Sul precedente libro di Gianfranco Manfredi – “Ho freddo” – sulle pagine di Tuttolibri de La Stampa, Sergio Pent ha scritto: “Un romanzo che avvince e instilla dubbi sul fascino dei miti popolari, sulle suggestioni esercitate dai potenti, sui tentativi della medicina di risolvere mali che nascono dal profondo di psicologie ataviche, radicate nel dolore e nella paura. Davvero, se Stephen King avesse occasione di leggerlo, potrebbe sicuramente esclamare «ma perché non l’ho scritto io?»”.
Per Ernesto Ferrero, invece, “con verve divertita e provocatoria, Manfredi mescola temi, ambienti, linguaggi, reinventa documenti e carteggi, incrocia personaggi autentici con le fantasie più arrischiate del romanzo gotico e della horror story, miti industriali e dimore di fantasmi, culti arcaici […]e sperimentazioni […], effetti da Grand Guignol e fenomeni extrasensoriali”.
Gianfranco Manfredi è tornato di recente in libreria con un nuovo romanzo, anche questo pubblicato da Gargoyle, intitolato “Tecniche di resurrezione” (dove riprende le vicissitudini dei tre personaggi che animavano il precedente “Ho freddo”, pur mantenendo una struttura narrativa del tutto autonoma).
I riscontri positivi non mancano nemmeno per questo libro. Ranieri Polese, sulle pagine culturali de Il Corriere della sera del 26 settembre 2010 scrive: “Manfredi alterna la riproposta dei suoi titoli di ieri con una nuova produzione di «romanzi filosofici» in cui personaggi e storie d’invenzione si mescolano a fatti e figure storiche e rigorosamente documentate”.
Nell’introduzione al libro, Carlo Bordoni scrive: “Tecniche di resurrezione è un vero capolavoro settecentesco ricreato al giorno d’oggi: del romanzo gotico riprende il tema e la morbosa attenzione per la vita dopo la morte; del romanzo filosofico mette in evidenza i problemi morali, la vivace discussione intellettuale e le contraddizioni del tempo; del romanzo storico ha l’attenzione puntuale per gli eventi narrati e la ricostruzione dei personaggi reali; del romanzo fantastico ha il fascino dell’orrido e il richiamo agli elementi insondabili che sono alla base del mistero della vita”.
I temi affrontati e gli spunti di riflessione offerti da Tecniche di resurrezione sono molteplici, tra cui quello della ossessiva attenzione per la vita dopo la morte e quello dell’ansia di progresso della scienza che, talvolta, trascura remore morali e rispetto per gli uomini (nel romanzo si stigmatizza l’uso spropositato da parte di medici dei cadaveri della povera gente fatta morire in anticipo negli ospedali per poterne studiare il corpo).
Troverete maggiori informazioni nel corso del dibattito, a cui parteciperà anche l’autore (che, oltre a essere “figura carismatica” della letteratura gotica italiana, è animatore instancabile del dibattito sulla letteratura dei vampiri e di altri orrori proposto su questo blog).
Discuteremo del romanzo e dei temi da esso affrontati. Per favorire la discussione, pongo le seguenti domande.
– Avete mai letto il romanzo “Frankenstein” di Mary Wollstonecraft, sposa del poeta romantico Percy Bysshe Shelley? Se sì, cosa ne pensate? Che sensazioni ha suscitato in voi?
– Se grazie a una sorta di sperimentazione tecnologica vi venisse offerta la possibilità di “vivere per sempre” (a voi e solo a voi)… accettereste? Se sì, a quali condizioni?
A prescindere da qualunque considerazione di natura religiosa… sarebbe “morale” accettare?
– Ci sono limiti oltre i quali la scienza medica non dovrebbe spingersi?
Di seguito: il booktrailer del libro, l’articolo di Luciano Comida (che mi darà una mano a animare e a moderare la discussione) e l’introduzione al volume firmata da Carlo Bordoni.
Massimo Maugeri
P.s. Ne approfitto per segnalare su La poesia e lo spirito l’intervista a Claudio Vergnani su “Il 36° giusto” (Gargoyle, 2010)
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TECNICHE DI RESURREZIONE di Gianfranco Manfredi
Gargoyle, 2010 – euro 18 – pagg. 489
recensione di Luciano Comida
Stanotte, alle due passate, ho finito “Tecniche di resurrezione”. Non c’è niente da fare: certe persone non impareranno mai a essere furbi. E se hanno sessantadue anni, ogni speranza è perduta. Prendiamo Gianfranco Manfredi (nella foto), nato a Senigallia nel 1948. Negli anni Settanta andava di moda la canzone politica seriosa e lugubre da incrociar le dita e toccar ferro? E lui fece dischi beffardi che, oltre a raccontare con ironia e passione un’epoca, restano di sorprendente attualità. Ecco per esempio:
“Ma non è una malattia” o la splendida e censuratissima “Ma chi ha detto che non c’è“, uno dei gioielli segreti della musica italiana. Negli anni Ottanta l’horror era considerato roba da mentecatti? E lui nel 1983 pubblicò da Feltrinelli “Magia rossa” (ripubblicato da Gargoyle), un romanzo che mescolava con fantasia colta e stregonesca la lotta di classe e i brividi del gotico. Negli anni Novanta il western era un genere morto e sepolto? E lui nel 1997 si mise a scrivere un fumetto western fantastico, storico e di sinistra come “Magico Vento”, arrivato a 130 episodi e 13.000 pagine. Qualche anno fa molti furbetti guadagnavano un sacco di soldi con i corsi di scrittura creativa? E lui mise on line un ottimo manuale gratuito di sceneggiatura e scrittura. Adesso vanno di moda i vampiri e basta buttar giù una storia draculesca per vedersela comprata da migliaia di adolescenti? E lui, che sui vampiri ha scritto eccellenti libri (primo fra tutti “Ho freddo”), esce con “Tecniche di resurrezione” dove dei vampiri non c’è manco l’ombra.
Ora qualcuno vi dirà che “Tecniche” è un romanzo troppo lungo, qualcuno che è troppo corto, un Terzo che è troppo lento, un altro che ci sono troppi personaggi, Tizio che a volte fa ridere e a volte è orrido, Caio che mescola troppi generi (giallo, macabro, storico, filosofico, epistolare, satirico, teologico, sociale…), Uno che non si capisce dove va a parare, Secondo che a tratti è inverosimile, Sempronio che è troppo realistico, qualcun altro che è troppo fantastico, XY che è troppo collegato al precedente “Ho freddo”, Calpurnia che è troppo poco legato al precedente “Ho freddo”, tutti vi diranno che è un romanzo strano ma nessuno vi dirà che è un “romanzo fatto con lo stampino dei libri tutti uguali”…La trama? A grandissime linee è questa: nel 1803, attorno a una suggestiva e misteriosa ipotesi medico-scientifica le cui radici affondano nel remoto passato dell’umanità, si addensano molti interessi. Di più non vi dirò perché sarebbe criminale svelare troppo e chi legge non sa mai dove il libro lo condurrà, così non può adagiarsi in una di quelle letture sonnacchiose e prevedibili. Ogni tanto (soprattutto quando Manfredi ci conduce nei meandri nella Londra miserabile e inquinata, formicolante di poveri e malati, sfruttati ed emarginati, scuole pubbliche degradate e assistenza sanitaria precaria) ci diciamo: “si sta forse parlando di noi?” E il brivido che ci corre lungo la schiena non è dovuto solo ai sapienti colpi di scena ma all’orrida sensazione che, forse, il nostro futuro potrebbe somigliare al nostro passato. Ancora qualche accenno alla piccola folla di personaggi, come sempre nelle opere di Manfredi riuscitissimi, dai principali ai comprimari. Ecco allora i due gemelli Valcour e Aline de Valmont, aristocratici libertini francesi (già protagonisti di “Ho freddo”), medico gay lui ed esperta di chimica lei col cuore infranto per l’amore perduto nel precedente romanzo. Poi infelici nobildonne inglesi e camerieri saccenti, chirurgi ambiziosi e militari arroganti, attori di teatro e Napoleone in persona, politici e re Giorgio II, il filosofo Jeremy Bentham e mercanti ghiottoni, farabutti e pastori protestanti, in un ricco quadro dipinto con colori che vanno dal comico al tragico, dal thrilling al grottesco. Perché l’ambizione di Manfredi è molto semplice e molto grande: prendere il genere “horror”, depurarlo della sua componente più esibizionistica e fecondarlo con ogni altro genere possibile. “Vi piace lo stile gotico?” chiede a pagina 471 un personaggio. Gli rispondono (ma forse è proprio Manfredi): “È un grido lanciato al cielo, dagli oscuri labirinti e dalle infinite storture della vita terrena”
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Prefazione a Tecniche di resurrezione
PRIMA DI FRANKENSTEIN
di Carlo Bordoni
Quando si pensa a Frankenstein, si pensa al primo romanzo in cui si tratta della vita dopo la morte o, meglio, della resurrezione post-mortem per effetto di una tecnologia umana. Una sorta di apoteosi dell’uomo che, grazie alla scienza, è in grado di ridare la vita a un corpo inerte; l’uomo che riesce a realizzare il suo sogno più profondo, quello di appropriarsi del potere divino di dare la vita. Ci avevano provato gli antichi con la magia, la cabala e la stregoneria, non riuscendo ad andare oltre il Golem ebraico.
È vero che Frankenstein è un GUB (acronimo di Great Unread Book), cioè uno di quei libri che sono più citati che letti, più conosciuti per le riduzioni cinematografiche, televisive o fumettistiche che per la frequentazione testuale, ma è pur sempre il cult per antonomasia del genere. Anche se il nome dello scienziato ha “fagocitato” quello della sua creatura ed è divenuto così popolare da oscurare persino quello della sua autrice, Mary Wollstonecraft, sposa del poeta romantico Percy Bysshe Shelley, che nella fatidica notte del 16 giugno 1816, nella villa Diodati sul lago di Ginevra, scommise con i suoi compagni di “grand tour” (lo stesso Shelley, lord Byron e il dottor Polidori) di scrivere la più terrificante storia sui morti che ritornano.
Frankenstein è divenuto il simbolo moderno della resurrezione, delle opportunità di una tecnologia sempre più complessa di compiere miracoli; l’antesignano di successive e fantasmagoriche soluzioni “scientifiche” che, partendo dalla fisica elementare, di volta in volta si sono appellate all’ultimo ritrovato capace di eccitare più la fantasia che i corpi irrigiditi dal rigor mortis, dal fulmine all’energia atomica, fino al computer.
Frankenstein si guadagna così il titolo di “moderno Prometeo”, come recita il sottotitolo del romanzo della Shelley; ma è solo quello, tra i tanti tentativi di quel periodo, ad essere entrato stabilmente nell’immaginario collettivo.
Eppure Frankenstein è solo la parte emergente di una vasta e sentita “cultura mortuaria” e di una speciale sensibilità per il soprannaturale e l’orrido, che segna la cultura europea (Italia compresa, visto che molti romanzi gotici sono ambientati nel nostro paese) e che, come accade ai fenomeni culturali di grande portata, finisce per spingere le sue propaggini anche nel secolo successivo.
Per comprendere lo straordinario successo della sensibilità gotica e l’attenzione, persino morbosa, per i temi della morte, coniugata in tutte le sue sfumature, è necessario risalire agli anni a cavallo tra il Seicento e il Settecento, proprio nel periodo in cui più forte si va affermando il principio di ragione e la Rivoluzione industriale sconvolge i rapporti sociali ed economici con l’introduzione della macchina. Ma è essenzialmente la sensibilità settecentesca, quella dell’Illuminismo, della messa in discussione dei dogmi, della prevalenza del dubbio, del ricorso alla ricerca sperimentale (dall’empirismo di John Locke in poi), a manifestare un’attenzione speciale per il mistero della vita e della morte, coniugandolo con l’intelligenza della macchina.
L’Europa era stata attraversata da una psicosi collettiva, conosciuta come la “peste del vampirismo”, che aveva portato a conseguenze letali sul piano dell’igiene e della salute pubblica.
Sull’onda emotiva del terrore suscitato dai revenants e dalla loro presunta intenzione di vendicarsi dei vivi, gli anni tra la seconda metà del XVII secolo e la prima metà del XVIII, vedono diffondersi la pratica del disseppellimento di cadaveri sospettati di essere vampiri. Le salme sono oggetto di mutilazioni – più spesso il taglio della testa o l’impalamento del cuore – al fine di impedire loro di “tornare”. Così frequente e passibile di creare terribili epidemie che la pratica del disseppellimento dovette essere vietata da severe leggi, come quella di Maria Teresa d’Austria del 1755.
Ma il Settecento è anche il secolo dello sviluppo dell’anatomia e della fisiologia umana, la cui pratica richiede cadaveri da sezionare, per effettuare esperimenti o anche solo per tenere lezioni di anatomia. Il che comporta una richiesta che non può essere soddisfatta se non col ricorso al trafugamento delle salme dai cimiteri. Tanto è diffusa la pratica del disseppellimento da dare origine a una speciale categoria di “lavoratori” che vive ai margini della legalità, i resurrection men: l’ironia contenuta nel loro nome lascia trapelare lo sconcerto di fronte ai sepolcri vuoti. Sono profanatori professionali di tombe, che provvedono i rifornire i gabinetti anatomici e gli istituti scientifici della materia prima; questa volta non per l’irrazionale paura dei vampiri, ma per servire la scienza.
Di pari passo, l’introduzione dell’energia elettrica dà origine alla seconda Rivoluzione industriale: nasce qui e si afferma una nuova figura di scienziato, il demiurgo che riunisce in sé le caratteristiche dell’intellettuale e del mago, ammantandosi di un fascino misterioso che lo rende il prototipo dell’eroe moderno. Colui che può interporsi tra l’uomo e Dio, grazie all’appropriazione di un sapere straordinario, il potere di controllare la macchina.
