linea con la definizione per quanto attiene i tempi in cui sono stati scritti, in realtà lo sono di meno si si considerano altri aspetti. Considero il romanzo di Arpaia di cui ora mi sfugge il titolo su terrorismo e camorra negli anni ’70, un romanzo più che dignitoso e pienamente storico, anche se Arpaia c’era proprio e quegli anni li ha vissuti. E che dire de La storia di Elsa Morante? Secondo me quella definizione dice davvero poco.

    2) Secondo me un buon romanzo storico, se parliamo di funzione non squisitamente letteraria, è un’opera che attraverso il passato ci fa comprendere meglio il presente. Può farlo in diversi modi; a me dicono molto quei romanzi storici che cominciano dove lo storico finisce perchè rimane un’ombra di mistero in ciò che è accaduto e che lo storico con suoi mezzi non può più chiarire ulteriormente. La letteratura può ricercare una verità diversa da quella dello storico e farci in quel modo intravedere un altro volto di quegli eventi: diciamo in sintesi che lo scrittore è legittimato a riscrivere un avento con i “se”.

    3) Dovrebbe evitare per me di essere una semplice fuga, anche intelligente e letterariamente sontuosa nel passato e basta. A parte il fatto che non vedo, in questi casi come si possa evitare di fare sfoggio dell’erudizione dell’autore, una semplice immersione nel passato senza nessuna connesisone almeno accennata con i problemi del presente, mi sembra una fuga. Ce ne sono di scritte benissimo, intendiamoci, ma mi lasciano freddo, oppure possono costituire un ottimo intrattenimento ma non di più. Faccio una sola eccezione per i romanzi che ricostruiscono la storia delle donne: ne sappiamo così poco ed è stata così sommersa che c’è sempre qualcosa da imparare. Del resto in tutti i romanzi che sono stati citati, il presente c’è tanto quanto il passato. Nei Promessi sposi Manzoni non parla dei ‘600 e Tolstoi in Guerra e pace, tira le somme di un’epoca e mette in evidenza che il vero vincitore della guerra non è lo zar (se lo avessero ascoltato sarebbero fintii nel disastro), e nemmeno i principi e nobili più o meno galantouomini o avventurieri. I vincitori sono il generale Kutuzov e l’eroe vero è Pierre Besuchov, il borghese onesto che peraltro aveva più di un trasposto nei confronti degli ideali della Rivoluzione Francese; e poi le masse russe contadine. In sostanza Tolstoi riflette sulla fne dello zarismo e su una forma di eroismo che non appartiene più alla nobiltà ma all’uomo comune e alle masse. E la fine dello zarismo che sarevbbe avvenuta a cento anni di distanza dalla vittoria, più o meno, un tempo che per un impero, vale quanto due settimane di vita per un individuo.

    4) Dipende da che arco temporale partiamo. Vincenzo Consolo ha scritto dei romanzi storici importanti, se andiamo indietro ovviamente troviamo De Roberto e Tomasi di Lampedusa, ma anche la Storia di Morante. Arpaia, Scurati. Per me anche Petrolio era nelle intenzioni di Pasolini un grande romanzo storico in presa diretta con ciò che accadeva. Ne dimentico sicuramente altri, non mi sembra si stia poi tanto male e anche nel mondo ce ne sono stati di ottimi: Cani neri di McEwan, sul dopo la caduta del muro di Berlino (e siamo di nuovo fuori dalla definizione), e lo stesso per Gunther Grass e Cees Nooteboom. Diverso il discorso per il mondo anglosassone che rpeferisce la distopia o la fiction proiettata nel futuro, tutte cose che ahnno a ache fare ocn la storia ma in un modo e prospettiva completamente diverse.

    6) Se consideriamo la narrativa mondiale, diciamo almeno occidentale e russa perchè non so nulla di Asia profonda ecc. direi che Guerra e pace è una summa difficilmente superabile almen fino ad ora. Nel suo sapere intrecciare storia, narrazione, riflessione politica e sociale, immaginazione e realtà, non me ne vengono in mente altri; anche se I Miserabili, Vanity Fair e altri costituoscono un corpus di grandi opere che si avvicinano. Anche i Promessi sposi, importanti certamente per noi italianii ma da vedere nel contesto euroeo: ho sempre in mente Silvio Orlando nei panni di insegnante che dice ai suo studenti”I promessi sposi sono un grande romanzo ma Balzac ne ha scritti almeno dieci che sono capolavori…” Nel ‘900 prevale la trasfigurazione piuttosto che l’intreccio fra storia, memoria e narrazione e questo per me non è necessariamente un bene.

  288. Ringrazio Andrea Frediani. Di lui posso dire che è un fantastico creatore di emozioni e di scene “visive”. Il suo ultimo romanzo, “Un eroe per l’impero romano” meriterebbe l’attenzione di Ridley Scott.

  289. Qui la festa continua ancora. Quest post non verrà dimenticato facilmente. Massimo, sei un grande.

  290. @ Franco Romanò
    La definizione completa della Historical Novel Society (disponibile sul link postato in precedenza ben 3 volte) recita:
    “Definire il romanzo storico presenta diversi problemi, come definire qualunque altro genere. Dove finisce il ‘contemporaneo’ e inizia lo ‘storico’? Che cosa dire di romanzi che sono in parte storici e in parte contemporanei? E quanta distorsione dei fatti è lecita, prima che un romanzo si avvicini più al fantasy che allo storico? Non si troverà mai una risposta soddisfacente a queste domande. Queste sono, dunque, le decisioni – arbitrarie – che abbiamo preso.
    Per essere ritenuto storico (nella nostra accezione), un romanzo deve essere stato scritto almeno cinquanta anni dopo gli eventi descritti, o deve essere stato scritto da qualcuno che all’epoca di tali eventi non era ancora nato (e che quindi si è accostato ad essi solo attraverso ricerche).
    Consideriamo storici anche i seguenti stili di romanzo: ‘alternate histories’ (come ‘Fatherland’ di Robert Harris), pseudo-storici (come ‘L’isola del giorno prima’ di Eco), ‘time-slip’ (come ‘La signora di Hay’ di Barbara Erskine), fantasie storiche (come la trilogia di re Artù di Bernard Cornwell) e romanzi multitemporali (come ‘Le ore’ di Michael Cunningham).”
    Quindi, come può vedere, con un minimo di elasticità “I Miserabili” ci potrebbe rientrare. “La Storia” di Morante no, ma ne abbiamo già parlato in precedenza. D’altra parte, forse chiedere di leggere TUTTI gli interventi che precedono è chiedere troppo.
    Inoltre: “non vedo, in questi casi come si possa evitare di fare sfoggio dell’erudizione dell’autore”. Beh, ognuno è libero di fare sfoggio di quel che più gli piace.
    Grazie di aver citato “Cani neri” di McEwan. Grandissimo romanzo.
    @ Massimo Maugeri
    Mi associo a Salvo: sei un grande.

  291. Anch’io sostengo quanto detto da Rita Charbonnier a proposito dei cosiddetti parametri per stabilire quali testi possono rientrare nel genere di romanzo storico.

    @ Franco Romanò:

    “I miserabili” senza dubbio rientrano nel genere, lo avevo scritto in un mio intervento precedente (ma capita anche a me di ripetere domande fatte o altro, perché è davvero impossibile leggere circa 400 commenti per intero!!!).

    Le epoche cambiano certi aspetti di dare vita a dei romanzi storici, se Gogol ad esempio fosse nato in questi anni ( o De Roberto ed altri) avrebbero dato vita ad opere totalmente differenti, legate ad esigenze differenti.

    Si pensi a Il Gattopardo ad esempio:
    Tomasi lo scrive tra il ’40 e il ’50 del ‘900 (e lo concepisce ancor prima), ma è proprio l’Europa (e quindi la Sicilia) tra le due guerre o subito dopo la guerra che fa nascere in lui l’esigenza di creare un tempo quasi parallelo con quello del secolo precedente.

    Se Tomasi fosse appartenuto ai nostri giorni forse avrebbe sentito l’esigenza di scrivere un romanzo realista o forse di un periodo storico differente.

    Non è un caso che la crisi culturale intellettuale ed economica degli anni ’30 abbia per certi versi proiettato in lui la crisi identitaria di una classe nel passaggio di potere durante l’unificazione italiana.

    E’ importante capire anche il periodo storico a cui appartiene un autore di romanzi storici per poterne definire dei caratteri, lemotivazioni non vanno trascurate.

    Se i nostri tre autori fossero vissuti in un altro periodo (nel ‘500 o altro) avrebbero trattato altri periodi e magari in altre forme.
    I romanzi storici del ‘900 (paradossalmente) sono figli del loro tempo, credo.

  292. Grazie a questo sito ho capito cosa leggerò quest’estate: stamperò tutti gli interventi e me li leggerò sorseggiando una birra gelata, sempre che Miriam, la mia piccola peste di undici mesi, non mi strappi tutte le pagine succhiandole avidamente.
    Spero di fare cosa gradita segnalando ai tanti scrittori e appassionati qui presenti, oltre che il mio blog, ultimamente poco aggiornato causa impegni lavorativi e ricerca casa, un indirizzo web che ormai ha più di due anni alle spalle, il gruppo di Anobii dedicato ai romanzi storici.
    Link: http://www.anobii.com/groups/0135adaed7ad4988bc/

    Complimenti per il post!!!
    saluti
    Luigi Corazza, alias Conte Mascetti

  293. @ Luigi Corazza
    Benvenuto a Letteratitudine!
    Hai ragione… ho provato a ricopiare il post (completo dei commenti) in un file di word (A4, times new roman 12). Ne viene fuori un testo di circa 130 pagine (suscettibile di crescere ancora).
    In bocca al lupo per il tuo gruppo su Anobii. E torna a trovarci, magari partecipando alle altre discussioni.

  294. “Gli ultimi fuochi dell’impero romano” di Giulio Castelli, invece, uscirà a settembre. Chiederò a Fiammetta Biancatelli dell’ufficio stampa della Newton Compton se è possibile leggere una piccola anticipazione.

  295. Massimo, grazie… in effetti per inserire il mio estratto aspettavo che lo facesse prima Marco Salvador… ma tu ci hai preceduti! 🙂
    Ancora grazie di cuore e buona giornata (immagino ti ri-collegherai domani).

  296. @Riiiiita. Bhe, a questo punto la vogliamo fare una pausa? Vogliamo tributare il giusto riconoscimento a questo ragazzo che è riuscito a creare qualcosa di straordinario. Oggi Letteratitudine è diventato uno dei salotto letterarii più esclusivi d’Italia. A cosa è dovuto tale successo? Io la penso così:
    Maugeri, il fenomeno

    Internet è destinato a diventare l’invenzione del secolo, ha rivoluzionato il sistema della comunicazione. E’ una finestra sul mondo. Ha dato libero accesso a tutti, visibilità a quanti desiderano esercitare il loro diritto all’esistenza, dalla casalinga al poeta locale cui nessuno voleva dare credito letterario. Un oceano popolato da pesci multiformi che si muovono sconnessi alla ricerca di luce. Nel bene e nel male ha sovvertito certi strumenti di potere, egemonia della stampa e della televisione. Una rivoluzione in piena regola. Fioriscono i siti on-line, proliferano i blog. Una miriade di stelle dove la gente sbarca per avere diritto al proprio piccolo raggio di luce. Il 18 Settembre 2006, un ragazzo della provincia di Catania, dai modi raffinati e dai toni garbati, decide di aggiungere la sua stellina in questo sconfinato firmamento: apre un litblog (blog letterario) per il semplice desiderio di comunicare e condividere il suo amore per la letteratura con altre persone. Nasce Letteratitudine. E nasce Maugeri, il fenomeno. L’uomo con la camicia celeste. Sarà proprio il garbo, la signorilità, la professionalità che faranno di questo ragazzo un personaggio di fama nazionale. Ben presto il blog entra a far parte della famiglia dei blog d’autore di Kataweb-Gruppo Espresso. Letteratitudine diventa uno dei salotti letterari più esclusivi d’Italia. Un punto di incontro virtuale dove potersi confrontare, dibattere su argomenti culturali, interagire, polemizzare anche, ma in maniera costruttiva ed evitando risse e sterili polemiche. Tutto ciò a Massimo Maugeri costa energie, impegno costante e duro lavoro. Ma è propria questa la capacità che lo contraddistingue: la buona educazione, l’affabilità che il padrone di casa usa con gli stessi riguardi nei confronti dei suoi ospiti, siano essi personaggi famosi o persone qualsiasi. E se qualcuno insiste a fare il troll, viene invitato con le buone maniere ad andare a farlo da un’altra parte. Che già di troll è pieno il mondo e non c’è bisogno di riempire anche i siti. Numeri da capogiro, dibattiti culturali di altissimo livello, rubriche affidate ad esperti). Quasi tutti i più famosi scrittori italiani accettano di presentare i loro libri su Letteratitudine. Qualche nome: Dacia Maraini, Paolo Di Stefano, Roberto Alajmo, Beatrice Masini, Catena Fiorello, Antonella Cilento, Ferdinando Camon, Rita Charbonnier e tanti altri ancora. Camon gli dedica un articolo su Tuttolibri, a cui fa seguito quello di Loredana Lipperini su Venerdi di Repubblica. Gli addetti stampa delle maggiori Case Editrici gli inviano le novità (una media di 60 libri al mese) sperando in un passaggio su Letteratitudine. Insomma, Maugeri rischia di passare alla Storia come l’uomo che ha dato ufficialità e identità alla cultura diffusa attraverso il virtuale

  297. QUADRO II

    Un’esecuzione è un evento spiacevole da sopportare con
    rassegnazione. Alla fin fine ogni giorno qualcuno muore.
    Per le cause più diverse e nei luoghi più disparati, per volontà
    di Dio o degli uomini. Quotidianità di un mondo
    imperfetto da accettare senza troppi perché. Certo, allora i
    patiboli erano tanti e fin troppo affollati. Ma anche la Storia
    ha le sue stagioni, alle volte buone e alle volte cattive, e
    quella sembrava fra le peggiori.
    La piazza era una caldaia bollente. Sentivo rivoli di sudore
    scorrermi tra i capelli sciolti, bagnarmi le spalle; l’acciottolato
    nuovo, ancora puntuto e disunito, mi martoriava
    i piedi. Rimpiangevo le scarpe dalla spessa suola di cuoio e
    lo zucchetto di lino; maledicevo la berretta di broccato appesantita
    da una grossa spilla e i calzari ricamati, con le
    suole sottili e le punte lunghe curvate all’insù da dei legacci
    stretti alle caviglie. Non sopportavo neppure la seta verde
    delle calze e della tunica dall’alta bordatura ricamata
    d’oro. Ma in quella occasione erano d’obbligo, al pari della
    cintura d’argento e della lunga spada da parata. Dovevo
    apparire il più possibile elegante e inavvicinabile per marcare
    le distanze fra chi comandava e chi ubbidiva. Perciò
    facevo finta di nulla e continuavo ad avanzare impettito e
    fiero, nascondendo come meglio potevo il dispetto per la
    lentezza dei tamburini davanti a noi, per le lunghe pause
    tra un colpo di mazza e l’altro che ne regolavano l’andatura
    marziale.
    Per alleviare la sofferenza cercai di concentrarmi sulla
    24
    comoda tunica in cotone di Ezzelino e sulla fresca guarnacca
    in lino di Alberico, del tipo usato per ripararsi dalla
    polvere e dal sole. Mi precedevano di pochi passi, disarmati
    e senza insegne, il primo a testa nuda e il secondo
    con una modesta cuffia da casa neppure allacciata sotto il
    mento. Erano i padroni di Treviso, della Marca e di molte
    altre terre, non avevano bisogno di orpelli per ostentare
    potenza. A loro bastavano i visi impassibili, gli sguardi impenetrabili
    e le mascelle serrate.
    Finalmente il pesante e rumoroso marciare dei militi di
    scorta si interruppe e giungemmo al palco coperto da un
    luttuoso panno nero. Ezzelino e Alberico sedettero severi
    sugli scranni e io andai a pormi alle loro spalle. Solo allora
    volsi lo sguardo oltre la barriera di lance che ci circondava.
    Alla nostra sinistra c’era la folla dei borghesi, artigiani,
    bottegai e popolani assiepati dietro le transenne.
    L’atmosfera non era la solita. Non acclamavano i loro signori
    come erano soliti fare, e nel silenzio si percepiva
    ostilità. Inoltre, a parte qualche vecchia sdentata e alcune
    laide prostitute da strada, non c’erano donne. La cosa non
    mi stupì. Pure noi le avevamo lasciate nel castello di Romano,
    con i figli di Alberico pronti a gettarsi su Treviso se
    ci fosse stato anche solo un accenno di sommossa.
    Davanti a me, a ridosso del palazzo comunale, la forca.
    Un traliccio simile a un nudo pergolato di vite. Quattro
    grosse travi piantate a terra ne reggevano altre più sottili, e
    da ognuna delle cinque poste a far da tetto pendevano cinque
    capestri con sotto altrettanti panchetti. A destra, nei
    pressi del palco dell’araldo e dei pennoni con gli stendardi
    dell’impero, dei da Romano e della città, erano raggruppati
    i nobili e i maggiorenti del comune. Alle loro spalle,
    all’imbocco della via che conduce alla chiesa di San Pietro,
    c’era fra Stefano attorniato da una dozzina di altri monaci,
    in attesa dei condannati.
    Alzai gli occhi al cielo in cerca di uno squarcio d’azzurro
    o del bagliore lontano di un lampo. Nulla, solo l’im-
    25
    mobilità del grigio. Riabbassando lo sguardo vidi le trenta
    giovani donne ammassate nel loggiato superiore del pretorio.
    Il cuore accelerò i battiti e provai una sottile angoscia.
    Di lì a poco il loro destino sarebbe stato nelle mie mani,
    non avrei goduto della comoda posizione di chi semplicemente
    assiste approvando o disapprovando in cuor suo
    decisioni prese da altri. Mi sentii al centro della scena e la
    cosa non mi piacque.
    I sensi acuirono rendendo insopportabile il rullare mesto
    dei tamburi, i rintocchi lenti delle campane del duomo
    annuncianti l’agonia, l’odore speziato dell’olio con il quale
    Alberico era stato unto al mattino, quello acidulo e un po’
    animalesco di Ezzelino, i colori sgargianti delle uniformi
    dei soldati allineati attorno al palco. Il sudore aumentò e
    sentii gli abiti appiccicarsi fastidiosamente alla pelle. Alcuni
    chierici messisi dietro il palco intonarono il De profundis,
    recitarono salmi e un diacono lesse la Passione secondo
    Giovanni. Un’ora se n’era già andata. Tornai ad
    alzare lo sguardo al cielo. Stava incupendo e il mezzogiorno
    mutava rapidamente in crepuscolo, senza però scurire
    a tal punto da far sperare in un temporale o almeno in
    un acquazzone in grado di spazzare via la sporcizia dalle
    strade e donare ristoro alla gente e alla campagna riarsa.
    In cancelleria avevo udito molti lamentarsi di essere
    nati in una masseria, nella bottega di un fabbro o di un falegname,
    in una casupola dei suburbi. Ma quel giorno, sul
    palco, mentre mi tormentavo per lo stupido timore di apparire
    incerto e goffo, di far trapelare la mia inquietudine,
    iniziai a invidiarli. Non fossi nato in un palazzo e cresciuto
    in un castello, la mia vita sarebbe stata faticosa, probabilmente
    misera, ma sicuramente più serena. Avrei seguito i
    ritmi del sole e della luna con la consolante rassegnazione
    di chi attribuisce il bene e il male, le gioie e i dolori, a un
    immutabile destino. E intuii anche che il potere, qualsiasi
    esso sia, ha un ordine diverso da ogni altro e quasi sempre
    in conflitto con quello naturale.
    26
    A scuotermi da tali pensieri fu un nuovo rullare di tamburi,
    così forte e rapido da rimbombarmi dolorosamente
    fin dentro il cuore. Quando s’interruppe, udii un cigolare
    di ruote, lo stridere dei loro ferri sull’acciottolato. Un
    carro trainato da due buoi sbucò da dietro la torre comunale
    conducendo i condannati alle forche. Per alcuni attimi
    nella piazza si udì solo la voce del bifolco, alta e forte
    nell’impartire rudi comandi ai suoi animali.
    Il carro si fermò davanti all’araldo e gli occhi dei prigionieri
    si volsero tutti e subito alle forche. Con disappunto
    notai unicamente visi terrei e sguardi impauriti. Se uno, almeno
    uno, avesse riso sfrontato davanti al supplizio, se
    avesse urlato il proprio odio contro di noi o cercato di arringare
    la folla, avrei perso ogni scrupolo nel proclamare
    la mia decisione. Invece erano solo terrorizzati. Peggio,
    qualcuno iniziò a singhiozzare scorgendo la moglie, la figlia
    o la sorella rinchiusa nel loggiato.
    Non ascoltai l’araldo riassumere cantilenando gli eventi,
    scandire le accuse, leggere lento e puntiglioso i nomi e la
    sentenza. Continuavo a fissare i miei “doni” a uno a uno,
    faccia dopo faccia. Fra di loro c’erano uomini con i quali
    avevo riso, duellato, partecipato a feste, eppure mi parevano
    estranei. Li vidi buttare giù dal carro, le mani legate dietro
    la schiena con strisce di cuoio; li osservai venire spintonati,
    barcollare e incespicare durante gli ultimi venti passi
    per poi salire docili i tre scalini dei panchetti e accogliere il
    cappio senza un gesto di ribellione. Mentre i frati li assolvevano,
    alcuni iniziarono a tremare. Un alito di vento caldo
    e appiccicoso mi portò il loro odore, un misto di carne
    sporca, fiato fetido, sudore, orina e feci mal trattenute. Di
    nuovo i tamburi, il silenzio, e le campane che suonavano a
    morto.
    Le donne, scomparse dal loggiato, riapparvero nella
    piazza. C’era stupore nei loro occhi mentre le spingevano
    verso il patibolo, quasi non si rendessero ancora conto di
    cosa stava accadendo realmente. Agnelli dall’espressione
    27
    smarrita, incapaci perfino di belare. I militi le obbligarono
    a porsi in mezzo ai morenti, picchiandole con le aste delle
    lance; ed eccole senza una parola, spaurite e sgomente, chi
    davanti al padre, chi al marito, chi al fratello.
    Arrivarono i musici. Evitando di guardarsi attorno si sistemarono
    su un palchetto là vicino e imbracciarono gli
    strumenti. Dopo essersi scambiati delle occhiate e dei cenni
    d’intesa iniziarono a suonare una ronda e l’araldo ordinò
    alle donne di danzare. Esse rimasero immobili e tremanti.
    L’ordine fu ripetuto per tre volte e i musici, stupidamente,
    cambiarono ritmo. Infine, pungolate con i ferri delle lance,
    alzarono le braccia, cercarono le mani delle vicine e iniziarono
    a muoversi incerte e sgraziate. A quel punto accadde
    l’impensabile. Alcuni dei condannati, forse credendo quello
    il vero supplizio e l’impiccagione una macabra burla, iniziarono
    a implorarle di danzare bene. Sotto lo sguardo sbigottito
    di tutti le donne ubbidirono e incitandosi l’un
    l’altra ballarono la stampita battendo il piede al giusto ritmo,
    leggiadre come a una festa.
    Vedendo ciò, Alberico s’impietosì. Fece anticipatamente
    ai maestri di giustizia il gesto convenuto ed essi presero
    rapidi a togliere i panchetti da sotto i piedi dei condannati.
    Le donne si arrestarono impietrite e poi si gettarono a terra
    con urla e gemiti, afferrandosi disperate alle gambe dei
    familiari. Ma con il loro aggrapparsi ne aumentavano il
    soffocamento, e gli appesi cercavano di liberarsene scalciandole
    via. Quando i calci si fecero violenti e dolorosi, esse
    si rialzarono come a un tacito ordine e incredibilmente
    ricominciarono a danzare.
    Ormai erano in preda alla follia del terrore, la stessa capace
    di mutare in leone un pavido soldato prossimo a soccombere
    in battaglia. Non per morire da eroe, solo nella
    speranza di rubare alla morte almeno qualche altro respiro.
    Danzando tentavano di esorcizzare l’ineluttabilità
    della fine, l’orrore di quanto stavano vivendo. Infatti, a
    mano a mano che gli impiccati si immobilizzavano, esse
    28
    crollavano a terra come morte. Il tutto durò il tempo di
    una carola.
    Le fecero alzare a pedate e a colpi d’asta, togliendo loro
    i veli dalla testa con gesti bruschi e irrispettosi. Ad alcune
    li strappavano con rabbia, come se gli aguzzini provassero
    vero odio nei loro confronti. Violenze inutili, pensai, invidie
    e rancori da poter finalmente scatenare. Nulla dà maggiore
    appagamento dell’umiliare i padroni caduti in disgrazia,
    del tirare giù dai piedistalli coloro davanti ai quali
    ci si è dovuti umilmente inchinare.
    Con delle roncole tagliarono loro le vesti nella parte superiore,
    denudandole fino alla cintola. Dovevano porsi innanzi
    a noi, per udire il loro destino. Alcune vi furono trascinate,
    altre avanzarono barcollando come ubriache, altre
    carponi. Tutte e trenta cercavano di coprirsi il seno con le
    mani e le braccia e quando furono a pochi passi dal palco
    si allacciarono l’una all’altra come un groviglio di vermi.
    In un silenzio irreale, Alberico si alzò e annunciò il dono
    che mi aveva fatto. Quindi mi prese per un braccio e sospingendomi
    davanti a lui concluse: «Guido, figlio mio al
    pari dei miei figli naturali, ora proclamerà la sua decisione».
    Avevo la bocca secca e cercai affannosamente con la lingua
    un po’ di saliva. Inutile, faticavo persino a deglutire.
    Tutti gli occhi erano puntati su di me, l’intera piazza
    aspettava di ascoltare la mia voce. Ero furioso con me
    stesso, eppure non riuscivo a parlare. Non avevo avuto
    mai un attimo di titubanza nell’eseguire un mandato anche
    sgradito, nello svolgere le mansioni giudiziarie assegnatemi,
    nell’uccidere un nemico in battaglia. Scoprirmi
    improvvisamente incerto, insicuro, incapace perfino di ripetere
    un ordine già deciso, mi sconvolgeva.
    Dal gruppo dei nobili uscì Marco Badoer, uno degli uomini
    più potenti del comune. Tra le donne c’era una sua
    nipote acquisita, il cui marito pendeva dalla forca. Venne
    verso il palco fermandosi a venti passi da noi, e per essere
    29
    udito dall’intera piazza gridò: «Nobile Guido, vi supplico
    a nome di tutti i miseri che hanno qui un familiare. Consegnateci
    i corpi per una degna e cristiana sepoltura e lasciate
    libere le donne».
    Non risposi subito: avevo paura di udire la voce tremare.
    Il mio mutismo venne frainteso, credettero volessi allungare
    il momento di potere. Marco Badoer non riuscì a trattenere
    un’esclamazione e un gesto rabbiosi e dalla folla si sollevò
    un brusio di disapprovazione nei miei confronti. Sentivo
    piovermi addosso il biasimo persino da dietro le imposte
    serrate, da dietro le facciate dipinte dei palazzi che chiudevano
    con un semicerchio la piazza. Solamente fra Stefano
    capì il mio malessere, e ne approfittò.
    Lasciò i confratelli intenti a benedire i cadaveri e venne
    a porsi fra il palco e le donne, come a fare da baluardo fra
    me e loro. Una voce dentro di me urlava: “Deciditi, dai l’ordine”.
    Ma un’altra, altrettanto forte, ripeteva: “Attento!
    Per tutti i secoli a venire questo giorno avrà scritto sopra il
    tuo nome”.
    Nel tempo di pochi respiri lo sguardo colse l’espressione
    e l’agire di tre persone. Una ragazza di neppure
    quindici anni, con grandi occhi azzurri arrossati dal
    pianto, capelli biondi intrecciati attorno alla fronte, il seno
    minuscolo e un viso tanto dolce che neppure la sporcizia e
    la disperazione riuscivano ad abbruttire, mi fissava terrorizzata
    e incapace di fare anche il più piccolo movimento.
    Sfilatosi il saio e ricoperte con quello le nudità di alcune
    donne, fra Stefano si era gettato prono a terra, le braccia
    aperte, come un crocefisso ribaltato. Era rimasto con le
    misere e corte brache di canapa e dove i nodi del cilicio gli
    tormentavano i fianchi si vedeva il violaceo della carne
    martoriata. A uno dei maestri di giustizia scivolò di mano
    il coltello, lo raccolse, ne tastò rapido il filo, e scoprendolo
    ammaccato corse alla mola per riaffilarlo.
    «Non il saio ma la mia carne di uomo v’implora, Guido.
    Abbiate pietà e un giorno riceverete pietà» disse fra Stefano.
    30
    «Siete stato sempre un amico della città, non traditela
    ora e mostrate la grandezza del vostro cuore» ripeterono
    quasi in coro i nobili e i maggiorenti del comune.
    «Clemenza! Clemenza!» urlò la folla.
    Sentii Ezzelino borbottare irritato qualcosa, muoversi
    nervosamente alle mie spalle, e una mano di Alberico toccarmi
    la schiena come a dirmi di fare in fretta. E finalmente
    decisi. Non volevo il terrore di una fanciulla dai
    grandi occhi azzurri; non l’umiliazione di un uomo di Dio;
    e neppure essere peggiore di un maestro di giustizia
    odiato e disprezzato da tutti, ma capace di preoccuparsi
    dell’affilatura di un coltello ben sapendo quanto le ammaccature
    decuplicassero il dolore della mutilazione. No,
    io volevo essere giusto e punire duramente senza infierire.
    La paura si sciolse, il cuore rallentò i battiti.
    Avrei dovuto ripetere: “I corpi vengano lasciati là per
    tutta la notte, quindi impeciati e appesi lungo le strade a
    trecento passi dalle porte della città; alle donne siano recisi
    il naso e le mammelle, e questo ad ammonimento di
    chi avesse anche solo l’ardire di pensare al tradimento”. Al
    massimo potevo spingermi a concedere quanto mi aveva
    consigliato Alberico. Invece dissi, con voce forte e sicura:
    «Dopo il tramonto ognuno potrà prendere il corpo del familiare
    o dell’amico. A me sono stati donati e io li dono
    alla città. In quanto alle donne, le si conduca al campo
    detto della carestia e là siano denudate e obbligate ad attraversarlo
    affinché conoscano almeno un settantesimo del
    dolore inflitto dai loro uomini a degli innocenti. Poi siano
    riportate nude, ma in pace e intoccabili, alle case che le
    vorranno accogliere».
    Mi girai verso Alberico ed Ezzelino, in attesa delle loro
    reazioni. Ero convinto di avere fatto la cosa giusta e
    pronto a difendere la mia decisione, con timore ma senza
    paura. Alberico mi fissò in un modo strano, fra il perplesso
    e il sollevato; quindi si guardò in giro, vide l’entusiasmo
    della folla e mormorò: «Sbagliando alle volte si
    31
    fa la cosa giusta. Noi torniamo a palazzo. Pensa tu al resto
    ».
    Invece Ezzelino era furibondo. Mi si avvicinò con le
    mani strette a pugno e uno sguardo così duro e violento
    da far piegare le ginocchia. Iniziò a dire: «No, tu non puoi
    essere…».
    «Taci, fratello!» lo interruppe Alberico con una tale
    forza nella voce da stupirmi.
    L’altro serrò le labbra, mi volse le spalle e scese rabbioso
    dal palco.
    Caricarono le donne sul carro usato per i condannati e
    condussero dei cavalli per me e la scorta. Uscimmo dalla
    città, passammo il fiume Sile e giungemmo al campo detto
    della carestia. Era un grande appezzamento di pessima
    terra comunale, incolto da anni perché si faticava persino
    a cavarne un taglio di fieno decente. Ci crescevano solo
    rovi, luppolo, ortiche, cardi selvatici, triboli, e soprattutto
    grandi cespugli di marruca dalle spine lunghe un dito. Passarci
    in mezzo senza vesti e a piedi nudi, dovendo aprirsi
    con le mani un varco in quell’intrico spinoso e urticante,
    non era pena da poco. L’avevo vista applicare solo due
    volte, nei confronti di donne colte dai mariti in flagrante e
    incestuoso adulterio, e ancora oggi non capisco perché
    scelsi quell’atroce pena.
    Assistetti alla spoliazione delle donne e al loro ingresso
    nel campo, quindi andai dall’altra parte ad attenderne
    l’uscita. In quel momento non provavo pietà, ero solo
    preoccupato per la rabbia di Ezzelino e le sue reazioni nei
    miei confronti. Si udirono pianti, grida di dolore e disperazione,
    ma io rimasi sordo alla sofferenza. Continuavo a
    fare supposizioni sulle accuse cui avrei dovuto ribattere,
    su come spiegare con parole sensate le emozioni provate
    sul palco. Probabilmente chi mi circondava mi considerò
    un uomo spietato, anche perché cercavo di conservare
    l’impassibilità del volto per non mostrare il mio intimo
    tormento.
    32
    Quando alfine le donne uscirono come in processione,
    le raggrupparono davanti a me. Erano ricoperte di sangue,
    le carni torturate come se fossero state selvaggiamente fustigate.
    Quasi non distinguevo l’una dall’altra perché avevano
    i visi gonfi, la pelle ancor bianca solo dove le lacrime
    l’avevano lavata, i lineamenti deformati da un’eguale
    smorfia di sofferenza e umiliazione. Avevano impiegato
    l’intero pomeriggio ad attraversare il campo, e almeno la
    loro martirizzata nudità fu presto velata dal crepuscolo.
    Incrociai per un sol attimo lo sguardo della giovane che mi
    aveva turbato. Fu come un colpo di pugnale: gli occhi avevano
    perso la purezza, erano colmi d’odio.
    Finalmente riemerse la pietà e smisi di pensare alle conseguenze
    del mio agire. Avrei dovuto ammonirle, obbligarle
    a tornare a casa nude e ritte sul carro in modo da essere
    esposte a ludibrio dell’intera città. Invece, evitando
    accuratamente di guardarle, mi volsi ai parenti raggruppati
    poco lontano e ordinai brusco e severo: «Copritele e
    portatele a casa. In fretta!».
    Quindi girai il cavallo e, seguito dalla scorta, ritornai il
    più velocemente possibile a palazzo con la morte nel cuore
    e assurdamente a disagio per il potere concessomi.
    33
    da “La palude degli eroi”,

    © Marco Salvador ed Edizioni Piemme

  298. QUADRO III (seconda parte)
    La Giudea è una strada e un confine. Si stacca dall’Ungaresca
    a settentrione, nei pressi del guado sul Meduna;
    scende verso meridione separando tre diverse pievi da
    quella di Cosa, e perciò dal feudo di Corrado; incrocia la
    via di Concordia presso il Majerhof e infine raggiunge la
    Stradalta al guado di Rosa sul Tagliamento. Dunque era, e
    ancora è, un raccordo fra due guadi e tre strade. La usano
    gli abitanti dei villaggi a essa vicini, che per altro mai attraversa,
    e soprattutto i mercanti ebrei ai quali deve il nome.
    Inoltre, nei pressi della sega sulla roggia Roja, inizia la
    nuova via di collegamento tra la corte antica di Valvasone
    detta Majerhof e il castello.
    Ogni mattina mi alzavo di buonora e montavo a cavallo.
    Percorrevo la poca strada fra il castello e la Giudea,
    e solo a quel punto decidevo se dirigermi a est o a
    ovest. Non perché ci fosse una qualche differenza, essendo
    la mia destinazione comunque un grumo di capanne
    abitate da poveracci in speranzosa attesa di vendere
    un boccale di vino, cambiare un ferro a un cavallo
    o riparare una ruota. A spingermi da una parte o dall’altra
    erano piuttosto l’umore e il clima. Se l’umore era
    buono andavo a meridione per godermi il sole in faccia,
    altrimenti gli volgevo le spalle e puntavo ai monti. Se
    pioveva, tirava vento forte o nevicava era inevitabile l’occidente
    perché là ero certo di trovare una taverna con il
    fuoco sempre acceso e alla bisogna del vino caldo servito
    in una ciotola abbastanza pulita.
    213
    Nel giro di poche settimane mi ero fissato nella mente
    tutto quanto stava oltre i bordi di ognuna delle sei miglia
    del mio percorso e mi accorgevo anche se era stato tagliato
    un ramo o falciato un passo d’erba. I problemi li avevo
    solo a meridione dove confluivano più giurisdizioni e
    spesso scoprivo armenti e greggi pascolare in terra valvasonese,
    con pastori e bovari pronti a nascondersi dietro i
    confini incerti e segnati male. Cercai di usare buonsenso e
    mano leggera, feci piantare pali e costruire cumuli di sassi
    per rendere più chiari i confini e raramente mi spinsi oltre
    le minacce, le intimazioni e qualche multa. Solo in due occasioni
    fui costretto a infliggere pene corporali: trascinai a
    Valvasone e feci fustigare un bracconiere di Casarsa, perché
    era la terza volta che lo coglievo a mettere trappole ed
    ero stufo del suo piagnucolare su mogli malate e figli affamati;
    misi alla berlina una donna di Arzene, usa a offrire
    sulla strada le sue sudicie grazie ai pochi viandanti: dovette
    fare sette volte il percorso dal suo villaggio alla porta
    del castello e viceversa, reggendo tra le mani una grossa
    pietra legata al collo con una corda.
    A metà maggio tutti gli abitanti dei paesi vicini alla
    strada sapevano della mia presenza. Molti venivano a
    spiarmi da dietro i cespugli e altri fingevano di andare da
    qualche parte per incrociarmi, potermi guardare bene in
    faccia e scambiare una parola. Di solito li ignoravo oppure
    facevo il burbero per intimorirli, ma alle volte mi divertivo
    a stuzzicarne la curiosità spingendoli a porre domande cui
    non rispondevo mai.
    Ottolino Vicentino fu il primo a diventare un appuntamento
    fisso, all’incrocio con la via di Concordia. Era un
    notaio itinerante e veniva a Valvasone il secondo giovedì di
    ogni mese. Se ne partiva da Cinto, dove abitava e teneva
    l’archivio, e percorreva in una ventina di giorni tutta la gastaldia
    del Waldo, dal mare fino all’Ungaresca. Sulla cinquantina,
    piccolo e grassottello, faccia larga e naso rincagnato,
    capelli grigi fittamente ondulati, montava una
    214
    mansueta e panciuta cavalla. Lo accompagnavano uno scrivano
    foruncoloso dalle mani sempre sporche d’inchiostro e
    un corpulento nipote con appeso alla sella e ben in vista un
    grosso randello; l’uno o l’altro teneva per le briglie un’asina
    carica delle loro cose e del necessario per scrivere. Ci salutavamo,
    lui s’informava sulla mia salute e su quella dei
    miei amici e io gli chiedevo quali novità aveva udito nel suo
    peregrinare.
    Mensile era anche l’incontro con Stefano di Zoppola.
    Walterpertoldo lo inviava con un paio di armati a tenere
    placito nel castello di Sbrojavacca o, come diceva Stefano
    scherzando, a “dirimere liti da due uova e mezzo pollastro”.
    Per non fare torto alla sua gentilezza, dovevo pazientemente
    rispondere alle domande su trovatori, musici
    e pittori e fu Stefano, a luglio, ad annunciarmi mestamente
    l’ennesimo aborto di Gisla e a narrarmi di un Walterpertoldo
    dilaniato dal dolore.
    Ansoaldo di San Lorenzo invece non aveva regole.
    Certe settimane l’incontravo anche due volte, altre mai.
    Lo riconoscevo da lontano, per i lunghi capelli canuti e il
    caracollare del cavallo; se poi camminava tenendo l’animale
    per le briglie, era ancora più inconfondibile: le sue
    gambe lunghe e secche erano tanto arcuate da sembrare
    sagomate dalla pancia del cavallo, e avanzava a passi lenti
    e circospetti dondolando le spalle. La sua nobiltà era antica
    quanto gli abiti e la lunga spada, un tempo forse nota
    in molti luoghi ma ormai limitata al villaggio dove abitava
    e del quale peraltro non era neppure signore. Mi fissava
    con gli occhi pallidi, si lisciava la folta barba bianca striata
    di giallo che nascondeva gran parte del volto incartapecorito
    e rugoso, e diceva: «Grazie a Dio ci si vede».
    Io rispondevo: «Speriamo ci sia concesso di farlo ancora
    una volta».
    Allora lui batteva un indice sullo stemma un po’ sbiadito
    dipinto sulla vecchia e consunta sella, un argentea zampa
    d’aquila su campo nero, e sentenziava: «Voi siete giova-
    215
    ne e io sono come questa qui, rugosa ma forte. Certo, almeno
    per un’altra volta ci si rivede». Poi se ne andava facendo
    con la mano un gesto di saluto.
    Quel vecchio m’incuriosiva e affascinava. Non si era
    mai presentato e mai aveva chiesto il mio nome. Il poco
    che sapevo me lo aveva detto Corrado, aggiungendo: «Ci
    sono leggende su di lui. Dicono sia uno degli ultimi discendenti
    dei longobardi friulani, a suo tempo un grande
    maestro d’arme. Però le uniche cose certe sono l’orgoglio
    e il caratteraccio. Lo stesso vale per la gente del suo villaggio,
    un piccolo comune di liberi contadini. Si amministrano
    e giudicano da soli e rispondono unicamente al patriarca
    o al gastaldo patriarcale del Waldo. Non toccano
    un filo d’erba degli altri, non violano confini, ma non azzardarti
    a strappare neppure una foglia da un loro albero».
    Di altri non serve dire, ma non posso tacere il mio
    primo incontro con Aurora. Era la festività dei santi Pietro
    e Paolo, poco dopo il mezzogiorno. Faceva caldo e l’aria
    era pregna dei profumi del fieno sparso a seccare sui prati.
    Ospite di mastro Bruno, avevo mangiato anguilla arrostita
    e bevuto un paio di bicchieri di troppo e mi sentivo assonnato.
    Giunto dove la Roja separa per un breve tratto il
    feudo valvasonese dal territorio di San Lorenzo, decisi di
    riposare per un po’ all’ombra di un grande acero al limitare
    della strada.
    Legai il cavallo a un cespuglio di sanguinella, tolsi la spada
    dalla cintura e sedetti sull’erba appoggiandomi al tronco
    con le spalle. Mi appisolai cullato dal frinire delle cicale,
    le mani strette sull’impugnatura della spada e la lama fra le
    gambe. Dormii per circa un’ora e a svegliarmi furono un
    muoversi di frasche, un brusio, un ridere sommesso tra la
    fitta vegetazione del fosso dall’altra parte della strada. Socchiusi
    gli occhi. Il sole riluceva sulle foglie degli ontani e
    s’insinuava fra i sambuchi rompendo l’oscurità nel fitto dei
    cespugli. Due ragazze, le facce comuni e simili a quelle di
    216
    dozzine di altre, mi spiavano. Sorrisi appena, fingendo di
    continuare a dormire e di non essermi accorto di loro. Poi
    un mano candida, dalle dita lunghe e affusolate, scostò un
    ramo d’ontano. Un raggio di sole illuminò un viso perfetto,
    facendo scintillare d’oro i capelli e brillare di zaffiro lo
    sguardo. Spalancai gli occhi con un tuffo al cuore. Lei subito
    si ritrasse spaventata, scomparendo nel verde. Poi un
    frusciare di rami, un ridere forte e sempre più lontano.
    Quella prima apparizione è ancora impressa nella mia mente
    come il ferro rovente nella carne, e mi tolse il sonno per
    più notti spingendomi a sedere molte volte sotto l’acero. In
    vana attesa, perché Aurora non venne più a spiarmi fra gli
    ontani e i sambuchi.
    Durante l’estate e fino al principiare dell’autunno, i dolori
    dell’animo si assopirono. Pur non raggiungendo mai
    pace e felicità, imparai a godere della solitudine, degli animali
    dei prati e del bosco, della maestosità delle querce e
    degli olmi, della frescura delle sorgive e degli stagni dove
    le rane gracidavano nascoste fra le canne e i giaggioli blu e
    gialli. Inselvatichii quel tanto da provare fastidio nell’incontrare
    i viandanti e riservavo qualche attenzione solo ai
    mercanti ebrei, costretti su quella strada secondaria per
    evitare le angherie e le violenze dei cristiani. Li sentivo fratelli,
    reietti al pari di me.
    Ma soprattutto imparai ad amare il Tagliamento, il
    grande fiume che taglia in due la Patria dai monti al mare
    e ingigantisce fra le strettorie di Pinzano e Latisana. All’altezza
    di Valvasone è largo quasi un miglio, e prima della
    riva si preannuncia con un progressivo diradarsi degli alberi
    quasi a permettere allo sguardo d’intuirne da lontano
    la maestosità. Questa prateria dalla vegetazione rada e
    stentata, al massimo buona per pascolare le pecore e le capre,
    noi la chiamiamo grava, e se non nutre il corpo certamente
    delizia l’anima perché non vi è posto migliore di
    essa per passeggiare in solitudine, riposare all’ombra di
    una quercia solitaria, o lanciare il cavallo al galoppo e cac-
    217
    ciare con il falco. A un tratto, raggiunta la riva del fiume,
    ci si trova davanti a un vasto ghiaieto percorso da rivoli e
    canali, a una distesa sassosa interrotta da profumate macchie
    dove si addensano le ginestre, i rosolacci e i ginepri;
    dove, pochi passi oltre la desolazione di un ramo abbandonato
    del fiume o il gorgogliare fresco e dolce sui ciottoli
    colorati di uno nuovo, vi è lo stupore verdeggiante di un
    maestoso e solitario pioppo o di un boschetto cresciuto su
    di un isolotto di buona terra erbosa emersa chissà come e
    chissà quando dalla ghiaia e dalla sabbia; dove, dietro le
    piccole dune sabbiose create dal vento e all’ombra dei salici
    argentei e dei vimini dorati presso le sponde, crescono
    il saporito asparago, i benefici cardi, le dissetanti acetose e
    la maligna belladonna; dove, non importa se sotto il sole o
    la pioggia, il cuore, l’animo e la mente sono spinti a fondersi
    nella meditazione. A chi non li conosce sembrano
    luoghi aridi e inabitati sui quali volteggiano rapaci l’aquila,
    la poiana, il nibbio e il gheppio all’inutile ricerca di una
    preda; invece è tutto un brulicare di vita, e si deve camminare
    cauti per non calpestare i nidi dell’occhione color dei
    sassi e dell’erba secca, e lo scricchiolare di un passo sulla
    ghiaia provoca tutto un fuggire di allodole, calandri, pernici,
    e uno spiare timido di caprioli, volpi, tassi e lepri.
    Però anche qui si apposta il Maligno, sempre pronto a
    rendere tragica ogni bellezza. Bastano alcuni giorni di
    pioggia battente, con il vento a soffiare da mezzogiorno
    contro i nevai dei monti, e in un attimo le acque dei vari
    rami, rigagnoli o canali che siano, si uniscono trasformandosi
    da placidi, inoffensivi e argentei orbettini in un
    enorme e furioso drago color della terra. In breve il mostro
    invade tutto, schiumando e ribollendo da una riva all’altra
    sconvolge, massacra e distrugge ogni cosa. Il furore
    può durare una sola notte oppure una settimana. Poi si
    consuma con la stessa rapidità con la quale è iniziato. Le
    acque calano, si ritraggono, si ridividono, per acquietarsi
    in nuovi e vecchi percorsi. Per qualche giorno si cerca
    218
    l’annegato colto dal rotolare improvviso delle onde in
    qualche guado più a nord, si notano intricati grovigli di
    rami secchi spinti a marcire contro una riva, qualche albero
    sradicato e trascinato nel mezzo del fiume, dei pesci
    morti in un’ansa prosciugata dall’improvvisarsi di una
    diga di ghiaia. A chi non conosce il fiume sembra non sia
    accaduto nulla, invece tutto è mutato; i punti di riferimento
    sopravvissuti sono ben pochi, e si rimane sgomenti.
    La prima volta che vissi un tale evento mi parve di guardare
    la mia vita riflessa in uno specchio, una vita schiacciata
    tra un passato perduto e un futuro ignoto, ridotta a
    un’incertezza continua vissuta faticosamente e dolorosamente
    giorno dopo giorno. Ma oggi, notando negli altri lo
    stesso mio smarrimento davanti a quegli sterili letti di
    ghiaia, orgogliosi di mostrare da una parte i monti che li
    hanno generati e dall’altra la misteriosa profondità del
    mare dove andranno a morire ridotti a granelli di sabbia,
    io sorrido. Ormai lo so: le grave e il fiume non sussurravano
    solo a me parole dolorose; da sempre e a tutti indicano
    la spietata realtà della vita, con le sue magre e le sue
    piene, ne sono la più tragica e fedele rappresentazione.
    Venne ottobre, e poi novembre. Tutto si spense e ingrigì,
    e io intristii fino a odiare il pallido e freddo sole del
    mattino. Probabilmente in uno dei tanti e gelidi giorni dell’inverno
    tra il 1261 e il 1262, nonostante l’amicizia di
    Corrado e Ottone, solo e senza ancora alcuna ipotesi di
    futuro, sotto un cielo plumbeo e basso, con addosso i vestiti
    di un morto, circondato dal biancore della neve capace
    di mutare i rami in artigli e i tronchi in cadaveri impeciati,
    con l’unico tepore del mio cavallo costretto a
    sbuffare faticose nuvole di vapore per poter avanzare dove
    il manto ghiacciato si faceva alto e cancellava la strada, sarei
    potuto scomparire. Forse galoppando a occidente, per
    sfracellarmi contro le rocce dei monti; oppure lasciandomi
    scivolare nel fiume, per farmi trascinare fino alla verdastra
    oscurità del mare. Ma Dio, nella sua imperscrutabile sa-
    219
    pienza, vide il giorno in cui ciò sarebbe potuto accadere e
    mi anticipò inviando su quella strada, che a me ormai appariva
    una prigione con un’unica via d’uscita, un mercante
    ebreo.
    Accadde il sedicesimo giorno di febbraio, credo un
    paio di ore dopo il mezzogiorno. Non lo posso dire con sicurezza
    perché era una giornata uggiosa, di quelle dove il
    piovigginare è tutt’uno con una foschia pronta a mutare in
    nebbia. Stavo per arrivare al guado del Meduna, quando
    intravidi davanti a me delle sagome scure ingombrare l’intera
    carreggiata. Non era normale, e mi fermai. La mano
    cercò istintivamente l’impugnatura della spada sotto il
    mantello zuppo e gocciolante. Giunto a trenta passi vidi
    una carretta coperta trainata da due grossi cavalli, scortata
    da quattro uomini armati di lancia. “No, non è normale”
    mi ripetei, e gridai: «Fermatevi!».
    Subito gli uomini arrestarono i cavalli e mi puntarono
    contro le lance.
    «Chi siete?» chiesi.
    Uno dei due uomini seduti sul davanti del carretta alzò
    una mano in segno di saluto e rispose: «Amici, signore.
    Sono Amos, ebreo di Venezia e mercante».
    «Non conosco ebrei autorizzati a girare con cavalli e
    scorte armate, ma solo a piedi o con asini.»
    «Oh, Signore! Questi sono lussi temporanei concessi a
    chi porta sete e altri tessuti preziosi al reverendissimo signore
    il patriarca di Aquileia.»
    «Allora avete sbagliato strada. Dovevate procedere dritti,
    non volgere a oriente.»
    «Lo so, signore, ma non abbiamo sbagliato. Dobbiamo
    consegnare qualcosa anche a Valvasone e questa dovrebbe
    essere la strada più breve per arrivarci».
    Era sceso dalla carretta e dopo aver fatto cenno agli armati
    di restare dov’erano mi venne incontro a passi piccoli
    e rapidi.
    «Con chi ho l’onore di parlare, signore?»
    220
    «Il mio nome non vi riguarda. Comunque allora siete
    sulla via giusta. A chi dovete consegnare la vostra mercanzia?
    »
    Era un uomo piuttosto basso di statura, dal viso tondo e
    dalle mani paffute, avvolto in un pesante mantello di lana
    verdolina con cucita su una spalla la “O” gialla che contrassegna
    gli ebrei. Sorrideva, ma lo sguardo era vigile e l’espressione
    tesa. Si tolse il cappello a cono, di feltro verde,
    mostrando un cranio quasi calvo a parte due lunghi ciuffi
    sopra le orecchie a sventola. Usò il tempo di un inchino per
    studiarmi, poi disse: «Voi siete Guido da Treviso, vero?».
    Rimasi sconcertato, con un’improvvisa sensazione di
    pericolo.
    «Cosa ve lo fa credere?»
    «Signore, molti del mio popolo vi conoscono e vi sono
    grato per non aver mai recato loro alcun danno. Anzi, alcuni
    li avete aiutati. Sapete come vi chiamano? Il “giusto”
    dei due fiumi. Divertente, vero?»
    «E se fossi chi dite, cosa vorreste da me?»
    «Consegnarvi della merce e chiedervi ospitalità per la
    notte.»
    «La prima non l’ho ordinata e la seconda non ve la
    posso dare, essendo anch’io ospite.»
    Amos si grattò il mento e continuò: «Non l’avete ordinata,
    questo lo so bene. Mi è stata consegnata da degli sconosciuti
    e deve essere merce di non poco valore viste le garanzie
    richieste. È una cassa, sigillata al pari della lettera
    che l’accompagna. Ho dovuto per forza attendere questa
    occasione e questa scorta per portarvela. Più di un mese
    ho aspettato. Comunque, per la notte, ci basta anche una
    modesta taverna».
    La curiosità per quella strana vicenda e il timore di una
    qualche brutta sorpresa si mescolavano assieme rendendomi
    incerto. Chi poteva inviare un regalo a un “morto”
    sperduto nella campagna friulana? Scesi da cavallo, borbottando:
    «Non ci sono ancora taverne a Valvasone».
    221
    «Forse un ospizio di carità» insistette il mercante.
    «Potete consegnarmi la merce e proseguire. Al guado
    un giaciglio lo trovate.»
    «Oh no, signore, a costo di dormire nel fango sotto il
    carro. Sono luoghi da briganti, quelli. Inoltre devo rispettare
    gli impegni, consegnarvi la merce in un luogo sicuro.
    E da solo.»
    «Datemi la lettera, allora.»
    «Quella sì, quella ve la posso dare… anche se la pioggia…»
    «Non vi preoccupate. Datemela.»
    «Come volete.»
    Armeggiò sotto il mantello e da una qualche tasca segreta
    tirò fuori una lettera sigillata con della ceralacca
    verde, senza segni o scritte. L’aprii con il batticuore e riconobbi
    subito la grafia minuta e ordinata di Augusta. C’era
    scritto:
    Questo è ciò che ti doveva essere dato al momento giusto.
    Altro, e di diversa natura, avrai quando i tempi saranno maturi.
    Da me se sarò viva, o da altri. Tra molto, molto tempo,
    tanto da esserti dimenticato di me. Fai un buon uso del dono
    di chi giace a Soncino.
    Ebbi un sussulto. Un altro della famiglia e del mio passato
    era sopravvissuto, qualcuno che mi aveva amato viveva.
    Solo rileggendo una seconda volta ricordai le parole
    di Ezzelino sul letto di morte, il suo parlare di qualcosa
    che mi aspettava. Ripiegai la lettera e me la infilai nella
    cintura, chiedendo: «Che aspetto aveva chi ve l’ha consegnata?».
    Il mercante agitò una mano davanti al viso come a scacciare
    un ricordo non proprio piacevole.
    «Montanari, signore. Con accento alemanno e facce
    truci. Gente dura che è meglio non stuzzicare. Sono già
    tornati da me tre volte e li ritroverò per certo ad attendermi
    al ritorno, a pretendere una vostra ricevuta.»
    222
    Pedemontani, pensai, perciò Augusta doveva aver trovato
    rifugio in un qualche villaggio dell’Altopiano.
    «Risalite sul vostro carro e seguitemi. Chiederò ai miei
    amici di sistemarvi da qualche parte.»
    Trasse un sospiro di sollievo, sorrise spalancando gli occhi
    e disse: «Voi mi salvate, mi togliete un grande peso. E
    mi sentirò ancora meglio dopo la consegna e con la ricevuta
    nella borsa».
    223
    © Marco Salvador ed Edizioni Piemme

  299. QUADRO XII
    Se Gherardo da Camino non fosse stato a Treviso, probabilmente
    non sarei uscito vivo da palazzo Tempesta. Anche
    perché Pietro Calza, l’altro ostaggio, appena udito
    dell’assassinio aveva approfittato della confusione per fuggire
    da palazzo Giustinian. Gherardo aveva con sé trenta
    padovani e furono loro a scortarmi attraverso la piazza del
    comune affollata di bianchi rabbiosi e in cerca di vendetta.
    Mi accompagnarono fino all’inizio della via del duomo,
    dove si erano raggruppati i rossi a protezione dei loro capi
    radunati sul sagrato e pronti a entrare in chiesa per chiedere
    asilo.
    Appena ebbi davanti Bonifacio de Castellis, lo aggredii
    pieno d’ira: «Cosa vi è saltato in mente? Chi è stato tanto
    idiota da provocare tutto questo a tre giorni dall’incontro
    per la nuova tregua?».
    «La sciocchezza di un ragazzo, Guido. Lo hanno provocato
    e sapete bene com’è la gioventù.»
    Era pacioso come sempre e la sua calma mi fece imbufalire
    ancora di più.
    «Dov’è vostro fratello Gherardo? Dov’è quello stupido
    ragazzo?»
    Gli stavo gridando in faccia. Arretrò di un passo e infastidito
    m’indicò l’ingresso del palazzo. Intanto anche gli
    animi dei rossi si stavano scaldando udendo gli insulti e le
    minacce provenienti dalla vicina piazza del comune.
    «Teneteli calmi, vado a vedere se si può sistemare questa
    pazzia» gli ordinai.
    396
    Gherardo de Castellis era nella corte, vicino al loggiato.
    Con lui un giovane pallido in viso, dal parlare e gesticolare
    agitato. Non ricordavo di averlo mai visto, però doveva essere
    di una famiglia non da poco se aveva accanto a lui,
    con aria protettiva, Guglielmo Florio e Marino Giustinian.
    Come mi scorse, Gherardo mi venne incontro mostrando
    sollievo.
    «Sono felice di vedervi, Guido. Temevamo per la vostra
    vita!»
    «La devo a un nemico, non certo a voi. È quello?»
    chiesi indicando il giovane.
    «È Bono Malvolta. Lo hanno aggredito. Stava passeggiando
    con la sua promessa sposa e la dama di compagnia
    lungo il Cagnan e dei bianchi hanno iniziato a insultare le
    donne. Quando quel prepotente di Giacomo Tempesta ha
    osato sfiorare la sua fidanzata, ha reagito. Cos’altro poteva
    fare?»
    «Bisogna consegnarlo ai bianchi. C’è Gherardo da Camino
    a palazzo Tempesta, garantirà lui per la vita di quell’idiota
    e per un processo equo.»
    «Non se ne parla neppure. Il ragazzo non ha colpe e fate
    male a fidarvi del caminese. Si crede già signore di Treviso
    ed è falso di cuore e di bocca.»
    «Bisogna salvare la tregua, Gherardo. Metteremo la libertà
    del ragazzo fra le condizioni per finire questa faida.
    Accetteranno.»
    «Non ci sarà nessun incontro. La tregua è finita, per
    sempre. Quasi ringrazio Bono di averla rotta visto che serviva
    solo a garantire ai bianchi il tempo necessario per organizzare
    un esercito e attaccarci.»
    «Cosa state dicendo?»
    «Sto dicendo che Rambaldo di Collalto e Tolberto da
    Camino stanno radunando almeno trecento tra fanti e cavalieri
    per attaccare Treviso e in loro aiuto sta venendo a
    dar manforte pure Artico di Castello con i vostri friulani.
    Ma se credono di giocarci hanno sbagliato i loro conti! A
    397
    Fonte ci sono duecento fanti e a Cornuda centocinquanta
    cavalieri in attesa di un mio cenno. Questa notte manderò
    dei messi con l’ordine di prepararsi a muovere sulla città.»
    Ero frastornato. Entrambe le parti erano pronte alla
    guerra e io non ne sapevo nulla, non me ne ero neppure
    accorto. Fissai dritto negli occhi Gherardo e borbottai:
    «Voi siete dei folli. Perché nessuno mi ha avvisato?».
    Mi afferrò per un braccio e mi trascinò dietro una colonna
    del porticato.
    «Eravate troppo impegnato con la musica e le poesie.
    Vi hanno circuito, Guido. Possibile non abbiate udito
    nulla dei movimenti dei bianchi? Neppure la bella Gaia si
    è lasciata sfuggire qualcosa? Certo che no, era lei a dovervi
    distrarre da quanto stava accadendo alle vostre spalle. Per
    Dio, Guido, come può uno della vostra età pensare che
    una simile ragazza stia con lui per motivi diversi dall’interesse?
    »
    Fu peggio di uno schiaffo. Prima provai mortificazione,
    poi ebbi una gran voglia di aggredirlo e faticai a trattenermi.
    Lui mi sfidava, non c’erano più rispetto e sottomissione nei
    suoi occhi.
    «Io preparavo la pace, con ogni mezzo. Anche con Gaia.
    Comunque mi avete eletto vostro capo e sarò io, e io solo a
    decidere come agire» ringhiai furibondo.
    Abbassò lo sguardo e scosse la testa.
    «Certo, siete il nostro capo e ci guiderete. Però, per
    come si sono messe le cose, ormai dovrete guidarci sul
    campo di battaglia.» Tornò umile e rispettoso come al solito,
    l’espressione dispiaciuta. «Noi, Guido, desideravamo
    l’ordine e la pace tanto quanto voi, ma non vi può essere
    ordine dove ci si serve di una tregua giurata sui Vangeli
    per preparare un attacco. E credetemi, dietro tutto questo
    c’è Gherardo da Camino, non chi vi sta davanti. Avrà tentato
    di portare pure voi dalla sua parte, ne sono sicuro, e
    con ogni mezzo e inganno. È un uomo scaltro, senza morale.
    Usa tutti, anche la sua bella figlia.»
    398
    Le idee mi si stavano confondendo, le certezze ancora
    una volta si sfaldavano. E se fossi stato raggirato come un
    allocco da quella ragazzina? Inoltre, almeno in una cosa
    dovevo dar ragione al mio interlocutore: a quel punto
    c’era poco da fare. Rimaneva un’ultima speranza: vincere
    per imporre l’ordine trattando da una posizione di forza.
    Pensai ad Aurora, ai miei figli, alla casa e subito fra me e
    loro calò un velo nero, il velo della possibile morte. Potevo
    ritirarmi, andarmene. Ma a quale prezzo? Far aggiungere
    alle calunnie sui da Romano il disonore di una fuga e l’accusa
    di vigliaccheria. No, non potevo farlo. L’errore l’avevo
    commesso ascoltando Augusta e venendo a Treviso e potevo
    ripararlo solo andandomene da vincitore. Altrimenti i
    miei figli si sarebbero vergognati di me e la memoria della
    mia famiglia sarebbe stata infangata per sempre.
    «Non ho né armatura né bandiera» dissi.
    Gherardo mi strinse un braccio, sorridendo.
    «Ci ho pensato io, Guido. C’è una sorpresa per voi, la
    tenevo in serbo per il giorno della vittoria. Mio padre ha
    salvato e nascosto uno degli stendardi di Ezzelino e io ve
    lo dono. Spetta a voi.» Quindi, rivolto agli altri in nervosa
    attesa: «Guido da Romano è pronto a comandarci. Prepariamoci
    alla vittoria».
    I due giorni successivi furono convulsi. Un viavai di
    messi, un pianificare, un rifiutare proposte d’incontro del
    vescovo e di Gherardo da Camino, un contare e ricontare
    gli alleati contattandoli di persona. Il quattordici novembre
    i nostri erano pronti, l’attacco fissato per l’indomani
    mattina all’ora quinta. All’alba Gherardo e Bonifacio de
    Castellis uscirono dalla città con pochi uomini, ostentando
    dispetto e dopo aver fatto spargere la voce di dover correre
    nel loro feudo di Asolo dove avevano creato ad arte
    dei falsi disordini. In realtà uno puntava su Cornuda e l’altro
    su Fonte dove c’erano le truppe e si preparavano a guidarle
    su Treviso al mezzodì in punto del giorno quindici.
    399
    In città io avrei comandato i trenta cavalieri e i cinquanta
    fanti rossi, tutti trevigiani, con al fianco Jacopo de Castellis
    e Giustino Laurenzi. Dovevo occupare la piazza comunale
    per spingere i bianchi a uscire allo scoperto e mi sarebbe
    bastato resistere almeno un’ora. Poi sarebbero arrivati
    loro.
    Trascorsi l’intera notte a pregare nella cappella del palazzo,
    come fosse una veglia d’arme. Fu una notte lunga e
    angosciante durante la quale implorai l’Onnipotente di
    proteggermi e, se non fossi sopravvissuto, di vegliare sulla
    mia famiglia. Giurai sulla mia anima di servirmi della vittoria
    solo per rimettere ordine senza lasciarmi irretire dal
    potere e dagli onori. All’alba uscii dal palazzo per controllare
    se c’erano movimenti strani. Treviso sembrava una
    città disabitata, con solo dei frettolosi preti e monaci diretti
    alle loro incombenze nelle chiese e negli oratori.
    Prima di rientrare e iniziare a preparami, sedetti su uno
    degli scalini del duomo.
    Poco discosto da me c’era un vecchio mendicante venuto
    di buonora a occupare il posto migliore. La tunica di
    canapa sfilacciata, i calzari sfondati a mostrare le unghie
    nere e spezzate degli alluci, si stringeva infreddolito in un
    consunto mantello marrone donatogli da qualche francescano.
    Il viso, sporco e pustoloso, era scarnificato dalla
    magrezza e la pelle sembrava in procinto di venire risucchiata
    dall’infossatura della bocca sdentata. Presi dalla
    borsa una moneta d’oro e gliela misi in mano, dicendo:
    «Per oggi non ti serve chiedere la carità, entra in chiesa e
    prega per la mia anima».
    Annuì senza guardarmi, la moneta stretta in pugno.
    Raccolse il bastone e si alzò ansando. Quando fu sulla
    porta si fermò, si volse, puntò il bastone al cielo e disse:
    «Pregherò, signore. Per voi e questa città. L’aria puzza di
    carogna e il cielo non promette nulla di buono».
    Alzai lo sguardo. Non ci sarebbe stato il sole; sopra di
    me solo nubi e l’aria era appena smossa dallo scirocco, tie-
    400
    pido e appiccicoso. Novembre non era più novembre e
    nulla sarebbe stato come doveva essere. L’equilibrio fra
    cielo e terra si stava spezzando di nuovo, come il giorno
    della disgraziata impiccagione. Non ero più in concordanza
    con il cielo. Ma quando mai lo si è preparandosi a
    portare la morte?
    La campana della torre comunale suonò l’ora seconda
    del giorno e io iniziai la vestizione. L’armatura era bella,
    ben fabbricata a parte un difetto sul fianco destro dove la
    maglia era assottigliata a causa di alcuni maldestri colpi di
    martello. Accadeva qualche volta, quando si affidava il lavoro
    ai garzoni. Però non potevo lamentarmi per il difetto
    in un dono fabbricato nel giro di pochi giorni. A quarta
    ero pronto. Scesi nella corte dove mi attendevano Jacopo
    e Giustino con i sei fanti di casa Castellis, i quattro di casa
    Laurenzi e il portabandiera con lo stendardo ancora arrotolato
    attorno all’asta. Tutti indossavano le copricotte con
    i colori della propria casata, mentre a me era stato riservato
    lo scarlatto di capo degli imperiali.
    Attendemmo i palafrenieri con i cavalli bardati per la
    battaglia, le gualdrappe rosse e le testiere di rame argentato.
    Ci mettemmo in formazione, io davanti con accanto
    il portabandiera e ai miei fianchi, arretrati di mezza incollatura,
    Jacopo e Giustino. Dietro avevo Carlotto da Onè
    con il compito di guardarmi le spalle, poi i dieci fanti in
    fila per due. Ai cinque rintocchi della campana comunale i
    servi aprirono i portoni del palazzo e io ordinai di svolgere
    il vessillo. Alla vista dell’aquila imperiale, nera su fondo
    oro e con zampe e becco sanguigni, ebbi un brivido d’orgoglio
    e mormorai: «Sto facendo la cosa giusta». Presi un
    lembo del vessillo di mio padre e lo baciai, poi infilai i
    guanti di ferro, misi l’elmo con sul cimiero un testa di cigno
    tinta di rubino e imbracciai lo scudo con sopra dipinta
    l’arma dei da Romano.
    «Andiamo, con l’aiuto di Dio e per l’impero» ordinai
    spronando il cavallo.
    401
    Chi stava in strada ci guardò impaurito e poi tutti cominciarono
    a correre verso le proprie case; i mercanti, i
    bottegai e gli artigiani ritirarono frettolosi dalla via i loro
    banchi appena aperti, serrandosi dentro le botteghe e
    sbarrando le porte. Avanzavamo al passo e già sulla via del
    duomo si aggregarono a noi altri sette cavalieri. All’imboccatura
    della piazza comunale uscirono da ogni via altri imperiali,
    andando a prendere le posizioni assegnate. Li
    stavo contando e constatai con sollievo che non mancava
    nessuno. Quando mi fermai all’altezza della loggia comunale,
    dietro di me erano schierati trenta cavalieri e cinquanta
    fanti. Esattamente come prestabilito.
    La gente era fuggita, la piazza deserta, ma dalle finestre,
    da dietro le tende o le imposte abbassate, erano in molti a
    spiare, pronti a schierarsi dalla parte del vincitore. Le ultime
    parole udite erano state gridate da un monaco, poco
    prima di scomparire in un androne sul lato destro della
    piazza: «Il cavaliere rosso! Signore, abbi pietà di noi!».
    Ricordai il versetto dell’Apocalisse: «Allora uscì un altro
    cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato potere
    di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a
    vicenda e gli fu consegnata una grande spada». Le mani
    mi tremarono, ebbi un brivido, la pelle si coprì di un sudore
    freddo e provai una sensazione di morte imminente.
    “La paura è una cosa buona” pensai mentre un’ondata di
    rassicurante calore mi risaliva dai piedi alla fronte ridandomi
    sicurezza.
    Rimanemmo immobili forse per un quarto d’ora, senza
    scorgere nessuno dei bianchi. Poi un rumore di cavalli al
    trotto. Uscirono dalla via che conduce alla piazza del mercato,
    con alla testa un uomo dalla copricotta a scacchi
    bianchi e neri e accanto un vessillifero con una bandiera
    inquartata degli stessi colori. Udii Jacopo de Castellis dire
    alle mie spalle: «È Rambaldo di Collalto, prepariamoci».
    Contai rapidamente il nemico. Erano pressappoco tanti
    quanti noi, avremo resistito fino a mezzogiorno senza fa-
    402
    tica. Pure loro si fermarono, le spade ancora nei foderi.
    Attesi il tempo di tre Pater, poi decisi: se era da fare, meglio
    farlo subito; l’attesa aumentava solo l’ansia e la paura
    dei combattenti. Ero preoccupato solo dell’assenza della
    bandiera caminese e degli altri alleati papisti. Possibile
    avessero riposto ogni speranza unicamente in Rambaldo
    di Collalto? Forse si stavano preparando, o erano nascosti
    nelle vie vicine. Una ragione in più per attaccare subito. E
    diedi l’ordine.
    Quanto durò? Certamente oltre il mezzogiorno. Il combattimento
    fu feroce ma cavalleresco, perché nessuno infierì
    su chi cadeva a terra. Le due schiere cozzarono allineate,
    poi si frantumarono in gruppi di duellanti.
    Rambaldo di Collalto era un avversario degno, e più volte
    ringraziai con la mente Ansoaldo per i suoi insegnamenti e
    consigli sul modo migliore di parare e schivare. Però lo
    stavo vincendo e i papisti erano in difficoltà. Con un fendente
    gli spezzai lo scudo, ferendolo al braccio. Questo
    non lo fermò, anzi parve dargli forza. Con il sole coperto
    dalle nubi e tutte le campane della città a suonare a martello
    non capivo più che ora fosse. Nelle brevi pause fra un
    assalto e l’altro, fra una girata di cavallo e l’altra, cercavo di
    guardare verso oriente in cerca di Gherardo e Bonifacio de
    Castellis chiedendomi dove fossero e cosa aspettassero a
    soccorrerci. Non vedevo più neppure Jacopo e mentre mi
    volgevo a Giustino per urlargli di controllare se fosse caduto,
    Rambaldo approfittò per un affondo. Schivai male,
    la sua lama lacerò la cotta sull’avambraccio, sentii il gelo
    tagliare la carne. Era un ferita superficiale, la mano non
    perse forza. Dopo una finta che l’obbligò ad alzare lo
    scudo spezzato, gli resi il colpo. La mia spada scivolò sulle
    sue costole, un palmo sotto l’ascella, e lui barcollò facendo
    rinculare il cavallo.
    Controllai di nuovo la situazione. I feriti erano pressappoco
    tanti per parte. I più se ne stavano a terra con le
    mani premute sulle ferite o si trascinavano lontano dagli
    403
    566_0149_7_La_palude_degli_eroi 21-11-2008 9:25 Pagina 403
    zoccoli dei cavalli; solo pochi sembravano morti o feriti al
    punto da essere incapaci di muoversi. Imprecai contro
    Carlotto da Onè: stava duellando troppo lontano da me,
    avevo le spalle scoperte. Ansimavo, sentivo il sudore inzuppare
    le imbottiture e le braccia iniziavano a farsi pesanti.
    Eppure resistevo, perché la vittoria era ormai vicina.
    Tornai a gridare a Giustino: «Dov’è Jacopo? Dove sono
    gli altri?».
    ……………
    © Marco Salvador ed Edizioni Piemme

  300. Complimenti per la discussione.
    Ecco alcuni strilli di rassegna stampa sul nostro autore Andrea Frediani.
    ***
    «Frediani è un grande narratore di battaglie.»
    Corrado Augias, il Venerdì di Repubblica
    ***

    “Il lettore catturato da una piacevole scrittura (…)assiste a battaglie descritte von una minuziosa verosimiglianza storica, ma soprattutto è coinvolto dall’ambigua storia che lo lascia fino alla fine nel dubbio sull’identità dei due fratelli”. E ciò grazie a una salda struttura narrativa”.
    Giorgio De Rienzo, Corriere della Sera.
    ***
    “Una grande storia impeccabilmente narrata”
    Andrea Marrone, Vero.
    ***
    «La battaglia delle Termopili in un romanzo storico scritto dal punto di vista dell’unico,
    leggendario sopravvissuto: Aristodemo.»
    Focus
    ***
    «Un romanzo avvincente, un intreccio complesso che mescola storia a leggenda,
    documenti reali a vicende inventate, che vede sotto i riflettori di una narrazione serrata
    e coinvolgente ben otto protagonisti.»
    Roberto Genovesi, Liberal
    ***
    Frediani è abile a mediare le sue conoscenze storiche con due temi paralleli, la storia di due fratelli estremamente diversi fra loro (…) e le vicende di misteriose creature assetate di sangue romano, rendendo la lettura assai scorrevole.
    Massimo Nardi – Viaggiando

  301. Sì avete ragiine, non si possono leggre e per di più in rete 400 messaggi, ma forse il dibattito lo meriterebbe davvero. Io avevo cercato di scorrerli velocemente tutti, ma alcuni interventi mi sono sfuggiti. I compplimenti a massimo Maugeri sono il minimo! questo sito di dibattito è+ davvero importante per tutti, purtroppo non si riesce sempre a tenre il ritmo. Ma non accadrà che anche quest’anno di letteratitudine venga poi pubblicato? Lo so che si può anche scaricare, ma alla fine dell’annata ci fosse un altro libro come lo scroso anno, sarebbe prezioso. Tornare nel tempo alle discussion i è molto importante.