Gli esperimenti di Giovanni Aldini, lo scienziato italiano che tenta di applicare il galvanismo alla medicina, si spingono a testare sui cadaveri gli effetti dell’elettricità, che provoca la reazione riflessa dei muscoli delle braccia e della gambe, lasciando intravedere la plausibilità di un ritorno alle funzioni vitali anche dopo la morte.
Aldini è al centro di una febbrile attività scientifica che vede nell’utilizzo dell’elettricità un mezzo straordinario per liberare la creatività umana. Si costruiscono macchine per l’elettroterapia (fino all’elettroshock nei pazienti afflitti da problemi mentali) e sofisticati strumenti che dovrebbero curare la vita oppure causare la morte: una morte orribile, come nel caso della sedia elettrica, inventata nel 1888 e subito adottata dagli Stati Uniti per le esecuzioni capitali.
La figura di Aldini non è di secondaria importanza: nel 1807 pubblica, proprio a Londra, uno studio sul galvanismo (An account of the late improvements in Galvanism), dove sostiene la possibilità di riportare in vita un cadavere mediante stimoli elettrici, guadagnandosi così il merito di aver ispirato Mary Shelley.
La tecnologia si dimostra già da questo momento il più potente strumento al servizio dell’uomo, l’unico a permettergli di espandere la sua sete di conoscenza oltre i limiti finora imposti dalla religione e dall’etica. Se si escludono certi “contes philosophiques” e, soprattutto, lo scandaloso L’homme machine (1747) di Julien Offray de La Mettrie, scritto in forma di saggio, non esistono dunque antecedenti letterari del Frankenstein.
A riempire questa lacuna provvede ora Gianfranco Manfredi con uno straordinario romanzo, che potrebbe benissimo essere stato scritto attorno alla fine del secolo dei lumi e rappresentare il necessario prodotto letterario della cultura del tempo, tanto è immedesimato, calato in quell’atmosfera, così ben costruito nel ritmo, nelle descrizioni, nei dialoghi, nella psicologia dei personaggi e nei riferimenti storici, da risultare l’anello mancante tra i due “estremi” gotici, il Castello d’Otranto di Horace Walpole (1764) e, appunto, il Frankenstein (1818), che del romanzo gotico inglese è, allo stesso tempo, l’apoteosi e il superamento.
Tecniche di resurrezione è un romanzo a più voci: in primo piano Valcour de Valmont e sua sorella Aline (trasparente riferimento all’opera del Marchese de Sade) e le loro avventurose vicissitudini tra America, Francia e Inghilterra. Sono gli stessi protagonisti del precedente romanzo di Manfredi, Ho freddo (2008), ambientato nel New England, dove alla fine del Settecento esplodono, come in Europa, casi di psicosi collettiva legati al vampirismo.
Il New England non era nuovo a eventi del genere, visto che un secolo prima, proprio a Salem nel Massachusetts, c’era stato il più grave caso di caccia alle streghe dell’epoca moderna.
I due romanzi di Manfredi sono uniti dalla comune matrice del post-mortem, ma mentre in Ho freddo è il vampirismo a prevalere e costituire la chiave interpretativa di un’irrazionale psicosi collettiva, in cui si nasconde una vena di misoginia, che investe la comunità di Rhode Island, in Tecniche di resurrezione è la ricerca sui cadaveri, per scoprire il segreto della vita, a fornire il destro alla vicenda.
Il sepolcro violato è comune a entrambi; questa volta sulla sfondo di una Londra oscura e minacciosa, in cui avvengono misteriosi delitti e si muovono ambigui personaggi, protetti dal potere politico.
Qui la figura grandguignolesca del dottor Ending, che pratica una personale forma di eutanasia e sembra precorrere le gesta del più noto Jack lo Squartatore, che terrorizzerà la Londra vittoriana, è la chiave per interpretare le spinte conoscitive verso la modernizzazione, che, come spesso succede, si muove per strade perverse e anomale, imponendo sacrifici umani.
Se Valcour, il protagonista di Tecniche di resurrezione, rappresenta il principio di razionalità e di positiva considerazione di fronte ai problemi etici che la scienza impone – di fatto permettendo al lettore medio di riconoscersi in lui – il dottor Ending è invece il lato oscuro della scienza, la minaccia tangibile di un progresso che, nell’ansia di raggiungere i suoi obiettivi, perde di vista i valori morali e il rispetto per l’umanità.
L’atmosfera che prevale è quella plumbea e immobile delle istituzioni chiuse, luoghi in cui si è assoggettati a norme speciali, limitative della libertà personale: ospedali, carceri, caserme e officine, in cui vige la regola ferrea di “sorvegliare e punire” (per citare Foucault), non tanto per mantenere l’ordine, quanto per stabilire un dominio. Non a caso, tra i personaggi storici di Tecniche di resurrezione c’è quel Jeremy Bentham, inventore del “Panopticon” (1791), raffinato sistema di sorveglianza psicologica, realizzato per le prigioni, ma applicabile anche alle fabbriche e ai luoghi di cura.
In una Londra chiusa e impenetrabile come la nebbia che l’avvolge, dove l’unico spazio pubblico è il teatro: luogo franco, dove tutto può dirsi ed essere rappresentato in forma metaforica. Il teatro dove va in scena la vita, cui corrisponde un altro teatro, quello anatomico, dove va in scena la morte. Su queste due forme di spettacolarità pubblica si giocano i destini dei personaggi di Manfredi.
Tecniche di resurrezione è un vero capolavoro settecentesco ricreato al giorno d’oggi: del romanzo gotico riprende il tema e la morbosa attenzione per la vita dopo la morte; del romanzo filosofico mette in evidenza i problemi morali, la vivace discussione intellettuale e le contraddizioni del tempo; del romanzo storico ha l’attenzione puntuale per gli eventi narrati e la ricostruzione dei personaggi reali (come Lord Grenville, Carpue, Josephine Bonaparte e lo stesso Napoleone); del romanzo fantastico ha il fascino dell’orrido e il richiamo agli elementi insondabili che sono alla base del mistero della vita.
Non tutto ciò che Manfredi racconta è vero, ma si potrebbe ugualmente dire che non tutto ciò che scrive è frutto della sua immaginazione. Questo senso di ambiguità, questa sospensione dell’incredulità tra la fantasia e la realtà, sono ciò che lo rendono più simili a un’opera letteraria del passato, a un vero e proprio documento storico ritrovato.
Dopo aver letto Tecniche di resurrezione, Frankenstein non sarà più lo stesso. Lo vedremo in una luce diversa. Questo è, in verità, l’effetto perverso di quello che Borges ha definito l’anacronismo deliberato: “che cosa succederebbe se l’Odissea fosse posteriore all’Eneide?”. Tecniche di resurrezione ci fornisce una prima inquietante risposta.
Copyright © 2010 by Carlo Bordoni
Ed ecco un nuovo avvincente post che affronta temi tutt’altro che banali.
Gli spunti per la discussione ce li fornisce il nuovo ottimo romanzo di Gianfranco Manfredi (“figura carismatica” della letteratura gotica italiana): “Tecniche di resurrezione” (Gargoyle).
Molti di voi stanno seguendo Gianfranco Manfredi sul post (che ormai ha superato quota 2.600 commenti: un vero e proprio record!) dedicato alla “letteratura de vampiri”: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/01/letteratura-dei-vampiri/
Una discussione ben lungi dall’esaurirsi.
Il merito è proprio di Gianfranco, che è una fonte insesauribile di spunti.
Ne approfitto subito per complimentarmi con Gianfranco Manfredi per gli ottimi riscontri ricevuti dal precedente romanzo: “Ho freddo”.
Sul post ho inserito alcune frasi estrapolate dalle recensioni di Sergio Pent e Ernesto Ferrero.
Andate a vedere…
Per quanto riguarda “Tecniche di resurrezione” (il nuovo romanzo), ho messo in evidenza questo passaggio della bella introduzione di Carlo Bordoni: “Tecniche di resurrezione è un vero capolavoro settecentesco ricreato al giorno d’oggi: del romanzo gotico riprende il tema e la morbosa attenzione per la vita dopo la morte; del romanzo filosofico mette in evidenza i problemi morali, la vivace discussione intellettuale e le contraddizioni del tempo; del romanzo storico ha l’attenzione puntuale per gli eventi narrati e la ricostruzione dei personaggi reali; del romanzo fantastico ha il fascino dell’orrido e il richiamo agli elementi insondabili che sono alla base del mistero della vita”.
Mica male, no?
Ne approfitto pure per ringraziare Luciano Comida, per aver scritto (appositamente per questa discussione) l’articolo che trovate sul post.
Luciano mi darà una mano a moderare e animare (che la commistione di queste due parole non vi sembri ossimorica) il dibattito.
Naturalmente avremo modo di conoscere meglio il romanzo approfittando della presenza dell’autore… ma – contestualmente – vi invito a discutere su alcune delle tematiche affrontate dal libro.
(Vi proporrò le mie solite domande).
I temi affrontati e gli spunti di riflessione offerti da “Tecniche di resurrezione” sono molteplici, tra cui quello della ossessiva attenzione per la vita dopo la morte e quello dell’ansia di progresso della scienza che, talvolta, trascura remore morali e rispetto per gli uomini (nel romanzo si stigmatizza l’uso spropositato da parte di medici dei cadaveri della povera gente fatta morire in anticipo negli ospedali per poterne studiare il corpo).
Troverete maggiori informazioni nel corso del dibattito…
Intanto, per favorire la discussione, pongo le seguenti domande.
– Avete mai letto il romanzo “Frankenstein” di Mary Wollstonecraft, sposa del poeta romantico Percy Bysshe Shelley? Se sì, cosa ne pensate? Che sensazioni ha suscitato in voi?
– Se grazie a una sorta di sperimentazione tecnologica vi venisse offerta la possibilità di “vivere per sempre” (a voi e solo a voi)… accettereste? Se sì, a quali condizioni?
A prescindere da qualunque considerazione di natura religiosa… sarebbe “morale” accettare?
– Ci sono limiti oltre i quali la scienza medica non dovrebbe spingersi?
Dimenticavo di ricordarvi di non dimenticare…
di dare un’occhiata al booktrailer che trovate sul post (nella parte finale avrete modo di conoscere lo stesso Manfredi).
Dimenticavo pure di ringraziare la Gargoyle books e il prof. Carlo Bordoni per aver messo a nostra disposizione l’ottima introduzione al libro.
Grazie davvero.
@ Gianfranco Manfredi
Mie domande classiche: Come nasce questo libro? Come è venuta fuori l’idea? Cosa ti ha ispirato?
Per oggi chiudo qui.
Auguro a tutti voi una serena notte.
Sulla domanda relativa alla “vita eterna o quasi, direttamente qui su questa terra” mi piacerà molto rispondere. Ma prima vorrei che si sviluppasse la discussione sul piatto principale del pasto: il romanzo di Manfredi.
Molto interessante. Voglio leggermi tutto con calma.
Comunque una discussione da seguire con attenzione.
Vivere per sempre è bello, a prima vista, ma chi ci assicura che, dopo diverse decine di anni, ci venga a noia il vivere? Si invecchierebbe molto più lentamente, o non si invecchierebbe mai?
Ci si sottrarrebbe a tutti gli accidenti che possono ferire o uccidere, come le malattie, gli agguati, gli incidenti?
Per il credente, che fine farebbe l’anima, se non potesse mai più riunirsi al suo Creatore?
Certo, sarebbe estremamente interessante seguire l’evolversi del mondo secolo dopo secolo, vivere le novità e le scoperte, vedere il risolversi di molti problemi, oggi insolubili.
Ma, essendo unici a godere di questo rarissimo dono, non si diventerebbe, in fondo, una star? Si sarebbe sempre al centro dell’attenzione, secolo dopo secolo.
Forse, addirittura, si potrebbe impazzire!
Ho letto parola per parola sia la recensione di Luciano Comida sia la prefazione “Prima di Frankenstein”, accuratissima, posso dire magistrale, di Carlo Bordoni, preso dalla curiosità di conoscere un valido autore come Gianfranco Manfredi e un’opera che s’inserisce in quell’ambito particolare, tanto eccitante quanto misterioso e macabro (mi si passi l’aggettivo) della letteratura.
Un ambito in cui si coltivano fantasie, anzi fantasmagorie e suggestioni di grande impatto emotivo, a volte persino “traumatizzanti” (tra virgolette, si badi), oltre che notizie storiche, descrizioni e informazioni d’ogni genere, nonché riflessioni paragoni confronti scientifici e parascientifici, filosofici e parafilosofici che ti coinvolgono fin quasi a stordirti, comunque a confrontarti con l’invisa morte (talmente invisa da rimuoverla o esorcizzarla). Come è capitato a me, giovanissimo, quando ho letto il romanzo “Frankenstein”.
Vorrei poi chiedere a Gianfranco Manfredi se le sue opere nascano appunto dal desidero, dalla necessità recondita di esorcizzare appunto la morte, esaltandone, sviscerandone e “calpestandone” ogni tratto, ogni faccia, ogni aspetto fino ad annullarla, insomma a vincerla.
E vorrei chiedergli dove abbia acquisito la cultura necessaria per scrivere così estesamente di pratiche chirurgiche, esoteriche e altro.
————-
Alle domande di Massimo riguardo all’accettazione di “vivere per sempre”, grazie a una sorta di sperimentazione tecnologica, e ai limiti oltre i quali la scienza medica non dovrebbe spingersi, rispondo che il fatto di dover vivere su questa terra per sempre mi spaventa. Percorso il mio tragitto, un saluto malinconico a tutto e tutti, e un “è giusto così”!