  302. Un saluto agli amici dell’Ufficio stampa Newton Compton.
    Ci tengo a precisare che l’inserimento degli “strilli” di rassegna stampa per il libro di Andrea Frediani è avvenuto a seguito di una cortese richiesta pervenutami per mail (e da me accettata).

  303. @ Sabina e Franco
    Come ho scritto sopra questo dibattito (con una selezione dei commenti) confluirà senz’altro in “Letteratitudine, il libro – Vol. II”

  304. In zona Cesarini vorrei segnalare (che certamente ben lo conosce) all’ottimo Massimo Maugeri, ma anche a Salvador e Spampinato (che hanno discusso del romanzo storico in Italia) e agli altri bloggisti, la trascurata opera di Carlo ALIANELLO scrittore meno conosciuto di quanto meriterebbe: emarginato, come è stato notato, dalla critica focalizzata sulla forma perchè nei suoi romanzi non si riscontrano elementi di di novità linguistiche ma altresì, “disprezzato dalla critica attenta ai contenuti perchè decisamente controcorrente (ai nostri giorni si dice: non politically correct)”.
    Diceva di sè: ‘Il mio talento è quello di narratore di favole, di cantastorie o, se si preferisce, di aedo’ . Marcello Camillucci disse di lui ” ci sembra occupare una posizione mediana tra Balzac e Manzoni: il suo interesse per la storia nasce da una radice che partecipa della sociologia e della spiritualità, evitando gli eccessi del positivismo zoliano e le inquadrature metafisiche dei romanzi ottocenteschi.”
    Tra i suoi libri ricordo “L’alfiere”, “Soldati del re”, ma soprattutto “L’eredità della priora” (che ebbe anche una produzione Rai): pubblicato nel 1963 e Premio Selezione Campiello, è ben più di un normale romanzo storico. Lo possiamo inquadrare come un vero e proprio, documentato “j’accuse” (che i più giovani dovrebbero legerre nelle scuole italiane) , in forma letteraria, nei confronti della guerra civile, condotta con estrema violenza e crudeltà da parte dell’esercito piemontese (ovvero d’occupazione) nelle regioni dell’ex Regno delle Due Sicilie dall’Aquila in giù.

  305. Solo per segnalarvi che ho inserito questo nostro dibattito sul romanzo storico tra i post permanenti di Letteratitudine (e nell’elenco dei post più commentati).
    Buonanotte a tutti.

  306. Sono molto felice che Massimo abbia inserito questo dibattito tra i post permanenti/più commentati. Rispondo al cortese invito di Marco Salvador (e dello stesso Massimo, nonché di Salvo) e inserisco anch’io un piccolo estratto da “La strana giornata di Alexandre Dumas”. Da questo indirizzo è comunque possibile scaricare le prime 30 pagine del romanzo in pdf: http://www.ritacharbonnier.com/it/file_download/7

  307. «Avete il Sole nel segno del Leone, e anche l’ascendente. Siete dunque molto leonino, Monsieur Dumas, persino nell’aspetto: alto, imponente, con una folta chioma… senz’altro vi definirei un bell’uomo. Inoltre, gli occhi chiari sull’incarnato bruno vi conferiscono un singolare fascino.»
    «Vi ringrazio, Madame.»
    «Di nulla» rispose la vecchia signora. «La vostra Luna è nel segno del Toro; è una Luna godereccia. Gli uomini come voi amano i piaceri della vita: la buona tavola, il vino, i viaggi, e soprattutto le belle figliole; sono incapaci di resistere alla grazia femminile. Possono sposarsi oppure no, ma non è infrequente che abbiano figli, e persino da donne diverse; nondimeno, agiscono in assoluta semplicità, per il proprio appagamento, non intendendo violare le norme o calpestare il buon senso. In voi, signore, io non vedo traccia di malvagità. Al contrario, credo siate un uomo buono e generoso.»
    «Debbo ringraziarvi ancora» mormorò lo scrittore quarantenne, segretamente divertito.
    «I miei non sono complimenti, ma constatazioni. E sappiate che non sono interessate: la mia età mi pone al riparo da qualunque avvicinamento alla vostra desiderabilissima persona.» Alzò gli occhi dalla mappa astrologica e li puntò nei suoi. «Confermatemelo, di grazia: io non vi piaccio, vero?»
    Alexandre Dumas scoppiò a ridere. «Sono convinto che in gioventù siate stata bellissima; e lo siete ancora. Ma, ahimè, potreste essere mia madre…»
    «Anche vostra nonna, se vogliamo. Ho trent’anni più di voi; ventinove, per la precisione. Vi dirò d’altronde che voi siete nato nello stesso anno di mio figlio Tomaso John: il 1802. Non è una curiosa coincidenza?»
    «Sempre che esistano le coincidenze.»
    «Non potevate darmi risposta migliore, Monsieur. Anche Victor Hugo è del 1802, non è vero?»
    «Verissimo.»
    «Bene. Ora però torniamo alla vostra Luna: si trova nell’undicesima casa. Ogni “casa”, come forse avrete sentito dire, rappresenta in astrologia una certa area della vita, e la presenza di un pianeta indica che quell’area, per la persona, è importante. L’undicesima è la casa delle mire, delle ambizioni e delle aspirazioni. La Luna in questa posizione favorisce il raggiungimento del successo; visto che in qualche misura l’avete già ottenuto, è quasi inutile che ve lo dica. D’altra parte, il favore delle platee è mutevole, proprio come la Luna, e il trionfo di un giorno si trasforma facilmente nel fiasco del giorno successivo. Le mie parole vi turbano, Monsieur?»
    «Non troppo» affermò il drammaturgo, con un mezzo sorriso. «Ormai ho fatto il callo alla volubilità del pubblico.»
    «Me ne compiaccio. La Luna in undicesima segnala peraltro una possente immaginazione; e anche questo, nel vostro caso, è più che provato. E ancora, essa è congiunta a Marte e questo indica una tendenza ad agire sulla spinta delle emozioni, piuttosto che sulla scorta del ragionamento; e a tentare di trovare, a posteriori, una spiegazione ragionevole ai propri impulsi…»
    S’intristì e di colpo tacque. Osservava un simbolo sulla carta.
    «Cosa c’è?»
    «Voi avete perso il padre molto presto; non è vero?»
    «Sì, certo, quando avevo tre anni e mezzo. Era un generale repubblicano…»
    «Lo so, lo so. Il vostro Sole è nella dodicesima, che è la casa del dolore, della malattia, della prigione. Il Sole è il simbolo paterno per eccellenza… non c’è bisogno che vi dica altro. Ma potremmo tentare di vedere un significato positivo in questa configurazione: la vostra forza interiore e il vostro coraggioso idealismo. Voi credete sempre in quel che fate, e fate sempre le cose in cui credete. Volete ancora un po’ di tè?»
    «No, grazie, sono a posto.»
    «Se doveste cambiare idea, servitevi, ve ne prego. È una miscela pregiata; mi è stata spedita da Londra; qui a Parigi non riesco a trovare un tè che mi soddisfi. Vediamo… avete tre pianeti importanti nella seconda casa: Venere, Saturno e Giove. La presenza di Venere nella casa dei talenti e delle risorse suggerisce facilità nel guadagnare ingenti somme di denaro; la presenza del malefico Saturno, ahinoi, la stessa facilità nel perderle.»
    «Cercherò di tenerlo a mente, Madame.»
    «Per il vostro bene, spero ci riusciate. Questo accumulo di pianeti è un chiaro segno del vostro ingegno straordinario. Voi siete un uomo dotato di risorse assai differenziate: sapete fare il teatro, siete un giornalista intraprendente, scrivete romanzi… anche se in quest’ultima attività, sono costretta ad aggiungere, non avete raggiunto l’eccellenza.»
    «Oh, dite?» esclamò Alexandre Dumas, sgranando gli occhi.
    «Spero di non avervi offeso. Mi spiego meglio, se permettete. A mio parere, voi avete dato il massimo nel dramma romantico, genere che anzi, se vogliamo, avete inventato voi; avete scritto gustose cronache storiche, fiabe, racconti leggibilissimi; ma, per quanto attiene alle ampie dimensioni dell’opera narrativa, non avete ancora trovato la vostra voce. Oppure… non avete ancora trovato la storia giusta» concluse fissandolo con intenzione.

    © Rita Charbonnier ed Edizioni Piemme, 2009

  308. Quello che precede è l’inizio del romanzo. Quello che segue è un estratto dal secondo capitolo, “Vincenza”.

    Il suo corpo era percorso dal fulmine e le mani, le spalle, le cosce sussultavano. Dal ventre l’ondata lacerante si spandeva ovunque e non c’era un solo osso che non le facesse male. Dalla gola le usciva un suono rauco, di protesta contro la forza che la squassava, sulla quale non aveva controllo; non riusciva a star ferma, le membra non le appartenevano più, erano sue soltanto nel dolore.
    «Sento un liquido che cola» singhiozzò.
    La Zavajona le allargò le gambe con mani forti e ruvide. «È una femmina» disse. «Le femmine danno sempre parti difficili, perché sanno che vita le aspetta e non hanno nessuna voglia di cominciarla. Punta i piedi sul letto e spingi.»
    «Son troppo stanca, voglio riposare.»
    «Da’ una bella spinta, e vedrai che ti togli subito il pensiero.»
    «Ti prego, ora non sento dolore… fammi riprender fiato.»
    «Il fiato lo stai sprecando in chiacchiere, Vincenza! Fa’ quel che dico. Tu non hai fiducia nella gente.»
    Si sforzò con tutta la buona volontà, stringendo i denti, ma non accadde nulla. «È inutile. Lasciami in pace, ti prego…»
    «Oh, be’, se vuoi che me ne vada, padrona di crepare a modo tuo.»
    «Se crepo, il mi’ marito ‘un ti paga» ribatté, ma non finì neanche la frase che un nuovo spasmo parve spezzarla in due. Le sue membra divennero un fascio di dolore animalesco che non aveva mai provato e che la riempì di scoramento. Le pareva che una mano gigantesca, maschile, la tirasse per la nuca verso un altrove opaco, fosco e deserto; la mano la scuoteva come si scuote un cencio alla finestra, e come un cencio Vincenza non aveva muscoli, nervi, né sangue. Però aveva ricordi. Rivide l’ultimo infante estratto dalla ruota, nello Spedale per Trovatelli di via Santa Maria: uno scricciolo bluastro e mezzo soffocato. Non s’era fatto in tempo a dargli un nome perché era morto lì per lì. Trent’anni prima, a lei era andata meglio: era una bimba ben pasciuta e le suore l’avevano trovata avvolta in una copertina soffice e ornata di merletti. Chi era sua madre, un’adultera? Una prostituta di lusso? Vincenza non l’aveva mai saputo; sapeva solo che non avrebbe inflitto al proprio figlio la tortura di crescere in mezzo a tanti altri figli di nessuno. E avrebbe riconosciuto se stessa nei suoi tratti fin dal primo istante, ne era certa; quell’istante però non arrivava mai.
    «Smettila di strillare e sta’ calma!»
    «Non mi dire sempre di star calma…»
    «E grida, avanti, grida, che ti senta tutta Modigliana!»
    Le fitte si susseguivano, una peggio dell’altra, e Vincenza era certa che la sua fine fosse prossima. Presto la Zavajona avrebbe dichiarato che il demonio aveva legato il cordone intorno al feto e l’avrebbe lasciata lì a spirare, così come aveva fatto con la Rina, dopo quattro giorni e quattro notti di travaglio. Lorenzo le avrebbe organizzato un funerale decente, o avrebbe risparmiato su quello come sulla levatrice? Era un artista nel tirare i cordoni della borsa, suo marito, e i denari che gli dava il lavoro nelle carceri eran sempre troppo pochi. Li teneva in una scatoletta chiusa a chiave nel fondo di un cassetto e quanti ce ne fossero, là dentro, lo sapeva lui solo; li contava, e li ricontava, e passava le notti a fare calcoli, e i giorni ad avanzare petizioni perché gli aumentassero la paga, e aveva preteso che anche lei andasse a servizio! L’aveva portata via dalla Toscana per far la bella vita tra i colli di Romagna, e adesso lui raccoglieva la merda dei furfanti, e lei la merda dei signori. Non le era nemmeno concesso rivolgere la parola ai Borghi Biancoli. Ogni tanto però si nascondeva e li spiava, come quel giorno che erano arrivati i due ospiti stranieri; la donna era scesa di carrozza con fatica; doveva essere gravida. Anche la Teresa, la verduraia, era incinta. Anche la Gugliarda, l’altra serva. Pance, pance, pance dappertutto. A Modigliana tutte le donne eran gonfie come palloni. Nella sua Pisa si figliava molto meno.

    © Rita Charbonnier ed Edizioni Piemme, 2009

  309. Mi pare che il miglior romanzo storico più votato sia stato ‘I promessi sposi’.
    Con quella sua lavata di panni in Arno il buon vecchio Alessandro ha fatto storia!

  310. E queto dibattito può essere considerato ‘storico’. In tutti i sensi. Complimenti a tutti.

  311. Cara Rita, grazie per gli ottimi brani!

    Ho aggiornato il post inserendo (in coda) l’immagine definitiva della copertina del romanzo di Giulio Castelli in uscita a settembre…

  312. Molto interessante l’idea di postare degli estratti, belle pagine che stuzzizano ma non saziano… ci toccherà leggere i libri!
    Sto ri-leggendo POSSESSIONE. In inglese si intitola POSSESSION – A ROMANCE. In inglese romance vuol dire sia storia d’amore che romanzo, ma un tipo di romanzo fictional, più di passione e immaginazione rispetto al novel, più realistico.
    Naturalmente la Byatt, forte della sua conoscenza del mondo vittoriano, gioca con tutte le carte a sua disposizione.
    Mi è venuto in mente che i romanzi storici a volte battono più sul pedale novel o su quello romance (storia e fatti ricostruiti vs storia più come fondale).
    Che ne dite?

  313. Grazie per il tuo commento, cara Mari. A me pare molto interessante.
    Vediamo cosa ne pensano i “nostri autori” (sperando che tornino a dare un’occhiata da queste parti).

  314. Be’, dico la mia al riguardo, perché si tratta di una distinzione che cerco sempre di fare nelle mie presentazioni. In pratica, Maria Lucia Riccioli mette in evidenza le differenze che possono esistere tra “romanzo storico” e “romanzo di ambientazione storica”.
    Credo che perfino il tipo di target sia diverso, ed è un problema che deve necessariamente porsi lo scrittore che voglia raggiungere un ampio numero di lettori.
    Un romanzo storico nel senso della ricostruzione storica ha come potenziali lettori gli appassionati di storia, capaci di comprendere tutti i riferimenti in esso contenuti; gli altri tendono ad annoiarsi dopo le prime, descrittive pagine, nelle quali lo scrittore intende calare il lettore nell’atmosfera del tempo.
    Un romanzo di ambientazione storica (o a sfondo storico) è una storia d’amore, oppure un’avventura, un horror, un thriller o chi più ne ha più ne metta, ambientata in un’epoca diversa dalla nostra e con personaggi spesso inventati, e si rivolge a tutti; di conseguenza, deve rendersi comprensibile a chiunque, anche a coloro che non hanno un’accettabile preparazione storica. Un esempio potrebbero essere i due romanzi medievali di Ken Follett. Vi si privilegiano la vicenda e i personaggi, piuttosto che la ricostruzione storica dell’epoca (anche se, leggendo “Mondo senza fine”, si ha l’occasione di imparare sul sistema feudale più che sui libri di LeGoff o Bloch, sotto certi aspetti).
    Intendiamoci: la divisione non è poi così netta, in realtà. Anche in un romanzo a sfondo storico, pur privilegiando la vicenda immaginata, la ricostruzione può e dovrebbe essere accurata; ma non è più l’obiettivo principale dell’autore.
    Schematizzando: un romanzo storico può avere per protagonista Giulio Cesare; un romanzo a sfondo storico, un suo oscuro legionario…

  315. Caro Andrea, ti ringrazio molto per aver messo in evidenza le differenze tra “romanzo storico” e “romanzo di ambientazione storica”. Ne avevamo fatto cenno anche prima, ma tu sei stato particolarmente chiaro ed esplicativo.

  316. Carissima Rita, grazie per il link… e complimenti a te!
    Tra breve la tua voce sarà ascoltabile (o riascoltabile) sul sito di Fahrenheit.
    Ne approfitto per ringraziare gli amici della redazione di Fahrenheit che più volte hanno linkato i post di Letteratitudine.
    Peraltro anch’io, molto spesso, inserisco il link alle loro radiointerviste.
    Si è venuto a creare una sorta di tacito sodalizio 🙂

  317. Grazie, Massimo, per il link. Mi sembra di poter rilevare un fatto curioso in questa discussione. Come ben sappiamo, “Stabat Mater” di Tiziano Scarpa ha vinto l’ultimo Strega. Io non l’ho ancora letto, ma mi sembra che possa essere classificato uno storico, o quanto meno un romanzo di ambientazione storica, o quanto meno uno pseudo-storico. Come mai nessuno lo ha menzionato? Di quale rimozione siamo preda, tutti quanti?

    Peraltro, esiste un altro romanzo ambientato nell’Ospedale della Pietà di Venezia, nel quale la protagonista è una violinista allieva di Vivaldi che scrive lettere a una madre assente: è stato pubblicato l’anno prima di “Stabat Mater” e s’intitola “Vivaldi’s Virgins”. Non è stato tradotto in italiano. Questa è la pagina Amazon dell’autrice, Barbara Quick. C’è anche il video trailer.
    http://www.amazon.com/Barbara-Quick/e/B001IOFHVY/ref=ntt_athr_dp_pel_1

  318. Comunque, per correttezza, è giusto riportare la parole di Scarpa estrapolate da questo articolo
    http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/Libri/grubrica.asp?ID_blog=54&ID_articolo=2136&ID_sezione=81&sezione=
    Fonte di ispirazione o lontana suggestione, per Tiziano Scarpa, la Lavinia fuggita di Anna Banti? «Nessuna delle due – osserva un po’ seccato il vincitore del premio Strega che a spasso per Roma si sta godendo il meritato riposo del guerriero dopo l’agone del Ninfeo – Figurarsi se quando ho scritto Stabat Mater avevo letto un racconto degli Anni ‘50 della Banti. Ma nemmeno a pensarci. Sono andato a vederlo su segnalazione di Sandro Cappelletto. Certo, l’ambientazione è la stessa, ma cosa c’è da stupirsi? Io sono veneziano, sono nato all’Ospedale della Pietà, la musica di Vivaldi fa parte del mio DNA. E’ una storia assolutamente mia: anche perché sarebbe come dire che tutti i romanzi storici che hanno come protagonista Napoleone sono copiati». Nessuna memoria involontaria e nemmeno l’eco di qualcosa sepolto in un lontano passato di letture: Scarpa esclude drasticamente che la storia di Lavinia possa coincidere con quella sua Cecilia.

  319. Caro Aurelio, ero a conoscenza delle polemiche relative al presunto “plagio-Banti”. Ma non mi sembra si fossero mai rilevate le analogie tra il romanzo della Quick (un successo internazionale: è stato pubblicato in 14 nazioni, ma non in Italia) e quello di Scarpa (che è uscito successivamente).
    Con tutto ciò, non intendo insinuare che Scarpa ha plagiato la Quick. Non ho letto né l’uno ne l’altro libro (e quello della Quick non lo leggerò perché mi fa fatica leggere in inglese) e, se è per questo, nemmeno il racconto di Anna Banti (che è forse la mancanza più grave). Ma, conoscendo un pochino il tipo di romanzo storico che piace negli USA, non ho difficoltà a supporre che quello di Scarpa sia mostruosamente diverso. Hanno entrambi a che fare con una violinista allieva di Vivaldi che scrive a una madre assente. Mi sembra che per parlare di plagio sia un po’ poco.

  320. Perfettamente d’accordo. Anche a me sembra che per parlare di plagio ci sia un po’ poco.

  321. @ Rita ed Aurelio
    Grazie per le infomazioni, per i link e per lo scambio.
    Confesso di non aver letto i tre i libri citati (conto di leggere quanto prima quello di Scarpa). Credo che tutti e tre, alla fine, meritino di essere citati nell’ambito di questo dibattito.

  322. Ho appena scoperto questo blog. Forse è un po’ tardi…
    Fantastico, bel dibattito, complimenti a tutti. Leggendovi sto imparando un sacco di cose. Su molte sono d’accordo, su altre meno. La distinzione tra i generi, ad esempio, mi rendo conto che possa servire, ma non capisco che senso abbia. Magari poi qualcuno mi dirà in quale tipologia rientra il mio, perché io ancora non l’ho capito… 🙂 Diciamo che sto dalla parte di quelli che pensano che il romanzo debba essere prima di tutto una storia. Il romanzo storico, forse, dovrebbe essere più che altro una riflessione sulla storia (con la S) attraverso la narrazione di una storia (con la s). In questo senso la cosa più storica che mi viene in mente è l’Iliade. Nessuna data, nessun nome reale, perché non ce n’è bisogno: è un’astrazione, e spesso le astrazioni sono più reali dei fatti. Su uno dei post ho letto che un tipo di romanzo storico è metafora del presente, e questa cosa mi piace, però penso anche che debba essere astrazione del passato. Un gioco di maschere, di miti, leggende, favole, per esempio adoro le operazioni che faceva Shakespeare. E mi pare che qualcuno abbia già citato la Yourcenar, “la presa di possesso di un mondo interiore” (non mi ricordo tutti i 400 e passa post!), e di fronte a tale definizione non mi sento di aggiungere altro. È su quell’ “interiore”, però, che cade la mia attenzione, perché se ci si ferma al mondo e basta, la cosa prende tutto un altro significato…
    Sono archeologa e ho imparato ad avere un approccio “materiale” con la storia, fatta di posti, spazi in cui le persone si muovevano, vivevano, oggetti che usavano e li aiutavano a vivere. Un osso, un coccio, ti parla molto di più di una persona di quanto lo faccia un documento scritto. I documenti non ti dicono chi erano, come vivevano, cosa pensavano e provavano, e questi interrogativi invece te li chiedi in maniera sempre più assillante quando hai un contatto ravvicinato con le cose. Far parlare le cose, questo è il risultato che vorresti ottenere. E siccome ad un certo punto ti accorgi che non ci riesci, allora provi con altri mezzi… la scrittura, ad esempio.
    Posso approfittare per salutare Salvador? È da dieci anni che mi occupo di longobardi (del sud): architettura longobarda, pittura, insediamenti, tombe… longobardi dappertutto. Un’ossessione. Poi arriva uno scrittore ed eccoli là, quelli che hai scavato, disegnato, fotografato, raccolto, messo in cassetta e conservato in un magazzino. Magari non si chiamavano proprio così, ma chi se ne importa.
    Un saluto a tutti
    giorgia

  323. Della serie repetita iuvant, dato per scontato che dal punto di vista letterario non vi è differenza fra un buon romanzo ambientato fra gli ittiti e uno fra i clandestini che lavorano nei campi di pomodori (entrambi possono trattare con pari dignità e profondità la questione dello schiavismo e dello sfruttamento), voglio tornare alla definizione di romanzo storico. La frase “un romanzo storico può avere per protagonista Giulio Cesare; un romanzo a sfondo storico, un suo oscuro legionario” di Andrea Frediani può essere un’ottima definizione di genere. Ma io mi convinco sempre più che la stampigliatura “romanzo storico” sulle copertine, tanto cara al mio editore, Piemme, è, dicendola alla Fantozzi, è una cagata pazzesca. “Romanzo storico”, alla fin fine, non vuol dire nulla, visto che nelle collane di “genere” mescolano Camelot a Giulio Cesare. Molto meglio, e più dignitosa, sarebbe la dicitura “romanzo di ambientazione storica”, mettendoci dei paletti, però. E questi sono di nuovo il rispetto di tutta una serie di parametri più volte ripetuti qui sopra e sintetizzabili con la più possibile mancanza di incongruenze, dal materiale allo spirituale, rispetto all’epoca nella quale si ambienta la propria storia. Non importa se con personaggi reali o di pura fantasia. Mancando quei parametri si decade nel fantasy se non nel ridicolo.
    A Giorgia Lepore, se non erro finalista con me all’Acqui Storia, un abbraccio e la piena condivisione di quanto ha scritto. Ed è vero che parla di più un oggetto di un fascio di pergamene. Salvo, però, cara Giorgia, che il fascio non siano documenti tipo la Cronaca Salernitana o quella della Novalesa ecc., documenti tardi e infarciti di fantasiose ricostruzioni, ma così vivaci (dialoghi compresi) da lasciare incantati e di trasmettere l’animo e il “sentire” del tempo nel quale sono stato scritti. Comunque, Giorgia, sta a voi, giovani archeologi e docenti, provocare una rivoluzione tale da ribaltare lo stesso concetto di museo. Sarebbe meglio far pagare la gente per assistere agli scavi e, dovendo da qualche parte conservare i reperti, fare in modo che questi ultimi non stiano là a esibirsi come fantocci ma che parlino e si (oddio, che eresia!) lascino toccare. E, mi raccomando, tratta sempre con amore i nostri longobardi. Hanno in qualche modo unificato nord e sud con oltre un millennio di anticipo, i veri protagonisti di un piccolo rinascimento alla faccia di quei buzzurri di celti tanto amati dalla Lega.

  324. @ Giorgia Lepore
    Cara Giorgia, grazie per il tuo intervento e benvenuta a Letteratitudine!
    Giorgia (salvo un clamoroso caso di omonimia), è l’autrice di “L’abitudine al sangue” (Fazi, 2009)
    http://www.ibs.it/code/9788881129850/lepore-giorgia/abitudine-sangue.html

    “II tuo futuro non è oggetto di discussione, né ora né mai. Il mese prossimo verrai avviato alla carriera militare”: crollano così i sogni di Giuliano, figlio dell’imperatore di Bisanzio, posto dal padre a capo dell’esercito. Il giovane, incapace di sopportare la perdita di vite umane, la vista e l’odore del sangue, grazie anche all’amore della prostituta Eucheria troverà il coraggio di ribellarsi al ruolo impostogli. La vendetta paterna sarà feroce: Giuliano, ridotto a schiavo e torturato fin quasi alla morte, è rinnegato e rinchiuso in un monastero. Da qui ha inizio il lento percorso interiore del protagonista, il suo confronto con il dolore per la perdita della donna amata e l’abbandono da parte di Dio e del padre, fino al raggiungimento della pace nell’epilogo del romanzo.

    Maggiori informazioni qui:
    http://www.fazieditore.it/scheda_Libro.aspx?l=1183

  325. @ Marco Salvador
    cagata pazzesca… condivido! ah, questi editori…
    condivido anche quanto dici sulle cronache, che sono meravigliose e fonte inesauribile di notizie e spunti. Quanto al rapporto archeologia-pubblico, sfondi una porta aperta. Ho sempre lottato per aprire il più possibile gli scavi alla gente, per far conoscere, spiegare, perchè credo che solo la conoscenza porti al rispetto e alla tutela. Ma il mondo accademico spesso è resistente a questa prospettiva. Personalmente credo che la ricerca non possa essere fine a se stessa, ma debba aprirsi alla divulgazione il più possibile, altrimenti è sterile. Ma qui poi intervengono problemi di carattere pratico, economico, organizzativo… il discorso è molto lungo. In questo, se un libro, un romanzo può aiutare, l’occasione dovrebbe essere colta al volo, specie per quanto riguarda i ragazzi. Solo che si deve trattare di un “prodotto” attendibile e onesto, altrimenti poi vai a far capire ai ragazzi che Dan Brown non è propriamente uno storico…
    I longobardi sono la mia passione. Ho scritto una tesi di dottorato di 500 pagine per dimostrare che molte chiese pugliesi altomedievali sono ricollegabili alla presenza beneventana, ho scavato per quattro anni su un sito dove c’è una chiesa con affreschi di scuola beneventana di VIII secolo, e poi il resto te lo racconto un’altra volta. Con Erchemperto e Paolo Diacono ci siamo fatti parecchie serate, tirando fino a notte fonda… Quindi, con me sono in buone mani, stai tranquillo, li adoro. Però poi ho scritto un romanzo sui bizantini, vai a capire perchè.
    Sono molto contenta di averti conosciuto.

    @Massimo Maugeri.
    ciao Massimo piacere di conoscerti.
    Sono io, esiste una mia omonima attrice nonchè mia amica per una serie di strane coincidenze, però lei non ha scritto libri (almeno per ora).
    Complimenti per il blog, per la discussione e ovviamente per il tema, che mi sta molto a cuore. Bisognerebbe coinvolgere storici, archeologi, docenti e anche gli studenti, perchè, a parte il risvolto puramente letterario, il tema tocca il senso della storia, la sua comprensione e il rapporto che noi come “contemporanei” abbiamo con il passato in generale.
    In questo senso, il romanzo “storico” (nelle varie accezioni) è un’arma a doppio taglio: può illuminare, aiutare, spiegare, ma può anche fuorviare in maniera spesso difficilmente reversibile, come accennavo prima.

    Grazie a voi per l’accoglienza e a presto.

  326. @ Giorgia Lepore
    Cara Giorgia, ri-benvenuta! E ancora grazie per i commenti, per gli spunti e per i suggerimenti.
    A questo punto, dato che sei una scrittrice di “romanzi storici”, ti rifilo le fatidiche domande. Magari ti va di fornire tue risposte (anche se, in parte, lo hai già fatto con i tuoi interventi qui sopra).
    Poi, se ti va, avremo modo di parlare del tuo romanzo…
    🙂

    1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?

    2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?

    3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?

    4. Qual è, a tuo giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?

    5. E nel resto del mondo?

    6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?

  327. A Giorgia Lepore: mi ha anticipata perché ricordo benissimo la sua omonima, doppiatrice di cartoni animati che ormai fanno parte del nostro DNA… forse ha addirittura cantato delle sigle. Me la saluti!
    🙂
    Mi fa piacere che ci sia una Giorgia Lepore scrittrice e ricercatrice: condivido quello che scrive sul romanzo storico ed è bello saperla così appassionata del passato tanto da viverci assieme e volerlo restituire tramite una storia. Che è l’essenza del romanzo storico, insieme alla volontà di gettare un ponte tra il passato e il nostro presente con le sue domande poste alla Storia.

  328. @Maria Lucia Riccioli
    te la saluto con piacere.

    @massimo maugeri
    va bene se ti rispondo a puntate?
    e di notte, l’unico momento di calma, senza bambini fra i piedi…

  329. comincio con la prima.
    CARATTERISTICHE
    concordo con quanto scritto da vari interventi prima di me: nessuna in particolare, se non il fatto di essere scritto da una persona che al momento dei fatti narrati non era ancora nata. Ma se lo scrive un ventenne? Sarà storico un romanzo ambientato negli anni ’80 da uno che all’epoca non era ancora nato? Non so, sono perplessa. Tuttavia mi sembra l’unico limite possibile, a meno di non aggiungere arbitrariamente uno stacco cronologico fisso, mi sembra che qualcuno abbia parlato di cinquanta anni. Perciò forse sarebbe meglio risolvere il problema alla radice, cioè eliminare la definizione… Romanzo bello, punto. Anzi togliamo pure bello, che anche quello è ondivago… Poi lo possiamo ambientare quando ci pare.

    Se si racconta il passato come se fosse presente, come se fosse realtà contemporanea, ecco che i confini saltano, saltano gli schemi.
    Chi lo ha detto che il medioevo è passato? Per me è contemporaneo.
    E’ una dimensione, non è un’epoca. Il “mondo interiore”, appunto.

    Mi piace molto l’intervento di Simona Lo Iacono più o meno all’inizio del dibattito, quando parla di “malinconia per voci perdute”. Sono quelle voci che ho imparato ad ascoltare con il mio lavoro… Se scrivi così, dovrò leggere il tuo libro.

    Credo di avere sforzato abbastanza le mie celluline grigie per oggi, considerati i 38 gradi all’ombra che ci sono qui…

    Alla prossima

  330. Grazie mille, cara Giorgia.
    Attendiamo le prossime risposte. Ma fa’ con calma. Tanto questo sul “romanzo storico” è un post permanente (per un dibattito sempre aperto).

  331. A proposito della definizione in base alla quale un romanzo per essere storico deve essere scritto da una persona che al momento dei fatti narrati non era ancora nata…
    Immaginiamo un romanzo scritto a quattro mani da due autori di età differente. Immaginiamo che uno di loro al momento dei fatti narrati non era ancora nato, mentre l’altro invece sì.
    Come la mettiamo?
    😉

  332. In questi giorni sto leggendo un saggio molto interessante: “Leonardo Sciascia e la letteratura spagnola” (edizioni La Cantinella).
    Cosa c’entra con il romanzo storico?
    Vi spiego… anzi, copio un passaggio (da pag. 11) della bella prefazione di Sarah Zappulla Muscarà:
    Il 24 settembre 1958, da Racalmuto, Leonardo Sciascia scrive a Giuseppe Bonaviri: “Ho lavorato per tutta l’estate a un racconto sulla guerra in Spagna – uno zolfataro nella guerra fascista di Spagna. Non so che cosa sia venuto fuori. Lo manderò a Calvino”. Sostanzialmente frainteso l’intento di Sciascia da Calvino: “La guerra di Spagna può entrare indirettamente nella nostra mitologia individuale, ma – finché è vivo qualcuno che bene o male può parlarne per esperienza diretta – noi non possiamo raccontarla che indirettamente, cioè raccontare come è giunta a noi attraverso notizie e testimonianze d’altri. Non possiamo farne oggetto di un pastiche storico come potremmo fare per le guerre di Napoleone o di Garibaldi. A meno di fare una guerra di Spagna deliberatamente d’immaginazione, fantastica. Se vogliamo farla realistica, nel lettore resterà sempre quel senso d’insoddisfazione che danno le riproduzioni di fotografie troppo ingrandite e “retino” troppo largo.”

  333. È come se – in certo senso senso (almeno, così ho inteso) – Calvino sostenesse che non possiamo scrivere (realisticamente) un romanzo ambientato in un’epoca passata finché è vivo qualcuno che bene o male può parlarne per esperienza diretta.
    Che ne dite?

    E allora, giusto per sorridere insieme, vi propongo questa nuova regola: “un romanzo non può definirsi storico se è ambientato in un’epoca passata rispetto alla quale è ancora vivo qualcuno che bene o male può parlarne per esperienza diretta”.
    😉

  334. Allora è sinonimo di Storia della letteratura! Non si può parlare di un autore o di un’opera finché non maturi il necessario distacco per un giudizio sereno…
    Massi, parleranno di noi nel Sapegno 2173!
    🙂

  335. se vogliamo dare dei paletti cronologici, potrebbe anche andare bene. però, come si sa, le regole sono fatte per essere trasgredite…
    e se uno un giorno lo fa, tu che gli dici? no? non si può fare?

    Veniamo ora alla 2a: FUNZIONE.
    D’istinto direi: nessuna. Nessuna come ogni romanzo. Penso che la scrittura sia un lusso, una cosa preziosa, e come tutti i beni di lusso dovrebbe essere splendidamente inutile… Al limite un gioco, un divertimento, una perdita di tempo che solo quando si è bambini e non si conosce il valore del tempo ci si può concedere.

    E poi mi chiedo: funzione per chi? C’è una funzione per lo scrittore e una funzione per il lettore e non sempre esse coincidono.
    Per me la scrittura è una forma di conoscenza, più che di espressione o di comunicazione; un mezzo di sperimentazione e ricerca. Non mi piace pensare alla scrittura di un romanzo con fini ideologici; come diceva John Ford, se volete lanciare un messaggio non fate un film, scrivete un telegramma.
    E perchè uno decide di scrivere un romanzo storico? Moda? Maschera? Fuga? Nel mio caso forse sembra abbastanza scontato, però confesso che io stessa non ne sono così certa.
    E gli altri? Chi non è storico o archeologo o qualcosa del genere, perchè scrive una storia del passato? Viene da sola o si tratta di una scelta per motivi precisi? Motivi profondi, immagino. Insomma, mi incuriosisce.

    veniamo alla funzione per il lettore. Anche qui nessuna, almeno nessuna decisa da chi scrive. è il lettore che decide, è lui che comanda. Lo stesso libro può avere per la stessa persona funzioni diverse in due momenti della vita. Divertimento? Bene. Relax sotto l’ombrellone? Benissimo. Può affascinare, incuriosire, stimolare la conoscenza e l’approfondimento di argomenti, ma non ci può essere una funzione “didattica” prestabilita. Allora meglio un saggio o un buon testo divulgativo
    Non si può scrivere un romanzo con l’intento di insegnare qualcosa a qualcuno.
    Al limite, forse, può essere una condivisione: questa cosa mi piace, mi appassiona, e vorrei condividerla con te, se tu me lo permetti.
    Ma questo vale per qualsiasi romanzo.

    buona notte….

  336. quella del divertimento e del relax mi sembra una funzione importante. se poi un romanzo, storico o non storico, riuscisse a lasciare anche qualcosa in più al lettore non sarebbe male.

  337. …. 🙂
    si, dovrebbe lasciare qualcosa di più, è auspicabile ma non obbligatorio. anche qui dipende spesso dal lettore.
    e comunque, come credo di avere già accennato, dovrebbe avere per oggetto non tanto questo o quel periodo storico, ma la storia e il suo senso.

    3. COSE DA EVITARE.

    La pedanteria, lo sfoggio inutile di nozioni e di cultura fine a se stesso, l’erudizione.

    Per quanto mi riguarda, anche l’eccesso di descrizioni e di riferimenti precisi, date, nomi, spiegazioni, ma è una questione di gusti.

    La falsificazione, non quella storica ( se non inventiamo un po’ che romanzo è?) ma quella ideologica.
    La strumentalizzazione per fini ideologici o commerciali ( non so quale delle due sia peggio), ma anche questo si può applicare a qualunque romanzo, anche se spesso la storia si presta particolarmente bene a questo tipo di operazioni.

  338. @Giorgia Lepore. Voltaire diceva che tutti i generi letterari vanno bene tranne quelli noiosi. Mi piace fare spesso questa citazione (anche perché è l’unica che ricordo). Sono d’accordissimo sullo sfoggio inutile di erudizione e di nozioni iperculturali. Però se un romanzo ha anche una bella metafora, un messaggio sottile da trasmettere, è un valore aggiunto. Senza voler essere moralistico, per carità, ma lasciare appunto che sia il lettore a saperne comprendere il messaggio. Pensi a tutti i libri che sono stati censurati dai regimi. La letteratura può diventare stumento eversivo, nutrimento per il pensiero, può contribuire a spezzare catene.

  339. @ Rino Cammilleri
    Caro Rino, rifilo anche a te le ormai fatidiche domande di questo post:

    1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?

    2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?

    3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?

    4. Qual è, a tuo giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?

    5. E nel resto del mondo?

    6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?

  340. Vorrei aggiungere qualcosa alla funzione del romanzo (storico e non), sollevata da Giorgia Lepore. Quando chiedo alle persone, con un piccolo sforzo maieutico, cosa le ha fatte diventare ciò che sono, mi rispondono citando certi libri e certi autori che hanno profondamente influenzato le loro coscienze; e spesso citano romanzi storici. Io stesso, non sarei ciò che sono senza aver letto Dumas, Scott, Waltari, La Storia della Morante o Martin Eden di London, solo per citarne alcuni.
    Quello che voglio dire è che il relax, secondo il mio modesto parere, è l’ultimo elemento nella lista delle funzioni. Un romanzo, soprattutto un romanzo storico, si rivolge a un pubblico più vasto di quello del saggio storico, e deve pertanto legare emozioni a eventi e processi storici, affinché questi ultimi rimangano più impressi nella memoria e nella coscienza del lettore magari non molto avvezzo a essi.
    Un romanzo storico, se vogliamo – e perfino un romanzo d’azione -, deve indignare, denunciare, esaltare, emozionare, far disperare, far riflettere, prima ancora che rilassare (è anche quanto mi dicono i lettori commentando i miei libri). Deve lanciare messaggi sull’ingiustizia, la tirannia, la corruzione, l’ambizione sfrenata che tanto spesso si riscontrano negli uomini e nelle società. Altrimenti, se la sua funzione principale è il relax, parlerei più di un romanzo d’avventure che di uno storico… Il relax lasciamolo, semmai, ai romanzi rosa…
    Azzardo, col rischio di essere crocifisso, un concetto: se vogliamo, quella dello scrittore di un romanzo storico è una piccola missioncina: denunciare, soprattutto, trasmettere messaggi che possano formare la coscienza di un giovane perché contribuisca, in futuro, a evitare certi errori e certi eccessi…
    Guardiamo “Le benevole” di Littell, per esempio, tanto per citare il libro che sto leggendo adesso: descrive meglio di un saggio – proprio perché lega le descrizioni all’emozione che suscita la vicenda – i processi che sovrintendevano le operazioni di sterminio dei tedeschi durante l’ultima guerra. Il libro indigna, insegna e fa riflettere. E dalla sua lettura esco più ricco e più determinato a rispettare gli altri. Ma non mi rilassa per niente…

  341. “La strumentalizzazione per fini ideologici o commerciali” di Giorgia
    abbinata a “denunciare, soprattutto, trasmettere messaggi che possano formare la coscienza di un giovane perché contribuisca, in futuro, a evitare certi errori e certi eccessi” di Andrea propongono ciò che, come non mi stanco mai di ripetere, dovrebbe essere l’anima del romanzo di ambientazione storica. Purtroppo la si ritrova raramente (lo scrittore scrive per essere letto e l’editore pubblica per guadagnare) e, quando la si incontra (raramente), il pessimismo impera perché (salvo uno non sia un ingenuo idealista, un Candido) si sa che la Storia non è assolutamente maestra. Io poi ci aggiungerei:
    “Purché tutto non si appiattisca nell’inseguimento della mediocrità uniformante del politically correct”.

  342. E allora salviamo capra e cavoli, caro Marco: una “cornice” commerciale e accattivante (per essere letti e per far guadagnare l’editore – perché è l’editore che ci guadagna soprattutto, sia ben chiaro) unita a messaggi edificanti, costruttivi e di denuncia, almeno tra le righe…
    La storia non è magistra vitae, hai ragione. Ma sono convinto che la letteratura lo sia: e se trasmettiamo la storia attraverso le emozioni che sa suscitare la letteratura, forse uno su mille riusciamo a farlo riflettere. E sarebbe già un bel risultato…

  343. @andrea
    tanto per fare due conti. mediamente l’autore incassa il 10%, il distributore altrettanto, il libraio il 30% (minchia, investendo solo un po’ di psazio su un tavolo o uno scaffale). così il 50% se ne andato. quello che rimane, tolte le spese, va all’editore (ma non credo gudagni come il libraio).

  344. mi piacerebbe poterlo raccontare al mio libraio. peccato che ha chiuso bottega un mese fa.
    la verità è che sono tempi duri per tutti coloro che hanno a che fare con i libri.
    ma questa è un’altra storia, e non c’entra col romanzo storico.

  345. @luca testa
    ce l’ho mica coi librai. sono eroici. ma devi riconoscere che fra autore e libraio vi è una certa sporporzione. e non è colpa dei librai.
    @rino cammilleri
    un benvenuto ma anche un rimbrotto: non ricevo più i suoi antidoti.

  346. e se l’autore decidesse di fare il libraio? ecco una possibile soluzione: una cooperativa di scrittori librai. ci si potrebbe persino scrivere un romanzo ambientandolo a inizi novecento.
    ecco. io c’ho messo l’idea. chi ci mette la penna?

  347. Il punto è che editori e librai investono capitali, e in qualche modo devono garantirsi di rientrare o di essere ripagati del loro investimento. L’autore, invece, investe “solo” in tempo, intelletto e fantasia (l’autore di un romanzo storico anche in studio e documentazione, se permettete), e si tratta di elementi che la implacabile legge dei numeri non prende in considerazione…
    Comunque, ho amici librai e non se la passano bene. Sopravvivono, e non sempre prosperano, solo le grandi catene, soprattutto grazie alla multimedialità.
    L’autore, secondo me, non può fare il libraio: difficile trovare un creativo che abbia anche un istinto commerciale: sembra quasi una contraddizione in termini, e certamente sarebbe una pesante distrazione. Ci scriverei un romanzo umoristico, casomai, per descrivere le peripezie tragicomiche di un gruppo di scrittori che fa inevitabilmente fallire l’attività imprenditoriale in cui prova a cimentarsi…

  348. 1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?
    -Secondo me, dovrebbe esplorare fatti storici poco conosciuti ma che hanno molto da dire all’oggi.
    2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?
    -Fare amare la storia. Invogliare il lettore a saperne di più.
    3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?
    -L’attualizzazione e i luoghi comuni, tipo eretici sempre buoni e inquisitori sempre cattivi. Un autore dovrebbe prima studiare la mentalità del tempo di cui intende scrivere, non giudicarla alla luce del politicamente corretto odierno.
    4. Qual è, a tuo giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?
    -Personalmente, ne ho le tasche piene di personaggi storici famosi trasformati in investigatori.
    5. E nel resto del mondo?
    -Tutto quello che ho detto, anche rispondendo alle domande precedenti, vale sia in Italia che nel mondo.
    6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?
    Il Signore degli Anelli. Ha inventato ed esaurito un genere. Non è storia-storia ma storia ipotetica, eppure…
    Un caro saluto.
    Rino Cammilleri

  349. allora, prima finisco le risposte… (ma com’è che io ci metto tutto ‘sto tempo a rispondere? mi sa che mi incasino troppo con discorsi che cominciano e poi mi portano da un’altra parte…)

    con queste faccio presto e finisco, finalmente.

    4. STATO DI SALUTE IN ITALIA: mi sembra buono. Dico mi sembra perchè non ho una conoscenza tanto profonda della situazione. Invece mi sa che è lo stato di salute dell’Italia in generale a destare qualche preoccupazione.

    5. STATO DI SALUTE NEL MONDO
    Boh.

    6. SONDAGGIO.
    L’Iliade, primo fra tutti. Poi le favole, i miti, Shakespeare, le tragedie greche. Tutta roba per niente romanzo e poco storica.
    Se devo invece pensare ai romanzi nel senso classico del termine, il già abbondantemente citato Memorie di Adriano, come pure L’opera al nero, e poi posso aggiungere alcuni libri che io ho amato molto, come I diavoli di Loudun di Huxley e L’eletto di Mann.
    Per quanto riguarda l’Italia, il più gettonato in questo dibattito mi lascia abbastanza perplessa, ma devo ancora smaltire i traumi scolastici. Molto meglio Il Gattopardo.

    @salvo zappulla
    valori che devono passare attraverso la storia che si racconta. Non possono essere preconfezionati a tavolino. La sincerità da parte di chi scrive è fondamentale.
    E visto che siamo in tema di catene da spezzare, spezziamo pure quelle dei generi letterari, che non mi sembra facciano bene al libero pensiero.

    @ andrea frediani
    forse non si è capito, ma quella del relax era una battuta. Credo che anche se si parte con ambizioni “alte”, sia preferibile non prendersi mai troppo sul serio, anche se si parla di cose molto serie. Del resto, se hai letto i miei precedenti interventi sul rapporto tra ricerca archelogica e narrativa, si capisce che la cosa per me ha radici molto più profonde.
    E comunque non sono d’accordo sul lanciare messaggi. Un romanzo deve raccontare una storia. E’ quella che parla, sono i suoi personaggi, non lo scrittore. Il messaggio è la storia stessa. E nel caso del romanzo storico il messaggio è la Storia.

    Che ne dici se uno su mille lo facciamo riflettere e gli altri 999 li facciamo almeno rilassare? 🙂

  350. @ Giorgia
    E magari quell’uno su mille porta occhiali da sole a specchio.
    🙂
    (grazie per le risposte, cara Giorgia)

    p.s. Una curiosità. Non ti piace “I promessi sposi” solo per via del trauma scolastico o ci sono altre ragioni?

  351. Ma sulla questione della funzione che dovrebbe avere per lo scrittore? Intendo per lo scrittore rispetto a se stesso, non rispetto agli altri. Quella secondo me è la funzione primaria. Cioè non come nasce un romanzo, ma perchè. E perchè storico.
    E’ una cosa che mi incuriosisce molto.

  352. Giusto, Giorgia… quale funzione per lo scrittore (rispetto a se stesso)?
    Magari potreste confrontarvi su questo (anche se, in parte, se non sbaglio, qualcuno di voi ha già risposto).

  353. @massimo
    trauma scolastico pesantissimo… mi facevano imparare interi brani a memoria… non sono più riuscita a leggerlo, nè ci tengo.
    altri motivi: lieto fine appiccicato, che poi sarebbe la “famosa” concezione provvidenzialistica della storia, Lucia che è una lagna, Renzo un imbranato, tutti i personaggi simpatici sono sempre cattivi e fanno una brutta fine. A proposito di “politically correct”…. ed è meglio che mi fermo perchè rischio di dire cose troppo compromettenti.
    ma poi mi dici tu come fa a piacerti una cosa del genere a 15 anni? mi leggevo Baudelaire e mi veniva da piangere perchè a scuola ci facevano studiare La Pentecoste…
    roba da diventare atei per dispetto! 🙂

  354. @Giorgia Lepore
    In realtà, devo confessare che di solito parto con ambizioni “basse”, ovvero, semplicemente, avvincere il lettore. Ma poi mi accorgo che la vicenda che narro è solo una cornice. Una cornice nella quale prendono forma sottotrame e personaggi le cui potenzialità offrono delle opportunita di – senza stare a ripetermi – fare tutto ciò che ho scritto prima. E mi sentirei in colpa se non le sviluppassi; sentirei di aver perso, per l’appunto, un’opportunità.
    La storia, secondo me, è un contenitore, non può essere un messaggio. Un contenitore che va arricchito: invece, sul fatto che nel romanzo storico il messaggio è la Storia, non posso che essere d’accordo; ma preferibilmente non dovrebbe essere l’unico, proprio per quella questione di opportunità cui accennavo prima.
    “Un romanzo deve raccontare una storia. E’ quella che parla, sono i suoi personaggi, non lo scrittore” Io penso che lo scrittore debba parlare, eccome! Magari non come voce narrante, ma proprio attraverso i personaggi che lui stesso crea (anche se i miei editor vorrebbero sempre che inserissi una voce narrante). In un saggio lo storico deve sforzarsi di essere distaccato e obiettivo, ma in un romanzo… Se non c’è coinvolgimento da parte dell’autore, come si potrà pretendere che ve ne sia da parte del lettore? Quindi, per me W i messaggi…:-)) e se qualche lettore mi scrive che si è rilassato, vuol dire che ho fatto cilecca!

  355. fichissimo. In particolare l’ultimo intervento, che paragona I promessi sposi all’Iliade. E Renzo sarebbe Ettore o Achille? Nel primo caso Lucia sarebbe Andromaca, nel secondo sarebbe Patroclo, e lì ci vedo qualche problema… Scusa Massimo, è che questo paragone con l’Iliade mi sconvolge… si potrebbe anche essere molto seri su questo, ma a quest’ora non ci riesco.

    sarà meglio andare a dormire, prima di scrivere altre …… in libertà!
    buona notte

  356. ovviamente il mio precedente era in risposta a massimo…

    @andrea
    abbiamo concezioni un po’ diverse, almeno su alcuni punti. ma dire che non è lo scrittore a parlare, ma la storia, non vuol dire che lo scrittore non sia emotivamente coinvolto. Anzi. E’ talmente coinvolto che dimentica se stesso.
    e ora me ne vado veramente a dormire…

  357. e per finire.
    è ora di smetterla con l’idea romantica dello scirttore a pane ed acqua che si nutre d’arte. deve essere pagato per il suo lavoro almeno alla pari di un guitto, di uno strimpellatore o di un canterino che cazzeggiano al cinema, in tv o a teatro. altrimenti scrivere sarà solo un secondo lavoro o un lusso per ricchi.

  358. @Marco Salvador.
    Lo scrittore guadagna se è un professionista che vende tante copie. E’ giusto così. I diritti d’autore variano in genere dall’ 8 al 10 %. E anche questo è giusto. Il distributore prende il 25% o anche il 30, se è grosso. I piccoli librai indipendenti stanno chiudendo tutti (almeno in Sicilia) stritolati dalle grosse catene Mondadori, Giunti, Feltrinelli, dalle vendite via internet e dagli ipermercanti a cui si dà la possibilità di vendere le novità con lo sconto del 20%. Siamo in una società di libero mercato e il piccolo soccombe, però è un peccato perchè la commessa di un supermercato non ha la stessa professionalità del vecchio libraio.

    @Giorgia Lepore. Sei simpatissima, hai portato una ventata di freschezza. E’ vero certi traumi infantili non si superano facilmente. Pensa che i miei erano così poveri, ma così poveri, che mi avevano comprato solo una fiaba da leggere: “La piccola fiammiferaia”. L’avrò letta e riletta almeno 500 volte. Mi è venuta la nausea.

  359. 1)sicuramente non una storia autobiografica e deve strettamente essere un romanzo che inquadri il periodo storico in maniera impeccabile senza grossolani errori.
    2)deve invogliare il lettore ad entrare dentro il periodo storico di cui si sta scrivendo e farlo sentire un tutt’uno con esso. inoltre deve essere uno stimolo per ampliare la conoscenza della storia.
    3)evitare le intrusioni e dissertazioni troppo ideologizzate dell’autore.
    4)5) al momento non mi sembra gran chè sia in Italia che all’estero,forse autori anche poco conosciuti risentono della difficoltà a far pubblicare i loro romanzi da editori importanti. accetto consigli di buona lettura a tal proposito grazie.
    6) mi sembra un po’ troppo facile e senza impegno dire “i promessi sposi” facile perchè la cosa non implica scegliere un autore contemporaneo e quindi non esporsi. Sceglierei “il nome della rosa” ma anche qui cadrei nel “facile” dico quindi “Q” di luther blisset (ora WU MING)

  360. La penso come Andrea Frediani e Salvo Zappulla. Lo scrittore attraverso la storia e i personaggi, può e deve dire la sua (senza lanciare messaggi evidenti o fare giochetti ideologici).
    Rivendico anche una funzione nobile della letteratura. Letteratura che emoziona, che coinvolge, che forma e informa. Che disturba, in certi casi.
    Alcuni regimi ne sanno qualcosa.

  361. Credo che il romanzo storico, qui in Italia, stia riscontrando un certo successo. Altrimenti sarebbe inspiegabile il boom di un post come questo, con più di 500 commenti, nonostante l’indubbia bravura di Massimo Maugeri, maestro nell’organizzare dibattiti.

  362. @Fausto. Hai ragione. Il successo di questo post è straordinario (nonostante la presenza di Maugeri).

  363. Senza Maugeri questo e tanti altri dibattiti non avrebbero visto luce. Non diamo a Cesare quel che è di Maugeri.

  364. @salvo
    non parlo per me, salvo. ho un mio reddito (dio benedica i miei antenati), vendo, sono tradotto all’estero e dei mie romanzi (quelli non storici) fanno film. mi riferivo a gente molto più brava di me, che per il pane ha dovuto mollare tutto e prendere in mano la cazzuola.
    ma i fiammiferi per emulare la piccola, almeno quelli ce li avevi?

  365. @Marco. So benissimo che parlavi in generale. E so benissimo che sei uno scrittore di successo. E ritengo anche che chi ha dovuto prendere la cazzuola non era affatto gente più brava di te. Io non credo ai geni incompresi (a parte qualche rara eccezione). Alla fine se uno vale, trova sempre la maniera di emergere. Il fatto è che a scrivere sono (siamo) in tanti. In troppi. E non tutti sono in grado di produrre roba di qualità. Molti si limitano a pubblicare per dare sfogo al proprio narcisismo. Proprio ieri una persona mi diceva che una grossa – e sottolineo GROSSA- casa editrice si era offerta di pubblicargli il romanzo, a condizione che sborsasse tremila euro. Sono rimasto allibito. E il tizio si mostrava pure orgoglioso della proposta. C’è un marasma nel mondo editoriale, i libri stazionano nelle librerie non più di tre mesi, dopo sono già scaduti. E la distribuzione spesso lascia a desiderare.
    I fiammiferi: io ci provavo a venderli, ma mi davano quelli già usati e non li volevano neanche con il 50% di sconto. Tempi duri.

  366. C’è anche un problema di base: un romanzo storico non è facile da scrivere, occorre documentarsi e tradurre i fatti in una narrazione che sia accattivante, senza falsare la verità di fondo. Purtroppo, oggi come oggi, i romanzi storichi che vendono tantissimo sono solo degli pseudo romanzi storici, nel senso che i fatti sono falsati, oppure anche inventati di sana pianta. Personalmente, sulla base della mia esperienza, le opere di Salvador e di Tuena sono autentici romanzi storici, scritti benissimo, rispettosi delle vicende e dovrebbero incontrare maggiore fortuna di quella pur buona che incontrano. Cosa osta allora al fatto che abbiano maggiore diffusione, visto che i loro editori non sono di piccola caratura?
    L’ignoranza della maggior parte dei potenziali lettori che sovente non conoscono i protagonisti di questi testi. Provate a chiedere in giro notizie di Scott o di Ezzelino da Romano, e o non avrete risposte, o ne avrete di ridicole. Tanto per dirvi quanto sià problematico questo fenomeno, leggevo oggi un articolo sul Corriere in cui si dice che l’università di Padova ha organizzto dei corsi integrativi per far conoscere la lingua italiana ai loro iscritti, carenti al riguardo addirittura per il 90%. Un altro problema posto dallo stesso articolo è quello della scarsa conoscenza storica degli studenti universitari, ove si consideri che alla Facoltà di Scienze Politiche secondo anno in un test parecchi non hanno saputo rispondere alla domanda “Chi è Churcill?” e uno addirittura ha scritto che era il Presidente degli Stati Uniti all’epoca della grande crisi del 1929.

  367. @Renzo, siamo onesti, cosa vuoi che gliene freghi al lettore comune se i libri di Wilbur Smith o di Ken Follet sono veri o falsi romanzi storici. Piacciono e basta. Piacciono perché hanno trovato la formula vincente. C’è ritmo, azione, suspence, tengono incollati alle pagine e tanto basta. Magari non avranno arricchito di una virgola la storia della letteratura, rimarranno semplici romanzi commerciali ma non possiamo pensare che milioni di lettori sono tutti imbecilli o manipolati dalla pubblicità. Per il resto d’accordo con te: i libri di Filippo Tuena, Marco Salvador e Rita Charbonnier meriterebbero ancora maggiore diffusione.

  368. @Renzo. Infatti ho parlato di lettore comune. E comunque ricordati che la lettura è menzogna, invenzione, in definitiva falsità. Se uno vuole conoscere la storia si legge un bel saggio.

  369. @Salvo, Salvo, un lapsus…Non sono d’accordo. Metti che uno scriva un romanzo storico su Mussolini, che invece di finire ammazzato diventa un divo del cinema. Che credibilità può avere un romanzo del genere? Non ho detto che uno studia la storia con il romanzo storico, dico solo che uno conosce la storia (e in Italia questa materia è una Cenerentola) non potrà mai gradire un testo che parla di un personaggio svilendone completamente la vita, cioè ciò che ha fatto.

  370. Ma poi siamo così sicuri che gli stessi storici, e la Storia così come ci viene raccontata, siano del tutto esenti dal rischio “falsità”?
    Mi pare che viviamoin un’epoca in cui le parole “revisionismo storico” non sono così inusuali.
    Tanti auguri agli autori per i libri e complimenti per il blog e la bella discussione.

  371. In quel caso, Renzo Montagnoli, parleremmo di romanzo fantastorico (o di fantapolitica). E’ un’altra cosa.
    Intendevo altro. Per esempio, gli antichi romani sono stati conquistatori o invasori?

  372. @Fabiola, mannaggia a te, mi hai preceduto.

    @Renzo. La ragazza mi ha tolto, come si suol dire, la parola di bocca.
    Se uno scrive un romanzo su Mussolini che è stato ammazzato, scrive una storia elementare. Se uno scrive la storia di Mussolini che diventa un divo del cinema, un democratico per eccellenza e alla fine decide di farsi pure frate, ha realizzato un capolavoro-

  373. @Renzo. Bando agli scherzi. E’ chiaro, uno scrittore che scrive un romanzo storico deve possedere la massima professionalità, non sono ammesse incongruenze e particolari errati, nè trasgressioni sui costumi dell’epoca ecc ecc. Tra l’altro mi pare che queste cose le abbia già scritte prima lo stesso Salvador e Cinzia Tani, quindi rischiamo di essere ripetitivi. Però è anche vero che lo scrittore medio tante notizie non le conosce e quindi prende per buono quello che gli riferisce l’autore. Per poter distinguere il professionista dal pallonaro, il lettore deve avere una certa competenza in materia. Se ne potrebbe dedurre che i lettori di questo genere di romanzi devono appartenere a una elite composta da studiosi, ricercatori, archeologi.

  374. @Salvo: attenzione che la ragazza parla di un romanzo ucronico, che è un’altra cosa ancora. E poi non è vero che i lettori debbano essere degli esperti, ma solo gente che a scuola abbia studiato, con applicazione, la storia, anche se quella che viene insegnata non è storia…

  375. @ Ci mancava pure il romanzo ucronico, fatto con i se e con i ma. Se quel giorno non fossi salito su quel tram dove c’era mia suocera, che mi chiese di portarle le borse della spesa fino a casa, dove mi presentò sua figlia pronta a ghermirmi, oggi sarei ancora un uomo libero… Buonanotte Renzo, per stasera chiudo.

  376. Be’, noto con piacere che la discussione ancora… tira.

    Un saluto speciale ai nuovi arrivati: Vincenzo, Fausto e Fabiola-

    Salvo e Fausto, date pure a Cesare quel che è di Maugeri. Del resto lui (il buon Giulio) ha una valenza storica ben superiore alla mia.
    😉

  377. Vorrei approfondire la conoscenza del romanzo di Giorgia Lepore: “L’abitudine al sangue” (Fazi).
    Per cui, cara Giorgia, ti porrò alcune domande sulla falsariga di quelle poste agli altri autori protagonisti di questo post.

  378. @ Giorgia Lepore
    (premesso che ad alcune domande hai in parte risposto nei tuoi precedenti commenti)

    Giorgia, da dove deriva la tua passione per la storia?

    Come nasce questo tuo romanzo “L’abitudine al sangue”? Da quale idea? Da quale esigenza?

    Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?

    Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

    Immaginiamo che tu sia obbligata a scegliere tra il fare l’archeologa e la scrittrice. Cosa sceglieresti?

    Stai lavorando a un nuovo romanzo?

  379. Oddio, qua basta che ti distrai un attimo succede di tutto… pure il romanzo ucronico…
    @ salvo
    grazie! la piccola fiammiferaia era una delle mie favole preferite. piangevo sempre.
    @ marco
    è ora di finirla… ooooohhhhh! (ovazione con ola)
    sai com’è, sono un’esperta di cazzuole (archeologiche) e anche quelle non rendono.
    @vincenzo
    e se fondassimo un partito “è ora di finirla con i Promessi Sposi”?

    a parte gli scherzi, il discorso sull’oggettività della storia è interessante e complicato, cara Fabiola. Le falsità della storia e degli storici esistono, purtroppo. A volte sono volute e sono le famose strumentalizzazioni di cui parlavo qualche giorno fa, e affliggono tanto la saggistica che la narrativa storica. A volte, invece, lo storico deve arrendersi all’evidenza che la nostra visione del passato è per forza parziale, limitata, di parte (quella dei vincitori), danneggiata dalle perdite irrimediabili di fonti scritte e documentarie. Ci si può avvicinare, con un lavoro onesto, ma mai avere una visione davvero completa. In più, poi, ci sono quelle che definirei le distorsioni in buona fede: uno storico è talmente convinto di una tesi che tenderà inevitabilmente a dimostrarla, e a forzare l’interpretazione di fatti e documenti in maniera quasi inconscia. Anche in archeologia succede, per fortuna di rado, ma succede.
    Perciò, temo che la ricerca della verità nella storia sia un’illusione… nè più nè meno che in molti altri campi. Un buon saggio può restituire molto, ma mai tutto. Un romanzo in teoria dovrebbe restituire ancora meno, proprio perchè c’è l’intervento della fantasia, eppure forse a volte può scandagliare meandri che la ricerca storica non potranno mai mettere in luce… L’animo umano, per esempio. Ma rimane sempre un’operazione per approssimazione. La storia non è una scienza esatta, come non lo è l’archeologia (ah, che dolore….) perchè c’è il fattore umano, la variabile che non potrà mai essere ricostruita del tutto.

  380. caro Massimo,
    anche qui ti rispondo a puntate…
    a cinque anni mi portarono a Pompei; piansi per una settimana. Ero convinta che per le strade ci fossero ancora le persone che scappavano, e poi pensavo sempre al Vesuvio e alle eruzioni. Genitori, pensate bene a dove portate in vacanza i vostri figli…

    Poi in realtà la storia studiata a scuola non mi piaceva. Un giorno scoprii a casa un’edizione di Erodoto e non me ne staccai più… ecco, credo che il contatto con i monumenti archeologici e la possibilità di consultare una fonte diretta, non mediata attraverso un manuale di storia, mi abbia svelato nuovi orizzonti.
    Poi, una mattina, quando avevo sedici anni, mi ritrovai da sola per una serie di strane circostanze nel parco archeologico della valle dei templi ancora deserto… Una botta in testa penso che sarebbe stata meno devastante.

    Credo di averlo già detto: il mio rapporto con il passato è molto “materiale”. Passa attraverso oggetti, muri, strade, ossa, ossa che poi sono persone, e persone che poi avevano un nome, e costruivano muri, e passavano per quelle strade e in quelle case, e a volte scrivevano, e raccontavano. E i racconti, i loro racconti, sono milioni di volte più belli, più vivi e più intensi di quanto mai nessun libro di storia possa contenere. E nemmeno il più grande romanzo.

    Se volete posso continuare così almeno per due ore…

    baci a tutti e bnotte

  381. @massimo

    Come nasce questo tuo romanzo “L’abitudine al sangue”? Da quale idea? Da quale esigenza?

    Il romanzo nasce in maniera abbastanza casuale, due anni e mezzo fa. Era un periodo di lavoro molto intenso e nei momenti di pausa il cervello invece di staccare vagava da solo… In realtà non avevo in mente di scrivere un romanzo, cioè non è stata una scelta progettata. Mi è venuta la storia, mi sono messa a scriverla, da lì poi prendeva forma, andava avanti, in maniera quasi automatica.
    Potrei dire che all’inizio non sapevo dove mi avrebbe portato, e anche quando l’ho finita (l’ho scritta tutta d’un fiato, in poco meno di tre mesi), non capivo perchè, e perchè quella storia. Solo quando ho cominciato a prendere il dovuto distacco, mi sono resa conto che solo in parte le motivazioni stavano nel mio lavoro (diciamo che è piuttosto la ragione della forma “storica”), ma che ce n’erano altre. A parte il senso della Storia, come ho avuto già modo di sottolineare, avevo bisogno di mettere alcune cose a posto.
    Ho scelto la narrazione in prima persona, ma anche in questo caso non è appropriato palrare di scelta, perchè non avrei potuto scriverlo diversamente: prima è nato il personaggio, Giuliano, e lui ha raccontato la sua storia. Anche lo stile, il tono, la cadenza narrativa, è stata dettata da chi racconta.

    I personaggi riprendono caratteristiche di personaggi reali, che però sono volutamente mascherati e mescolati tra loro come se fossero pezzi di un puzzle che si ricompone in un ordine diverso da quello originale. Sono astrazioni, archetipi. La mia intenzione era quella di operazione simile alla creazione delle leggende, o delle favole.
    La storia è basata innanzitutto sulle relazioni: padre-figlio, fratelli, madre-figlio, uomo donna, ma anche e soprattutto tra uomo e Dio, tra l’uomo e il suo destino, e quindi anche la storia.
    Sto seguendo il dibattito a proposito del libro di Michela Murgia, sulla contrapposizione tra legami “scelti” e legami “di sangue”. Anche nel mio romanzo è presente in maniera molto forte questo tema, anche se ovviamente in maniera diversa, e soprattutto tra legami d’amore che sono basati sul possesso e negano quindi la libertà e legami d’amore che invece liberano.

    Un altro tema, che mi sono resa conto era fondamentale nello sviluppo della storia, è la strumentalizzazione di Dio da parte del potere e da parte di tutti gli uomini, per giustificare, motivare scelte ed azioni. Questo è un vizio antico, che ultimamente va molto di moda.

    Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?

    Non ho fatto ricerche particolari, perché la materia, l’ambientazione, i particolari storici facevano già parte del mio lavoro o comunque della mia formazione. Man mano che andavo avanti, rileggendo le cose che scrivevo mi rendevo conto che c’erano gli echi di cose che avevo studiato, sedimentate tanto in fondo che mentre invece le scrivevo non erano influenze consapevoli. Le fonti, prima di tutto, gli storici romani (Tacito, ma soprattutto Ammiano Marcellino), le cronache medievali, sia storiche che monastiche, i particolari, i toni narrativi hanno agito nella mia scrittura in modo che potrei definire quasi subliminale.
    Mentre scrivevo spesso sentivo che qualcosa di quello che stavo scrivendo mi era familiare… e poi mi veniva in mente dopo. Ad esempio è stato così per il rapporto tra i due fratelli, Costantino e Giuliano, che ricorda il rapporto tra Basilio II e Costantino VIII, in maniera però invertita.

    Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

    Scrivo quando posso, dove e come posso, ma preferibilmente di notte o di mattina presto, quando ancora non è cominciato il casino (ho due bambine). Anche sul telefono, se non ho carta a disposizione, anche al buio, se non mi va di alzarmi. Poi trasferisco tutto al pc.

  382. e per finire le ultime due risposte…

    Immaginiamo che tu sia obbligata a scegliere tra il fare l’archeologa e la scrittrice. Cosa sceglieresti?
    scelgo la terza…. diciamo che è una domanda difficile, in un momento difficile, e non so proprio che risponderti. Diciamo che sono rimasta abbastanza delusa da come vanno le cose in campo archeologico in Italia. Fare l’archeologo è praticamente impossibile, soprattutto se sei una donna, se vuoi una famiglia, e se ha più di 35 anni. Ma il discorso è troppo lungo.
    D’altra parte, mi sembra che dall’altro versante ci sia poco da stare allegri…
    magari mi apro un agriturismo.

    starei lavorando ad un nuovo romanzo, anzi, più di uno, perchè mi vengono in mente tantissime storie. se riuscissi a stare dietro alle idee, ne scriverei uno al mese. Però non ci riesco, mi manca il tempo e la concentrazione.
    Comunque stavo lavorando a una cosa contemporanea, completamente diversa, e poi ad un’altra ad ambientazione storica. Dico stavo, perchè poi l’estate, il mare, le bambine a casa… non si capisce più niente.
    Vedremo ora che i ritmi si fanno più normali.