Limiti alla scienza medica?
Non dovrebbero essere frapposti, se fosse utilizzata per sconfiggere le malattie, la sofferenza, le violente selezioni messe in atto dalla natura. Già, la natura e le sue leggi feroci, compromesse però dall’intelligenza, dalle conoscenze umane, ossia dalla scienza.
Ma se l’intelligenza e il progredire della biomedicina fossero un espediente creato dalla stessa natura o – eventualmente – dalle forze cui la natura deve soggiacere per dei fini a noi inconoscibili?
Cordialmente.
Buongiorno a tutti. Manco da parecchio dalle pagine di questo blog e devo fare mea culpa. Ma il tempo e’ tiranno e ci strappa via la possibilita’ di fermarci a riflettere. Le domande di oggi, pero’, sono troppo stimolanti e quindi…
Avete mai letto il romanzo “Frankenstein” di Mary Wollstonecraft, sposa del poeta romantico Percy Bysshe Shelley? Se sì, cosa ne pensate? Che sensazioni ha suscitato in voi?
L’ho letto e l’ho amato moltissimo. L’ho trovato moderno, quanto mai attuale, quasi incredibile considerata l’epoca in cui e’ stato scritto. E oltre tutto da una donna, anche se da una donna speciale per quei tempi. Il porsi il dilemma etico di fin dove sia giusto spingersi nella ricerca scientifica e nella sperimentazione. Il dotare il “mostro” di un’anima e di una consapevolezza che ritroveremo nelle suggestioni piu’ recenti degli androidi di “Blade Runner”. Un’originalita’, quella di Frankenstein, fuori dal tempo, che ha segnato la letteratura ed ha creato un personaggio indimenticabile.
– Se grazie a una sorta di sperimentazione tecnologica vi venisse offerta la possibilità di “vivere per sempre” (a voi e solo a voi)… accettereste? Se sì, a quali condizioni?
Accetterei, cosi’ come Ulisse si e’ sentito costretto ad accettare di varcare le colonne d’Ercole ed esplorare l’inesplorabile. La curiosita’ per il futuro sarebbe piu’ forte del dolore di una vita solitaria in mezzo ai mortali. La volonta’ di essere testimone del progresso umano, di tutto cio’ che sara’, fosse anche la fine di questo pianeta. La possibilita’ di “sapere” vincerebbero ogni remora.
A prescindere da qualunque considerazione di natura religiosa… sarebbe “morale” accettare?
Altroche’. Lo ha detto Dante ben prima di me: nati non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.
– Ci sono limiti oltre i quali la scienza medica non dovrebbe spingersi?
Credo di aver gia’ risposto. Ma ribadisco: no. Il limite siamo noi, la nostra capacita’ e la nostra curiosita’.
Vita eterna qui sulla Terra, solo per me?
No, e neanche grazie.
Perchè temo di annoiarmi? Anzi: la conoscenza e la curiosità crescono man mano che si inoltrano in nuovi territori finora inesplorati. Insomma! Potrei studiare il cinese e apprendere gli usi e i costumi degli esquimesi, ho milioni di libri da leggere per la prima volta, migliaia e migliaia di autori da approfondire, luoghi da vedere, giochi da fare, chitarra elettrica da imparare a suonare (o almeno suonicchiare), fisica quantistica da capire, storie da ascoltare e da inventare, musiche da ascoltare…No no: la noia non è un problema.
E allora?
La mia vita non sono solo IO, ma le mie calde relazioni con le persone. Nei secoli dei secoli pagherei il prezzo tremendo di veder morire una dopo l’altra le donne che amo, gli amici, i miei figli e figlie. E ogni mio rapporto sarebbe segnato in partenza da questa maledizione di dolore.
Forse dopo 400 o 666 anni comincerei a farmi una specie di “callo” emotivo, di scorza di cinismo. Ma (anche qui) a che prezzo?
Perciò: no (e neanche grazie).
Nella cultura dominante, coadiuvata da tecniche chirurgiche sempre più sofisticate, la manipolazione di ogni elemento del corpo, ha raggiunto livelli che non avremmo mai supposto.
L’uomo ormai, si sente dotato di una esclusiva autosufficienza ed è convinto, con salda certezza, di poter bastare a se stesso.
Ma, il solo pensare di non morire mai, per secoli e secoli, non rasenta uno sterminato delirio di onnipotenza?
Nel futuribile orizzonte prospettato dal caro@ Massimo, ci si batte per salvaguardare l’involucro esterno o per ampliare la valenza superiore dello spirito? La mente rimarrebbe lucida?
@ Il raffinato autore Gianfranco Manfredi, vorrebbe vivere eternamente, con tutte le debolezze sentimentali e le imperfezioni terrene, prerogative
ineludibili di noi umani?
Tessy ( quasi – sull’orlo della tomba -.. e poi via per i limpidi cieli)
Cari amici, devo anzitutto un ringraziamento a Massimo per aver avuto l’idea di questa discussione a partire dal mio romanzo. E poi a Luciano per la bella recensione e a tutti quelli che hanno cominciato a intervenire. Per il momento prendo nota delle domande che mi avete rivolto, ma vorrei intervenire più avanti, in modo da non orientare troppo e fin dal principio il libero andamento della discussione. Mi limito per ora a osservare che alla questione “perché il progresso scientifico ci mette in ansia?” ho cercato di dare risposta nel romanzo stesso, che racconta delle origini moderne del nostro rapporto con la medicina e con i medici, narrando anche in qualche modo la Storia di questo rapporto, che tra la fine settecento e l’inizio ottocento si sviluppa in forme che non avevano precedenti in passato . Molte delle nostre ansie di oggi sono eredi delle ansie d’allora. Così, mi sembra anche un po’ viziata, ma significativa, la domanda: “Vorreste vivere in eterno?”. Questa domanda è stata posta da molti romanzi e film horror e di fantascienza. Del resto il sogno umano dell’Immortalità non è soltanto un sogno moderno, ma ancestrale. Però l’epoca moderna mette in campo l’ipotesi della sua effettiva praticabilità. Andrebbe premesso, spesso lo dimentichiamo, che attualmente la cosa NON E’ POSSIBILE e non è nemmeno stato dimostrato che possa esserlo un domani. Pare però che nelle percezione comune, ormai si dia per scontato che questa possibilità, la Scienza ce la offrirà. Questo significa che alla nostra ansia si mescola qualcosa di più e di diverso da una speranza: una strana certezza nell’onnipotenza di quella stessa Scienza che ci inquieta. Ora: io proporrei di mettere in questione sia la nostra ansia (non del tutto irrazionale, perché storicamente motivata) sia questa nostra certezza tutt’altro che certa e che pure sembriamo dare per scontata: la certezza che la Scienza arriverà comunque e in ogni caso alla soluzione del problema Morte.Siamo davvero sicuri che questa nostra idea di Scienza non sia una superstizione? Basta così, ho detto anche troppo, per il momento.
Conoscendo (purtroppo solo un po’) Manfredi, so che ne vedremo delle belle ogni volta che interverrà.
Da lui non aspettatevi mai le banalità e le pappette che tanti scrittori/intellettuali elargiscono a comando.
I miei migliori auguri a Gianfranco Manfredi per questo suo nuovo romanzo dai contenuti inquietanti e affascinanti. La scienza arriverà a Dio o a svelare il mistero sull’esistenza di Dio. La mente degli uomini è illimitata. Molto bello il ritratto che ha fatto di Manfredi nella sua recensione Luciano Comida, un artista vero che non segue le mode.
Se vorrei vivere in eterno? E per giunta da solo? Già a pensarci mi vengono i brividi, significherebbe prolungare la mia agonia all’infinito. Però potrebbe avere i suoi vantaggi: potrei iscrivermi alla gara dei cento metri e vincere di sicuro, passare con il rosso senza prendere la multa e tante altre belle cose ancora. Per adesso il patto con il demonio sembra averlo fatto mia suocera che alla veneranda età di 97 anni resiste alle intemperie. Resiste persino quando aggiungo alla sua minestra il cibo del pesciolino rosso.
@Tessy carissima. Sei sempre lì sull’orlo ma devi avere la pellaccia dura anche tu. Ti ricordo il mio necrologio che ormai aspetta da anni.
Non ho il tempo di leggere i post che sono arrivati ma lo farò al più presto. Ho letto invece sia la bella recensione di Comida sia la ricca introduzione di Bordoni e ne sono rimasta incantata.
Ah, ho pure visto il book-trailer e ascoltato le belle canzoni del cantautore Manfredi.
Io di norma il genere del terrore lo evito perchè , appunto, mi terrorizza. Ma credo che per questo libro di Manfredi farò un’eccezione, a patto però che non sia troppo terrorizzante.
@ Gianfranco Manfredi: è troppo terrorizzante?
Le domande.
– Avete mai letto il romanzo “Frankenstein” di Mary Wollstonecraft, sposa del poeta romantico Percy Bysshe Shelley? Se sì, cosa ne pensate? Che sensazioni ha suscitato in voi?
Ho visto il film, ma non ho letto il libro.
Non ho letto il libro perché il film mi aveva inquietato abbastanza.
Scusate, sono una fifona, lo so.
– Se grazie a una sorta di sperimentazione tecnologica vi venisse offerta la possibilità di “vivere per sempre” (a voi e solo a voi)… accettereste? Se sì, a quali condizioni?
No. Non vorrei vivere per sempre (io e solo io). Perché? Per vedere morire le persone che amo una dopo l’altra?
No grazie. Sarebbe un orrore.
A prescindere da qualunque considerazione di natura religiosa… sarebbe “morale” accettare?
Non saprei. Credo che la morale, in casi come questo, vari da persona a persona.
– Ci sono limiti oltre i quali la scienza medica non dovrebbe spingersi?
Il limite è il rispetto della persona e della dignità umana.
Amelia: domani se “Manfredi è terrorizzante”.
Se dovessi scegliere dieci aggettivi per definire la sua opera (di romanziere e di sceneggiatore per fumetti, oltre che di musicista) “terrorizzante” non sarebbe tra questi.
Non perchè Gianfranco non sappia suscitare ANCHE la paura, ma perchè non mi pare questo il suo scopo principale: mentre altri autori vogliono soprattutto spaventare o raccapricciare, direi che Manfredi segue altre strade e con altri scopi.
Certo: usa ANCHE quei materiali (brividi e sobbalzi), ma non sono il fine.
Insomma: direi che puoi leggere.
Con un’avvertenza: dentro di noi le risonanze della “paura” sono del tutto soggettive. Un mio amico è terrorizzato dai film sugli zombie. Io invece dico: il film più di paura che io (sottolineo: io) ho mai visto (e ri-visto) è “Picnic a Hanging Rock” di Peter Weir.
Interessante il libro di Manfredi…
A proposito di Frankenstein, ho letto sia il libro (gotico sì ma non orrorifico), vero bestseller frutto di una notte particolarissima di cui se trovo i riferimenti vi parlerò (un unicum credo nella storia della letteratura) che visto i film (tra cui l’irresistibile parodia FRANKENSTEIN JUNIOR di Mel Brooks… divertentissima!).
Oggetto: i sentimenti umani, la nostra fragilità precaria, il desiderio di vincere la paura della morte prolungando la vita, il ruolo della scienza.
Grazie Luciano.
Ma mi piacerebbe leggere anche la risposta dell’autore. Questo suo nuovo romanzo lo considera terrorizzante?
E poi l’aspetto del terrore è una qualità, nella letteratura gotica, no? Penso a Poe ed a tutti quelli che lo hanno seguito.
Stimolare il terrore potrebbe essere un andito contro la paura?
Intendevo “un antidoto contro la paura”.
Scusate. Mi sto mettendo a fare domande pure io. La maugerite avanza, come l’età.
Sì, ho letto “Frankenstein”.
E ricordo che non fu la sperimentazione scientifica (portata alle estreme conseguenze) a spaventarmi. Nè l’ipotesi di un rimedio (artificiale) alla vita, nè la mostruosità e diversità del suo risutato (per forza di cose uno scarto di altro, un residuo, un resto).
No.
Fu la solitudine della “creatura”.
Il fatto che dopo essere stata plasmata, ricreata, cercata, venga respinta proprio dal suo creatore.
In questa dinamica tra creato e creatore, tra l’iniziale innocenza del primo e l’abbrutimento legato al rifiuto affettivo (il mostro uccide, infatti, solo dopo aver sperimentato la mancanza di accettazione), ho sempre visto l’ipotesi originaria di tutte le relazioni umane, a prescindere dalla potenza scientifica.
E mi sono detta he nessun progresso, di nessun genere, sana la ferita della mancanza d’amore.
Perciò credo che non mi interesserebbe vivere un’eternità priva della possibilità di relazionarmi al mio destino originario, che è quello di essere amata e di amare.
Credo che – unica immortale – sperimenterei la solitudine della creatura.
E, alla fine, la perdita della sua innocenza.
Carissimo Gianfranco,
credo che il romanzo storico sottenda sempre l’attualità, e si faccia specchio ribaltato di oggi, di noi senza scarto di tempo, di noi – anche – come approdo dal passato.
Seguo la sua opera e la trovo originalissima e intelligente. Inoltre, mi pare che questo romanzo ponga anche l’interrogativo non solo dei limiti oltre i quali può spingersi la scienza, ma di cosa sia, in realtà, la scienza.
Credo che la risposta non sia semplice (anche se è da essa che discendono i limiti e gli argini anche morali della ricerca scientifica).