    Buona notte

  383. un’ultima cosa…. a proposito dei generi. dopo il romanzo ucronico, non si potrebbe fondare il romanzo storico “astratto”?

    magari chiudiamo il post così…

  384. Mia cara Giorgia, grazie per le tue risposte (belle e sincere) che ci hanno permesso di conoscere qualcosa in più di te.
    Penso che il romanzo storico “astratto”, tutto sommato, potrebbe anche “concretizzarsi”.
    Ma il post rimane aperto… anche perché questo sul romanzo storico è un post permanente.
    😉

  385. @massimo
    hai ragione…:-)

    @marco
    si potrebbe ripristinare anche il rito in voga in quel periodo… sai, quello della sedia con il foro al centro…
    però gli altomedievali erano gente più seria, almeno si ammazzavano a vicenda! sarà perchè non avevano la televisione?
    anche Marozia, era una tosta, lei li faceva fuori uno dopo l’altro… queste qui, invece, sono delle sciacquette, delle dilettanti: vanno in tv, pubblicano libri, al massimo si fanno comprare qualche villa, qualche ministero… ooopppsss! volevo dire mini-appartamento…

  386. Romanzo storico: l’intrusione in un’altra epoca richiederebbe una grande conoscenza dell’epoca stessa, non tanto dei dati storici, quanto di quelli sociali, ambientali, psicologici, comportamentali, ecc. cosa che pochi sono in grado di fare, perché pochi hanno dedicato tempo alla frequentazione curiosa e vigile del passato, di un tipo di passato ben preciso. Ma tanto, si dirà, chi legge ne sa ancora meno. Vero, ma l’onestà (virtù rara) richiederebbe di astenersi dal propinare corbellerie ai poveri lettori, visto che, a mio parere, dovrebbe sempre essere tenuta presente una funzione educatrice nella letteratura. Se no, cui prodest? come diceva giustamente una scrittrice. Se vogliamo che quello che scriviamo possa resistere oltre la breve durata di tutti gli atti inutili della nostra vita, dobbiamo cercare di evitare di cucinare pappolate e agire con umiltà e autocritica. Meglio dare agli altri qualche spunto di verità costruttiva che aumentare un conto in banca che non riusciremo nemmeno a sfruttare e finirà a qualche insulso discendente. Detto questo, salto all’ultima domanda del buon Navigero e rispondo: I promessi sposi, ma ho scoperto l’acqua calda che, in questo periodo, dà fastidio.

  387. Ciao, caro Gianmario. Grazie per il tuo commento.

    Come ho già accennato in precedenza, questo post è tutt’altro che chiuso. Nel commento che segue porrò alcune domande a Rino Cammilleri anche in merito al suo romanzo “Il crocifisso del samurai” (Rizzoli).

  388. @ Rino Cammilleri

    Rino, da dove deriva la tua passione per la storia?

    Come nasce questo tuo romanzo “Il crocifisso del samurai”? Da quale idea? Da quale esigenza?

    Pensi che, oggi, ci sia ancora gente capace di morire per non rinnegare il proprio credo?

    Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?

    Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

    Stai lavorando a un nuovo romanzo? Se sì, puoi anticiparci qualcosa?

  389. Rino, da dove deriva la tua passione per la storia?


    -Sono un ex sessantottino che si è convertito di colpo e prima degli altri (sennò a quest’ora sarei direttore di testata anche televisiva). A quei pochissimi cattolici che conoscevo chiedevo conto dei soliti scheletri nell’armadio: Inquisizione, Crociate, Galileo… Mi rispondevano, imbarazzati, che quello non era il vero cristianesimo. Ma io questa storiella l’avevo già sentita a proposito del comunismo. Così, mi misi a studiare per conto mio e scoprii la verità. Per questo mi sono ritrovato con una competenza che ho riversato in libri, i libri che avrei voluto leggere ma che ho dovuto scrivere io. Per tutti quelli che, come me, sono stati ingannati dalla propaganda ideologica.

  390. Come nasce questo tuo romanzo “Il crocifisso del samurai”? Da quale idea? Da quale esigenza?

    -Vedi la risposta precedente. Anche i cattolici odierni, ammaliati dal pacifismo (ennesimo –ismo), pensano che la fede non vada difesa (difesa, si badi, non imposta) con le armi. Perciò nessuno di loro conosce la grande rivolta dei samurai cristiani del 1637. Eppure è un episodio fondamentale anche per la storia del Giappone (e del mondo): proprio a causa di questa rivolta, tesa a ottenere la libertà religiosa, il Giappone si chiuse ermeticamente per due secoli. Fino a quando le cannoniere americane non lo convinsero a modernizzarsi a marce forzate. Si noti che i giapponesi (e gli asiatici in generale) non avevano mai perseguitato nessuno per motivi religiosi: solo i cristiani, appunto per il concetto di libertà personale che rivendicavano.

  391. Pensi che, oggi, ci sia ancora gente capace di morire per non rinnegare il proprio credo?

    -Ce n’è più di quanta si pensi. I cristiani muoiono in molti Paesi islamici e in certe zone dell’India. In Cina, nel Laos, in Vietnam e altrove sono vessati in vario modo o trattati come cittadini di serie B. In Africa e nel Sudamerica non pochi missionari ci lasciano le penne. Potrei continuare… Nel solo XX secolo sono stati ammazzati più cristiani che in tutta la storia del mondo da Cristo in poi. Nei secoli cristiani, alla notizia che i cristiani erano perseguitati, l’Occidente interveniva. Ma le Crociate sono state talmente demonizzate che ormai si interviene solo quando l’opinione pubblica preme (si noti, tuttavia, che sono sempre e solo le nazioni di tradizione cristiana a farlo).

  392. Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?


    -Ce ne sarebbero molti, visto che ho dovuto farmi aiutare da nipponici (in particolare le signore del Centro culturale giapponese di Milano). Ci ho messo un po’ a calarmi nella mentalità giapponese, che apprezza il valore sfortunato ma solo se il perdente si suicida per salvare l’onore. I samurai cristiani non lo fecero per ovvi motivi. Perciò, oggi la loro storia è ben conosciuta in Giappone, ma utilizzata come spunto per “manga” o fiction dell’orrore, in cui i fantasmi dei samurai cristiani ritornano a vendicarsi… L’Occidente relativista, dal canto suo, quando c’è di mezzo la religione (cristiana) si tiene alla larga… Un’altra scoperta: il fantastico mondo dei samurai, che per me era mitico, visto da vicino si è rivelato un inferno. Una società efferata in cui i contadini erano i soli a lavorare. Non avevano diritto neanche al nome e potevano essere uccisi senza motivo. Su di loro soli gravavano le tasse, che dovevano versarle anche in tempi di carestia. Tutti gli altri erano nobili e samurai e bonzi, in stato endemico di guerra. Un bel posticino in cui l’omicidio era considerato un’arte…

  393. Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

    -Il romanzo è per me un compito di pura supplenza, giacché i narratori cattolici sono pochi e ancor meno quelli non noiosi. Sui trenta libri che ho scritto, i più sono saggi. E ho anche un paio di rubriche sulla stampa da curare. Scrivo quando posso. Come gli artigiani medievali, il mio stimolo è la committenza.

  394. Stai lavorando a un nuovo romanzo? Se sì, puoi anticiparci qualcosa?

    – La mia produzione narrativa non è molta. Prima de “Il crocifisso del samurai” ho fatto solo “Immortale odium” (Rizzoli), “I delitti della stanza chiusa” (Piemme), “L’inquisitore” (San Paolo) e “Sherlock Holmes e il misterioso caso di Ippolito Nievo” (idem). La parte più antipatica dello scrivere è la promozione successiva, per la quale non ho gran talento (sto pensando di affidarmi a un agente). Lo scrittore professionista prima vende e poi scrive, do you know what I mean ? Ho appena licenziato due pamphlets per la Lindau: “Dio è cattolico?” e “Antidoti” (la raccolta delle migliori “puntate” del mio blog). Usciranno a breve. Mi piacerebbe, comunque, fare un romanzo sui Cristeros, i cattolici messicani che dal 1926 al 1929 combatterono contro il governo laicista. E’ una vicenda epica e, anche questa, poco conosciuta.

  395. Riprendo la parola riportando un brano de “Il trionfo dell’asino”. Chiedo scusa se mi autocito, ma mi sembra capitare a proposito dopo tante riflessioni sulla storia e la letteratura. Durante il loro vagare per la Francia i miei personaggi si imbattono in uno strano frate nell’abbazia di Fontenay che gli parla di un suo curioso progetto.

    “Voi siete in grado di evocare i defunti?” trasecolai.
    “No, non in questo senso. Io continuo a scrivere l’opera cominciata da lui.”
    “Boisrobert era anche scrittore?” domandò Aristotele.
    “E’ più appropriato definirlo un ricercatore.”
    Il monaco ridacchiò, come se un pensiero bizzarro gli avesse attraversato la mente.
    “Se mi sentisse l’abate… bah, ugualmente non potrebbe avere un’opinione peggiore di me.”
    “L’abate Boisrobert?” chiesi, un po’ confuso.
    “No, questo abate: l’abate Rougemont.”
    “Ah! Lui non si dedica a questo genere di… attività?”
    “Per carità. Se fosse per lui sarei già fuori dalla biblioteca da un pezzo, ma si trattiene dal farlo poiché teme che non sopravvivrei al colpo. Non è malvagio Rougemont, solo che è così… così materiale. Mi crede pazzo, e così pensava anche del mio maestro. Meschino! E’ cieco e non sa d’esserlo.” Il bibliotecario ridacchiò ancora. “E per di più m’ha vietato di parlare di Boisrobert e del suo progetto. Forse per questo, lo racconto a chiunque stimo possa capirlo: perché l’ignoranza e l’ottusità non prevalgano.”
    “Certo, comprendiamo.” lo assecondò Aristotele “Ma di che progetto si trattava?”
    “Riscrivere la storia del mondo.”
    “Ovvero?” chiedemmo all’unisono.
    “Seguitemi attentamente. Boisrobert era il cadetto e il patrimonio di famiglia andò tutto al primogenito, così lui dovette entrare nell’ordine per vivere. Questo gli fece concepire un acceso risentimento nei confronti di una società ingiusta. Come sarebbe stato bello poter rifondare tutto ex novo, creare un nuovo ordine in cui fosse dato alle persone secondo i loro meriti e non secondo la loro nascita. Ma si poteva combattere contro la storia?”
    Facemmo segno di no per invitarlo a proseguire.
    “Eppure, chi ci garantisce che la storia sia veramente quella che viene raccontata? Chi ci assicura che il nostro passato non sia stato manipolato? E se le crociate non fossero andate come ci è stato detto? In fondo, nessuno di noi era presente ai tempi di San Bernardo. Fino alla fine del Quattrocento, la chiesa fondava la legittimità dei suoi domini temporali sulla donazione di Costantino, un documento che s’è rivelato un falso grossolano. Ed è da non più di settant’anni che s’è dimostrato come il Corpus Hermeticum non risalga che ai primi secoli dopo Cristo. Chissà quante altre menzogne continuiamo a perpetuare.”
    “E’ inevitabile.” obiettai “Solo chi ha vissuto in prima persona gli eventi può conoscere la verità, a noi non resta che dedurre e presumere.”
    “L’avete detto! Solo chi li ha vissuti, sa come si sono svolti i fatti. Era questa l’idea di Boisrobert: interrogare i contemporanei e sentire la loro voce.”
    “Voleva evocare gli spiriti di Carlomagno, di Cesare, di Alessandro Magno e chiedergli come sono andate davvero le cose?!”
    Cominciò a girarmi la testa.
    “Nient’affatto. Voleva convincere altre persone con il suo stesso dono a evocare, oltre agli spiriti degli uomini illustri, anche quelli di uomini comuni, di sconosciuti, in modo da avere più versioni di ogni fatto. Migliaia e migliaia di voci provenienti direttamente dal passato per dare la vera conoscenza a tutti. Smascherare gli inganni del potere, questo era il piano di Boisrobert.”
    Infiammato dalle sue stesse parole il vecchio frate, esausto e ansimante, dovette aggrapparsi al tavolo per tenersi eretto sulla sedia. Era difficile dire se ci trovassimo di fronte a un demente o a un illuminato.

  396. @ Giorgia Lepore
    Cara Giorgia,
    mi ero dimenticato di chiederti di inserire, quitra i commenti, – se possibile – un brano tratto dal tuo romanzo “L’abitudine al sangue” .
    È possibile?

  397. certo che è possibile… però lo devo scegliere… è come dire ad una madre di scegliere tra le sue “criature”… e, si sa, ogni scarrafone è bello a mamma sua…

    te lo faccio domani, con calma.
    ‘notte

  398. tengo molto a questo brano. racchiude un po’ molte delle cose che ho cercato di focalizzare in questo dibattito a proposito del mio rapporto con la storia. Potrei dire che in qualche modo è la storia che parla di se stessa.

    ——–
    è Giuliano (il protagonista e la prima voce narrante) che parla:

    ——

    Cristoforo mi accusa di lasciare a lui tutte le noie e che, con la scusa della gamba, ne approfitto per fare soltanto ciò che mi piace… è la solita storia, io lo lascio parlare, e non gli rispondo neanche. Del resto non potrei dargli torto, mi piace davvero tanto sedermi sotto la grande quercia al centro del villaggio, o stendermi sul sedile di pietra, con tutti i bambini e i ragazzi intorno, e raccontargli delle storie.
    Storie vere o del tutto inventate, gesta eroiche di guerra, e subito me ne pento, perché non è bene che crescano con l’idea che la guerra sia qualcosa di nobile; storie gloriose del nostro popolo e del nostro Impero, e anche con quelle forse esagero, perché potrebbero farsi delle convinzioni troppo ottimiste. Racconto loro le gesta e le leggende degli antichi, che ho imparato da mia madre, di Roma e dell’Italia, quando anche lì esisteva l’Impero, il nostro Impero; e degli imperatori pagani e dei re prima di loro; storie che ho sentito decine, centinaia di volte quando ero bambino, e sulle quali poi fantasticavo, steso sul prato del Grande Palazzo, la mia casa, chiedendomi quanto vi fosse di vero in quelle favole belle ed atroci, temendo ed anelando al tempo stesso di farne parte… Racconto di mio padre e delle sue imprese, omettendo molto, ovviamente, e aggiungendo altrettanto, e cerco di insegnare loro il rispetto e l’amore per mio fratello, il nostro imperatore, e mentre racconto mi sembra di poter credere anch’io a ciò che sto narrando. Parlo loro di cose tanto lontane nel tempo: di un giovane generale che non dormiva mai e non mangiava, che passava giorni e notti intere a cavallo, senza stancarsi, ed era invulnerabile perché S. Michele lo proteggeva in battaglia; delle sue vittorie e delle sue sconfitte, degli assedi miracolosamente scampati, di quando una volta attraversò un intero deserto con una freccia nella spalla per portare in salvo i suoi uomini; e che era innamorato di una donna bellissima, una principessa dagli occhi a mandorla e lunghi capelli corvini, che lo amava e lo aspettava a casa, nel suo palazzo tutto d’oro…poi un giorno egli tornò, e sparirono insieme per sempre, misteriosamente, e nessuno seppe più nulla di loro. Quando mi chiedono – e lo fanno sempre – come si chiamava, io rispondo che non si sa, che aveva un nome segreto e nessuno lo poteva nominare. E mentre racconto queste cose, ciò che è vero sembra tanto incredibile da apparire irreale; e ciò che invento è talmente intenso nel mio desiderio da poter quasi credere che sia accaduto davvero.

  399. visto che ci sono, per par condicio con i miei personaggi, metto anche un piccolo brano in cui a parlare è Johannes, seconda voce narrante e igumeno del monastero, in cui narra il suo primo incontro con Giuliano.

    ——–

    La prima volta che oltrepassò la porta di questo santo luogo era una notte di tempesta, inusuale davvero per la stagione estiva in cui ci trovavamo; io ero più giovane, allora, e le mie certezze erano ben salde; nessuno, mai, aveva osato scalfirle, e niente aveva mai minato la pace e la serenità che regnavano in questo monastero. Era legato al cavallo, pensai che fosse per impedirgli di fuggire; solo quando lo fecero scendere, mi accorsi che non poteva reggersi con le sue gambe; entrammo nella foresteria ed egli si appoggiò al muro, esausto, chiudendo gli occhi, e rivelando alla luce delle torce il pallore di un cadavere, le labbra viola, la magrezza impressionante.
    Ordinai ai monaci di rifocillare i soldati, che si sedettero a scaldarsi e ad asciugarsi vicino al fuoco. Egli rimase immobile contro il muro e aprì gli occhi, attorno ai quali aveva strani segni, come cicatrici: pensai a ciò che mi dicevano, e a cui tuttavia io non credevo, poiché tali dicerie di miracoli – o più probabilmente di arti demoniache – erano in realtà sicuramente frutto di superstizione popolare. Mi guardò, mi fissò fermamente – come era strano quello sguardo così fermo in quell’uomo stanco, smarrito e spaventato – avrebbe voluto crollare al suolo e si reggeva a stento, avrebbe voluto chiedere ma taceva, ed io precipitai per la prima volta nel vortice ipnotico del suo sguardo.

  400. A proposito di storia, “storicità”, “storicizzazione”… su Tuttolibri di ieri è stata pubblicata un’interessante intervista a Francesco De Gregori.
    La riproduco nel commento di seguito, perché – per certi versi – ha incrociato alcuni degli argomenti che abbiamo trattato qui.

  401. Viva l’Italia che onora i suoi padri: intervista a FRANCESCO DE GREGORI

    di GABRIELE FERRARIS
    *****
    da Tuttolibri, in edicola sabato 12 settembre 2009
    *****

    Signor De Gregori, penso che il premio che riceve domani a Pieve Santo Stefano sia un premio all’autore di canzoni della e sulla memoria; per dirne due, Bufalo Bill è la memoria di una vita, Rimmel la memoria di un attimo, di un amore, di una fotografia. E La Storia, Scacchi e tarocchi, brandelli della nostra memoria collettiva…

    «Quando parliamo di memoria, parliamo in realtà di infinite memorie; c’è la memoria che ci consente di affrontare in scioltezza la Settimana Enigmistica, quella che ci mette ogni mattina in condizione di riconoscere la nostra faccia allo specchio, e quella che sta alla base di ogni forma d’arte, di ogni narrazione, eccettuate forse – e ripeto forse – la fantascienza e la fiaba. Certo, è facile dire che Bufalo Bill, o Rimmel, sono canzoni nate in qualche modo dalla memoria; ma mi chiedo se possa veramente esserci qualcosa di totalmente indipendente dalla memoria e dall’autobiografia nelle creazioni di qualsiasi artista».

    Questo è evidente per la memoria personale. Ma non è autobiografia d’ogni individuo pure la Storia? La Storia siamo noi, no?
    «Si dice comunemente che l’artista lavora sulla memoria, che se ne nutre. E’ senz’altro vero, e in realtà accade a tutti. Però la nostra memoria non si limita a fotografare i fatti, ma li rielabora in continuazione; ci accorgiamo di questo ogni volta che la memoria personale s’interseca con la memoria del mondo, con la Storia. La nostra generazione ormai ne ha vista tanta, di Storia. Woodstock e la caduta del Muro, l’uomo sulla Luna e il sequestro Moro, piazza Fontana e le Twin Towers e il Vietnam e la morte di Pasolini. Eppure i miei ricordi – e immagino pure i suoi – non coincidono mai del tutto con le ricostruzioni “ufficiali”. Esse a volte possono sembrarci addirittura fuorvianti proprio per un eccesso di “storicizzazione”: lo storico inserisce il fatto in un “contesto”, e lo legge con la coscienza del dopo; noi abbiamo invece vissuto quello stesso fatto senza tanti collegamenti, semplicemente c’eravamo; e dunque la nostra è una memoria individuale, un po’ sconnessa: magari ricordiamo noi stessi in quel momento storico, più che il momento in sé».

    Una memoria orgogliosamente non condivisa né condivisibile. «La memoria soggettiva – e quella dei diari, di cui si occupa il premio che ricevo, è la più soggettiva fra le memorie – è interessante proprio perché scompagina ogni oggettivizzazione del passato: nel diario un individuo scrive un pezzo della sua storia, e della Storia attorno a sé, col suo linguaggio, dall’alto o dal basso della sua cultura, con dichiarata parzialità, implicitamente affermando e rivendicando la non oggettività dell’operazione. Il contrario di ciò che si pretende dalla storiografia, che giustamente diffida dell’attendibilità delle testimonianze personali».

    Lo storico dovrebbe, dicono, dare garanzie di oggettività…
    «Lo storico ha certamente dei doveri di obiettività, ma il mondo è sempre oggetto di interpretazione, mica lo scopriamo noi oggi pomeriggio! E credo che questo debba valere anche per gli storici, in una certa misura. E ogni interpretazione, in quanto soggettiva, può essere sgradita a qualcuno. Prenda un esempio “leggero”, Woodstock. Se si prova a uscire da tutta quella retorica sul potere dei fiori e dei tre giorni di pace amore e musica e dire, che so, che Woodstock fu anche un formidabile spot pubblicitario per il consumo di droghe, ecco che già lì qualcuno si potrebbe offendere e si rischia di essere etichettati come “di destra”».

    Ho presente… E mi vengono in mente idee che non condivido…
    «E questo accade con qualcosa di lieve. Ma sostituiamo a “Woodstock” altre parole. Ad esempio “resistenza”. O “fascismo”…».

    Ed eccoci al revisionismo. Ho idea che ci stiamo cacciando in un ginepraio…
    «La parola revisionismo è in effetti rischiosa. Ma è davvero negativa? Mi sembra ovvio che la Storia sia “revisionabile”. Secondo lei sarebbe possibile, ad esempio, scrivere oggi un libro sulla Rivoluzione francese basandosi soltanto sui materiali – documentari e ideologici – di cui si disponeva ad inizio secolo? Lo storico deve sentire in sé la necessità di rinnovare il proprio archivio, anche intellettuale. E quanto all’oggettività assoluta, o è una pura chimera oppure è qualcosa di più pericoloso, è il tentativo di inventare una Storia paradigmatica, ispirata alle esigenze dei gruppi dominanti. Che cosa c’è di più “oggettivo” delle fotografie dell’epoca stalinista “epurate” con un fotomontaggio dei personaggi caduti in disgrazia?».

    La Storia la scrivono i vincitori, o quelli che sanno scrivere: la brutta fama di Nerone dipende da Tacito e Svetonio, che stavano all’opposizione e sapevano scrivere. Però oggi possiamo dire che Nerone non era così fetente, e non urtiamo nervi scoperti; ma se ci occupiamo di fatti e persone più vicini a noi…
    «Certo, la revisione della Storia può spiazzare, disturbare: sono convinto che perfino una rivalutazione eccessiva di Nerone ancora oggi potrebbe dispiacere a qualcuno. E c’è chi si è irritato per Il cuoco di Salò, probabilmente senza ascoltare la canzone, solo perché vi si narra del periodo repubblichino con un linguaggio non troppo allineato alla lettura tradizionale della Resistenza, a quella che De Felice chiamava “la vulgata resistenziale”… Ma di fatto, quanto più ci avviciniamo all’oggi, tanto più è difficile una storiografia oggettiva: i dati in nostro possesso cambiano velocemente, non sono ancora stabilizzati e sono diciamo così, “inquinati” dalle polemiche contemporanee».

    Il pensiero corre a «Si atteggia a Mitterrand ma è peggio di Nerone», celebre ritratto di Craxi in una sua canzone del ’93.
    «Ho già detto anni fa che oggi non riscriverei quei versi su Bettino Craxi, perché mi sono reso conto che è stato comunque un politico intellettualmente superiore a molti di quelli di oggi, uno che almeno una visione ed un progetto di rinnovamento ce l’aveva… Ma un conto è ripensare il passato alla luce dell’oggi, altro è abbellire i propri ricordi fino a cancellare, magari in buona fede, tutto quello che non ci piace più… Chissà però se davvero è sempre negativo tutto ciò. C’è una mia vecchia canzone, Gesù Bambino e la guerra, dove un bambino dice “quando questa guerra sarà finita, fa’ che non la ricordi nessuno”. A volte non ricordare tutto può essere un bene. La nostra memoria biologica funziona così, del resto: è capace di rimuovere i traumi e in generale di minimizzare le cose sgradevoli».

    E’ giusto dimenticare, allora? Ho sempre pensato che la memoria storica è l’anima di un popolo… Invece, oggi ci sono pure quelli che si innervosiscono al solo pensiero di commemorare l’Unità d’Italia. Stiamo diventando per davvero un paese «senza più padri da ricordare», e quindi senza neppure figli da rispettare.
    «Sarebbe bello se si potessero dimenticare le guerre, o le stragi. No, in realtà la memoria collettiva è qualcosa da cui una società non può prescindere. Come la memoria personale di ciascuno di noi, del resto: quando per età o malattia perdiamo la memoria se ne va anche ogni nostra sicurezza, ogni capacità di orientamento nel futuro. Proprio per questo l’Italia è un Paese che ha bisogno di ogni briciola della sua memoria. A patto che questa memoria non diventi rituale, che non si svuoti di significato, che non diventi materiale inerte. A patto che si celebri il 25 Aprile in quanto lo si riconosce come momento fondante – e unificante – della nostra democrazia, e non come semplice occasione di scontro politico dove ancora una volta il problema si riduce a essere pro o contro Berlusconi. Ma veramente gli italiani sono morti per questo? Non mi piace la memoria storica brandita come una clava contro l’avversario politico. I fischi e le contestazioni ai rappresentanti del governo (di qualunque governo, si badi bene) che si ripetono a Bologna ogni 2 di agosto non mi sembra che aiutino una riflessione collettiva, né che valgano a consolare il lutto di una città e di un Paese».

    In Italia manca una memoria storica condivisa.
    «Mi domando – ma non lo so – se sia lo stesso altrove, se – per dire – in Francia sia ancora così feroce il dibattito su Vichy, se in Spagna si usi l’aggettivo franchista con la stessa prodigalità con cui nel nostro dibattito politico si usa quello di fascista. Molte vecchie categorie resistono ancora oggi nel nostro bagaglio culturale, e ciò non contribuisce né a rasserenare gli animi né ad alimentare una discussione seria sulle prospettive di questo Paese. Però avere una memoria condivisa non vuol dire che si debba anche accettare come una fatalità il mistero che avvolge fatti come la strage di Bologna, appunto, o Piazza Fontana, quando a distanza di decenni non è emersa ancora nessuna credibile verità giudiziaria. Ma questo ha poco a che vedere con i diari e la memoria dei singoli, e anche con la memoria degli artisti, quella che trasfigura la realtà eppure forse la racconta meglio della cronaca».

    Le cose più definitive sulla Resistenza le ha scritte Fenoglio…
    «Appunto: l’artista può “narrare” meglio di altri la verità storica, proprio perché la può, in qualche misura, inventare. A questo servono un quadro come Guernica o un libro come La storia di Elsa Morante, questo è il patto che un artista sottoscrive col pubblico, e tanto più rispetta questo patto quanto più riesce a emanciparsi dal ruolo di notaio della memoria prevalente… O di grillo parlante. Un artista dovrebbe avere ali, o almeno trampoli, che gli permettano una visione diversa da quella scientifica, ma non per questo meno essenziale».

    Però questo assolve l’artista da ogni responsabilità: viene facile dire le peggiori cose, con il pretesto dell’arte. Passi il revisionismo, ma non vorrei arrivare a giustificare il negazionismo… Magari Ahmadinejad si considera un artista…
    «Gli artisti non hanno la pretesa di scrivere i manuali di storia, e anche chi, come me, considera Céline un grande scrittore si guarda bene dal condividerne automaticamente le idee. Ma credo che anche uno studioso serio debba in qualche misura diffidare dal concetto di verità storica assoluta. Quanto al negazionismo, ci è odioso come la Donazione di Costantino o i Protocolli dei savi di Sion. E’ un falso storico che alimenta altre falsità: e tanto basti alle persone mediamente colte, per bene e di buon senso. Ma è anche vero che nella ricerca storiografica recente non devono esistere zone intoccabili, il politicamente corretto non deve mai prevalere sul rigore scientifico e sull’onestà intellettuale. Tornando, se permette, a cose più futili, penso a Bob Dylan che per scrivere la sua autobiografia è andato in giro a chiedere agli altri cosa si ricordavano di lui. Non so se poi ha scritto proprio tutto quello che gli hanno raccontato ma trovo che il suo sia stato un approccio fra i più onesti a una rivisitazione di se stesso. Ecco un’altra cosa straordinaria della memoria: della tua memoria non sempre ti puoi fidare, e allora diventa preziosa quella degli altri».

    Ancora la memoria selettiva…
    «La memoria selettiva è un grande dono per gli uomini: un computer lavora per accumulo, ciecamente, finché è pieno, mentre l’uomo continua all’infinito a selezionare i ricordi e ad organizzarli secondo criteri suoi, profondi e misteriosi. E’ una cosa straordinaria. E’ questo che rende la vita una cosa poetica, è questo che ci consente di raccontarla. Nemmeno il più grande degli scienziati avrebbe potuto inventare un meccanismo così perfetto».

    (fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 12 settembre)

  402. E’ appena uscito…

    GLI ULTIMI FUOCHI DELL’IMPERO ROMANO
    di Giulio Castelli
    Newton Compton Editori
    Pagg. 511 – € 12,90

    “Gli ultimi fuochi dell’Impero Romano” è il seguito ideale di “Imperator”. Narra infatti dell’augusto Maggioriano e dei suoi successori, in particolare di Procopio Antemio che rivestì la porpora dal 466 al 472.
    Come nel caso di “Imperator” si tratta del romanzo di un’epoca storica: la dissoluzione del mondo antico e l’avvento del Medioevo, un passaggio che per certi versi fu traumatico e per molti altri una evoluzione naturale dei mutamenti che si erano già verificati da tempo nell’impero romano.
    La narrazione è dominata dalla figura di Ricimero, capo dell’esercito d’Occidente ormai completamente barbarico. Un uomo privo di scrupoli che gestì il potere per tre lustri e innalzò nobili romani alla porpora per poi abbatterli quando si dimostrarono troppo indipendenti.
    Accanto a Ricimero rivivono despoti e condottieri dell’epoca. Il re dei Vandali, Genserico, terrore del Mediterraneo. Egidio e Marcellino, ultimi generali romani. Il devoto Olibrio e l’intrigante Glicerio. E poi i papi e gli imperatori di Costantinopoli. Ma anche alcune affascinanti figure femminili quali la capricciosa Alipia, figlia dell’imperatore Antemio, amore impossibile di Flavio Ascanio e costretta a un matrimonio di stato. Il protagonista narrante è appunto Ascanio, nipote di Flavio Pietro, il ministro di Maggioriano.
    Similmente a “Imperator” anche “Gli ultimi fuochi” propone tre chiavi di lettura. E’ la riscoperta di un’epoca affascinante ma poco conosciuta, presentata con fedeltà agli avvenimenti. E’ naturalmente un romanzo d’avventura. Infine, il disfacimento del mondo antico può essere visto come una metafora della attuale crisi culturale e morale dell’Occidente e, in particolare, dell’Italia. Uno straordinario metro di paragone tra ciò che accadde oltre quindici secoli or sono e ciò che sta accadendo oggi.
    In tale ottica “Gli ultimi fuochi” è anche un romanzo “politico” in quanto ripropone la disfida tra ordine e caos, tra libertà e potere, tra laicità e integralismo. Tutti temi che sono anche del nostro tempo.

  403. Grazie Massimo, inserisco un brano tratto dal mio “Il crocifisso del samurai”
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    Toyotomi Hideyoshi era ormai l’unico signore del Giappone. L’Imperatore da tanto tempo non contava più niente: solo lo Shōgun, il capo politico e militare, contava. E lui era il dittatore, anche se non aveva assunto ufficialmente il titolo di Shōgun. Il suo migliore stratega era Takayama Ukon, una della massime personalità politiche e culturali del Giappone. Ma era cristiano e considerava Cristo il suo vero shukun, il signore, al di sopra di ogni altro. Questo, Hideyoshi non poteva sopportarlo. A migliaia i giapponesi si erano lasciati infatuare da quella religione straniera, la religione dei Portoghesi e degli Spagnoli, i quali avevano fondato i loro imperi facendosi precedere da missionari che avevano piegato i cuori dei popoli da conquistare. Hideyoshi non intendeva permettere che ciò accadesse anche al Giappone. Finché il cristianesimo si era limitato a convincere contadini lo aveva tollerato, anche perché questa tolleranza favoriva i commerci con gli europei. I contadini non avevano alcuna importanza in Giappone, non ne avevano mai avuta. Ma se un altissimo personaggio come Takayama riteneva che la legge di Cristo fosse superiore a quelle emanate dal Bakufu, il governo, allora le cose cambiavano ed era tempo di porvi rimedio.
    Takayama venne perciò arrestato e i suoi beni confiscati. Fu condannato all’esilio insieme a tutta la sua famiglia. Hideyoshi volle poi dare un severo esempio a tutti gli altri e, dopo avere emanato nel 1587 un editto che bandiva i missionari, fece prelevare ventisei cristiani della capitale Kyōto, ordinando che venissero deportati a Nagasaki. I ventisei, tra cui alcuni missionari stranieri, furono costretti a marciare a piedi scalzi in pieno inverno per più di trenta giorni.
    Perchè proprio Nagasaki? Perché Nagasaki, il porto di approdo delle navi europee, era praticamente una città cristiana, provvista di sede vescovile, di scuole rette da religiosi e di un seminario da cui erano usciti quindici sacerdoti indigeni.
    Tutta la popolazione era stata informata dell’arrivo dei condannati e ora si assiepava lungo la via che i ventisei dovevano percorrere fino a Ni, sulla collina Nishizaka. Qui erano state preparate ventisei croci di legno, una fila che scendeva giù fin quasi al porto. Sotto ogni croce, due samurai armati di lancia.
    Quando tutti i ventisei furono issati e legati sulle croci, dalla loro lunga fila si levò un jisei no uta, il canto di morte del samurai, e una voce intonò il salmo «Laudate Dominum», facendo cessare il mormorio della gran folla che assisteva. Tutti ascoltarono in un silenzio profondissimo lo spegnersi del canto e, di seguito, un’altra voce elevare il «Sanctus». Quando anche questa melodia fu terminata, uno dei padri francescani in croce, con tono spossato, cominciò a mormorare: «Jesús, María… Jesús, María…». Subito gli oltre quattromila cristiani presenti presero a ripetere quel nenbutsu, la semplice litania di origini buddiste adattata con parole cristiane.
    Terazawa Hazaburo era l’ufficiale responsabile dell’organizzazione dello spettacolo che Hideyoshi aveva preteso esemplare. Avrebbe dovuto risponderne personalmente a quest’ultimo. Ma cominciò a preoccuparsi. Gli astanti non erano affatto terrorizzati dalla dimostrazione di severità governativa. Anzi, sembravano trarre forza dalla calma che si leggeva sui volti dei crocifissi. Uno degli appesi, Paulo Miki, chiese di poter parlare. Terazawa esitò. Non sapeva che fare. Tutti gli occhi dei presenti adesso guardavano verso di lui. Valutò che, in caso di guai, non aveva uomini sufficienti per riportare la calma. Così, decise di assentire.
    Paulo Miki era figlio di un generale al servizio di Takayama Ukon. Si era fatto gesuita ed era stato ordinato sacerdote. Aveva trentatré anni. Dichiarò il suo nome e disse di non aver commesso alcun crimine. Veniva condannato a morte solo per aver predicato la religione di Cristo. Perdonava i suoi carnefici, ricordando ai presenti che il Paradiso esisteva davvero, come dimostrava la serenità con cui lui e suoi compagni affrontavano la morte. Concluse con le ultime parole di Cristo: «Pater, in manos tuas…».
    Terazawa a quel punto stimò che era troppo e, con un secco ordine, comandò ai samurai di eseguire la sentenza. Le lance si conficcarono nei ventisei corpi, mentre dalla folla si levavano grida di protesta.
    Terazawa per prudenza si ritirò subito. Nel suo ufficio mise mano al pennello per stilare il rapporto. Solo che non sapeva da che parte cominciare. Era chiaro, infatti, che l’«esempio» aveva ottenuto l’effetto contrario.
    Non si sbagliava. Dopo quell’esecuzione di massa, la richiesta di battesimi a Nagasaki aumentò in modo impressionante.
    Hideyoshi non ebbe però il tempo di farvi fronte perché morì, lasciando il campo aperto a una lotta per il potere quale mai si era vista.
    Non per questo cessò il sistematico sradicamento del cristianesimo dal Giappone. Sempre a Nagasaki, il 5 febbraio 1597 i martiri furono trentasei: sei missionari francescani, tre gesuiti giapponesi e ventisette laici. Si andò avanti con le persecuzioni fino al 1889, anno in cui in Giappone il cristianesimo fu finalmente lasciato in pace.
    Ma l’anno che qui ci interessa è il 1637. In quel tempo, malgrado la proibizione e gli “esempi”, il numero complessivo dei cristiani in Giappone si aggirava sulle trecentomila unità.
    Tutti cattolici.

  404. Torno su questa pagina così ricca e interessante dopo una lunga latitanza. Massimo, grazie per aver postato l’intervista a Francesco de Gregori! Molto bella e, come dici tu stesso, molto in tema con il dibattito.

  405. Grazie mille, caro Luigi. Avevo già letto l’intervista a Yehoshua. Bellissima! Pensavo di inserirla qui, perché perfettamente in tema. Ma me n’ero dimenticato.
    Meno male che c’eri tu 🙂
    Grazie ancora.

  406. l’ intervista a Yehoshua è molto bella, e in linea di massima non si può che condividere il suo punto di vista. Però mi piacerebbe rilanciare su alcuni particolari…
    A proposito di Guerra e Pace, va detto che non è un romanzo storico. Cioè, lo è per noi, ma non lo era propriamente quando è stato scritto. L’autore era quasi contemporaneo agli avvenimenti narrati, forse per questo riesce a rendergli meglio di qualsiasi libro di storia. E’ come se adesso uno scrittore parlasse degli anni ’50, ’60. E’ cronaca, quasi.

  407. poi, vorrei spostare l’attenzione su un tema, quello del attuale successo dei romanzi storici, perchè la risposta data dallo scrittore israeliano, per quanto condivisbile, mi sembra parziale.
    Il motivo credo (e temo) sia un po’ più profondo. Credo che il successo stia nel fatto che ci si sente più a proprio agio nel passato che nel presente, e questo non è un buon segno. In genere, e qui la storia insegna, quando si ha un’alta considerazione dei tempi passati si ha una scarsa considerazione di quelli presenti. Il presente genera insicurezza, e non solo dal punto di vista politico o sociale. Insicurezza nel senso che non si è più sicuri di se stessi, di un mondo che va in avanti, che progredisce lasciandosi alle spalle il passato, e invece si guarda a quel passato come a un faro, un punto fermo, qualcosa di perduto di cui avere nostalgia.
    Non è una bella cosa, questa, voltarsi indietro invece di guardare, se non avanti, almeno la terra su cui si cammina. E lo dice una che del passato ha fatto più o meno la propria vita. Però mi rendo conto che c’è una distorsione da parte nostra, un’insicurezza, un non credere nella nostra cultura, società, nel nostro mondo.
    Ora dirò una cosa che forse scandalizzerà molti: le culture forti, vitali, creative, sono quelle che non si preoccupano di cancellare il passato, che nemmeno lo rispettano, a volte, perchè sono convinte di essere meglio di qualunque cultura, popolo, arte, li abbia preceduti.
    Insomma, nella “moda” dei romanzi storici forse non c’è nulla, forse appunto è solo una moda; però potrebbe anche nascondersi una fuga che nasce da una scarsa fiducia nel presente.
    E quindi, a costo di darmi la “zappa sui piedi”, forse non è una bella cosa.

  408. bene, a questo punto potete anche cacciarmi da questo post… tanto il prossimo romanzo che scrivo sarà di fantascienza…. 🙂

  409. Grazie per i tuoi interventi “al rilancio”, cara Giorgia…
    Credo che siano in larga parte condivisibili.
    Su “Guerra e pace” l’unica cosa che mi sento di dire è che – in ogni caso – è un romanzo che ha fatto storia. 🙂

  410. Scherzi a parte, cara Giorgia, le tue considerazioni sono molto interessanti. Attendiamo “repliche” (soprattutto dagli altri scrittori ospiti di questo post).
    Buonanotte a tutti.

  411. no, giorgia. nei buoni romanzi storici ci dovrebbe essere un problema di oggi posto nel passato semplicemente per poterci liberare dalle ideologie imperanti. insomma una terra nella quale è bandito il politically correct. nessuna nostalgia, a parte quella dei diciott’anni.

  412. Grazie, Marco.
    Credo che la considerazione di Giorgia possa fornire l’occasione per un approfondimento del dibattito.
    Sarà mia cura metterla in evidenza quando riposizionerò in primo piano questo post.

  413. ciao Marco.
    Allora la mia considerazione, che più che altro è un dubbio, si riaggancia a quanto detto da Yeoshua sul successo dei romanzi storici, che quindi si riferisce non tanto al perchè ci sia gente che li scrive (ma anche qui bisognerebbe approfondire, perchè evidentemente almeno in alcuni casi valgono le leggi del mercato), quanto al perchè c’è gente che li legge.
    io mi riferivo a questo, a cosa cerca la gente nella storia, nel passato. E mi riferivo ad un atteggiamento culturale generale nostro, tipicamente occidentale, nei confronti del passato e della storia in generale.
    Il rispetto del passato, cosa sacrosanta, a volte si trasforma in mitizzazione; le epoche passate in rifugio, e questo maschera una endemica insicurezza nel presente. Se una cultura guarda troppo al passato rischia di non essere capace di produrre niente di nuovo. Non voglio affermare che sia senz’altro così, voglio solo avanzare questo dubbio. E non voglio nemmeno dire che sia giusto o sbagliato scrivere romanzi storici, sto soltanto cercando di capire quali siano le motivazioni che stanno dietro a questa scelta.
    Non esistono forme narrative giuste o sbagliate; esistono però forme narrative che incarnano, interpretano le esigenze di un mondo, di una cultura, e perchè no, anche di un mercato, visto che tutto ormai si riduce a quello.

  414. e poi, scusa Marco, ma nella tua frase
    “nei buoni romanzi storici ci dovrebbe essere un problema di oggi posto nel passato semplicemente per poterci liberare dalle ideologie imperanti. insomma una terra nella quale è bandito il politically correct”
    c’è secondo me la conferma a quanto penso…. se dobbiamo parlare del passato per liberarci delle ideologie imperanti, vuol dire che in questo presente, nel nostro presente, non ci sentiamo liberi di farlo. E quindi è una “terra” sulla quale ci muoviamo male, che non riconosciamo come nostra.

  415. Cara Giorgia, questa tua frase (Se una cultura guarda troppo al passato rischia di non essere capace di produrre niente di nuovo) risulta particolarmente forte… dato che è stata scritta da un’archeologa/scrittrice di “romanzi storici”.
    😉
    A parte gli scherzi, grazie davvero per mantenere vivo questo post.
    Attendiamo la replica di Marco.

  416. Adriano Petta – nato a Carpinone (IS) nel 1945 – è romanziere, studioso di storia della scienza e medievalista. Ha dedicato parte degli ultimi vent’anni alle ricerche per i suoi romanzi storici. Nel 1995 ha tradotto dal castigliano il racconto di Clarín La duchessa del trionfo (EDIS, La Collanina-Classici in breve, 1995), facendolo precedere da un piccolo saggio sull’Arte del romanzo («Nel rogo del calamaio»). Oltre alla produzione di romanzi, negli ultimi anni è stato collaboratore del quotidiano “Il Manifesto” con articoli d’interesse storico legati soprattutto al Medioevo e all’Inquisizione. Collabora con l’inserto letterario del settimanale “Rinascita”. Suoi racconti ed interventi di carattere storico sono stati pubblicati su svariate riviste e webzine (Carmilla-on-line etc.)
    Tra i suoi romanzi pubblicati, ricordiamo: “Ipazia, vita e sogni – di una scienziata del IV secolo” (La Lepre Edizione, ottobre 2009); “Assiotea – la donna che sfidò Platone e l’Accademia” (Stampa Alternativa, novembre 2009); “Eresia pura: dissidenza e sterminio dei catari” (Stampa Alternativa, Viterbo, 2001).

  417. Il suo romanzo più recente è – il sopramenzionato – “Assiotea – la donna che sfidò Platone e l’Accademia” (Stampa Alternativa, novembre 2009).

    Fliunte, Ellade, 350 a.c. – un misterioso assassino uccide per impossessarsi di un antico codice. Forse nel grande ordinamento di Leucippo si nasconde un terribile segreto. E mentre nelle miniere d’oro della Tracia gli schiavi rinvengono statuette dal bel volto di fanciulla che elevano a simbolo di libertà, nell’accademia platonica di Atene, l’astronomo Eudosso di Cnido con quelle statuine sta costruendo una strana mappa. Assiotea, inconsapevole eroina, si ritrova al centro di un intrico che farà di lei la prima donna ammessa all’accademia. Aiutata da personaggi eccezionali come Iperide, Diogene e Focione e avversata da giganti come Aristotele e Platone, lotta per far abolire la schiavitù e mutare la disumana condizione della donna, e nello stesso tempo per svelare il mistero delle statuine e dell’antico codice di Leucippo. Ma un implacabile guardiano vigila affinché il segreto non venga svelato, uccidendo chiunque si avvicini troppo all’arcano della casa del cielo.

  418. Caro Adriano, prima di discutere di questo tuo nuovo libro mi permetto di porti le “domande del post” (invitandoti, ovviamente, a rispondere):

    1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?

    2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?

    3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?

    4. Qual è, a tuo giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?

    5. E nel resto del mondo?

    6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?

  419. 1. Il romanzo storico deve avere dalla sua diverse buone carte: ambientazione ben ricostruita, personaggi plausibili, scrittura che riesca a rendere con le parole odori, sapori, umori del passato. Riuscire ad essere una macchina del tempo fatta di parole è difficile ma possibile.
    2. Detto così, un romanzo potrebbe essere non dissimile da un riuscitissimo mondo di cartapesta. Illusorio quanto inutile.
    Ma il vero romanzo storico deve creare dei link tra passato e presente, alludere, rimandare dall’ieri all’oggi e viceversa questioni e sentimenti, problemi e situazioni. Non può essere solo un esercizio di bella scrittura ben documentata.
    3. A parte anacronismi e strafalcioni vari, dovrebbe evitare di essere fine a se stesso. Dovrebbe modificarci, inserirci nel flusso complesso della storia e della Storia, farci intuire il mistero del Tempo, in cui siamo immersi come in un liquido amniotico. Quando ne parliamo o ne scriviamo ne siamo consapevoli ma solo fino ad un certo punto.
    Quando la storia che scriviamo ci richiede un’ambientazione storica allora va bene scrivere un romanzo storico, altrimenti meglio il contemporaneo.
    4. La letteratura italiana, come il cinema, è in agonia, siamo tutti al suo capezzale eppure ci sono tanti veri artisti e bravi artigiani. Il romanzo storico è morto? Lunga vita!
    Penso alla Mazzucco, penso ai nostri bravissimi ospiti…
    5. Romanzi storici e pseudo-storici riempiono gli scaffali di librerie e biblioteche. Salute buona ma offerta smisurata da vagliare attentamente.
    6. Massi, le tue domande mi mettono in crisi!!!
    🙂
    Intanto I PROMESSI SPOSI (sì, li ho sempre amati e non smetterò di amare questo romanzo meraviglioso). Poi, in ordine sparso: i romanzi della La Spina, di Sciascia e Consolo… MEMORIE DI ADRIANO, capolavoro assoluto.
    Ma ne riparleremo.

  420. a leggermi tutto il materiale farei capodanno. comunque è molto bella l’idea. Oggi si parla molto di Romanzo Storico. Sulle copertine di molti libri si legge a chiare lettere “Romanzo Storico”, come se ci fosse una specie di rivendicazione. Perché? Sarebbe come leggere “Romanzo Giallo” o “Romanzo Rosa” sulla copertina di un libro. Perché il romanzo storico, oggi, tira così tanto?

  421. Onorato di leggerti qui, Adriano. La tua risposta al punto 2 è magistrale.

    @rupert.
    Noi autori di “romanzi storici” odiamo la stampigliatura “romanzo storico” in copertina. Ma l’editore, cercando guadagno, ci classifica seguendo le direttive dell’ufficio marketing.

  422. 1. L’ambientazione dovrebbe essere situata in un periodo storico il più lontano possibile; un romanzo storico dovrebbe raccontare storie originali, possibilmente storie di cui non si è mai sentito parlare, storie occultate dai vincitori e dai potenti e dalla polvere dei secoli. Dovrebbero, queste storie, farci scoprire un mondo a noi completamente sconosciuto, farci capire perché – ad esempio – la donna non ha avuto il suo ruolo di protagonista nella storia, farci immaginare come poteva andare la storia se l’arte della stampa e i numeri indo-arabici fossero giunti in Occidente molti secoli prima, farci immaginare cosa poteva accadere se i cinesi avessero deciso – invece di usarla per i fuochi artificiali – di sfruttare la polvere da sparo per fabbricare armi… In sisntesi, un romanzo storico dovrebbe possedere un’ambientazione, una base storica rigorosa… e un respiro narrativo travolgente, trascinante.
    Nei 4 romanzi storici che ho scritto finora, ho usato queste opere come un’arma contro le menzogne della “verità ufficiale”, perché, come dice il mio amico Tarcisio Muratore, “tra un romanzo e l’altro, la Storia perde la memoria”.
    2. Permettere a chi non ha mai amato la storia, a chi non l’ha mai “digerita” a causa dei noiosi didascalici testi scolastici, di appassionarsi ad essa. Credo che la gioia più grande per uno scrittore di romanzi storici siano i complimenti che un professore di storia possa fargli… dicendogli che, se potesse, userebbe come testi scolastici i suoi romanzi, perché i suoi allievi apprenderebbero la storia in modo facile, piacevole.
    Un romanzo storico, inoltre, dovrebbe colmare le lacune lasciate dalla storia ufficiale. Molti fatti o personaggi storici sono stati volutamente occultati nel corso dei secoli: credo che un romanziere scrupoloso e attento – anche con i pochi elementi a sua disposizione – possa riuscire là dove uno storico o un saggista non riuscirebbe mai, ovvero a creare una storia logica, possibile, e quindi a ridare vita a quel personaggio di cui si conosce tanto poco.
    L’impalcatura del romanzo storico – dal punto di vista degli eventi storici conosciuti – dovrebbe essere senza ombre. Il bravo romanziere dovrebbe essere capace di prendere per mano il lettore, e condurlo dietro una vicenda d’amore, o una caccia al tesoro… per mostrargli soprattutto cosa accadeva in quell’epoca, come si viveva, come – ad esempio – venivano trattate le donne e gli schiavi.
    In sintesi, secondo me, il romanzo storico dovrebbe essere un pretesto avvincente per far conoscere al lettore pezzi di storia occultati e sconosciuti ai più.
    3. Mettere in bocca ai personaggi… concetti che non potevano scaturire in quell’epoca storica, ovvero parole o concetti attuali, moderni. Dovrebbe evitare di essere un continuo sfoggio delle ricerche storiche che l’autore ha fatto: dovrebbe evitare di sembrare un saggio.
    4. Direi buono, in crescita come quantità e qualità. Sicuramente “Il nome della rosa” di Eco, e il suo eccezionale successo in italia e nel mondo, è servito a dare un forte impulso agli autori, editori e lettori italiani.
    5. Non solo gode di ottima salute, ma sembra un fenomeno inarrestabile, che ancora vuole e può crescere. Riferendomi soprattutto alla seconda lingua del pianeta (lo spagnolo), nelle librerie spagnole o latino-americane… i tavoli e gli scaffali delle librerie per metà sono pieni di romanzi storici. Negli ultimi 10 anni, solo sulla vita della grande scienziata alessandrina del IV secolo Ipazia, in Italia sono stati pubblicati due romanzi storici (uno dei due è il mio)… mentre in Spagna ne sono usciti ben cinque.
    6. Proprio non riesco a citarne uno soltanto. Direi, senza ombra di dubbio, “I promessi sposi” e “Memorie di Adriano”, poi “La vieja sirena” di José Luis Sampedro (un vero capolavoro… peccato che ancora non sia stato tradotto in italiano) e “L’ultimo catone” di Matilde Asensi.

    Un caro saluto a Massimo e a tutti i convenuti.
    Adriano Petta

  423. @ LETIZIA

    rispecchia, seppure in maniera perfetta, solo in parte la mia concezione di romanzo storico. nella storia ci deve essere anche l’attualità, altrimenti a cosa serve? perfino il corriere è intervenuto nella diatriba fra neoguefi e neoghibellini avviata in parte dal mio ultimo romanzo.

  424. Mi piace in particolare questa risposta di Petta, la tre.
    “Mettere in bocca ai personaggi… concetti che non potevano scaturire in quell’epoca storica, ovvero parole o concetti attuali, moderni. Dovrebbe evitare di essere un continuo sfoggio delle ricerche storiche che l’autore ha fatto: dovrebbe evitare di sembrare un saggio”.
    Sono d’accordo.

  425. In alcuni casi mi è capitato di leggere dialoghi improbabili messi in bocca a personaggi che vivevano in epoca lontana dalla nostra. Per fare unparallelismo con il cinema, mi venivano in mente certi strafalcioni hollywoodiani dove le comparse che interpretavano il ruolo di antichi romani avevano al polso l’orologio.

  426. @ Marco Salvador e Adriano Petta
    In merito alla risposta n. 2 fornita da Adriano potrebbe sembrare che abbiate idee difformi.
    Adriano sostiene: “Il bravo romanziere dovrebbe essere capace di prendere per mano il lettore, e condurlo dietro una vicenda d’amore, o una caccia al tesoro… per mostrargli soprattutto cosa accadeva in quell’epoca, come si viveva, come – ad esempio – venivano trattate le donne e gli schiavi.
    In sintesi, secondo me, il romanzo storico dovrebbe essere un pretesto avvincente per far conoscere al lettore pezzi di storia occultati e sconosciuti ai più”


    Per Marco, invece “nella storia ci deve essere anche l’attualità”.

    Domando a entrambi: è possibile far conoscere al lettore pezzi di storia occultati e sconosciuti ai più utilizzandoli per mettere in luce temi di attualità?

  427. certo, massimo. io ho scritto ‘l’ultimo longobardo’ (titolo osceno preteso dall’editore, e da me titolato ‘pornocrazia’) ambientato nella roma ai tempi di marozia. ero stato profeta, visti recenti eventi. se ne è accorto solo adriano sofri.

  428. Marco, dici che il titolo del tuo libro l’ha “preteso” l’editore. Sembrerebbe che il margine di autonomia dell’autore (anche per quanto concerne il titolo del proprio libro) è davvero molto basso. Confermi?

  429. Sto invitando a partecipare al dibattito un’autrice francese di romanzi storici: Nicole Fabre.
    Nicole, tra gli altri, ha pubblicato questo libro (tradotto in Italia da “Gremese”):
    http://www.ibs.it/code/9788884404909/fabre-nicole/notte-italiana.html

    La notte italiana di Nicole Fabre (Gremese)
    Giulia, tredici anni nel 1924, cresce in un’Italia che assomiglia ad un’opprimente caserma. È uno spirito libero il suo, sensibile all’amore per l’arte e la letteratura e insofferente alla cruda arroganza dell’autoritarismo. Qualche anno più tardi, rotti i ponti con la famiglia ed entrata a lavorare nella redazione del giornale di Margherita Sarfatti – colta e affascinante musa intellettuale del regime, nonché amante di Mussolini Giulia è costretta a confrontarsi con le asprezza della dittatura e con le violenze di cui sono capaci i suoi sgherri in camicia nera. Ma deve anche fronteggiare l’imprevedibilità di un sentimento che si fa beffe delle sue convinzioni: l’amore per Silvio, un giovane pittore antifascista, non è sufficiente a metterla al riparo da una torbida attrazione per il potente ministro Balbo, presentatole da Margherita per ragioni di lavoro. Quell’attrazione, ricambiata, per Giulia significherà combattere non soltanto con i sensi di colpa, ma contro insidie concrete e temibili, in un clima generale di paura e delazione.

  430. Grazie Massimo. Sono appassionata dall’Itallia e dalla sua coltura, e molto felice di participare al debattito.
    Per presentarmi, sono francese. Vivo nel Sud della Francia vicino al mare. Mi sento sopratutto latina. La notte italiano è il mio quinto romanzo storico. Prima, ne ho scritto tre sul medioevo e uno sulla grande storia d’amore di Leonardo da Vinci. Il sesto appena uscito in Francia, e non ancora tradotto in italiano, si chiama Demain à Rome. Commincia a Parigi in 1936 e si finisce con la resistenza romana e la liberazione della città. Tutto attraverso una grande storia d’amore.
    Provo a rispondere alle tue domande.
    1/ Prima, secondo me, il romanzo storico deve appoggiarsi su una documentazione molto seria. Ho una preoccupazione permanente di verità e d’onestà per una raggione semplice: quando si tratta della Storia, ciò che è scritto è creduto dal lettore. E siccome parliamo di fatti e personaggi reali, lo scrittore fa tutto il suo possibile perché ne sia cosi. C’è dunque, in questo genere di romanzo, un confine strettissimo e ambiguo tra l’immaginario e la realtà. L’immaginario deve mettersi al servizio della realtà per permettere di ricreare un periodo, un contesto nei quali il lettore sarà trasportato, per “rissentire” l’epoca, per viverla come se fosse uno dei protagonisti.

    2/ Per me, il romanzo storico è il migliore mezzo di mettere in rilievo, grazie alla “piccola storia”, fatti che mi hanno toccata dalla loro forza, bellezza o violenza. Evocarli permette al lettore sia di sognare; per esempio quando si tratta del Rinascimento e dell’arte; sia di riflettere quando si tratta della seconda guerra mondiale, dell’intolleranza e della libertà in pericolo. Attraverso questo tipo di romanzi voglio dire: Vigilanza! quest’orrore non deve riprodursi. Le stesse cose possono provocare gli stessi effetti. Per me, il romanzo storico ha dunque un valore d’impegno. Mi serve a diffendere nozioni di libertà, d’uguaglianza fondamentali a parer mio. Mi serve anche a far ricordare alla gente che scriviamo la Storia ogni giorno.

    3/ Mi ripeto: seconde me, non bisogna scrivere romanzi storici se non abbiamo fatto prima ricerche serie. Ognuno dei miei libri mi ha chiesto parecchi anni di lavoro. L’abito e lo scenario di un’epoca non bastano. Quando la gente mi dice: “Nel suo libro su Leonardo da Vinci, credevo di essere al Quattrocento a Firenze o Milano, è normale. Ho tanto lavorato sull’epoca che l’ho integrata per meglio dopo restituirla al lettore.

    4/ Non rispondo perché non sono italiana.

    5/ Mi piace parlare delle cose che conosco dunque non parlerò dello stato di salute del romanzo storico in Italia e nel resto del mondo. In Francia, piaciono alla gente i romanzi storici. E un vecchio paese e abbiamo avuto tanti personaggi famosi!

    6/ Per me, il più grande romanzo storico di tutti i tempi è il più vecchio: la Bibbia.

  431. Bellissimo l’intervento di Nicole Fabre, soprattutto quando sintetizza il pensiero che “l’immaginario deve mettersi al servizio della realtà”!
    Vorrei provare, ora, a rispondere alla domanda di Massimo, ovvero se è possibile far conoscere al lettore pezzi di storia occultati e sconosciuti ai più utilizzandoli per mettere in luce temi di attualità: io credo proprio di sì, almeno per le esprienze fatte con i miei romanzi storici. Penso a Leonardo Fibonacci (uno dei protagonisti del mio “Eresia pura”) che lottò assieme a Giordano Nemorario per introdurre i numeri indo-arabici in Europa, per permettere che l’astronomia sciogliesse le catene della Terra tenuta forzatamente ferma… affinché si mettesse finalmente a girare attorno al Sole, penso alla sua lettera al cardinale Raniero Capocci affinchè papa Innocenzo III gli desse il permesso di pubblicare il “Liber abaci”, il primo trattato di matematica moderna… Il papa concesse sì a Leonardo Fibonacci il permesso di pubblicare il libro… ma pretese che quei numeri fossero utilizzati solo e soltanto per scopi commerciali, e non scientifici o astronomici! Massimo, credo che nessuno abbia mai letto quella lettera, rimasta occultata fino a che il tuo amico romanziere Adriano Petta non la tolse dalla polvere di una biblioteca. Credo, però, che chiunque l’abbia letta… abbia collegato questo fatto alle recenti dispute sul darwinismo e sul creazionismo, e a tutte le recenti battaglie fra il mondo della scienza e la chiesa, che purtroppo continua – oggi come mille anni fa – a voler tener fermo il progresso.

  432. passo per un saluto veloce…
    a marco salvador e ai nuovi arrivati nicole fabre e adriano petta.
    il libro su ipazia circola già a casa mia da un po’: per ora lo sta leggendo mio marito che è molto interessato alla tematica, e poi lo leggerò io. l’argomento è davvero stimolante… tra l’altro, esiste un film su questo affascinante personaggio: Agorà, di Alejandro Amenabar, che ha suscitato parecchie polemiche e non è ancora distribuito in italia. qualcosa mi dice che difficilmente lo sarà mai… 🙂
    ciao!

  433. @ Nicole Fabre
    Cara Nicole, benvenuta a Letteratitudine!
    Grazie per il tuo commento e per le risposte alle mie domande, Pero che il tuo romanzo “Demain à Rome” possa essere tradotto al più presto in italiano e pubblicato qui da noi.

    Domani, Nicole, proverò a porti altre domande…

  434. Caro Adriano, grazie per il tuo nuovo intervento. E grazie a Giorgia per il “passaggio”…

    Adesso, Adriano, ti porrò qualche domanda sul tuo nuovo libro e sulla tua attività di scrittore (riproponendo quelle già poste agli altri amici)…

  435. @ Adriano Petta

    Adriano, da dove deriva la tua passione per la storia?

    Come nasce questo tuo nuovo romanzo “Assiotea – la donna che sfidò Platone e l’Accademia”? Da quale idea? Da quale esigenza?

    Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?

    Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

    Stai lavorando a un nuovo romanzo? Se sì, puoi anticiparci qualcosa?

  436. E ancora… (sempre per Adriano)…
    Prima “Ipazia”, ora “Assiotea”… due donne protagoniste di due romanzi. C’è una ragione particolare? Che ruolo ha avuto la donna nei confronti della grande Storia? E come, secondo te, questo ruolo trova riflessi nella nostra contemporaneità?

  437. «Adriano, da dove deriva la tua passione per la storia?»

    Probabilmente dalla mia infanzia, trascorsa nel mio natio borgo selvaggio molisano, dove non vidi e non lessi mai un solo libro (tranne il noioso orribile sillabario delle scuole elementari). Quando a dieci anni la mia famiglia dovette trasferirsi a Roma (mio padre era invalido di guerra e non poté più fare il contadino e così dovette accettare… un posto di custode nella biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia in Roma!), riuscii a commuovere mio padre… ed ogni giorno mi nascosi in un angolo della biblioteca scoprendo la polvere dei libri, la meraviglia e la luce che emetteva quella polvere. A 64 anni quella fame di libri e di storia ancora non mi è passata.

    «Come nasce questo tuo nuovo romanzo “Assiotea – la donna che sfidò Platone e l’Accademia”? Da quale idea? Da quale esigenza? Prima “Ipazia”, ora “Assiotea”… due donne protagoniste di due romanzi. C’è una ragione particolare? Che ruolo ha avuto la donna nei confronti della grande Storia? E come, secondo te, questo ruolo trova riflessi nella nostra contemporaneità?»

    Il mio grande interesse verso la donna, il suo “non ruolo” nella storia, nasce sempre lì, nella mia infanzia, quei dieci anni che mi hanno “segnato” per tutta la vita… nell’osservare come i nostri padri, zii, nonni… trattavano le nostre madri, zie, nonne: non erano cattivi, quegli uomini, ma la loro cultura gli diceva che la donna era un essere inferiore per natura, per legge. E le trattavano non come le bestie (per carità, un asino, una capra, una pecora ricevevano delle attenzioni e delle cure che una povera donna nemmeno sognava…), ma come “cose” necessarie. Credo proprio che tutto il mio interesse nei confronti della storia della donna sia nato lì. E così, leggendo libri di archeologia, di antropologia… mi rendo conto che, prima che faraoni egiziani e re assiro-babilonesi creassero i primi eserciti di aggressione, le figure che gli antichi rappresentavano erano quasi sempre delle donne, donne col volto sereno, donne che lavoravano, che vivevano in pace con la natura, mentre gli uomini venivano raffigurati molto di meno, e mai venivano raffigurate scene di violenza e di guerra. I miei studi (e quelli di molte ricercatrici) mi hanno portato a fare questa considerazione: la società in cui la donna aveva un ruolo centrale nella vita, era una società pacifica. Quando l’uomo ha creato i primi eserciti di aggressione, è saltato nella groppa della storia… e per prima cosa ha dovuto estromettere dalla vita, la donna! Non a caso i greci (il popolo che forse più di tutti ha dato un impulso al progresso filosofico e scientifico), un popolo guerriero, è stato quello che più di tutti ha relegato la donna in un angolo, nel gineceo, per servirsene solo per la riproduzione. Ma chi era riuscito a convincere quei popoli che era quello il modo giusto di considerare la donna? Alcuni grandi filosofi, i filosofi vincitori: Platone e Aristotele. Il primo diceva che la donna è inferiore all’uomo per natura, il secondo che la donna è uno scarto della natura. Ci fu una ragazza che si oppose a questo concetto e a quello della schiavitù, e un giorno decise di chiedere spiegazioni a Platone e ad Aristotele, e fece di tutto per entrare all’Accademia Platonica, vestendosi da uomo, nascondendo la sua femminilità: fu Assiotea, protagonista ed eroina del mio ultimo romanzo storico. Quasi 800 anni dopo, fu Ipazia a lottare contro la concezione del suo compagno di studi Agostino da Ippona (il futuro padre della chiesa) il quale, molto più efficacemente e sinteticamente, considerava la donna “immondizia”. Per concludere, dobbiamo ricordare che la storia l’hanno sempre scritta gli uomini, per cui quello che sappiamo è per bocca dei vincitori. Da oltre cinquemila anni è stato l’uomo a dirigere la storia, e sono stati cinquemila anni di guerre e di massacri. Rare donne hanno avuto la possibilità di studiare e di far sentire la loro voce… e quelle rare volte è stata sempre una voce di progresso e di speranza. Come quella di Ipazia. Pochi anni fa Laurence Summers (rettore dell’università di Harward) davanti a 250 giornalisti di tutto il mondo ha detto che la donna non può accedere alle alte cariche della scienza perché… biologicamente inferiore per natura (il concetto di Platone, Aristotele, Sant’Agostino e San Giovanni Crisostomo). Ma qualcosa sta cambiando: questo “esimio” rettore è stato cacciato e al suo posto – per la prima volta dopo 350 anni – il comitato accademico ha eletto rettore una donna. Barlumi di speranza…

    «Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?»

    In genere visito tutti i luoghi in cui si svolgono le vicende che racconto nei miei romanzi storici: sento la necessità di vedere con i miei occhi, di sentire – ad esempio – la fastidiosa arietta che non smette mai di spirare sulla Pnice ad Atene, dove si riuniva l’assemblea del popolo… Gli aneddoti più importanti sono legati alle biblioteche: io sono un accademico di nulla accademia, sono solo uno studioso di storia della scienza e di storia medievale, senza titoli di studio… e, nonostante questo, mi hanno fatto entrare in tutte le biblioteche d’Europa, anche nella prestigiosa Bodleyan Library di Oxford… ma non in quella Vaticana ed in quella del monastero di Poblet in Spagna (con il pretesto che non avevo un titolo di studio universitario… ma questo me lo dissero solo “dopo” che avevo mostrato ai bibliotecari il genere di libri che volevo consultare).

    «Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?»

    Preferirei scrivere sempre di buon mattino, ma la vita famigliare non sempre me lo permette… per cui mi adatto a scrivere dove e quando capita, possibilmente seduto davanti al mare: è il luogo che più mi ispira.

    «Stai lavorando a un nuovo romanzo? Se sì, puoi anticiparci qualcosa?»

    Magari in cantiere ne avessi uno soltanto… Sono tre anni che sto lavorando al seguito di “Assiotea” (uno dei protagonisti è Alessandro Magno), ma non riesco a trovare il tempo per scriverlo. Poi è già pronta la bozza del seguito del seguito di “Assiotea” (che meraviglia, Massimo, non essere costretto a dovermi scontrare più con la chiesa cattolica: credo che, dopo la mia trilogia, fosse venuta a noia sia a me che ai miei lettori…). Poi, quando avrò scritto questi romanzi storici che possiedono tematiche importanti, soltanto dopo potrò scrivere i tre romanzi che avevo in cantiere da anni: il seguito de “Il romanzo di Marusja”, poi il mio terzo noir, poi il mio secondo di fantascienza… ed infine il tentativo di ultimare il mio primo romanzo umoristico, ma quest’ultima fatica credo che non potrò portarla mai a termine! Far piangere è facilissimo… mentre per far ridere, un autore deve possedere una grande dose d’intelligenza, cosa di cui io possiedo in misura limitata…

  438. Intanto grazie a Marco Salvador e a chi mi ha letta… ho scritto quello che penso, se poi sono riuscita a realizzarlo nel mio romanzo, sarà tutto sa vedere!
    🙂
    Grazie a te Massi che ci dai sempre delle nuove occasioni per confrontarci su temi importanti e interessanti.

  439. Mi sono molto piaciute le risposte della Fabre… brava, l’idea di impegno, la restituzione di verità sono idee che condiviso appieno.
    Ricerca e studio instancabili, sempre.
    Adriano Petta, interessanti le tue figure femminili. Il vincitore scrive la storia, però vuoi mettere il perdente? Fa la letteratura. Questa è mia e guai a chi me la copia!
    🙂

  440. Grazie Maria Lucia, per i tuoi complimenti. Ho visto il tuo blog. Anch’io sogno d’un futuro in cui l’arte sia sempre presente. Per me, scrittura, canto, pittura et altri espressioni dell’arte permettono di mettersi al servizio della bellezza del mondo e della vità. Un impegno per ognuno di noi !

  441. Grazie per le tue risposte, caro Adriano.
    Ne approfitto per comunicare che chi vorrà incontrarti potrà farlo domani 16 dicembre a Napoli, alle ore 18, 30, presso la libreria Archeologiattiva dove presenterai “Ipazia”.
    Ecco l’indirizzo esatto:
    Archeologiattiva, Via Duomo, 228 Napoli.

    Napoletani, accorrete!

  442. @ Nicole Fabre
    Cara Nicole, nell’elenco degli autori intervenuti (guarda in alto sul post) ho inserito il tuo nome con link al sito.
    Domanda per te: come nasce il tuo amore per l’Italia?

  443. Grazie per il link al sito, Massimo.
    Mi chiedi: Come nasce il tuo amore per l’Italia?
    Come spiegare come nasce un amore? Lo puoi? E una cosa un pò animale, l’amore, no? Viene dall’emozione non dalla mente. E cosi impossibile di spiegarlo per un paese come per una persona. Almeno per me. E perché cercare a spiegare tutto! Mi piace la parte di mistero nell’amore. Mi piace non saper perché amo tanto l’Italia. Sono latina. Amo la lingua, la cucina, evidentamente l’arte, la litteratura, il vostro gusto della vita, il vostro modo di parlare con le mani; le città, tutto. Amo tanto il vostro spirito. Il vostro modo di trattare la sfortuna, l’infelicità attraverso l’assurdo. I Francesi non lo sanno. Pechato. Un spirito che ritrovo nel vostro cinema, per me, il più grande del mondo, il più umano. Ho un’ immensa ammirazione per Fellini, Dino Risi, Bertolucci, Moretti, Begnini, Belocchio e sopratutto, per Ettore Scola. Ecco Massimo, il mio modo di spiegare l’impossibile. In rianssunto, l’Italia e gli Italiani mi corrispondono. E basta!

  444. È magnifico che il romanzo storico sia ancora così vitale! Chi lo avrebbe detto, solo pochi decenni fa? I problemi che lo scrittore di romanzi storici affronta, e che sono delineati nelle domande di questo blog, sono quelli di due secoli fa, è vero, e il fatto che ci si interroghi ancora su questi problemi rivela forse l’impossibilità di risolverli in modo definitivo: ma questa per me è una forza, un vantaggio. Non c’è una ricetta per il romanzo storico, un dosaggio perfetto tra vero e verosimile, tra documentazione e invenzione. Probabilmente la cosa più essenziale è che ci sia vita, in quelle pagine, che l’erudizione non soffochi i caratteri, che la ricostruzione non schiacci le figure, o non ne faccia delle figurine. Il rischio dell’incongruo c’è sempre, ma forse non è così importante: in fondo, nel più ingombrante modello di romanzo storico della nostra letteratura non ci sono popolani lombardi del Seicento che parlano come borghesi fiorentini dell’Ottocento?
    Allo stesso modo, la storia con la esse maiuscola (perdonate il luogo comune) non dovrebbe fare da fondale, l’epoca non dovrebbe essere intercambiabile con altre epoche. Credo sia importante che abbia una sua necessità – e che siano tirati dei fili tra quell’epoca e la nostra, ma sottili, o diventa tutto troppo facile.