Una risposta a questa domanda, forse, l’ha data Einstein quando, interrogandosi sul valore della ricerca, scriveva:
“Qual è il senso della nostra esistenza, qual è il significato dell’esistenza di tutti gli esseri viventi in generale? Il saper rispondere a una siffatta domanda significa avere sentimenti religiosi. Voi direte: ma ha dunque un senso porre questa domanda? Io vi rispondo: chiunque crede che la sua propria vita e quella dei suoi simili sia priva di significato è non soltanto infelice, ma appena capace di vivere”.
Forse, ricordando che il compito della scienza è quello di indagare il significato della vita, non daremmo per scontato che essa – prima o poi – possa regalarci l’immortalità.
Accetteremmo semplicemente lo stupore di percorrerla.
Un abbraccio di cuore
Giunto alla mia età, ormai, non sarebbe male ricominciare, signor Maugeri. Ma, poi, a che pro? Solo se reincontrassi mia moglie. Solo, quindi, se quest’eternità che ci viene prospettata fosse assimilabile alla teoria dell’ “eterno ritorno” , uno dei capisaldi della filosofia di Friedrich Nietzsche.
Conoscete la teoria?
La conosce, carissimo Signor Manfredi?
“In un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte”.
Ecco. Se la possibilità dell’incontro con mia moglie si ripetesse infinite volte, sceglierei questo tipo di eternità.
—–
Amabilissima sig.ra Tessy,
con quella vitalità d’anima e di penna, non mi dìa il dispiacere di dirsi sull’orlo. E allora che dovrei dire io (ottuagenario suonato?)
—–
Un simpatico saluto dal vostro affezionato
Professor Emilio
Signor Luciano,
ma che meraviglia leggerla anche qui! E che bella recensione!
Un saluto dal suo fedele
Professor Emilio
@ Amelia. Il mio romanzo è terrorizzante? Non so, credo abbia ragione Luciano che l’effetto è soggettivo. Al di là di questo, io credo che la paura abbia senso se non ce ne compiaciamo troppo. E’ un’esperienza che è utile e importante attraversare, imparando anche a distinguere i segnali di paura immaginari da quelli fondati. Per questo, più che l’horror io prediligo il gotico che ci conduce attraverso i “fantasmi” , facendocene sempre dubitare, e che oltre i fantasmi ci indica il cielo. E’ stato il grande padre Dante a insegnarci, dopotutto, che si viaggia all’Inferno, per poi uscire a “riveder le stelle”. Se si va all’Inferno soltanto per godersi lo spettacolo dei suoi orrori senza fine, rischiamo di finirne prigionieri. Quando mi è capitato di scrivere degli episodi di Dylan Dog c’era un fatto che mi turbava un poco, da scrittore… il personaggio tende un po’ troppo a compiacersi delle sue paranoie. Quando ho inventato il personaggio di Magico Vento, uno sciamano lakota che vive esperienze piuttosto angosciose, mi sono sforzato sempre di mostrare come per gli indiani d’america, provare paura ha un fine preciso: trovare il coraggio di superarla. I ragazzini lakota, quando si cominciava a istruirli a diventare guerrieri, li si lasciava soli nelle Grandi Pianure , dopo adeguata preparazione, perché imparassero a cavarsela da soli. E’ certo una strana cultura rispetto alla nostra attuale. Noi ai figli vorremmo risparmiare qualsiasi rischio. Però questo non è il modo migliore per farli diventare adulti. Non è un caso che l’horror sia diventato così popolare tra i ragazzini: è, se non altro, un’esperienza di paura simulata, molto utile alla crescita. Chi ha paura d’aver paura, è doppiamente schiavo della paura. Si rinchiude in casa a doppia mandata, schiavo delle proprie paranoie. Agli adulti, poi, è chiesto un coraggio ulteriore, che è quello di non rinunciare mai a interrogarsi sul senso della vita. Sono convinto che un vero lettore cerchi anche questo in un romanzo: non semplicemente una storia avvincente, ma una traccia per mantenere vivi in noi certi interrogativi (filosofici, religiosi, scientifici, sociali, psicologici e sentimentali) senza i quali vivremmo davvero come bruti. Riguardo ai sogni di immortalità, attualmente la prospettiva è un’altra (e nel mio romanzo se ne parla parecchio) cioè non quella del prolungamento della vita , bensì quella del prolungamento ad libitum della vecchiaia. Quando sento promettere enfaticamente per il prossimo futuro una vita media di 120 anni, la cosa mi dà i brividi. Ho passato i 60… sono soltanto alla metà? Mi scompensa questo pensiero. La vita sarà in futuro composta da un’infanzia sempre più corta, un’adolescenza troppo prolungata, e una vecchiaia largamente prevalente? Questo non sta già producendo da tempo distorsioni inquietanti nella nostra società? Non pretendete che io dia risposta a questi interrogativi nel romanzo, non li do e non saprei darli. Non credo nemmeno sia compito dei romanzi dare risposte o insegnamenti come se i lettori fossero degli ingenui “da istruire”. Credo che un romanzo possa e debba invece offrire delle occasioni narrative per riflettere e perché ciascuno possa trovare le sue risposte. Non bisogna mai negare al lettore questa sua libertà. Uno scrittore non deve mai supporre di essere più intelligente di chi lo legge. Pena fare la figura del saccente, o peggio, del fesso.
Il tema dell’immortalità mi è caro, se non altro perchè mi permise di vincere con un mio raccontino intitolato “L’archivista” un giochino letterario sul blog di Laura & Lory , due care amiche che ho conosciuto grazie a Letteratitudine, e Laura (Costantini) è anche presente in questo stesso post, un pò più sopra, e la saluto con affetto.
Quello che penso dell’immortalità è sintetizzato proprio in quel racconto (chi per curiosità lo volesse leggere lo trova scorrendo questa pagina):
http://lestoriedilauraetlory.splinder.com/tag/highlander
Per chi non ne avesse voglia posso sintetizzare che la riterrei insopportabile, una sorta di condanna eterna come un inferno. Temo che il prolungamento del tempo, la sua estensione sino all’infinito non possa che renderci più piccoli di quello che già siamo, che lentamente prosciughi la nostra capacità di emozionarci, di meravigliarci, in pratica che ci ridurrebbe ad uno stato di morti – non morti. E in fondo mi spaventerebbe anche solo il prolungamento della vita oltre i 100-150 anni (di cui tanto si parla), che mi pare già un inutile appendice della vecchiaia. Mi viene in mente in proposito la famosa battuta di Woody Allen: “Ho smesso di fumare. Vivrò una settimana in più e in quella settimana pioverà a dirotto.”
Il tema dell’immortalità mi è caro, se non altro perchè mi permise di vincere con un mio raccontino intitolato “L’archivista” un giochino letterario sul blog di Laura & Lory , due care amiche che ho conosciuto grazie a Letteratitudine, e Laura (Costantini) è anche presente in questo stesso post, un pò più sopra, e la saluto con affetto.
Quello che penso dell’immortalità è sintetizzato proprio in quel racconto (chi per curiosità lo volesse leggere lo trova scorrendo questa pagina):
http://lestoriedilauraetlory.splinder.com/tag/highlander
Per chi non ne avesse voglia posso sintetizzare che la riterrei insopportabile, una sorta di condanna eterna come un inferno. Temo che il prolungamento del tempo, la sua estensione sino all’infinito non possa che renderci più piccoli di quello che già siamo, che lentamente prosciughi la nostra capacità di emozionarci, di meravigliarci, in pratica che ci ridurrebbe ad uno stato di morti – non morti. E in fondo mi spaventerebbe anche solo il prolungamento della vita oltre i 100-150 anni (di cui tanto si parla), che mi pare già un inutile appendice della vecchiaia. Mi viene in mente in proposito la famosa battuta di Woody Allen: “Ho smesso di fumare. Vivrò una settimana in più e in quella settimana pioverà a dirotto.”
Sul limite per la scienza non mi pronuncio: è molto labile e mi pare che si spinga sempre più avanti, in base ai suoi progressi. E quello che ieri appariva oltraggioso oggi riesce ad apparire normale. Stabilire oggi quale debba essere il limite invalicabile, valido per qualsiasi “domani” è pura follia. Penso sia più ragionevole stabilire delle regole per l’oggi, rivedibili in qualsiasi momento, e che si limitino ad assicurarne un “buon uso”.
Quanto al libro della Wollstonecraft- Shelley lo lessi da ragazzo, e mi piacque enormemente, ritenendolo subito superiore a tante altre letture gotiche fatte a quell’epoca. Ma in effetti dovrei rileggerlo, riscoprirlo con nuovi occhi, depurandolo dalla memoria visiva di tanti adattamenti cinematografici a partire da Boris Karloff fino al Frankenstein Jr. di Mel Brooks, che peraltro mi fece fare grandi risate.
Ed infine non mi resta che parlare del romanzo di Manfredi, l’impresa più ardua perchè ancora non l’ho letto. Ma Luciano Comida è sempre un buon punto di riferimento per orientare le letture, quindi mi fiderò di lui. Anche per avermi riportato alla memoria un Gianfranco Manfredi cantante, che all’epoca apprezzavo molto, e resomi anche noto un Gianfranco Manfredi fumettista, che ignoravo e che ora mi incuriosisce. Bella recensione, Idefix, credo vada dritta al segno.
Carissimo Carlo,
ho letto il tuo racconto e devo dire che è magistrale. Inizialmente mi aveva ricordato le atmosfere di Melville e di “Bartleby, lo scrivano”, per quelle muffe che spesso i vecchi registri e archivi sboffano. Per le polveri che fanno starnutire e gli occhialini da appendere sul naso. Ma poi, no…mi son detta. No.
Qui c’è un’originalità da pensatore. Qui la vita irrompe quando il vecchio archivista decide di posare le sue radici accanto al pino millenario.
Che modo meraviglioso per parlare della differenza dell’eternità per un uomo e per una pianta.
L’uno che si aggira senza radici se non ha scadenza. L’altra che, senza scadenza, rimane piantata alle sue radici.
Mi fa molto riflettere.
Forse la morte non segna solo il nostro tempo.
Ma anche la nostra identità.
Bravissimo. Un bacio
Avete mai letto il romanzo “Frankenstein” di Mary Wollstonecraft, sposa del poeta romantico Percy Bysshe Shelley? Se sì, cosa ne pensate? Che sensazioni ha suscitato in voi?
L’ho letto da ragazzina e amato tantissimo.La sensazione più forte,che poi ho riprovato anche vedendo il film, è stata una enorme pena per la creatura con la sua solitudine e il suo destino di “diverso”.
Se grazie a una sorta di sperimentazione tecnologica vi venisse offerta la possibilità di “vivere per sempre” (a voi e solo a voi)… accettereste? Se sì, a quali condizioni?
Sono sicura che rifiuterei sia pure con qualche rimpianto perchè la curiosità di vedere come andrà a finire l’avventura umana è forte,ma il prezzo sarebbe altissimo:vedere tutti coloro che amo morire, dover affrontare SOLA tempi che nonsono i miei questo è il vero orrore.Comunque posso rassicurarvi: l’immortalità non è possibileper alcune leggi della fisica che non è il caso di affrontare qui.
A prescindere da qualunque considerazione di natura religiosa… sarebbe “morale” accett are?
Non penso che ci sia nulla di immorale nell’accettare.Non lo farei ma posso capire che altri la pensino diversamente.
– Ci sono limiti oltre i quali la scienza medica non dovrebbe spingersi?
Se parliamo di ricerca non credo ci debbano mai esserci limiti,poi sulle applicazioni credo che il limite sia sempre il rispetto della dignità di ogni essere umano,anzi di ogni essere vivente.
Riflettendo sul tema dell’immortalità avete fatto caso che mentre nella letteratura greca e latina essa è generalmente un premio per gli esseri umani, nelle letterature moderne è sempre una condanna?(Mathurin,L’ebreo errante ,Ponzio Pilato…)
E se a qualcuno di voi venisse la curiosità di conoscere il Manfredi autore di fumetti, metto lingua pure qui con un paio di suggerimenti.
La sua saga di Magico Vento (purtroppo conclusa proprio questo mese…ma tra poco ci sarà in edicola uno speciale) è molto particolare: certamente un western ma raccontato da un punto di vista insolito (un bianco diventato sciamano dei Sioux), certamente con molti episodi thrilling o gotici (con tanto di creature pre-colombiane e di psicopatici, di fantasmi e altro che non vi dico) ma anche un ciclo saldamente politico e agganciato alla storia degli Usa e in particolare alle guerre del governo statunitense contro gli indiani, certamente un fumetto d’avventure toste ma anche aperto a radure “sentimentali”, certamente un’opera con guizzi di humour ma segnata da tragedie (alcuni dei personaggi principali moriranno), certamente episodi che si possono apprezzare autonomamente ma per sprigionare in pieno le loro potenzialità vanno inseriti nell’affresco completo (perchè in MV la trama si evolve numero dopo numero). Ecco dunque che il modo migliore per gustare Magico Vento è (adesso che è finito) attraversarlo dal primo episodio all’ultimo, come un lunghissimo ed epico romanzo di 13.000 pagine.
Sul sito della Bonelli (http://www.sergiobonellieditore.it/auto/cpers_index?pers=magico) potete ordinare gli arretrati, tutti disponibili a 2,70 euro.
Vi propongo una mini-visita nel mondo di Magico Vento, suggerendovi alcuni episodi che a me piacciono molto e che si possono leggere abbastanza indipendentemente dal resto del ciclo:
17 Il collezionista,
35 La luna delle foglie cadenti,
36 La fuggitiva,
40 Il clan della tigre,
50 Fango.
Oltre a Ned Ellis (il nome di Magico Vento prima del suo arrivo tra i Sioux) conoscerete alcuni altri personaggi molto forti, tra cui alcune donne. E l’amico di MV: Willie Richard, detto Poe perchè somiglia molto a Edgar Allan, un giornalista che ha rotto le scatole ai potenti e dunque vive ai margini.