  445. Forse è già stato scritto, ma uno dei motivi del successo o del ritorno del romanzo storico potrebbe essere determinato dal senso di insicurezza del nostro tempo. La speranza è che le case editrici non seguano l’odore del business privilegiando la quantità a discapito della qualità.

  446. Caro Massimo, il “romanzo storico” di cui mi chiedi conto (te ne sono davvero grato, en passant) è bell’e che finito, e attraversa quella fase tormentata che precede la stampa. Si intitola “Rapsodia su un solo tema” e uscirà a marzo nella collana Pretesti di Manni. È “storico” a modo suo, nel senso che, dopo due romanzi che erano, anche se in parte e tra molte virgolette, riconducibili alle indeterminatezze nebbiose del genere gotico, ho sentito il bisogno di cambiare atmosfere e temi per misurarmi, sia pure di sbieco, con alcuni aspetti della storia del Novecento. Ho dato vita così a un vecchio compositore russo che le vessazioni subite in passato hanno reso disincantato e stanco, e a un giovane e ambizioso compositore di Philadelphia, e li ho fatti incontrare. Nel ricostruire i decenni più controversi della storia dell’Unione Sovietica ho inventato situazioni e personaggi, facendo emergere, accanto alla storia reale, una storia immaginaria, sotterranea, fatta di figure torve e paradigmatiche, musicisti falliti e potenti e capricciosi censori; ho seguito lo stesso procedimento nel delineare il milieu intellettuale statunitense di oggi (della metà degli anni novanta, cioè), mescolando a nomi reali nomi fittizi. Una delle domande che “Rapsodia” romanzo si pone è: si può mantenere una certa dose di libertà espressiva in una condizione di continua prevaricazione? Si può rimanere se stessi, come artisti e come uomini, anche sottostando alle imposizioni di un potere coercitivo?
    Ho alternato pagine diaristiche ad appunti, ad abbozzi saggistici, a verbali di interrogatori, a schede critiche di analisi di partiture inesistenti, e ai capitoli della fantasticheria settecentesca Viaggio musicale nel secolo ventesimo, un libello alla Swift (o alla Cyrano de Bergerac, o alla Rétif de la Bretonne) scritto da un antenato del russo; vorrei insomma dare al lettore l’impressione di trovarsi tra le pagine di un’opera in fase di elaborazione, la cui calcolata incompiutezza troverà una ragion d’essere solo alla fine del romanzo.

  447. Secondo me, uno dei rischi che corre lo scrittore che si dedica al romanzo storico è di ingombrare la scena di oggetti di antiquariato, viscontianamente, colto dall’ossessione di trasmettere il colore, il senso, l’odore dell’epoca. Il buon romanzo (anche quello storico), credo, sa evitare il sovraffollamento, l’affastellamento di oggetti, la carta da parati i soprammobili i capi di vestiario i complementi d’arredo le armi i cappelli le parrucche i fregi gli stucchi i ricettari, e sa applicare la provvidenziale tecnica della reticenza e dell’ellissi anche nella ricostruzione del passato.
    La storia della Unione Sovietica appare di sfuggita, nel mio prossimo romanzo: eccola nelle note a piè di pagina, o in certi inquadramenti delle pagine più analitiche. Allo stesso modo, l’ambientazione statunitense resta implicita, il mondo universitario in cui lavora il giovane americano è appena accennato – lo stesso si può dire della ricostruzione storica del Settecento. Prendono più spazio i momenti privati, in entrambi i casi, le vicende individuali, o un tipo particolare di storia parallela che si sovrappone alla storia reale, ne amplifica determinati aspetti, ne è la parodia o la versione iperbolica. Mi sono sforzato di non colorare con riferimenti convenzionali la vita dei personaggi, la loro collocazione in determinati ambienti: va bene, c’è un samovar, ma è elettrico – soprattutto, non scorre vodka a fiumi.

    Sul perché io abbia scelto quella collocazione scriverò qualcosa più avanti. Per ora, Massimo, ti ringrazio di avermi dato l’occasione di riflettere “a voce alta” con gli amici di “Letteratitudine” su aspetti che mi sono cari.

  448. Il romanzo storico è una categoria sfuggente,definirlo è problematico; Io mi sono cimentato ogni tanto a scrivere qualche racconto e lo ho trovato molto divertente.
    In uno sono partito da un personaggio storico, uno scrittore e geografo del XII secolo, l’ho catturato in un suo viaggio di cui aveva scritto il resoconto e ho collegato il suo passaggio a una leggenda religiosa di un paese della nostra provincia.
    Il divertimento è stato più nella ricerca dei fatti dell’epoca, della composizione sociale dei paesi attraversati e nella caratterizzazione di alcune figure, un capitano, un baccelliere, una nave, un notabile,un pastore ecc.
    Una società in transizione nella quale in pochi anni si passa dall’islam al cristianesimo e dal greco al latino e al volgare ha bisogno di più respiro di un semplice racconto, ma per me è stata un’esperienza affascinante.
    Sulla base di questa esperienza credo che si possa rispondere così, almeno a qualcuno dei quesiti proposti:
    1) E’ più facile se ci si aggancia a un personaggio storico, a questo punto si può interpretarne vita e contorno o , dichiaratamente, inserire una digressione fantastica cercando di renderla compatibile con la storia. Il primo metodo è un modo di fare divulgazione storica, il secondo è un modo di scrivere una storia tenendo conto di un contesto più o meno conosciuto.
    2) Non c’è una funzione, ma se la cosa è fatta con un certo rigore, dovrebbe uscirne un ritratto d’epoca utile perché discutibile.
    3) E’ da evitare la confusione con un’opera storica, mantenere la leggerezza del romanzo, ma conservare un certo rigore, non eccedere in note che finiscono con l’appesantire il racconto.
    In quel racconto di cui accennavo ho inserito tante di quelle note, finanche per descrivere la virata di una nave a vela latina, da soffocare il testo,che infatti non ho pubblicato.
    4)Il più grande romanzo storico è difficile da individuare, ma i Promessi Sposi mi sembrano in buona posizione, non trascurerei neanche il Giulio Cesare e il Galileo di Brecht.

  449. Buona sera, sono Simonetta Ronco, docente universitaria, giornalista e scrittrice genovese. Sono autrice di due biografie di personaggi storici femminili e di quattro romanzi, tre dei quali definisco storici. Il Suo dibattito sul romanzo storico è molto interessante, ma essendosi diluito nel tempo è difficile recuperarne le fila. Forse un Suo intervento riassuntivo gioverebbe a tutti.

    Cordiali saluti

  450. Cara Simonetta, grazie per essere intervenuta e benvenuta su Letteratitudine (diamoci pure del tu, se possibile).
    Hai ragione: gli interventi che si sono avvicendati su questo post (dietro mio invito) sono ormai parecchi e necessiterebbero di essere sistematizzati.
    Tempo fa avevo detto che una selezione di questo dibattito sarebbe confluito nel nuovo volume di “Letteratitudine, il libro”:
    http://www.ibs.it/code/9788860030931/letteratitudine-libro.html
    Adesso, invece, mi sono convinto che potrebbe costituire il nucleo di un libro a parte… opportunamente “sistematizzato”, integrato e strutturato in forma di saggio.
    Vedremo!
    Intanto questo post continuerà a essere una sorta di “cantiere aperto” sul romanzo storico.

  451. Ciao Massimo, mi chiamo Luca Filippi. Ho 33 anni e faccio il medico. Ho recentemente pubblicato un romanzo storico con la casa editrice Leone (“L’arcano della papessa”) ambientato nel XV secolo, nella Roma dei Borgia. Intervengo, anche se in ritardo, su questo interessante e acceso dibattito, cercando di portare un personale contributo.

    1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?
    Concordo con quanti sostengono che il romanzo debba essere ambientato almeno cinquant’anni prima dell’epoca attuale e comunque in un periodo storico in cui l’Autore non ha vissuto.
    2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?
    La suggestione, più che la storicità. Leggo spesso lamentele di storici e saggisti sulla mancata aderenza alla storiografia di ciò che viene raccontato nei romanzi storici. Posto che l’Autore dovrebbe onestamente impegnarsi nella ricostruzione del periodo di cui tratta, quello che affascina è l’evocazione del passato (pensiamo agli aedi dell’antica Grecia) piuttosto che la precisione dei dati. I libri di Dumas non brillano per la precisione storica, ma ci hanno trasmesso un vivido affresco di tanti intrighi di corte e ancora oggi li leggiamo e ci emozionano. Anche se, per dire una, Caterina de’Medici non era proprio la Regina Nera descritta nella “Reine Margot”.
    3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?
    La pendateria. Credo che sia il rischio peggiore. O viceversa, un’eccessiva superficialità nella ricostruzione.
    4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?
    Non molto buono. Ci sono ottimi autori, alcuni dei quali ho visto sono intervenuti in questa discussione, ma la risposta dei lettori non mi sembra ancora soddisfacente.
    5. E nel resto del mondo?
    Sicuramente in Inghilterra, Stati Uniti e Spagna direi migliore.
    6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?
    I promessi sposi. E “Il Nome della Rosa”, direi a parimerito.

    Un caro saluto a tutti
    Luca

  452. @ Luca Filippi
    Caro Luca, grazie per essere intervenuto.
    Auguro gran fortuna al tuo libro, che segnalo qui: http://www.ibs.it/code/9788863930153/filippi-luca/arcano-della-papessa.html

    “L’ arcano della papessa. Intrigo alla corte dei Borgia” di Luca Filippi € Leone, 2009 – euro 15,00 – pagg. 160

    14 dicembre 1499, Roma. Secondo alcuni la fine del mondo è questione di giorni. L’Anticristo sarebbe già sulla terra, nella persona di papa Alessandro VI Borgia. Uno dei suoi più eminenti cardinali, Alessandro Farnese, incarica il proprio medico di fiducia Tiberio di far luce sulla morte del suo segretario, don Lucio, trovato cadavere nei pressi del Tevere. Ciò che poteva ridursi a un semplice esame autoptico si rivela in realtà il primo passo di un irto e concitato percorso d’indagine. Messo sulla pista giusta da un’ancella di Lucrezia Borgia, prima che costei muoia avvelenata, Tiberio si trova a investigare su una misteriosa setta neopagana, i cui adepti si accingono a sacrificare una vittima innocente. Bisogna fermarli. Entro il solstizio d’inverno.

  453. Scopro oggi questo interessante dibattito, e ne approfitto per intervenire. Come scrittore (anche) di romanzi storici, mi sento parte in causa…

    1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?
    Narrare vicende dalle quali l’autore e i lettori sono distanti nel tempo, ed essere ben documentato sul periodo narrato
    2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?
    Quella di tutti i romanzi: intrattenere il lettore. Il romanzo storico in particolare riesce a far rivivere al lettore epoche e modi di essere del passato, attraverso il filtro di una distanza cronologica.
    3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?
    Due cose: 1) cedere alla tentazione che tutto il lavoro di ricerca svolto “si veda”, eccedendo in puntigliose spiegazioni che nuocciono alla tensione narrativa. 2) voler educare o propagandare un’ideologia. In tal caso sarebbe meglio scrivere un saggio.
    4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?
    Ottimo. Ma proprio per questo tutti gli editori stanno inondando le librerie con romanzi storici di tutti i tipi e di qualità variabile, spesso bassa. Così credo che presto si assisterà a una saturazione del mercato…
    5. E nel resto del mondo?
    Nei paesi anglosassoni è sempre andato bene. In Spagna sta vivendo un boom ancora più forte che in Italia, e molti paesi dell’Europa dell’Est lo stanno scoprendo ora.
    6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?
    Per me “Il Gattopardo”.

  454. @ Alfredo Colitto
    Caro Alfredo, mi ero dimenticato di ringraziarti per il tuo intervento…
    Grazie mille!
    (Segue una segnalazione su di te e sul tuo romanzo “Cuore di ferro”).

  455. Alfredo Colitto è nato a Campobasso, ha studiato a Bologna e ha vissuto molto all’estero, soprattutto in Messico, dove ha ambientato il suo primo romanzo, “Café Nopal” (Alacrán). Ha pubblicato inoltre “Aritmia Letale”, “Duri di Cuore”, “Bodhi Tree” e “Il candidato”.
    Ha partecipato a numerose antologie di racconti, tra cui: “Killers & Co.”, “Fez, struzzi & manganelli” (entrambi per Sonzogno), “Il ritorno del Duca” (Garzanti), “History & Mystery” (Piemme), “Anime Nere Reloaded” (Mondadori).
    Con “I discepoli del fuoco” ha deciso di continuare a narrare la storia di Mondino de’ Liuzzi, protagonista di “Cuore di ferro” (Piemme, 2009).
    Collabora inoltre come editor e traduttore con alcune tra le maggiori case editrici italiane, scrive soggetti per il cinema e la televisione, e insegna scrittura creativa presso la scuola Zanna Bianca di Bologna.
    http://www.edizpiemme.it/autori/alfredo-colitto

  456. “Cuore di ferro” (Piemme, 2009) di Alfredo Colitto

    Bologna, 1311. Un discepolo dello Studium trascina a notte fonda il cadavere di un uomo fino alla porta del suo maestro Mondino de’ Liuzzi, medico e anatomista. L’uomo è stato ucciso in modo orrendo e nel torace, aperto con una sega, il cuore è stato trasformato in un blocco di ferro. Sedotto dalla possibilità di scoprire il segreto che ha consentito una simile trasmutazione, Mondino decide di aiutare il giovane che, proclamandosi innocente, gli rivela la sua vera identità. Il suo nome è Gerardo da Castelbretone e, come il suo confratello assassinato, è un cavaliere templare, che si è nascosto sotto i panni di studente di medicina. Per coprirlo, il medico è costretto a mentire all’inquisitore Uberto da Rimini, feroce accusatore dei Templari, che non tarda a bussare alla sua porta. Quando però un secondo cadavere viene ritrovato nelle stesse condizioni, Mondino e Gerardo capiscono che arrivare all’assassino prima dei domenicani è l’unica speranza che hanno per scagionarsi da qualsiasi accusa e sfuggire alle torture con cui, una volta arrestati, Uberto saprebbe far confessare loro anche ciò che non hanno mai commesso.

  457. 1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?

    Nessuna. La coerenza e la storicità sono caratteristiche che l’autore costruisce insieme alla carne, ossia alla materia prima. Proprio per questo è difficile scrivere romanzi, perché è un tuffo nel vuoto; ancora di più i romanzi storici, perche si tratta di un tuffo nel “vuoto storico”. E la storia non è una “fattografia” ma un’arte. Il che vuol dire che ci vuole un’arte doppia per scriverlo.

    2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?

    Mah, non esiste una funzione precisa della letteratura. Tantomeno dei romanzi storici: è il bello di questo genere. Non sono i manuali di storia, non sono i romanzi del cuore, ma potrebbero esserlo in quanto l’autore lo vuole e nella misura in cui lo vuole.

    3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?

    Dovrebbe evitare di essere presuntuoso, noioso, pomposo e altri “osi” che vanno benissimo con il genre.

    4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?

    Non lo so, non li leggo in italiano.

    5. E nel resto del mondo?

    Non leggo romanzi storici, mi limito a scriverli ogni tanto. Quelli che ho letto mentre scrivevo Nefertiti mi hanno fatto scrivere un libro astorico, o almeno ho fatto un tentativo, non so quanto riuscito. Quello che mi ha sconvolto e arrabbiato leggendo i romanzi su Nefertiti, sapendo benissimo che di certo su quella regina o quel periodo esiste ben poco, era la certezza con cui gli scrittori affermavano certe ovvie stupidaggini, tipo che Nefertiti aveva problemi con la suocera (mancava poco che dicessero che litigavano in cucina mentre facevano gli spaghetti, per renderla più vicina al pubblico degli anni Sessanta, “middle class housewives” – il target che doveva leggere il libro). Nel mio tentativo di far rivivere Nefertiti, l’attualizzazione è esplicita, cosi non ci sono equivoci, mentre l’ipotizzare sul suo vivere in un tempo lontano è atemporale quanto possiamo essere atemporali anche noi, se si astraggono certezze temporanee.

    6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?

    Cambiano i tempi, cambiano i romanzi e cambiamo noi e i nostri gusti. Una volta per me “Memorie di Adriano” era la gioia più grande della letteratura storica. Oggi mia figlia dice che quel romanzo è noioso e presuntuoso e pure “out of print” in tanti paesi. Da non crederci! Direi che tuttora mi piace “1984” di George Orwell; sarà storico?

  458. @ciao, Jasmina, piacere di conoscerti.
    Il tuo libro su Nefertiti mi incuriosisce molto, sia perchè il personaggio della regina è senza dubbio affascinante, e fa parte di uno dei periodi più oscuri e controversi della storia egiziana, sia perchè alcune tue frasi mi fanno intendere che abbiamo un approccio abbastanza simile al “romanzo storico”.
    Un romanzo storico astratto e atemporale, che anche se non risponde alla caratteristiche comuni del genere, credo sia l’unico modo per scrivere un romanzo storico il più possibile “onesto”.
    Anche a me dà molto fastidio (da persona che in qualche modo la storia un pochino la mastica per lavoro) la presunta ricostruzione storica “attendibile e fedele” che è presente in molti romanzi.
    un saluto

  459. Jasmina ha appena pubblicato un romanzo storico per i tipi di “Stampa alternativa”. Si intitola: “NEFERTITI. L’amore di una regina eretica nell’antico Egitto” (pag. 128 – euro 13)
    http://www.stampalternativa.it/libri/978-88-6222-084-2/jasmina-tesanovic/nefertiti.html

    Nasce da un’ossessione questa rievocazione di un’antica regina egiziana. L’ossessione per un’eresia fallita, quella di Nefertiti che vuole abbattere la tradizione usando la bellezza, il rispetto e l’arte. Ma un’altra eresia fallita è quella vissuta dall’autrice: yugoslava prima di essere serba, ha respirato l’esaltazione e poi la caduta di un movimento che non voleva allinearsi al blocco sovietico né farsi colonizzare dall’Occidente. Così Nefertiti, condannata lei stessa come eretica, diventa il simbolo di un mondo ancestrale più che mai attuale caratterizzato da lotte di potere, invidie, donne sottomesse all’oligarchia patriarcale ed emarginazione. Questo romanzo sfonda la barriera del tempo per restituirci una sovrana tanto lontana quanto moderna. Perché “Nefertiti è qui”.

  460. Invito Jasmina Tešanović a intervenire per raccontarci qualcosa in più su questo suo romanzo (anche con il supporto di Luigi Milani: traduttore e curatore dell’opera…)

  461. A proposito di Giulio Leoni, autore che stimo moltissimo sia per la capacità di giallista sia per la sua prosa, noto che il 2009 è stato l’anno di Pico della Mirandola, protagonista sia de “La Regola delle Ombre” che del fortunato libro di Martigli “L’Ultimo Custode”.
    Personalmente, ho molto apprezzato il Pico investigatore di Leoni.
    Ma come mai questo interesse per una figura certo di primo piano del nostro Rinascimento, ma che la narrativa aveva toccato solo di sfuggita?

  462. Sono felice che il dibattito venga rilanciato… benvenuti ai nuovi ospiti!
    Pico della Mirandola, Nefertiti… personaggi interessantissimi e intriganti. Chissà perché erano stati un po’ trascurati dalla narrativa.

  463. “Evocato” dall’amico Massimo, intervengo anch’io nell’interessantissimo dibattito, rispondendo alle domande da lui lanciate alla nostra comunità di “imbrattacarte”.

    1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?

    Direi, caro Massimo, che una caratteristica irrinunciabile dovrebbe essere l’aderenza, se non alla realtà storica, quantomeno alla verosimiglianza, per il rispetto dovuto innanzitutto al lettore, e anche per non tradire la Storia, alla quale dobbiamo tanto. In secondo luogo, occorre individuare un periodo storico nel quale collocare la vicenda da narrare che risulti di qualche interesse per il lettore, nel senso che a mio avviso è del tutto inutile accanirsi a percorrere sentieri già fin troppo battuti dagli specialisti del genere. In tal senso, la scelta di Giulio Leoni di personaggi quali Dante Alighieri, nel precedente ciclo di romanzi, e, come avviene nel suo ultimo romanzo, di Pico della Mirandola, mi sembrano scelte particolarmente azzeccate.
    Potresti allora obiettarmi che proprio Nefertiti sia un personaggio quasi abusato dalla saggistica e dalla narrativa, e in un certo senso come darti torto? La scelta di Jasmina Tesanovic di dedicare un romanzo alla famosa regina potrebbe apparire addirittura controproducente.
    Al contrario, credo invece che si tratti di un’operazione coraggiosa e meritevole, perchè, rispetto ai libri pubblicati sinora, la Nefertiti di Jasmina è rappresentata con un approccio fortemente innovativo e moderno. Oltre la figura quasi mitologica della regina-dea infatti il lettore riesce a intravvedere la dimensione femminile, di donna tormentata, dominata dall’Utopia dell’Amore e dell’Arte, in contrapposizione con concezioni del potere e della stessa religione che sentiva arcaiche, superate.
    Non solo: in alcune pagine si assiste a una sorta di transfert tra l’autrice e la mitica Regina. In alcune pagine che, quando le lessi in lingua originale, mi procurarono autentici brividi di commozione, l’autrice, attraverso un processo che sfiora il paradosso temporale, riesce a porre fuggevolmente in contatto l’Egitto di Nefertiti con l’Egitto contemporaneo.
    Dunque, per concludere – ma il discorso meriterebbe davvero ben altro spazio, tanto è vasto e foriero di riflessioni – è mia opinione che in definitiva il romanzo storico dovrebbe contenere al suo interno elementi tali da catturare l’attenzione del lettore, come accade negli esempi succitati, ma sempre senza perdere di vista l’aderenza al tessuto storico, sforzandosi quanto più possibile di calarsi, ove possibile, nella mentalità e nell’animo dei personaggi storici eletti a protagonisti della narrazione.

    2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?

    Credo che la risposta a questa domanda sia in fondo già adombrata nella precedente. Non so se il romanzo storico “debba” necessariamente assolvere una funzione, dal momento che il rischio di cadere nella letteratura, come dire, “scolastica” o didaattica è purtroppo sempre presente. Ho idea invece – parlo da lettore – che il romanzo storico, come il romanzo “tout court” possa legittimamente aspirare a costituire un momento di comunicazione quasi empatica tra l’autore e il lettore, in quel dialogo intimo e profondo che talvolta riesce a instaurarsi alle due estremità del discorso, appunto.
    Per tornare allo specifico aspetto della scelta del romanzo storico, questa risponde a precise motivazioni dell’autore, spesso appassionato di un determinato periodo o di una certa figura storica. Poi, è vero, il romanzo storico si presta bene a narrare anche il presente, attraverso la riscoperta della storia passata. Può essere strumento di denuncia e di satira socio-politica. Spesso infatti il romanzo storico si presta a un duplice livello di lettura, com’è possibile fare ad esempio sia in “Nefertiti” di Jasmina che ne “La Regola delle Ombre” di Giulio Leoni. Per non parlare dell’esempio forse più alto e compiuto che può vantare la letteratura di casa nostra, quei “Promessi Sposi” ahinoi tanto invisi ai nostri studenti…

    3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?

    Evitare il più possibile di annoiare il lettore con un eccesso di date e informazioni, che, se da un lato testimoniano lo sforzo ricostruttivo dell’autore, dall’altro finiscono per tediare il lettore. Rischio che però non si corre nè con “Nefertiti”, il romanzo che ho curato e tradotto assieme a Jasmina, nè tantomeno con “La regola delle ombre” di Giulio Leoni.

    4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi,
    in Italia?

    Direi eccellente, caro Massimo: per verificarlo è sufficiente fare una passeggiata in libreria – sempre pericolosa, almeno nel mio caso, essendo afflitto da una grave forma di… libridine!

    5. E nel resto del mondo?

    La situazione è analoga, direi. Anche se spesso il livello qualitativo di certe produzioni, specie d’oltreoceano, lascia assai a desiderare. Penso a certi romanzi storici nei quali ad esempio il protagonista di una vicenda ambientata nell’Egitto dei Faraoni si comporta e parla come un personaggio di Raymond Chandler, con imbarazzanti effetti di umorismo involontario…

    6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?

    “I Promessi Sposi”, senza dubbio, con buona pace delle folte schiere di implacabili detrattori, caro Massimo.

  464. @ Luigi Milani
    Caro Luigi,
    grazie mille per essere intervenuto.
    Ne approfitto per evidenziare che sei, tra le altre cose, il curatore e il traduttore del romanzo “Nefertiti” (Stampa alternativa) di Jasmina Tešanović.
    Anzi, mentre che si sono ti presento agli amici di Letteratitudine inserendo la tua minibiografia
    (nel commento a seguire).

  465. Luigi Milani è nato il 27 dicembre ’63 a Roma, città dove vive e lavora. Giornalista freelance e traduttore, ha pubblicato racconti e poesie per Giulio Perrone Editore, Akkuaria Edizioni (con l’antologia “Memorie a perdere”) e su alcune riviste letterarie, oltre a vincere, nella primavera del 2008, un piccolo concorso poetico, Orrorinversi. Di recente ha curato le edizioni italiane degli ultimi due libri di Jasmina Tesanovic, “Processo agli Scorpioni” e “Nefertiti” (Stampa Alternativa 2008-2009), e le versioni italiane di alcuni racconti di Bruce Sterling. Collabora con “Edizioni XII” e si sta occupando del varo di una collana di saggistica storica per “Historica Edizioni”.

  466. In effetti mi ero dimenticato di segnalare che ho aggiornato il post inserendo le schede dei tre autori citati in precedenza e dei loro nuovi romanzi:
    Giulio Leoni autore de “La regola delle ombre” (Mondadori, 2009, pagg. 415, euro 19)
    Alfredo Colitto autore de “I discepoli del fuoco” (Piemme, 2010, pagg. 429, euro 20)
    Jasmina Tešanović autrice di “Nefertiti. L’amore di una regina eretica nell’antico Egitto” (Stampa alternativa, 2009, euro 13, pagg. 125)

  467. Alfredo Colitto e Jasmina Tešanović sono già intervenuti.
    Attendiamo la partecipazione di Giulio Leoni…
    Parleremo dei tre suddetti romanzi e in particolare de “I discepoli del fuoco” di Alfredo Colitto (uscito proprio in questi giorni per i tipi di Piemme).

  468. Riprendo questo post per approfondire la conoscenza del nuovo romanzo di Alfredo Colitto: “I discepoli del fuoco” (Piemme, 2010, pagg. 429, euro 20).
    Trovate la scheda qui sopra (sul post).
    Pongo, di seguito, qualche domanda rivolgendomi proprio ad Alfredo…

  469. @ Alfredo Colitto
    Caro Alfredo, ti pongo alcune domande che ho posto anche ad altri autori (in merito ai loro romanzi).

    Come nasce questo tuo romanzo “I discepoli del fuoco”? Da quale idea? Da quale esigenza?

    Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?

    Sulla copertina del libro leggiamo “thriller storico”? È stata una scelta tua o dell’editore? Ritieni che il “thriller storico” sia un sottogenere del “romanzo storico”?

    Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

  470. Giulio Leoni mi ha inviato un lungo articolo intitolato “I mille volti del giallo storico”…
    Intanto ne approfitto per ringraziare Giulio.
    Inserisco l’articolo qui di seguito, spezzandolo in tre parti (per agevolarne la lettura).

  471. Come premessa, pongo le seguenti domande (invitandovi a rispondere, se ne avete voglia):
    – Il “giallo storico” è considerabile come un genere narrativo a sé stante?
    – Quand’è che un giallo potrebbe definirsi “storico”?
    – E che storia “ci deve essere” in un buon giallo storico?

  472. “I mille volti del giallo storico” di Giulio Leoni (I parte)

    Da tempo ormai non ci si raccapezza più con il vecchio giallo. Fino a qualche anno fa era una griffe notissima e indiscussa: anzi dominava incontrastata, da scatenare l’antitrust. Bastava la parola, almeno qui da noi, e dall’edicola alla più raffinata delle librerie ci si capiva subito.
    All’estero era un’altra storia. Gli inglesi per esempio avevano cominciato presto a cincischiare, con i loro detective novel, crime novel, mystery novel, ma si sa gli inglesi sono sofisticati e gli piace strano, come la mania di guidare a sinistra. Gli americani non ne parliamo. Poi sono arrivati i cugini francesi con il loro noir, che alla fine è sempre giallo, come lo champagne sempre spumante è. Ma guai a dirglielo però, c’è da rompere le relazioni diplomatiche. E così di complicazione in complicazione e di sottogenere in sottogenere siamo arrivati al caos di oggi, che nemmeno alla stazione Termini in un’ora di punta.
    Tra tutti i sottogeneri ce n’è uno che sta godendo da qualche tempo un crescente favore da parte del pubblico, fino a ritagliarsi una solida nicchia nel panorama editoriale di tutto il mondo. Si tratta del giallo storico, l’historic mystery degli anglosassoni.
    Ma cos’è un giallo storico? A prima vista la risposta sembrerebbe facile: un’avventura a sfondo poliziesco che si svolge nel passato. Semplice.
    Eppure già questa prima affermazione aprirebbe al causidico una bella occasione di dibattito: e perché? Si può fare storia soltanto del passato? In un tranquillo universo positivista certamente sì: ma nei nostri tempi così inquieti e terremotati da una totale incertezza sul senso delle cose, e per di più resi ancor più incerti dalle teorie di Heisenberg e dalla meccanica quantistica, siamo davvero così sicuri che non si possa trattare il futuro con la stesa spigliata nonchalance con cui discettiamo di cose passate? Che insomma il nostro orizzonte degli eventi non ci esili, e nello stesso tempo avvicini, in modo eguale ai due coni d’ombra del non-è?
    Ma senza avvitarci ora in speciose argomentazioni, e prendendo atto che al momento non esiste ancora in nessuna università una bella cattedra di Storia del Domani, restiamo al tema. Dunque una storia di ammazzamenti e di solerti indagini in un’epoca passata.
    Ma allora, potrebbe e con ragione argomentare qualcuno, una storia di Sherlock Holmes è un giallo storico? Verrebbe da dire di sì: gli elementi ci sono. Un delitto, un’indagine, una soluzione. E il tutto tra hansom cab e lampioni a gas, il telegrafo come novità assoluta e le impronte digitali di là da venire.
    Eppure sentiamo d’istinto che qualcosa non va in questo ragionamento. Se lo accettassimo tutto diverrebbe giallo storico: anche il “Falcone Maltese” lo sarebbe a pieno titolo. Con i suoi telefoni candlestick, quelli di Paperino, i doppi petti gessati di Sam Spade e le Ford model A ronzanti su e giù per le colline di San Francisco. Alla stessa stregua sarebbero storici i gialli di Simenon, della Christie e il novanta per cento di tutti i gialli di ogni tempo.
    Il modo d’uscirne può essere quello di fissare la regola per cui è storico solo il giallo ambientato in un’epoca precedente rispetto a quella in cui è stato scritto. Questa definizione va benissimo per i grandi classici del genere, a cominciare dal “Nome della rosa”, che resta a mio avviso il capolavoro assoluto in questa accezione. Però così sarebbe storico anche “L.A Confidential” di Ellroy, ambientato nella Los Angeles degli anni ‘50 ma scritto nel 1990, e addirittura “Romanzo Criminale”, ben piantato nelle bassezze della Roma dei ‘70 ma scritto trenta anni dopo. E moltissimi altri romanzi, spostati all’indietro anche solo di qualche anno rispetto a quello della loro composizione, si ritroverebbero ope legis nel catalogo.
    In pratica qualsiasi mystery, che non riguardasse strettamente fatti di cronaca letti questa mattina nelle pagine di nera del giornale, sarebbe un giallo storico. Non è possibile, specie se continuiamo ad assumere l’opera di Eco come parametro.

  473. “I mille volti del giallo storico” di Giulio Leoni (II parte)

    Potremmo allora cavarcela adottando una formula estremamente ampia: sono gialli storici quelli in cui a qualsiasi titolo troviamo dei riferimenti a elementi storici. Ma così diventa un giallo storico anche “Il codice Da Vinci”. E poco importa che qui la storia sia un po’ alla buona, al punto che Dan Brown, il suo fortunato autore, sembra credere che Da Vinci sia il cognome di Leonardo: ci sono i Templari, c’è Leonardo, addirittura Gesù Cristo e quindi ci siamo, più storico di così!
    Così anche questa risposta alla fine sembra insufficiente: non resta che abbracciare un’istanza ancor più radicale. Un giallo storico è quello in cui il vero protagonista è appunto l’elemento storico stesso. Pensiamo ancora una volta al “Nome della rosa”: chi è il protagonista del romanzo? Il monaco indagatore Guglielmo? Jorge da Burgos? Quel fetente di Bernardo Gui l’inquisitore? No, il vero protagonista è lo scontro ideologico che si accese in Europa a cavallo dei secoli XIII e XIV, e il modo in cui esso penetra e scuote le coscienze individuali fino a generare, nel caso del romanzo, una catena di delitti.
    La prova è proprio nel ragionamento a contrariis: possiamo introdurre nell’intreccio qualsiasi variazione, giocare a invertire i ruoli, introdurre o togliere personaggi, modificare perfino lo sviluppo della trama e avremo ancora una narrazione coerente e consistente: ma se eliminiamo il tema di fondo, lo scontro tra due modelli culturali l’uno rivolto all’indietro verso gli albori della cristianità e l’altro proteso in avanti verso il nascente umanesimo, tutto si sfalda e diventa incoerente. La stessa trama criminale non avrebbe più alcun senso.
    D’accordo, allora? Ma adesso complichiamoci la vita introducendo un altro e ancor più dirimente problema: che storia ci deve essere in un buon giallo storico? E la domanda è di spessore, tanto da accendere tra i fans e gli specialisti un’accesa discussione.
    Bisogna scrupolosamente attenersi ai fatti accertati, oppure il narratore ha il diritto di colorare la storia secondo il suo estro e gli scopi che si prefigge? Manzoni, che fa morire Adelchi in battaglia invece di lasciarlo tranquillamente scappare, come pare che fece nei fatti, è un falsificatore? E se nei “Promessi Sposi” Lucia venisse assassinata, il romanzo avrebbe titolo per essere definito un giallo storico? Perché in definitiva il giallo storico non è altro che una sottoclasse del romanzo storico, di antiche e nobili tradizioni.
    Ma appunto, che storia deve essere quella dei gialli storici? Immaginate di trovare un romanzo così: luogo, la Roma del I secolo a.C. Sono le idi di marzo del 44 e Cesare è appena arrivato nel teatro di Pompeo. Di botto viene circondato dalla turba dei congiurati e ucciso con le famose ventitre pugnalate. Poiché la cosa ha fatto scalpore, praticamente ognuno dei ciarlieri cittadini romani ha sentito il bisogno di dire la sua e quindi sappiamo esattamente come è andata. Ci sono infatti un sacco di testimonianze. Marco Antonio accorre, e si china disperato sul cadavere dell’amico-protettore, mentre i congiurati si scatenano per la città inneggiando alla morte del tiranno.
    È o non è storia? Più storia di questa! Buona per Shakespeare e per noi all’esame di maturità. Ma ammettiamo adesso che Antonio, sempre chino sul cadavere, si accorga da qualche particolare a lui solo noto che quello non è il corpo di Cesare, bensì di un sosia, mandato al posto suo per timore dell’infausta profezia dell’augure Spurinna. È perplesso (del resto Marco Antonio è notoriamente un culturista, non certo una mente), non sa bene che fare. Cesare è scomparso, si nasconde, avrà allora un suo piano, magari vuole approfittare del fatto che tutti lo credano morto per qualche regolamento di conti con il Senato o chissà che altro avrà in testa.
    Decide allora di tacere, per vedere come piega. Intanto però tra il lusco e il brusco i cesariani stanno eleggendo proprio lui, Antonio, a capo del partito, con grosse prospettive nel prosieguo. Il nostro Antonio, che è sì un culturista ma mica proprio scemo, si fa vincere dall’ambizione. Immaginando che il sor Giulio sia nascosto nel suo buen retiro di Nemi, con la scusa di prepararlo per le esequie fa sparire il corpo del morto, raggiunge Cesare e non visto gli rifila le canoniche ventitre pugnalate. Poi sempre col favor delle tenebre riporta il Cesare vero a Roma. Di qui la storia prosegue come sappiamo, l’orazione strappalacrime e tutto il resto, mentre il romanzo è finito. E che nessuno provi a scriverlo perché l’ho già fatto io!
    Improbabile? Non scherziamo, e la fuga di Edmond Dantes dal castello d’If, allora? Nessuno ci ha mai trovato niente di strano. La domanda piuttosto è un’altra: quello che ho scritto è un giallo “storico”? Dipende. Per lo storico certamente no, mi diffiderebbe dall’uso dell’aggettivo. Per me che lo scrivo sì, e per questo vorrei sgombrare il campo una volta per tutte da un pericoloso equivoco: che il giallo storico debba muoversi rigorosamente all’interno del recinto dei fatti accertati.
    So bene che questa è un’istanza portata avanti in stretta alleanza tra cattedratici della materia e lettori di provincia: i primi perché sospettosi di ogni intrusione non professionale nel loro campo, i secondi perché affezionati all’idea di arricchire la propria cultura in maniera dilettevole e con poca spesa.
    Invece no, il giallo storico esplora proprio gli angoli non accertati del passato, ed è per questo che rivendico il diritto all’uso dell’aggettivo. Infatti il racconto in questione non è una pura ucronia: non vi si afferma che Cesare non sia morto nel 44 a.C., né che Napoleone abbia vinto a Waterloo. La trama della storia accertata non viene lacerata in nessun punto, le cose proseguono come sono, non aprono la porta su un universo parallelo. Soltanto, la storia viene interpretata in modo congetturale, come direbbe Borges.
    E posso chiamare a sostegno della mia tesi diversi illustri padri del genere, che certo hanno tenuto conto dei fatti, ma senza mai restarne prigionieri: da Walter Scott a Victor Hugo, da Dumas a John Ford la caccia agli svarioni e ai blooper riempirebbe il carniere anche di uno studentello di liceo.