Grazie a tutti per i numerosi commenti pervenuti.
@ Gianfranco
Grazie a te per essere qui.
Davvero.
Come vedi c’è tanta carne al fuoco… e gli spunti per una bella discussione, non mancano.
Ancora un ringraziamento speciale a Luciano per la recensione e per la sua presenza…
Prima che mi dimentichi…
desideravo segnalarvi (su La poesia e lo spirito) questa intervista a Claudio Vergnani su “Il 36° giusto” (Gargoyle, 2010): http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2010/10/15/il-36%c2%b0-giusto-intervista-a-claudio-vergnani/
Un caro saluto e ringraziamenti a: Aurelio, Vito, Ausilio, Laura (bentornata, mia cara!)…
@ Tessy
Mia cara e dolce Tessy, ancora 100 di questi anni.
Idem per il prof. Emilio.
Forza, ragazzi!!!
Ancora saluti e ringraziamenti per: Salvo, Amelia, Maria Lucia, Simona, Carlo (ottimo racconto, Carlo… non per nulla sei uno degli autori – insieme a Laura – di “Roma per le strade)… 😉
Un saluto anche alla cara Emy (con ringraziamento, s’intende).
Nei prossimi giorni, in collaborazione con l’ufficio stampa Gargoyle, fornirò ulteriori informazioni su “Tecniche di resurrezione”.
Intanto, di seguito, la minibiografia artistica di Gianfranco Manfredi.
Dovevo inserirla ieri sera, ma mi sono dimenticato…
Cantautore, sceneggiatore, attore, scrittore, Gianfranco Manfredi nasce a Senigallia nel 1948 ma si trasferisce a Milano all’età di otto anni. Studia Filosofia e si laurea con Mario Dal Pra. Agli inizi degli anni Settanta, si divide tra la ricerca universitaria sull’Illuminismo francese e l’attività di cantautore: escono gli album La crisi (1972), Ma non è una malattia (1976), e il saggio L’amore e gli amori in Jean-Jacques Rousseau (1978). A un passo dall’ottenimento della cattedra in Storia della Filosofia, Manfredi decide di dare spazio esclusivamente alla sua vena artistica. Come cantautore realizza gli album Biberon, 1978; Liquirizia, 1979 (colonna sonora dell’omonimo film di Salvatore Samperi); Gianfranco Manfredi, 1981; Dodici, 1985 (in coppia con Ricky Gianco); In Paradiso fa troppo caldo, 1993; Danni collaterali, 2003; firma, altresì, brani per interpreti del calibro di Mia Martini (Io donna, io persona, 1976), Gianna Nannini (Riprendo la mia faccia, 1977), e Gino Paoli (Parigi con le gambe aperte, 1988). Inoltre, comincia a lavorare per il cinema come sceneggiatore: Samperi (Liquirizia, 1979, e Fotografando Patrizia, 1981) e Steno (Quando la coppia scoppia, 1981) sono solo alcuni dei registi con cui collabora. Come attore recita in Un amore in prima classe, 1980, e Fotografando Patrizia, è protagonista del Tv movie Kamikaze di Corbucci (1986), ed è tra gli interpreti di Via Montenapoleone di Carlo Vanzina (1987). Nel contempo inizia a farsi conoscere come romanziere distinguendosi da subito per la sua raffinata propensione a ibridare i registri narrativi e a rimaneggiare in modo del tutto nuovo i tòpoi della letteratura di genere, ottenendo il plauso di personalità come Oreste Del Buono e Pier Vittorio Tondelli. È autore di: Magia Rossa (Feltrinelli 1983, Gargoyle 2006), Cromantica (1985), Ultimi vampiri (Feltrinelli 1987, Gargoyle 2009 in Extended Version), Trainspotter (1989), Il peggio deve venire (1992), Una fortuna d’annata (2000) e Il piccolo diavolo nero (2001), Ho freddo (Gargoyle 2008, http://www.hofreddo.it – finalista Premio letterario Francesco Alziator – Comune di Cagliari 2009), Tecniche di resurrezione (Gargoyle 2010). Manfredi è, inoltre, il creatore delle seguitissime serie Magico Vento (tradotta in diversi Paesi, attualmente al vaglio di opzioni cinematografiche americane) e di Volto Nascosto, editi dalla Sergio Bonelli.
Gianfranco Manfredi vive e lavora a Gordona (Sondrio).
Per oggi chiudo qui.
A tutti voi, una serena notte.
Ciao a tutti,
avendo appena finito di leggere “Tecniche di resurrezione”, volevo intervenire nella discussione. Non svelerò nulla della trama; quello che mi preme sottolineare è come “Tecniche” sia un libro che si presta a più strati di lettura: è trascinante, avvincente, inquietante, ma al tempo stesso profondo e intelligente. Si inserisce insomma nel miglior tipo di letture: quelle che ti spingono a riflettere senza che tu te ne accorga. Un intrattenimento intelligente che ti spinge a pensare, senza pedanteria. Bravo!
Discussione di grandissimo interesse. Per il momento nulla da aggiungere, se non fare i complimenti a Gianfranco Manfredi di cui ho letto anche i fumetti di Magico Vento.
Devo una risposta a Ausilio Bertoli , anzi due, e lo faccio subito prima che si scocci di restare in attesa.
1. Mi occupo nei miei romanzi della Morte per esorcizzarla? No, non credo. Me me occupo perchè noto che tutti mettono in scena cadaveri, delitti, massacri, ma pochissimi affrontano il tema della morte, che continua ad essere un inconfessato tabù. Perché non parlarne? Dopotutto è una delle poche cose assolutamente certe della vita. Non sappiamo cosa ci capiterà da vivi, ma di sicuro ci capiterà di morire… allora perché non ne parliamo? L’esorcismo sta piuttosto nel non curarsene.
2. Dove ho trovato le competenze necessarie a scrivere una storia clinica di medici, e a seguirne le complicazioni “esoteriche”? Dalla documentazione. Sono andato a studiarmi trattati medici d’epoca, anche scritti in latino (!) e una quantità di altri testi e cronache del tempo su sette, complotti eccetera eccetera. Per me è normale studiare, anche se so che molti scrittori non amano farlo e molti lettori pensano che le idee debbano scaturire solo dalla fantasia e non richiedano studio. Una volta sceneggiavo una serie televisiva che aveva per protagonisti dei Colletti Bianchi di un’agenzia assicurativa. Prima di scriverla, mi sono andato a studiare come funzionano le aziende assicurative, come viene scritta una polizza, quali casi di contenzioso si verificano più spesso, eccetera eccetera. I colleghi mi dicevano: ma perché perdi tutto ‘sto tempo? Tanto il pubblico non lo sa come funziona una vera ditta di assicurazioni, dunque puoi inventarti quello che ti pare. Però ho imparato per esperienza che gli scrittori che non si documentano, non sono affatto più originali e immaginativi, anzi scrivono tutti le stesse cose… dopotutto una storiella sentimentale può essere ambientata indifferentemente in una clinica, in un’azienda, o in un condominio. Così però si scrivono solo delle banalità ripetitive. Doctor House non si può scrivere se non ci si documenta sulle malattie rare. Le serie americane spesso sono migliori delle nostre, perché gli autori si documentano. La documentazione esalta l’immaginazione, non la deprime. E non è necessario essere degli esperti, aver fatto il medico per tutta la vita, per scrivere di medicina. Come non è affatto necessario aver fatto il killer professionista per scrivere di malavita. Basta fare qualche ricerca e leggere. Senza leggere di tutto non si scrive bene di niente.
Grazie Simo del tuo apprezzamento per il mio breve racconto.
Grazie a Luciano delle informazioni aggiuntive su Gianfranco Manfredi e la sua opera di fumettista.
Intanto cerco il libro (alla peggio ho visto che ibs lo consegna in 24 ore), che mi intriga assai.
Anche il discorso sulla documentazione, qui sopra, è indice di serietà da parte dell’autore, che spesso latita in diversi altri scrittori. Mi pare invece indispensabile , specie in caso di ambientazioni storiche (e qui la “scuola ” anglosassone è maestra).
Trovo molto interessanti sia la discussione sia il libro di Manfredi a cui vano le mie congratulazioni.
Nei prossimi giorni, se posso, vorrei dare le mie risposte alle domande.
Grazie per la bella risposta.
Leggerò senza paura.
Scusate, quella di prima ero io.
@ Gianfranco Manfredi
Grazie per la bella risposta.
Leggerò senza paura.
Vi svelo un segreto (nemmeno tanto nascosto) di Gianfranco Manfredi: è uno che studia e si documenta in modo serio e approfondito.
Appartiene poi alla bravura del romanziere che tutto questo lavoro non appaia in modo evidentissimo e pesante. Un po’ come quando si va a fare una crociera di piacere: il prezioso lavoro della sala macchine, del timoniere, del capitano, dell’equipaggio, di tutto il personale di bordo compresi i magazzinieri e quelli che nettano i cessi resta “nascosto” e noi ci godiamo il viaggio.
Noi passeggeri e noi lettori.
Mentre riflettevo sui nostri commenti, ho pensato che sarebbe interessante scrivere due libri:- “ Il senso del limite”- e dopo avere analizzato ogni anfratto dell’assurdo comportamento umano, rispolverare le arcaiche norme del Bon Ton, (forse ipocrite?!) nel volume aggiornato “ Il galateo dello spirito”.
Sarebbe comunque una linea guida, per le attuali e arroganti generazioni di bulli. Infatti, nel diffuso e morboso clima di alienazione, ci siamo talmente abituati a stendere nelle piazze televisive, i nostri panni sporchi, con furibonde risse ad ogni ora del giorno, che la vita sobria riservata, intessuta di doveri ( non solo di diritti), è divenuta un’eccezione. Dopo aver ben ponderato il – non senso della vita – in tutte le sue derivanti incongruenze, inalberiamo sull’antenna di ogni casa, la lisa bandiera della Speranza @ Esimio scrittore Manfredi, ben lungi da me, l’idea di non comprendere il significato del Suo meraviglioso libro, degno di ammirazione e di grande rispetto per lo stile impeccabile e le accurate ricerche storiche. In genere, quando non conosco bene l’autore e le opere, scrivo una delle mie ironiche scempiaggini, pur di partecipare alla discussione di tanti amici. Leggendo una Sua risposta sul – senso della vita-, mi sono chiesta quale sia la bussola interiore che La spinge a orientarsi
sui temi inquietantidell’orrido? Secondo Lei, è più facile scrivere una trama incentrata sulle perversioni della mente, che generino efferati delitti, o una storia a lieto fine (dove arrivano i nostri a punire i cattivi ?). Grazie. @ Massi caro, mi ci vedi a farneticare, farfugliando, ancora per un secolo? Come già scrissi, preferisco affogare in una tinozza di cioccolato … a proposito, potrei andare a Perugia, dove il denso cibo degli dei, sta dilagando per la città.
La tua ultra stagionata ragazzuola. Mi scuso per i pasticci col computer Tessy @ Gentilissimo professor Emilio, Le sono infinitamente grata delle confortanti parole. Lo spirito è pronto ma, tutto il resto è pieno di vistosi rattoppi, inoltre la mia “non vita”, mi comincia a pesare.
Già, e se per caso sull’ estesa ferraglia al titanio, qualche ardito chirurgo, dopo aver divorato l’accattivante libro. volesse sperimentare, un nuovo tipo di “ Tecniche di Resurrezione ” ?
Come la mettiamo ? Lei mi verrebbe a salvare? Un radioso saluto
@ Adorabile Salvo, come ti ho promesso, stringerò l’anima con i denti, per attendere la pubblicazione del tuo capolavoro.
Birichino, birichino, non si fanno questi scherzetti alle suocere.
Il pesciolino aveva anche le lische?
E Poi, con l’aria che tira, chi ti assicura che qualche bottegaio furbetto, silente paladino di noi suocere, non ti abbia già propinato qualche croccantino per gatti?
Un delicato graffietto dalla morbida zampetta della tua immarcescibile. Tessy
Non l’ho letto però conosco la storia. Non accetterei di diventare immortale anzi se devo essere sincera (ho 48 anni) mi spaventa il futuro e sono preoccupata per i miei figli. La memoria è lo strumento più interessante per regalare immortalità agli umani, il corpo non è così fondamentale!Per quanto riguarda la scienza penso che dei limiti siano necessari anche se alla fine la censura dovrebbe colpire non tanto la ricerca quanto l’uso che viene fatto delle scoperte scientifiche.
@ Gianfranco Manfredi
Ho molto apprezzato la risposta.
E’ vero: senza leggere di tutto non si scrive bene di niente.
Con stima, cordialmente.
Cari amici,
trovo una pallida forza per scrivere che solo martedì scorso è morta mia madre.
Il rispetto che Le porto e che sento verso il mistero della vita e della morte è tale da impormi un profondissimo silenzio…Tutto qui.
Ma voi scrivetemi parole d’affetto, ne ho bisogno.
Rossella
Carissima Rossella,
apprendo con dolore questa terribile notizia. Quando una madre se ne va, è come se le nostre radici venissero recise. Ti rivolgo un abbraccio affettuoso e solidale da parte mia e di tutti gli amici di Letteratitudine. E ti auguro con tutto il cuore di trovare la forza per superare la mancanza.
Forza, Rossella!
tuo Massimo
Per oggi chiudo qui (anche per rispetto per Rossella).
Auguro a tutto voi un buon sabato sera.
Tornerò a intervenire domani.
Grazie a tutti per la partecipazione.
Rossella: pochi minuti fa mi ha telefonato un mio amico, per dirmi che sua mamma è morta.
E allora dico a te le stesse cose che ho detto a lui: un abbraccio da me e Tatjana.
Cara Rossella,
non so come abbracciarti, attraverso questo mezzo che non mi fa vedere il tuo volto e sentire il suono delle tue parole. Ma immagina un mio affettuosissimo abbraccio. E un pensiero d’amore per la tua carissima madre.
Ti auguro una dolce notte d’autunno,
Gaetano
@ Un abbraccio anche da parte mia, cara Rossella. Conosciamo tutti la tua sensibilità e ti siamo vicini.
sono molto attratto dal romanzo “tecniche di resurrezione” e dalle tematiche che sono state proposte. Manfredi mi piace, per quello che ha scritto qui. Grazie per avermi fatto conoscere questo libro.
Anche io vorrei stringere Rossella in questo abbraccio, e spero di vederla tornare presto qui.
@ Tessy. Non sono contrario a priori al Lieto Fine, purché non sia un obbligo. Il lieto fine obbligato e prescritto diventa prevedibile e dunque non è più così lieto. Se i personaggi sono predestinati a “vivere felici e contenti”, le loro sudate esperienze perdono valore. Se è troppo facile vincere, un eroe non è più un eroe, e un uomo comune è troppo fortunato per essere vero e dunque non è più così comune. Che fine fa l’effetto catarsi se fin dal principio della storia si sa che finirà bene? Insomma… il finale Lieto è tanto più Lieto quando giunge come una specie di Grazia inattesa oppure come frutto di una dura conquista. Non si riesce a consolare nessuno, se non si partecipa davvero alle sue sofferte esperienze e al suo dolore. (Cosa che state testimoniando con condoglianze non di maniera all’amica Rossella, che ha scritto delle bellissime parole sul “silenzio che si impone”. La scrittura del resto, la letteratura, nascono dal silenzio, non dal caos delle comunicazioni continue, non è un “gridare più degli altri”, ma il bisogno di manifestare in parole quell’inesprimibile che cominciamo a conoscere grazie al silenzio).
Cara Rossella, ti stringo forte al cuore con tenerezza, sentimi vicina e
partecipe. Lei dal cielo continuerà ad amarti e ti proteggerà.
Pregherò per Lei e per te, affinché tu possa sentirti meno sola e avvolta
dal calore della nostra sincera amicizia.
Un caloroso abbraccio.
Tessy
Ci sono scrittori (anche famosissimi) che: più li senti intervenire e più ti passa la voglia di leggere le loro opere.
Ci sono altri scrittori (anche poco noti) che: più li senti intervenire e più ti domandi: “ma perchè mai non l’avevo letto prima?”
La miglior pubblicità per Gianfranco Manfredi è assaggiare ciò che scrive.
A Manfredi vorrei chiedere se a suo parere in un romanzo sia più importante riuscire a inventarsi grandi personaggi che rimangano impressi nella mente dei lettori, o riuscire a creare belle storie, trame avvincenti e originali che non abbiano nulla di scontato.
Segnalo la recensione di Sergio Pent a “Tecniche di resurrezione” apparsa su Tuttolibri della Stampa di ieri, leggibile qui:
http://www3.lastampa.it/tuttolibri/sezioni/edicola/articolo/lstp/49281/
Sto leggendo con gusto tecniche di resurrezione di Gianfranco Manfredi. Lo consiglio a tutti. Ciao
@ Rossella
Ti rinnovo il mio abbraccio, cara Rossella.
@ Gaetano
Ben fatto! Mi hai preceduto. :-))
Davvero molto bella la recensione di Sergio Pent (su Tuttolibri della Stampa) dedicato a “Tecniche di resurrezione” di Gianfranco Manfredi.
Consiglio a tutti di dare un’occhiata.
(Domani inserirò il testo dell’articolo di Pent tra i commenti).
La discussione sul nuovo romanzo di Gianfranco Manfredi e sui temi proposti continua…
Per oggi però devo chiudere qui.
Ne approfitto per augurare a tutti una buona domenica sera e un buon inizio settimana.
Vorrei dare anche io il mio abbraccio fortissimo alla cara Rossella in questo momento così doloroso. Da una madre non ci si stacca mai del tutto anche se la vita l’ha strappata via, spero che lei possa trovare conforto custodendo dentro di sé i ricordi più belli e dolci della mamma e poter continuare quel dialogo materno nei giorni a venire.
un abbraccio sentito da Francesca
Ciao a tutti, sono una appassionata di Frankenstein e della Shelley. Prima di tutto però saluto Gianfranco Manfredi. Ho letto ‘Ho freddo’ e l’ho consigliato a destra e a manca. Credo farò lo stesso con questo libro, anche se ancora devo leggerlo.
Ho chiesto il permesso al responsabile del blog di proporvi alcuni testi su Frankenstein e la Shelley (divulgare è sempre importante). Mi è stato detto di sì, con la raccomandazione di spezzare i testi troppo lunghi.
Dunque, procedo.
Frankenstein, o il moderno Prometeo (Frankenstein: or, the modern Prometheus) è un romanzo scritto dall’inglese Mary Shelley fra il 1816 ed il 1817, pubblicato nel 1818 e rimodificato dall’autrice per una seconda edizione del 1831. È questo il romanzo che genera il nome del dottor Victor von Frankenstein ed il personaggio della creatura, spesso ricordata come mostro di Frankenstein, i quali a livello popolare sono erroneamente ricordati sotto lo stesso nome.
È probabilmente grazie alla figura del mostro, espressione della paura, al tempo diffusa, per lo sviluppo tecnologico, che il romanzo è divenuto immortale. Frankenstein è uno dei miti della letteratura proprio perché affonda le sue radici nelle paure umane. La “creatura” è l’esempio del sublime, del “diverso” che in quanto tale causa terrore.
Dalla pubblicazione del libro, il nome di Frankenstein è entrato nella cultura popolare, in ambito letterario, cinematografico e televisivo. È inoltre spesso utilizzato, per estensione, come esempio negativo in quello bioetico, alludendo al fatto che il suddetto dottore compisse esperimenti illeciti o eticamente discutibili.
LA GENESI DEL ROMANZO
Maggio 1816: la sorellastra di Mary Shelley, Claire Clairmont, diventata l’amante di lord Byron, convince i coniugi Shelley a seguirla a Ginevra. Il tempo piovoso confina spesso i dimoranti in albergo e questi occupano il tempo libero leggendo storie di fantasmi tedesche tradotte in francese. Byron propone allora di comporre loro stessi una storia di fantasmi: tutti cominciano a scrivere, ma Mary non ha sùbito l’ispirazione.
Intanto le lunghe conversazioni degli uomini vertono sulla natura dei princìpi della vita, su Darwin, sul galvanismo, sulla possibilità di assemblare una creatura e infondere in essa la vita. Tali pensieri scatenano l’immaginazione di Mary e portano all’incubo che è all’origine del grande mito gotico: uno studente che si inginocchia di fianco alla creatura che ha assemblato; creatura che, grazie ad una qualche forza, comincia a mostrare segni di vita.
Mary inizia il racconto decisa a ricreare quel terrore che essa stessa ha provato nell’incubo: il successo dello scienziato nell’animare la creatura l’avrebbe terrorizzato ed egli sarebbe scappato dal suo lavoro, sperando che, abbandonato a se stesso, l’essere sarebbe morto; ma la creatura rimane sconcertata dalla sua solitudine (“Satana aveva i suoi compagni che lo ammirassero ed incoraggiassero; ma io sono solo”) e avrebbe voluto delle spiegazioni, similmente a quelle di Adamo del Paradiso Perduto di John Milton che compaiono all’inizio del testo:
(EN)
«Did I request thee, Maker, from my clay
to mould me man., did I solicit thee
from darkness to promote me…? »
(IT)
« Ti chiesi io, Creatore, dall’argilla
di crearmi uomo, ti chiesi io
dall’oscurità di promuovermi…? »
(John Milton, Paradiso perduto)
Il marito spinge Mary a sviluppare maggiormente la storia che viene continuata in Inghilterra.
All’uscita anonima l’11 marzo 1818 le critiche sono sfavorevoli: dicono che il romanzo non insegna nessuna condotta morale e che affatica i sentimenti senza coinvolgere la mente. Walter Scott però scrive che l’autore è dotato di una buona capacità d’espressione e di un buon inglese. L’unico indizio che porta all’autore è la dedica a William Godwin, che i critici attribuiscono a Percy Bysshe Shelley, il suo più famoso discepolo. Ma Frankenstein non è una celebrazione dei razionali principi godwiniani, bensì una lezione morale e forse anche politica su quali azioni possano essere difese come ragionevoli (nella parte centrale, quando la creatura narra la sua storia). I critici tuttavia preferiscono non badare a questo evidente sottofondo e catalogano il romanzo come un’orribile storia movimentata.
In ogni caso Frankenstein, come Dracula, è subito un best seller e i critici rimangono spiazzati quando nella seconda edizione l’autore si rivela un’autrice (scrivono “per un uomo era eccellente ma per una donna è straordinario”), e per giunta molto giovane (21 anni).
Alcuni critici hanno voluto vedere nel talento della scrittrice il riflesso delle doti di Percy Shelley; non è esattamente così ma certo c’è molto del marito nell’opera di Mary.
Shelley aveva fede nei poteri creativi degli uomini, ma Mary dimostra fino a che punto questi possano spingersi se liberati in un contesto scientifico. Percy Shelley sembra così essere il modello iniziale per l’ambizioso scienziato, con cui ha in comune la passione per la scienza (da giovane utilizzava strumentazioni chimiche, specialmente elettriche). Victory – come Victor era il protagonista del romanzo – era per giunta il nome che Percy aveva scelto per sé stesso.
Mary parla di una doppia esistenza di suo marito: un aspetto superficiale afflitto da sofferenze e delusioni, ma uno spirito celeste all’interno. Questa sorta di sdoppiamento è comune anche a Frankenstein, il quale sente a un certo punto di essere immerso in una tranquillità interiore come non era da tempo.
In un suo componimento Shelley esalta la bellezza della morte e il suo potere tetro; Frankenstein dichiara che per esaminare le cause della vita bisogna far ricorso alla morte, osservare il naturale decadimento del corpo umano recandosi presso tombe e crematori.
Uno degli ospiti di casa Godwin è Humphry Davy, famoso chimico sperimentatore; Mary si avvicina ai suoi trattati che portano lo stesso messaggio del professor Waldman di Ingolstadt (insegnante di Frankenstein), ovvero che la scienza ha fatto molto per l’umanità, ma può fare ancora di più. Così Frankenstein dichiara di voler esplorare nuove vie, nuovi poteri fino ad arrivare ai misteri più profondi della creazione. L’autrice non ambisce però a spingersi tanto oltre, come dimostra la morale dell’opera; secondo alcune interpretazioni cerca invece di avvertire il mondo dal pericolo del manipolare forze più grandi dell’uomo. Non va dimenticato che la Shelley vive nell’era del nascente capitalismo. Già Godwin, suo padre, aveva ravvisato il pericolo di anteporre gli scopi scientifici alle responsabilità sociali, dichiarando che la conoscenza sarebbe divenuta presto fredda senza la coerenza con l’umanità.
L’università di Ingolstadt è la stessa del Faust di Christopher Marlowe, dove si studiavano testi alchemici riguardanti la ricerca della vita eterna e della pietra filosofale (la leggendaria sostanza capace di trasmutare il ferro in oro).
Mary Shelley ha letto Rousseau, dal quale proviene l’idea di una condizione d’innocenza in cui vive la creatura prima di essere corrotta dalla società e dalle persone. La ragazza araba si chiama Safie, similmente alla Sophie dell’Emile di Rousseau. Agatha potrebbe invece aver preso il nome dall’omonimo personaggio de Il monaco di Lewis.
William GodwinForte è poi l’influenza del padre: William Godwin in Political Justice sostiene che istituzioni come il governo, la legge o il matrimonio, seppur positive, tendano a esercitare forze dispotiche sulla vita della gente. Egli aspira ad un nuovo ordine sociale basato sulla benevolenza universale, contraddicendo la visione seicentesca di Thomas Hobbes di una società essenzialmente egoista. Non c’è da stupirsi quindi se la creatura, completamente estraniata dalla società, si consideri come un demone malefico e chieda giustizia proprio in senso godwiniano: “Do your duty towards me”. La creatura desidera infatti che lo scienziato gli crei una compagna. In un primo compassionevole momento Frankenstein accetta la richiesta, ma successivamente distrugge la nuova creazione, temendo che una “razza di diavoli si possa propagare sulla Terra”. L’essere si vendica uccidendo l’amico di Frankenstein Clerval e sua moglie Elizabeth.
C’è in Frankenstein, più in generale, una reminiscenza di stile e personaggi del repertorio godwiniano.
Altra influenza nell’opera di Mary Shelley è quella della Ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge, che Mary e la sorellastra Claire avevano la fortuna di sentir recitare dal vivo nella casa paterna. Come il marinaio Walton parte per la terra “of mist and snow”, ma assicura la sorella che non ucciderà nessun albatross. L’intento della narrazione di Victor è quello di dissuadere Walton dalle sue pericolose ambizioni: “learn my miseries, and do not seek to increase your own” e cita anche direttamente una stanza dell’Ancient Mariner (pag 60):
« Like one who on a lonesome road
“Doth walk in fear and dread,
And having once torned round walks on,
And turns no more his head;
Because he knows, a frightful fiend (demonio)
Doth close behind him tread” (passo) »
Da qui si instaura l’inesorabile tema dell’inseguimento tra creatore e creatura che prosegue nel resto della trama.
Anche il Don Chisciotte, libro che Mary leggeva durante la vacanza sulle Alpi, fa sentire la sua influenza: sia Don Chisciotte che Frankenstein partono con l’intenzione di aiutare i loro simili ma giungono pian piano ad un tragico personale epilogo.