  474. “I mille volti del giallo storico” di Giulio Leoni (III parte)
    Ma c’è un ulteriore motivo, ancor più profondo, che spinge ad interpretare la storia in modo congetturale, oltre il piacere della narrazione. È che non si può fare altro! Già gli antichi se ne erano accorti, tanto da definire appunto la storia opus oratorium maxime, bello e sonante modo di dire che la storia è prima di tutto un molto organizzato sistema di chiacchiere, ben dette e formulate.
    Perché davvero la storia, per strano che possa sembrare è dopo la statistica la più umbratile delle scienze. Analizzare un episodio storico è come guardare lo schermo di un televisore: alla giusta distanza scorgiamo la più bella delle figure, ma se ci avviciniamo scopriamo che tutto si sgrana in un caos di pixel multicolori, che solo la nostra mente tiene insieme in un’immagine. I pixel sono i fatti, i documenti. L’immagine, ossia la narrazione storica che ne consegue, è soltanto interpretazione.
    Ma come, una disciplina ancorata ai “fatti” e che proprio nei fatti trova la sua ragion d’essere è invece il regno dell’incerto? Ahimè sì, e per ottimi motivi.
    Tutto nasce da quello che noi conosciamo del passato. Che in realtà è tanto e pochissimo. Se escludiamo l’interpretazione e pretendiamo di ancorarci ai documenti, si scopre che non sappiamo in realtà nulla di ciò che risale a prima del quarto-quinto secolo a.C. A parte qualche elenco di regnanti e il ricordo di qualche battaglia famosa, tutto il resto non è fatto ma interpretazione.
    Ma poi arrivano i “documenti”, dirà qualcuno! Giusto, ma proprio i documenti sono spesso la più fallace delle fonti. Noi ci aggrappiamo a essi con la disperazione di un mitile allo scoglio solo perché, dall’epoca degli scribi egiziani, siamo condizionati da un mito suggestivo, alimentato ad arte proprio da quegli scribi per primi: ossia che ciò che è scritto sia vero.
    E che anzi nella parola scritta gli dèi abbiano insufflato una sorta di spirito magico, che dal “Libro dei Morti” giù fino alle costituzioni degli stati moderni valida ogni testo scritto con una sorta di sigillo supremo di intangibilità e di verità. Ma non è così: i documenti su cui facciamo tanto affidamento soffrono invece di una duplice potenziale fallacia.
    Anzitutto possono essere bellamente falsi: dal catalogo dei re egizi di Manetone alla donazione di Costantino, al passo dell’oscuro chierico che inventa di sana pianta tutta la legenda di re Artù spacciandola per autentica, l’elenco delle invenzioni e falsificazioni storiche sarebbe lunghissimo. Ma soprattutto i documenti sono sempre drammaticamente parziali: immaginate che tra migliaia d’anni, scomparsa ormai la vita dalla terra, una spedizione di Marziani cerchi di ricostruire la nostra storia. E che casualmente i loro archeologi si imbattano in un pacco di lettere alle famiglie dei custodi dei campi di sterminio, qualche annata del Völkischer Beobachter e una pizza dei filmini propagandistici girati per darla a bere a quei curiosoni della Croce rossa internazionale.
    Sicuramente nei testi di storia marziana troveremmo scritto che verso la metà del secolo XX si sviluppò sulla Terra un’associazione benefica, chiamata SS, dedita all’assistenza dei membri della società afflitti da un’indefinita tara ereditaria, cui si occupava di fornire alloggio e cibo gratuiti, vestiario, lavoro, in appositi campi eretti in località amene nell’attesa che lo stato fosse in grado di fornire una soluzione finale al loro disagio.
    Campi dotati di docce e impianti sportivi, e in cui veniva prestata un’efficiente assistenza medica agli occupanti, tanto più rimarchevole in quanto dedica anche a ricerche scientifiche avanzate in materia di genetica. Così attraenti da dover organizzare un’intera rete di trasporti gratuiti per potervi condurre le folle che da tutta Europa si affollavano per accorrervi. E questo sulla base di documenti inoppugnabili.
    Esagerato? Mica tanto, se si pensa che è più o meno quello che facciamo noi quando ricostruiamo la congiura di Catilina sulla base delle testimonianze di Cicerone o di Sallustio, o crediamo davvero che Caligola fosse il pazzoide descritto da quella linguaccia di Svetonio. Il problema è che gli uomini non mentono mediamente ogni tre minuti, come affermano molte ricerche psicologiche e il bel telefilm Lie to me con Tim Roth: gli uomini mentono sempre, anche quando non sanno di farlo. Nel senso che lavorano continuamente per chiudere quelle fonti di angoscia che sono gli spazi vuoti nella conoscenza delle cose, che vanno comunque riempiti in qualche modo. Ora quello che è fonte di angoscia per lo storico, queste lacerazioni nella trama dei fatti, diventa invece felice terreno di pascolo per il romanziere, che vi si scatena senza pudori.
    Lo scrittore di romanzi e gialli storici diventa così una sorta di solerte rammendatrice della trama lacerata dei fatti. Chiude i buchi con materiale che crea lui stesso, come il ragno che fila la sua tela, cercando di raggiungere un risultato il più possibile simile al tessuto intorno. Ovvio che uno strappo resta uno strappo, anche sotto le mani più abili, e il concetto di rammendo invisibile è alla fine solo pubblicità.
    Ma per quanto simile a quello di un umile artigiano, pure la sua opera ha una certa grandezza. Ci scampa dal terribile peso dell’ineluttabilità del passato, come quella ci salva il paio di pantaloni. Va a smuovere le nostre conoscenze cristallizzate, ci suggerisce all’orecchio che no, non è vero che “ciò che è stato è stato” e non c’è nulla da fare. Conforta le nostre inquietudini con l’idea che un altro mondo e un’altra storia sono sempre possibili.
    È questo il lavoro di ogni buon giallo storico: intessere nella catena degli avvenimenti una miriade di fili colorati raccattati in giro, in modo da colmare gli spazi vuoti tra gli anelli di ferro dei fatti. E alla fine, quando l’opera è compiuta, lo scrittore come il più abile dei tessitori rovescia sul tavolo il suo lavoro, e mostra un’immagine inattesa. E come in ogni arazzo, l’ordito aspro e rozzo è scomparso e trionfano i colori del sogno.

  475. Mi permetto di rispondere alle domande poste da Massimo.
    – Il “giallo storico” è considerabile come un genere narrativo a sé stante?
    Io credo che il giallo storico possa considerarsi un sottogenere del romanzo di ambientazione storica. Come anche il romanzo rosa di ambientazione storica, il romanzo d’avventura, e via dicendo.

    – Quand’è che un giallo potrebbe definirsi “storico”?
    In questo caso direi quando l’intera ambientazione (e non il delitto in sé) è impiantata in un passato più o meno remoto. Per riferirsi alla produzione di Giulio Leoni, sono storici sia “E trentuno con la morte” (in cui la storia si svolge all’epoca dell’impresa di Fiume) sia “La regola delle ombre”, in cui tutto avviene nel XV secolo.
    – E che storia “ci deve essere” in un buon giallo storico?
    In questo io direi che bisogna rispettare una delle venti regole del giallo di van Dine: nel giallo storico, come nel giallo in genere, ci DEVE essere almeno un morto, e più morto è e meglio è. Crimini di portata inferiore raramente avvincono il lettore.

    Vorrei invece chiedere ai nostri autori (Colitto e Leoni): tra le regole classiche del giallo vige che la norma che la colpa del delitto NON debba essere attribuita ad assocazioni o sette segrete. Voi che ne pensate? Io personalmente non mi trovo d’accordo con questa regola di van Dine.

    Un caro saluto

  476. Grazie per le osservazioni e i commenti. @Luca: accidenti, se mi togli una bella setta segreta, mi togli la metà del divertimento! E poi Van Dine odiava le sette perchè perché lui, wasp vivente in un’epoca pre new-age, pre-terrorismo e pre-teorie del complotto, l’idea di setta si restringeva necessariamente o a qualche straccione di anarchico o peggio ancora alla Mano nera dei cafoni italiani. E ti pare che Philo Vance ci si sarebbe andato a confondere?
    A parte gli scherzi, credo che la regola vada interpretata, nel senso che il narratore non può ovviamente cavarsela con formule tipo “la vittima è stata uccisa dalla Massoneria internazionale”. Ci vuole sempre un bel nome e cognome, e comunque un movente individuale, anche se all’interno di un sistema di idee che può essere di natura collettiva.

  477. complimenti a Giluio Leoni per l’articolo sul giallo storico. Lo condivido in pieno.
    Marianna

  478. @luca
    condivido più o meno tutto. però mi lascia scettica la setta segreta, o il ricorrere al “soprannaturale”. In quel caso, non sconfiniamo nel fantasy?
    altrimenti anche Il Codice da Vinci è un giallo storico.
    Insomma, credo che un giallo nel senso rigoroso del termine debba avere una verosimiglianza razionale. Così come un romanzo storico dovrebbe muoversi all’interno di una griglia storicamente attendibile.

  479. @giulio leoni
    è molto consolante sapere che il lavoro di storici, filologi e archeologi non è che un modo ameno di passare il tempo. meglio un buon romanzo, almeno è più divertente.

  480. @giorgia: infatti il punto è proprio questo: secondo le regole “auree” del giallo, la responsabilità del crimine NON deve essere attribuita a sette o associazioni o a interventi “paranormali”. Ora, escludendo il paranormale (che sconfinerebbe nel fantasy), non ritengo debba necessariamente essere escluso l’intervento di sette o di associazioni, che erano presenti nel passato come lo sono nel presente. L’importante è che la logica del racconto non venga compromessa e che la risoluzione del caso avvenga attraverso l’abilità investigativa del protagonista.

  481. @Giulio Leoni: sono perfettamente d’accordo. Le regole auree del giallo sono complessivamente valide ma abbastanza datate. Concordo che introdurre sette o associazioni segrete sia non solo divertente per lo scrittore e il lettore, ma anche suggestivo e contribuisca a creare quell'”atmosfera” tanto importante nel giallo storico. L’importante, secondo me, è che venga mantenuta la responsabilità individuale di chi commette un crimine e che, nell’ambito del plot, il colpevole abbia un ruolo importante. Se l’assassino fosse una comparsa, uno che distrattamente viene presentato, credo il lettore ne rimarrebbe deluso.
    A presto

  482. @Riccardo: la differenza esatta tra thriller e giallo e giallo/noir non mi è chiarissima. Così a naso mi viene da dire che, pur essendo entrambe forme narrative caratterizzate da elementi di tensione, nel thriller può anche non esserci un delitto e la relativa investigazione. Anche se è difficile imaginare un thrller in cui non muoia qualcuno!
    Semplificando, si potrebbe dire che nel thriller il focus è sulle azioni dell’assassino, nel giallo su quelle dell’investigatore: per cui Psyco e Il silenzio degli innocenti sono thriller, mentre L.A Confidential e Il falcone maltese sono gialli.
    Però è una distinzione molto grossolana: alla fine penso che si tratti di una distinzione editoriale, di marketing. A me è capitato di trovare scritto in copertina thriller per I delitti del Mosaico e quelli della Luce, e non trovarlo su La crociata delle Tenebre o La regola delle Ombre: che, detto fra noi, sono quattro qualchecosa della stessa categoria. Per cui…
    @Giorgia: ameno no, direi disperato, per i motivi che ho cercato di spiegare 🙂

  483. grazie per la risposta, che conferma in effetti le mie perplessità. nel senso che pensavo che tali differenze siano più dettate da esigenze di marketing che da altro.

  484. Caro Massimo, rispondo volentieri alle tue domande:

    Come nasce questo tuo romanzo “I discepoli del fuoco”? Da quale idea? Da quale esigenza?

    I discepoli del fuoco nasce come secondo volume di una trilogia dedicata a Mondino de’ Liuzzi, un medico del XIV secolo realmente esistito, e considerato tra i padri dell’anatomia moderna.
    L’idea alla base del romanzo presuppone un enigma diciamo cosi “esoterico”: un morto carbonizzato nel suo studio, senza che nulla intorno a lui abbia preso fuoco, neppure la sedia su cui si trovava. Mondino è costretto dal podestà in carica a dare un parere medico su come ciò sia stato possibile, e presto si trova talmente invischiato nella vicenda da non potersene più tirare fuori senza gravissimi rischi.
    L’esigenza che mi ha portato ad affrontare il thriller storico è stata la voglia di narrare storie misteriose che in un’ottica moderna sarebbero inconcepibili. solo in un secondo momento ho scoperto che la ricerca storica necessaria per affrontare il romanzo è un campo appassionante in sé.

    Ci racconteresti qualche aneddoto su come hai svolto le attività di ricerca?

    Mi sono servito principalmente dei testi, antichi e moderni, conservati alla biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, dove tra l’altro c’è anche una statua del mio protagonista. Quale luogo migliore per documentarsi?
    Inoltre, poiché credo nel detto “a ognuno il suo lavoro” e io di mestiere faccio lo scrittore, non lo storico, ho chiesto aiuto al Professor Rolando Dondarini, medievista dell’Università di Bologna, e a Piero Giorgi, autorità riconosciuta per tutto ciò che riguarda Mondino de’ Liuzzi.

    Sulla copertina del libro leggiamo “thriller storico”. È stata una scelta tua o dell’editore? Ritieni che il “thriller storico” sia un sottogenere del “romanzo storico”?

    È stata una scelta dell’editore, che io ho condiviso, perché anche se non amo troppo le etichette e distinguo i romanzi soprattutto in belli e brutti, probabilmente possono servire ai lettori per orientarsi meglio tra la quantità di libri che si vedono sugli scaffali delle librerie.
    Se quindi vogliamo dividere i libri in generi e sottogeneri, ritengo che sia legittimo dire che il “thriller storico” sia un sottogenere del “romanzo storico”.

    Scrivi preferibilmente in un determinato momento della giornata (la mattina, la sera) o ti è indifferente?

    Il mio momento preferito è prima dell’alba, tra le quatto e le sei di mattina. Lo faccio spesso, soprattutto durante la prima stesura della storia, quella più difficile. sono in grado di scrivere anche di mattina o di sera, ma curiosamente quasi mai di pomeriggio…

  485. Ancora per te, Alfredo.
    Se possibile… inseriresti qui tra i commenti un brano estratto dal tuo nuovo romanzo?

    Certamente! Inserisco il prologo, che è anche abbastanza breve da poter essere letto sul web.
    Bologna, 10 dicembre 1311

    Capì lentamente di essere sveglia, ma non aprì gli occhi. Era stesa su qualcosa di duro e freddo. Come mai? Non ricordava cos’era successo. Aveva memoria di un suono nella notte, ma quello era stato prima. Ora doveva essere giorno. Avvertiva dietro le palpebre la luce leggera dell’alba,
    Mosse una mano e riconobbe la superficie. Assi di legno, consunte dall’uso. Un pavimento che conosceva bene, perché le toccava pulirlo ogni giorno. Quel pensiero ne portò subito un altro, e seppe chi era e dove si trovava. Doveva aver avuto un mancamento. Ma ancora non ricordava il perché.
    Mosse i piedi, le gambe, si portò le mani al volto, riprendendo possesso del corpo che le era stato tolto per un tempo impreciso. Ancora non apriva gli occhi. Voleva farlo ma qualcosa in lei si ribellava. Finché teneva le palpebre abbassate, si sentiva protetta.
    Si voltò su un fianco, e lentamente si tirò su, fino a trovarsi seduta sul pavimento. Ormai era del tutto sveglia. Si sentì stupida, con gli occhi chiusi, neanche fosse una bambina. E finalmente li aprì.
    Davanti a lei, come un’anima tornata dall’inferno, c’era l’orrore che aveva visto appena entrata nella stanza. Ma stavolta non perse conoscenza. Non distolse lo sguardo. Voleva farlo, ma non poteva.
    Ciò che vedeva non era solo orribile oltre ogni immaginazione. Era una cosa contro natura, troppo grande perché una come lei potesse comprenderne il senso. La sua mente vacillava e forse sarebbe svenuta di nuovo, se, fissando il faldistorio di legno e cuoio sulla quale era seduto quel corpo irriconoscibile, non avesse capito all’improvviso di chi si trattava.
    Spalancò gli occhi e la bocca, raccolse aria nei polmoni, e liberò tutta la sua paura in un grido acuto, che scosse persino i muri, e che sembrò durare all’infinito, fino a quando qualcuno si avvicinò alle sue spalle e la sorresse. Udì una voce senza capirne le parole, altri passi, poi fu qualcun altro a urlare.
    Finalmente si sentì precipitare di nuovo nel buio. Ne fu grata al Signore.

  486. @Riccardo: Giulio Leoni ha già risposto in modo molto completo alla tua domanda sulle differenze tra giallo e thriller, e direi che non ho nulla da aggiungere.
    @Luca e Giorgia: interessante la discussione sulle sette e il giallo! Per me cade come il proverbiale cacio sui maccheroni. infatti “I discepoli del fuoco” è incentrato proprio su una setta mitraica, sopravvissuta alla fine dell’impero romano, il cui capo è detentore di un terribile segreto.

    Secondo me, al di là dell’applicazione o meno di determinate regole precostituite, un intreccio del genere può dare luogo a un bel romanzo come a un brutto romanzo. tutto sta nel rendere plausibile nel libro l’intervento di una setta e il segreto esoterico a cui si riferisce. Io ho cercato di farlo, sia trovando una spiegazione adatta all’epoca in cui è ambientato il romanzo (sono andato a scomodare Aristotele, Eudosso di Cnido e Tito Livio, tra gli altri) , sia cercando di essere il più possibile rigoroso nell’ambientazione storica e nella ricostruzione della Bologna dell’epoca. Ci sono riuscito? Spero di sì, ma saranno i lettori a decidere.

  487. Mi piace moltissimo Giulio Leoni quando parla della necessità di interpretare la storia, di leggerla in chiave congetturale, sommando frammenti, tracce, ipotesi.
    Credo che questa operazione sia rivelatrice – sempre – della più profonda vocazione della letteratura: la ricerca della verità.
    Non una verità assoluta, cristallina, nè seducente, ma la verità che l’uomo può fare sua, cui può approdare come un superstite, su cui può far tramontare un ultimo sguardo innamorato.
    La narrazione è sempre un percorso di congetture, anche su noi stessi, e tanto più è efficace quanto più è onesta, legata alla pura necessità di esistere e contribuire a farci esistere.
    Storia, letteratura, giallo, hanno questo in comune. Chiedere una risposta. Cercarla. Volerla.
    E nel trovarla, o nel non trovarla, formulare tesi, scandagliare l’ignoto.
    Che altro non è che il semplice atto di vivere.

    Complimenti di cuore a Giulio Leone e ad Alfredo Colitto che leggo con altrettanto piacere!
    Una buona serata a tutti

  488. la classificazione per generi, che fa comodo agli editori, alla perenne ricerca di “filoni” commercialmente sfruttabili, e in piccola parte ai lettori, i quali badano soprattutto alla qualità della scrittura e alla “piacevolezza” della storia narrata, comporta il rischio che si creino delle “regole”, degli “schemi” fissi che finiscono con l’ingabbiare la libera creatività dello scrittore.

  489. E grazie, naturalmente, a Giulio Leoni e Alfredo Colitto per le loro risposte.

    @ Giulio Leoni
    La Giorgia del commento qui sopra è Giorgia Lepore: scrittrice e… archeologa.
    😉
    Trovi la sua scheda e i riferimenti al suo romanzo qui sopra, sul post…

    Ciao, Giorgia :-))

  490. Intervengo sull’idea del “giallo storico” come genere a sé, facendo riferimento proprio a “La regola delle ombre” di Giulio Leoni. Cito dalla mia recensione uscita su “Stilos” a. XII, n. 1, febbraio 2010, p. 82: «La ricostruzione della Roma di fine Quattrocento è incredibilmente viva […]. Tuttavia questo vasto e complesso romanzo di Giulio Leoni non è tutto qua. Sfiora […] una dimensione esoterica e soprannaturale. In modo da poter elaborare una serie di riflessioni sul destino dell’umanità, sulla difficoltà di accettare di essere un insieme di atomi aggregati dal caso […]. E in questo Giulio Leoni conferma una tendenza propria dei romanzi di tale particolare genere, in cui la storia, quanto più è realisticamente ricostruita, tanto più permette la libertà di sfiorare i limiti del reale».
    Questa è la mia ipotesi, confermata, mi pare, anche da altri recenti gialli storici: una sorta di filone soprannaturale dentro il genere giallo, a cui la storia offre una possibilità di azione che può rivelarsi sorprendente ed efficace.

  491. @ Bianca Garavelli
    Cara Bianca, grazie mille per il tuo prezioso intervento e complimenti per il tuo bel servizio sul numero di “Stilos” attualmente in edicola che ho avuto modo di leggere e gustare.

  492. Premesso che sono estimatrice e lettrice del genere romanzo storico, concordo decisamente con la definizione di Marco Salvador soprattutto circa la credibilità della storia e dei personaggi inseriti nell’epoca scelta, ad esempio la loro aderenza al modus vivendi. Concordo con la sua citazione sulle regole, mai fuori tempo, dettate da Alessandro Manzoni. Concordo per il ricordo (sempre di Salvador) de “L’Opera al nero” della Yourcenar e non dimenticherei della stessa autrice “Memorie di Adriano”. Il romanzo storico, se proprio voglio dare etichette, definire campi di azione, deve a mio avviso recuperare un’epoca, darle congruità, attualità storica e metterla al servizio di una storia che anche se si rivolge al passato può e deve parlare al mondo presente. Per quanto riguarda il giallo storico a mio avviso può valere lo stesso discorso con una fondamentale differenza, per il mio modo d’intendere il romanzo giallo: io preferisco in questo caso l’attualità, cioè una ambientazione che tenga conto dei giorni nostri, di atmosfere non molto lontane da noi, perchè più che l’intrigo e il meccanismo “noir” mi interessa la psicologia dei personaggi calati in una realtà vicina al nostro sentire. Per dirla tutta prediligo Chandler e Simenon. Delia Morea

  493. Ciao Simona, certo, quello è l’obiettivo cercato: quanto poi a raggiungerlo sempre è un’altra storia, ma insomma si tenta 🙂
    Volevo poi ringraziare Bianca per la sua gentilezza, e soprattutto per quell’osservazione: “In modo da poter elaborare una serie di riflessioni sul destino dell’umanità, sulla difficoltà di accettare di essere un insieme di atomi aggregati dal caso […]”: che chi ti legge riesca a scendere sotto la prima superficie di una narrazione è il sogno di ogni scrittore, ma qui bisogna dire che Bianca è aiutata dell’essere una ottima scrittrice di suo, per cui non vale!
    Approfitto poi della disponibilità di Massimo per un po’ di Kulturalspam: se qualcuno fosse interessato a qualche altra chiacchiera in libertà, può perdere un po’ di tempo qui:

    http://www.giulioleoni.it/interviste/bookshop.pdf

  494. C’è una tendenza prevalente oggi nel cosiddetto “romanzo storico” che i francesi definiscono histoire en travesti. Si potrebbe intendere come “film in costume”. Insomma: si scrive per il lettore contemporaneo e si mette in scena la vita contemporanea in costume d’epoca, dando vita a una serie piuttosto spiazzante, per uno storico, di anacronismi. Se un Faraone che riflette su un suo sogno si chiede: “cosa ha voluto dirmi il mio inconscio?”, è la stessa cosa che se gli mettessimo un orologio al polso. Spesso questa voga copre un buco letterario: dove sono finiti i grandi personaggi? Gli scrittori sono ancora in grado di inventarne? Non meri eroi ma personaggi che simbolicamente identificano un carattere indelebile: Rosa Montero ha osservato come Jekill/Hyde abbia dato un nome alla schizofrenia dell’individuo moderno rendendola in qualche modo riconoscibile e famigliare, il Conte di Montecristo è rappresentazione in persona dei codici e delle trappole della Vendetta, e così via. Ora: gli scrittori contemporanei sono incredibilmente stitici sul piano della creazione di personaggi simbolo come Bovary (da cui nasce il bovarismo) tanto per citare un altro personaggio. Per cui si ripiega sul personaggio già noto, già reso esemplare nella Storia: non c’è bisogno di inventare Napoleone, o Alessandro o Cleopatra, perché ci sono già. Basta infilarli come burattini nella nostra storia. Poi però non bisogna lamentarsi se persino Marlon Brando nel ruolo di Napoleone risulta ridicolo. Come risultano ridicoli gli antichi romani dei peplum, con le loro pettinature imbrillantinate anni 60. E fosse solo il costume. I pagani vengono regolarmente infilati in storie di gelosia coniugale come se allora esistesse la famiglia monogamica (tanto per dirne una). La storia ridotta a pantomima in costume della modernità , testimonia solo della presunzione dei contemporanei che si proiettano nel passato come volessero vantare origini nobili ed eterne delle loro attuali presunte grandezze e inconfessate miserie. Noi certo leggiamo la Storia dal nostro punto di vista, e alla luce dei nostri problemi, ma la Storia è anche molto spesso, e questo non vogliamo vederlo, “Altro” da noi, e dimostra che lo slogan “Un altro mondo è possibile” (che a molti sembra così utopico) è invece riduttivo. Bisognerebbe dire: un altro mondo, molti altri mondi sono esistiti e ancora esistono perché i tempi storici del contemporaneo anche in questa società globalizzata non sono ovunque lo stesso tempo. Basta viaggiare per accorgersene. Si capita in posti dove pare di ripiombare (nonostante la presenza di computer, cellulari, e di spaesati alberghi identici in tutto il mondo) negli anni 50 o addirittura in epoche remote. La Storia non esiste senza diversità. Se questa diversità non sappiamo coglierla se non nella foggia del costume, allora siamo davvero messi male. Toccata e fuga. Sono impegnato in altro forum sui vampiri. Preciso a uso di chi segue questo, che non sono parente né di Nino, né di Valerio Massimo. Quando scrivo un romanzo storico, la mia prima ricerca documentaria è sui personaggi: come si alimentano, che lavori fanno, cosa vedono, cosa leggono, come ragionano ? E poi attenzione al dialogo. I peggiori anacronismi si nascondono lì ed è colpevole per uno scrittore ignorare l’origine e la storia delle parole. Galeno non può discutere di batteri!

  495. Ho aggiornato il post inserendo notizie sul romanzo storico di Leda Melluso: “La ragazza dal volto d’ambra”
    Piemme, 2009 – pagg. 364 – euro

    Nei prossimi giorni, Leda (ne approfitto per salutarla) risponderà alle domande del post.

  496. 1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?
    – Mescolare abilmente realtà e finzione presentando aspetti della realtà e sentimenti dell’animo umano che lo storico non può ricostruire. Quello che Manzoni chiamava il verosimile: ciò che non è accaduto ma che sarebbe potuto accadere. Fondamentale è inoltre la presenza di grandi avvenimenti del passato che facciano da sfondo alle vicende personali dei protagonisti.

  497. 2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?
    – Catturare il lettore con una vicenda avvincente, coinvolgerlo e interessarlo in modo che si accosti alla storia con rinnovato entusiasmo. Il passato è uno strumento importante per dare spunti di riflessione sulla condizione umana

  498. 3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?
    – L’erudizione! Dati, digressioni, descrizioni troppo minuziose che talvolta lo scrittore inserisce nell’intento di ricostruire il periodo in modo puntuale. A proposito dei Promessi sposi, Goethe affermava che lo storico ha giocato un brutto tiro al poeta nelle descrizioni della guerra, della carestia, della peste che ”nel minuzioso particolareggiare di un’arida rappresentazione di cronista, diventano insopportabili.“ In sintesi, “come storico, Manzoni ebbe troppo rispetto per la realtà.”

  499. 4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?
    – Ottimo! Anche le scrittrici sempre più scelgono questo genere. Forse si stanno prendendo una rivincita: in passato non hanno potuto fare la storia, oggi la riscrivono a modo loro mettendo talvolta in evidenza l’arroganza del potere.

  500. 5. E nel resto del mondo?
    – Il romanzo storico sta avendo successo un po’ dovunque: ormai, in letteratura e non solo , non esistono più frontiere.

  501. 6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?
    – “La Certosa di Parma” di Stendhal, , in cui il romanzo storico tende a diventare romanzo sociale, specchio delle contraddizioni della società, romanzo psicologico, volto all’analisi di caratteri individuali, romanzo di formazione e di memorie. Oggi il romanzo storico, invece, si tinge di giallo, nero, rosa per soddisfare il gusto dei lettori. E’ un genere di intrattenimento, più accessibile al grande pubblico.

  502. Ho conosciuto Leda Melluso al Salone di Torino l’anno scorso e sono molto contento di ritrovarla qui. Ho apprezzato molto “La ragazza dal volto d’ambra”.
    PS Leda, apprendo ora che abbiamo uno scrittore preferito in comune. pensa che il protagonista del mio primo romanzo, “Cafè Nopal” si chiama Enrico Beyle…

  503. Ciao Alfredo! Sono contenta di ritrovarti! Ti ringrazio e ti faccio i miei complimenti per il tuo romanzo: interessante, si legge tutto di un fiato, tecnica perfetta. Presto leggerò l’altro che hai pubblicato da poco . Io per il secondo romanzo invece trovò attendere la fine dell’anno o l’inizio del 2011 ( ancora non lo so). Un saluto affettuoso Leda

  504. Grazie Leda! chiedo scusa ai lettori del blog per questo breve excursus fuori tema.
    Sul romanzo storico vorrei aggiungere che trovo molto calzante il paragone di Gianfranco Manfredi tra il faraone che si chiede “Cosa ha voluto dirmi il mio inconscio” e l’orologio al polso di un antico egizio.
    Sembra impossibile, ma a ben guardare incongruenze di questo tipo mentre nel cinema ormai sono solo un ricordo, nei romanzi storici sono parecchio diffuse. ci sono romanzi ambientati nel Duecento dove la gente non fa altro che mettersi e togliersi gli occhiali, o aprire i vetri delle finestre, come se fossero una cosa comune!
    Invece non sono d’accordo sull’idea di Manfredi che gli scrittori mettano in scena protagonisti realmente esistiti perché nessuno è più in grado di inventare grandi personaggi. Il paragone con il passato è inutile. Questo non è più il mondo in cui le cose duravano, in tutti i campi. Dove sono i Beatles del nuovo millennio? O il Vittorio Gassman del nuovo teatro? O i Winston Churchill della politica? (Mi accontenterei anche dei Berlinguer e dei Fanfani di una volta…) Eccetera.
    Ma questo non vuol dire che non esistano belle canzoni, bei film o bei romanzi, vuol dire solo che si produce molto più di prima, si consuma tutto a grande velocità e non c’è più lo spazio necessario perché si creino dei miti. Ormai viviamo quello che aveva profetizzato Andy Warhol: “nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti”. E’ un male? E’ un bene? Non mi interessa. E’ il mondo in cui vivo e me lo godo così com’è, da lettore e da scrittore. Anche se per ogni bel libro che leggo mi tocca prendere diverse fregature…

  505. @ Alfredo Colitto
    Ma di che ti scusi? 🙂
    Per me tu e Leda potete continuare a dialogare a iosa ;-))

    Presto – nell’ambito di questo forum – discuteremo su un nuovo romanzo storico incentrato su una figura… di rilievo.

  506. Concordo perfettamente con Alfredo Colitto sull’idea che “mettere in scena” i grandi personaggi storici non equivalga, necessariamente, a non saper creare “il personaggio”. Non solo, ma credo che se un romanzo d’ambientazione storica è ben costruito e riesce a evitare grossolani errori, possa aver il merito e la funzione di avvicinare il lettore a personaggi storici più o meno conosciuti. La lettura di un libro in cui si trovi la sorella di Mozart, o Gabriele D’Annunzio impegnato nell’impresa di fiume, o ancora Pico della Mirandola, può risvegliare i ricordi scolastici e spingere a nuove letture, a riprendere contatto con una parte della Storia. Nel mio caso, la lettura del libro della Lepore “L’abitudine al sangue” è stato il “primum movens” per documentarmi sul monachesimo orientale di cui, confesso, non sapevo molto.
    Un caro saluto a tutti

  507. Sulla carenza attuale di grandi personaggi letterari, vi rimando all’intervento che ho postato qui nel dibattito su Letteratura e Fumetto e che spiega meglio il concetto. Qui posso aggiungere che un conto è rappresentare un’epoca attraverso Jan Valjan o il Conte di Montecristo, un altro conto è rappresentarla attraverso un personaggio già famoso la cui biografia spesso non illustra affatto lo Spirito dell’Epoca , né riesce ad esprimerne il “vissuto comune”, e neppure riesce a diventare disegno di Carattere Esemplare. Una storia non è una storia se non è la storia di qualcuno. Questo “qualcuno” è compito dello scrittore crearlo. Se si rinuncia a priori alla creazione del personaggio e ci si limita alla corrispondenza plot-eventi storici, si fa opera nei casi migliori di traduzione della Storia in narrativa, ma in questo non si considera affatto la Narrativa come protagonista, bensì come tributaria della Storia. Se poi il nostro protagonista lo creiamo in modo puramente funzionale agli eventi storici di cui vogliamo parlare, è evidente il rischio di renderlo un mero burattino che ci conduce attraverso una cronologia di eventi, non un vero soggetto storico e narrativo. Ma non voglio dare la colpa ai cultori del romanzo storico contemporaneo. Tutti i generi letterari da più di vent’anni a questa parte si sono rivelati incapaci di produrre personaggi tali da imprimersi nell’immaginario collettivo. Questo ruolo pare essere rimasto ai fumetti ed è certo connaturato al cinema (debole anch’esso d’altra parte, perché ormai preferisce vampirizzare i personaggi dei fumetti, e solo di rado ne produce di originali. Non è d’altro canto un caso se il pirata interpretato da Johnny Depp anche se non nasce da un fumetto ha un’evidente impronta fumettistica ed è stato prodotto dalla Disney). Cosa poi significhi questa aridità letteraria nei confronti della creazione di personaggi-protagonisti, non lo so, bisognerebbe chiederlo a un critico. So però che i due clamorosi casi letterari Harry Potter e Twilight, ciascuno a suo modo, si sono verificati attorno alla creazione dei personaggi ben più che attorno al plot o allo stile. Il che dovrebbe far meditare.

  508. Sono d’accordo con alcuni degli ultimi interventi. Da qualche anno a questa parte i romanzi storici peccano troppo spesso di facile storicità. Sono corpulenti per quanto riguarda le date e gli eventi ma carenti di adeguati studi che ne rendano l’atmosfera credibile. Ci sono troppe zuppe di patate e pomodori nel medioevo, ed eccessiva leggerezza piuttosto che cura nei particolari. Per citare un caso esemplificativo, il tanto osannato Falcones nella sua “Cattedrale del mare” cita, seppur da narratore in terza persona, un po’ troppo frequentemente i chilogrammi nonostante questi siano un’unità di peso introdotta solo nel XVIII secolo. Adottando il chilo nella narrazione piuttosto che nei dialoghi non ha certamente commesso un’incongruenza storica ma sono in questi piccoli particolari che il romanzo storico costruisce la sua atmosfera. Per citare un grande romanzo storico, ne “Il nome della rosa” tali leggerezze non avrebbero trovato spazio.
    E in attesa di un nuovo capolavoro del genere ho accolto con lietezza un romanzo storico in cui sono incappato quasi per caso, grazie al passaparola, di un autore sconosciuto e credo alla sua prima opera (“De Beau. Il servo e il cavaliere” di Costantino Pietrosanto, non ricordo l’editore) e attraverso il quale ho potuto percepire quella cura maniacale, e la ricostruzione di quell’atmosfera, di cui ho denunciato il difetto nelle righe sopra.

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