In ogni caso Mary Shelley non sembra “rubare” elementi specifici di altri autori, ma piuttosto sembra sfruttare le sue numerose conoscenze letterarie.
Per l’autrice di quello che è generalmente considerato il più grande mito gotico di tutti i tempi, la presenza di alcune opere come retroterra letterario è scontata: ha infatti letto I misteri di Udolpho (1794) e L’italiano (1796) di Ann Radcliffe, Il monaco di Matthew Gregory Lewis, Vathek di William Beckford. Quest’ultimo si rifiuta di ammettere Frankenstein all’interno del genere gotico, per lo stile realistico delle sue descrizioni, che producono un effetto molto più potente dello stile rifinito di Beckford. In effetti Frankenstein è diverso dal tradizionale gotico in cui gli elementi naturali rimangono intatti. Quella natura che ci circonda tanto amata nel Settecento viene fortemente invasa. È Victor stesso a dichiarare di voler sconfiggere ogni malattia e debolezza umana.
Vi sono alcuni punti però che possono accostare Frankenstein al gotico, come l’ansia data per la mancanza di una via d’uscita ed il fatto che entrambi i protagonisti vogliano perseguitarsi fino alla morte di uno di loro. Man mano che si procede verso la fine della storia i loro percorsi si fanno sempre più intrecciati, fino a ricordare un Doppelgänger Motiv. Il romanzo può dunque rientrare in un tipo di gotico moderno che illustra l’aspetto più importante di questo genere e cioè la mancanza del rapporto tra causa ed effetto o comunque la sua debolezza. Successivamente l’opera è stata anche considerata il primo romanzo di fantascienza.
Una domanda per Gianfranco Manfredi:
In che modo l’opera della Shelley ha influenzato la sua formazione di scrittore? E che relazione c’è tra ‘Tecniche di resurrezione’ e ‘Frankenstein’?
@ Salvo. Quando avevo appena cominciato a scrivere romanzi, cioè al principio degli anni 80, sulle pagine culturali dei giornali, ci si lamentava spesso del fatto che i romanzi italiani fossero poveri di “plot”, cioè in sostanza che si badasse di più all’argomento o allo stile che alla “storia” e alla sua struttura. Poi è spuntata, piano piano, una nuova generazione di scrittori, tra i quali molti esordienti nel “giallo”, che invece al plot davano molta importanza, anche a costo di trascurare lo stile o semplificarlo molto, uno stile diretto, semplice, scandito con frasi brevi e dialoghi diretti, quasi da sceneggiatura. A mio parere, però, e questo non riguardava soltanto la letteratura italiana, non si vedevano spuntare personaggi nuovi e memorabili. Di quei personaggi, voglio dire, che diventano famosi e indimenticabili anche per chi non ha letto i romanzi in cui apparivano. Tanto per stare al tema, Frankenstein, Dracula, il Dottor Jekyll, tutti sappiamo chi sono, e chiunque saprebbe spiegarlo, anche se non ha mai letto le opere che li hanno resi immortali. La letteratura contemporanea è molto povera di nuovi personaggi, mentre il cinema, la televisione e i fumetti hanno invece continuato a proporne. In tempi recenti, di Personaggi-Che-Tutti-Sanno-Chi-Sono si potrebbe citare Harry Potter, sicuramente, e non a caso è un personaggio che ha molte affinità con il “taglio” dei personaggi dei fumetti. Lo stesso si può dire di Cullen , il vampiro adolescente di Twilight, che la Meyer paragona esplicitamente a l’Uomo Ragno. Beh, non voglio farla troppo lunga, ma secondo me la letteratura (anche quella per adulti e svezzati) deve tornare ai personaggi, se si vuole rigenerare. Una storia non è tale se non è la storia di qualcuno. Nel campo del giallo italiano, ad esempio, Montalbano, come personaggio, è più importante delle sue storie. Creandolo, Camilleri ha in qualche modo applicato la lezione di Simenon: non è il semplice meccanismo del delitto e della scoperta del colpevole ad avvincere il lettore, anzi il delitto può anche essere una storia di “usuale” violenza, è il fatto che di quel delitto si sta occupando Maigret o Montalbano. Per lo scrittore, ne discende una conseguenza: la storia deve essere funzionale al protagonista, cioé deve servire a mostrarne il carattere, le debolezze e i punti di forza, mettendolo a prova. La strada opposta, invece, rende i personaggi funzionali alla storia, cioè ci si domanda: che personaggio mi serve per raccontare questa storia? Il risultato è che il personaggio rischia di diventare un burattino e di non occupare più il centro della scena, perchè conta di più la “dinamica” della storia. Molti scrittori del passato hanno percorso entrambe le strade: Salgari ha scritto moltissime storie, ma di personaggi davvero memorabili gliene sono usciti soltanto due: Sandokan e il Corsaro Nero. Creare un personaggio è molto più difficile che scrivere una storia. Spesso uno scrittore non riesce neanche a prevedere prima se un personaggio piacerà ai lettori diventando memorabile, oppure no. C’è qualcosa di misterioso in un personaggio, qualcosa che travalica le intenzioni stesse dello scrittore. Insomma: senza grandi personaggi è assai difficile che la letteratura “esca dalla pagina” . Sono i personaggi, non la trama, che entrano e restano nell’immaginario collettivo. Dunque, a mio avviso, bisogna ricominciare a concentrarsi, da scrittori, sui personaggi. E sostituire lo scrittore stesso, come io narrante, al Personaggio , è un mezzuccio narcisistico, ormai abusato. Come è un mezzuccio prendere un personaggio storico che è già famoso di per sé (Alessandro, Cleopatra, Napoleone, Ramses e chi più ne ha più ne metta) . Il personaggio va inventato. Non si scappa. Di storie di bambini in difficoltà, poveri e costretti a cavarsela da soli, ce ne sono tante, ma di Pinocchio ce n’è uno solo.
Se consideriamo Frankenstein dal punto di vista dei personaggi, tutto diventa più chiaro. Victor Frankenstein è il Prometeo moderno, cioè un uomo in competizione con gli dei, che strappa loro “il fuoco”, il segreto della vita. Lo si può accostare anche ad Adamo, che si alimenta del frutto proibito dell’Albero della Conoscenza, mettendosi in competizione con Dio. Non è un personaggio molto simpatico. Poi c’è la Creatura e come ha scritto bene Laura, è la Creatura, il Mostro, ad appassionarci. Anche noi siamo stati creati da qualcuno, non sappiamo perché, e veniamo giudicati dalla società per come siamo anche se non siamo stati noi a “volerci” così, veniamo anche giudicati per come siamo nati, e non si tratta soltanto di una differenza di classe, o di razza, o di religione, si tratta della nostra stessa individualità che può in certe circostanze, venire giudicata troppo “diversa” per poter essere tollerata. E allora non resta che il cammino della solitudine: perdersi nei ghiacci eterni. La Creatura è un personaggio tragico. Victor F. cerca la Vittoria dell’Uomo, la Creatura ne sperimenta sulla propria pelle la Sconfitta. Di fronte a queste due statuarie figure, simbolicamente potenti, l’intreccio della storia di per sè, ha relativamente poca importanza. Non è la storia a fare i personaggi, ma sono i personaggi a fare la storia.
D’accordo con lei, Gianfranco Manfredi. Mi piace anche l’idea di partire dai personaggi per fare la storia.
Una storia che non ha personaggi forti, è una storia debole di per sé.
In “Tecniche di resurrezione” i personaggi principali sono medici (alcuni di loro sono anche storicamente esistiti) che operano negli anni immediatamente precedente al romanzo della Shelley. Sono medici molto più pieni di dubbi di quanto non sia Victor, e alcuni sono assai più deliranti, e annunciano piuttosto altre figure di dottori pazzi, come Jekyll, o come il Dottor Moreau. Sono figure che ho costruito sulla base delle cronache di quei tempi, in cui si conducevano esperimenti assai più insidiosi e cruenti di quelli condotti da Victor. E non erano dei Victors (cioè dei vincitori) perché il cammino della sperimentazione è sempre molto lungo , difficile, e disseminato di errori e fallimenti. Di contro a loro, non si pone la Creatura, come Nuova Forma di Vita Artificiale, ma il Malato, spesso “ospite” di una Malattia Rara a Nuova che nessuno sa bene come diagnosticare o curare. Può essere una malattia diffusa e dilagante (cioè la Melanconia, oggi diremmo la Depressione), può essere una malattia inedita per gli studiosi, senza precedenti documentati, e terribilmente inquietante (la senescenza precoce di San Subra), malattia che fa del Malato, agli occhi stessi del medico che se ne prende cura, un Mostro. Al punto che persino un medico “illuminato” e caritatevole può chiedersi: e se fosse DAVVERO un mostro? Non qualcuno che desta la nostra simpatia e la nostra compassione, non il Figlio della Scienza respinto ingiustamente dalla società umana, ma il Frutto perverso della Società stessa e di una misteriosa, ingovernabile Natura, che sfugge ad ogni intento e proposito di Cura. Basta, non dico altro perché non voglio sovrapporre le mie riflessioni alla storia e ai personaggi (che fanno nel romanzo le LORO riflessioni) , nè tantomeno ai lettori. Ma per rispondere a Laura, in qualche modo Tecniche, da un lato racconta le radici storiche di Frankenstein, dall’altro capovolge completamente il punto di vista della Shelley.
Grazie mille per la risposta.
Per quanto riguarda la Shelley mi preme evidenziare che stiamo parlando di una donna che scrive e IMPONE -nel primo ventennio del 1800- un romanzo che resterà nella storia della letteratura di sempre.
Una piccola notazione: da marzo esiste il ricchissimo post sulla “Letteratura di vampiri e altro”, quasi tremila interventi che lo rianimavano anche quando pareva languisse.
Per sostituirlo, affossarlo (o ibernarlo) cosa c’è voluto? “Tecniche di resurrezione”
@Grazie Gianfranco. Sono molto soddisfatto della tua risposta, davvero esauriente. Io penso che ciò che contraddistingue il grande scrittore da tutti gli altri sia l’originalità, avere l’idea per primo, inventarsi una storia o un personaggio che abbia caratteristiche nuove rispetto a quanto sia stato scritto in precedenza. E non è cosa da poco. Madame Bovary ha una trama semplicissima, se non banale, in questo caso è lo spessore del personaggio che fa da traino. Buzzati non ha creato grandi personaggi, nel suo caso è la fantasia dirompente che lo ha reso celebre. Lo stesso dicasi per Kafka. Per quanto riguarda Camilleri penso abbiano influito tutta una serie di ingredienti: lo stile, l’ironia, l’uso spregiudicato del dialetto. I primi romanzi che ha pubblicato, a mio parere sono tra i migliori, indipendentemente da Montalbano. Poi molti hanno provato a scimmiottarlo, magari qualcuno con discreti risultati, ma ovviamente sarebbe stato impossibile riscuotere lo stesso successo (di vendite). Sono molto curioso di leggere questo tuo nuovo romanzo, lo farò al più presto. Mi piace molto come ti poni e la professionalità con cui rispondi a tutti.
@ Laura. Hai ragione: non si può confrontare Frankenstein a Tecniche sul piano della Storia della letteratura, né ovviamente intendevo sostenere che il mio punto di vista sia “migliore” di quello della Shelley, ci mancherebbe altro, non sono così pirla! Ritengo che sia soltanto diverso e più attuale, cioè più corrispondente alle ANSIE dei NOSTRI tempi. Prendiamo un tema che tu hai sottolineato benissimo: il conflitto tra Frankenstein e la Creatura, così estremo che ciascuno dei due si rende conto che DEVE eliminare l’altro. In termini moderni, questo conflitto, se ci fate caso, riecheggia anche nella serie del Dottor House. E’ un dottore-scienziato che combatte MALATTIE rare e strane, e a volte è così preso dall’indagine della malattia, che sembra sconfinare dal compito di cura del paziente, con cui ha quasi sempre dei rapporti conflittuali, e aperti, continuati, scontri di carattere. Quando poi Dr. House si interessa di lui come persona, va al di là di ogni etica professionale, perché ne viola la privacy, arrivando al punto da far ispezionare casa sua, mentre il paziente sta in ospedale. Allo stesso tempo, il paziente, pur affidandosi alle sue cure, soffre terribilmente a volte fino al punto da odiare il suo dottore, quasi che liberarsi del dottore coincida con il liberarsi dalla malattia e dalla sofferenza. Gli tace anche molti aspetti della propria personalità e delle proprie abitudini, perchè il medico non diventi intollerabilmente invasivo, perché non vuole mettergli a disposizione anche la propria persona, oltre al proprio corpo. Nella serie c’è sempre un equilibrio “realistico” e dunque la storia non raggiunge i picchi estremi del romanzo fantastico della Shelley, e alla fine tutto finisce quasi sempre bene, e il conflitto si ricompone. Però il tema è quello. Ora, Massimo, proponendoci le sue domande, non a caso si è/ci ha interrogato sui “limiti” della scienza e giustamente, a mio avviso, quasi unanimemente tutti hanno risposto: la dignità umana. Però dovremmo interrogarci, anche se non ci fa affatto piacere, anche su un altro punto: i “limiti” che dovremmo porci in quanto pazienti. E’ sacrosanto il diritto alle cure, ma questo diritto non coincide affatto con la pretesa di venire guariti, perché a volte questo non è possibile. Noi non possiamo chiedere alla Scienza l’Infallibilità. Qualsiasi Scienza si presuma Infallibile è Superstiziosa e fa danni davvero incalcolabili, anche sulle coscienze. Nel mio romanzo metto in scena anche queste assai perturbanti questioni, che tutti abbiamo ben presenti, nei fatti e nelle nostre reazioni istintive ai fatti, prima ancora che nelle riflessioni.
Ho appena incontrato il dr. Ending e sono letteralmente “terrorizzata”. Però continuo la lettura perché non riesco a smettere.
Ogni notte insonne dovuta alla lettura di Tecniche di resurrezione sarà messa sul conto del duo Manfredi/Comida.
Ovviamente scherzavo.
Sulla messa in conto, non sul terrore.
Un altro esempio e poi mi taccio per un po’. Ho accennato al tema della Depressione. All’epoca in cui la Shelley scriveva, gli studi medici su questo fenomeno erano appena cominciati. Gli scrittori romantici, cominciarono a vedere ed esprimere la Depressione (lo “spleen” ) come una condizione dell’esistenza e in modo particolare dell’Uomo Moderno. Cosa ci divide da loro? Non la consapevolezza di come la Melanconia faccia parte delle nostre vite, ma la maggiore conoscenza della Depressione (Grave e Lieve) come Malattia. E come Malattia che si può curare. Così, può essere molto utile andarsi a rileggere come i medici più consapevoli dell’epoca pre-romantica la studiavano, e quali rimedi mettessero in atto. Rileggiamo quei testi alla luce delle nostre attuali conoscenze. Sono le nostre attuali conoscenze a consentirci di distinguere in quei testi, quanto ci fosse di anticipatorio e quanto fosse invece dovuto a convinzioni tanto ereditate, quanto sbagliate. La Scienza, anche quella dei NOSTRI tempi, è sempre in bilico tra scoperte anticipatorie e retaggi molto antichi e non ancora superati, dati per certi, e invece assai dubbi, se non sbagliati e frutto di superstizioni e di pregiudizi. Insomma: la Storia del passato va certo rispettata e studiata, ma non possiamo che rileggerla alla luce dei problemi, delle esperienze e delle conoscenze del NOSTRO tempo. Ciò non significa che siamo SUPERIORI ai nostri avi, ma più semplicemente che siamo SUCCESSIVI. Come ha scritto Carlo Bordoni (facendomi un grande complimento) il mio strano romanzo, raccontando l’immediato PRIMA di Frankenstien, sembra paradossalmente essere stato scritto prima, costituire una sorta di “anello mancante”, però va aggiunto che non avrebbe mai potuto essere scritto PRIMA, è stato scritto DOPO. Anzi, e qui do pienamente ragione a Laura, non avrei mai potuto scriverlo senza quel Punto di Riferimento Universale che è stato ed è ancora il Frankenstein di Mary Shelley.
Ottimi questi suoi interventi. Li condivido in toto.
Nel mio post precedente intendevo dire che, soprattutto all’epoca, non era facile per una donna imporsi come romanziere.
Può essere interessante conoscere la biografia della Shelley, anche per capire meglio le sue opere.
Magari non tutti la conoscono.
Mary Shelley, nata Mary Wollstonecraft Godwin (Londra, 30 agosto 1797 – Londra, 1 febbraio 1851), fu una scrittrice, saggista e biografa inglese. È l’autrice del romanzo gotico “Frankenstein” (Frankenstein: or, The Modern Prometheus), pubblicato nel 1818. Curò le edizioni delle poesie del marito Percy Bysshe Shelley, poeta romantico e filosofo. Era figlia della filosofa Mary Wollstonecraft, antesignana del femminismo, e del filosofo e politico William Godwin.
La madre morì dieci giorni dopo averla messa al mondo. Mary, insieme alla sorellastra più grande Fanny Imlay Godwin, nata da una precedente relazione della madre con Gilbert Imlay, crebbe col padre William Godwin, il quale decise di adottare Fanny e di crescerla come fosse sua figlia. Quando Mary aveva tre anni suo padre sposò Mary Jane Clairmont, sua vicina di casa. Godwin fornì a Mary un’educazione ricca e informale, incoraggiandola ad aderire alle sue idee politiche. Nel 1814 Mary si innamorò di uno dei discepoli di Godwin, Percy Bysshe Shelley, all’epoca già sposato con Harriet Westbrook. Assieme alla sorellastra Claire Clairmont, seconda figlia di Mary Jane Clairmont, Mary fuggì in Francia con Percy con il quale, dopo aver attraversato insieme l’Europa, dovette rientrare in Inghilterra per mancanza di soldi. Mary era incinta di Percy e la bambina che ne nacque, morì pochi giorni dopo il parto prematuro, senza aver ricevuto nemmeno un nome. Mary e Percy si sposarono nel 1816, dopo il suicidio della moglie di lui.
Nel 1817 la coppia trascorse un’estate con Lord Byron, John William Polidori e Claire Clairmont nei pressi di Ginevra, in Svizzera, dove Mary ebbe l’ispirazione per la stesura del suo romanzo “Frankenstein”. Nel 1818 gli Shelley lasciarono l’Inghilterra per l’Italia, dove morirono Clara Everina e William, rispettivamente seconda e il terzo figlio di Mary e Percy, e dove nacque Percy Florence, l’unico a sopravvivere ai genitori. Nel 1822 suo marito annegò durante una traversata della baia di La Spezia. Un anno dopo Mary ritornò in Inghilterra dove si dedicò totalmente alla carriera di scrittrice, in modo da poter mantenere il figlio. Trascorse l’ultima decade della sua vita nella malattia, probabilmente un tumore al cervello, che la ucciderà all’età di 53 anni, nel 1851.
Fino al 1970 Mary Shelley è stata principalmente conosciuta per l’apporto che ha dato alla comprensione e alla pubblicazione delle opere del marito e per il suo romanzo “Frankenstein”, che ebbe grande successo e ispirò numerosi adattamenti teatrali e cinematografici.
Ma studi recenti hanno permesso una più profonda conoscenza del profilo letterario di Mary Shelley; in particolare, questi studi si sono concentrati su opere meno conosciute dell’autrice, tra cui romanzi storici come “Valperga” (1823) e “Perkin Warbeck” (1830), romanzi apocalittici come “L’ultimo uomo” (1826), e gli ultimi due romanzi, “L’odore” (1835) e “Falkner” (1837).
Altri suoi scritti meno conosciuti, come il libro di viaggi “A zonzo per la Germania e per l’Italia” (1844) e gli articoli biografici scritti per la Cabinet Cyclopedia di Dionysius Lardner (1829-46), contribuirono a supportare l’opinione che Mary Shelley rimase una politica radicale per tutta la sua vita. Le opere di Mary Shelley sostengono spesso gli ideali di cooperazione e di comprensione, praticati soprattutto dalle donne, come strade per riformare la società civile. Questa idea era una diretta sfida all’etica individualista-romantica promossa da Percy Shelley e alle teorie politiche illuministe portate avanti da William Godwin.
Ho incontrato Ho Freddo per caso, molto meno per caso invece mi sono avvicinata a Tecniche di Resurrezione. Insomma, e’ stato un percorso obbligato. Conoscevo Manfredi per i fumetti, che nel corso degli anni mi sono passati per le mani, ma non avevo mai letto un suo romanzo. Ora ovviamente sto cercando di recuperare il tempo perso, perche’ piu’ leggo le sue storie piu’ mi rendo conto dello spessore che hanno. Uno spessore che non e’ solo “fantastico” (per la storia di fantasia che narra) ma e’ soprattuto tangibile e palpabile nella ricostruzione del periodo storico e nella caratterizzazione dei personaggi, complessi e affascinanti, nel modo in cui si mescolano a quelli reali senza apparire pero’ “fuori posto”. Leggere Ho Freddo mi ha come stregato, e’ stato un crescendo di sensazioni e di sentimenti, di stati d’animo che si mescolavano e si confondevano fino al finale agghiacciante. Tecniche mi ha messo di fronte agli stessi sentimenti, man mano che mi presentava presonaggi nuovi, o ridisegnava i vecchi. Quello che mi ha colpito e’ come abbia affrontato argomenti cosi’ attuali proiettandoli un un’epoca che ai nostri occhi appare cosi’ distante. La malattia, la follia, la morale, tutto e’ perfettamente adattabile ai nostri giorni, i vecchi mostri ai nuovi attuali che popolano le nostre cronache. Il tutto in una atmosfera pero’ meno cupa e piu’ rilassata forse, meno superstizioni, piu’ scienza, in una ricerca del “limite” inteso in molti diversi sensi (il limite fra la vita e la morte, i limiti etici della scienza, i limiti delle stesse cure mediche, allora come oggi). Tecniche e’ “ansioso” quanto Ho Freddo e’ cupo. Lascia trapelare quell’ansia appunto di ricerca e di conoscenza, che come una smania possiede i vari personaggi guidandoli o trascinandoli nelle loro azioni e nelle loro scelte. A pensarci bene in un certo senso e’ agghiacciante. E deve esserlo, altrimenti sarebbe un altro genere di storia. Non sarebbe gotico, non sarebbe inquieto. Ha centrato il bersaglio perche’ non e’ un romanzo di intrattenimento, nonostante forse le apparenze, ma e’ qualcosa di piu’ denso e pregnante che ti lascia a riflettere, e oltre la lettura fine a se stessa ti spinge ad ulteriori approfondimenti personali che altrimenti non avresti mai sognato di fare: ho ripensato alla mia visita al museo di storia naturale con reperti del ‘700, sono andata a cercare notizie sulla consunzione nella mia zona, ho scartabellato tutto quello che potevo per “vedere” gli abiti di Aline. E Ho Freddo mi ha fatto venire voglia, paradossalmente, di rileggermi la Bibbia… ma chi me lo faceva fare altrimenti? =)
Mi sa che l’ultima frase del commento di Ila (Ho Freddo mi ha fatto venire voglia, paradossalmente, di rileggermi la Bibbia… ma chi me lo faceva fare altrimenti?) renderà orgoglioso Manfredi.
C’è un’altra notazione interessante che ho trascurato, nei post di Laura, e che magari potrebbe costituire argomento per un forum a parte. Mary Shelley ha scritto Frankenstein a 21 anni. Mi ha fatto venire in mente che Giacomo Leopardi scriveva (anche in altino) già a nove dieci anni di età e che compose alcuni dei suoi maggiori capolavori intorno ai vent’anni. Per tornare più indietro nei secoli, Dante Alighieri a 18 anni era già il poeta più eminente del cosiddetto Dolce Stil Novo. Scrisse La Vita Nova a 28/30 anni e cominciò a lavorare alla Divina Commedia intorno ai 35. Ora, noi siamo sicuri, che sia stato il Novecento il secolo del “Largo ai Giovani”, invece non è affatto così, non in letteratura, almeno. Nel novecento i giovani hanno prodotto capolavori soltanto nel campo della musica rock. In letteratura le cose sono assai cambiate. Dunque nella querelle tra “Antichi e Moderni” dobbiamo anche riconoscere che in parecchie cose gli Antichi ci erano infinitamente superiori. E dobbiamo anche riconoscere che noi mentiamo a noi stessi: si continua a parlare dei giovani, come se fossero loro i protagonisti, e si dimentica invece troppo spesso che questa nostra società gli impedisce di esprimere davvero tutto il loro potenziale creativo. Ai giovani si chiede più di “consumare” che di “creare” e questa “perversione” ci immiserisce tutti.
Naturalmente ringrazio Ila per il suo bellissimo post. Avere lettori così è la maggiore soddisfazione che ci si possa augurare.
“Altino” era un refuso per “latino”.
Oltretutto in quelle epoche “antiche”, non c’era la Scuola dell’Obbligo. Mary Shelley e Leopardi si formarono quasi da soli. Non sarà che l’Insegnamento Scolastico con tutti i suoi meriti, sia stato però anche un Tappo rispetto al libero fluire della creatività giovanile? Ho la sensazione che con il “Bene, Bravo , Sette più” della Scuola ( anche delle Scuole di Scrittura Creativa), non si aiuti affatto un giovane a sfornare dei capolavori, ma delle opere medie, di gusto medio, e di media riuscita.
Ieri l’altro c’è stato da Fazio Brett Eston Ellis, uno dei pochi autori giovani degli anni 80 che apprezzo (anche per i suoi umori cupi e assai poco consolatori). Ha detto che scrive solo per se stesso. Intendeva dire che non scrive sulla base di ricette di mercato, il che è lodevole. Mary Shelley e tantissimi autori di quel secolo, scrivevano (come bene ha detto Laura) anche per mangiare, sopravvivere, mantenere i figli. Cosa ben diversa dallo scrivere per bisogno intellettuale o per pura vocazione, ma anche cosa ben diversa dallo scrivere per ambizioni di successo e di “classifica”. Molti capolavori sono stati scritti per sopravvivere. Forse è anche per questo che recano vere e non simulate tracce di sofferenza e di dolore.
Una scena che sempre mi commuove è Balzac, che scriveva come un operaio della catena di montaggio, lavorando di notte, con le luciazze dell’epoca, senza computer nè Olivetti MP1 del 1932 ma con pennino e calamaio e soprattutto con i fattorini della “Revue de Paris” che gli strappavano i figli dalle mani appena li aveva terminati, per correre in tipografia dove bisognava buttarli subito in composizione e poi stampare in fretta e furia il giornale.
Che in condizioni simili Honorè abbia sfornato capolavori su capolavori mi stringe il cuore.
Cos’avrebbe fatto con un pc a disposizione?
Forse, avrebbe passato le sere su Facebook.
Anche i nostri scrittori della preistoria non dovevano passarsela tanto bene, scrivevano su massi di un quintale circa, intingendo il dito su sangue di mammut accoppato di fresco. Il lettore per sfogliare le pagine doveva munirsi di scappello e mazzuolo. Il distributore, poveraccio, si caricava i libri a spalla per portarli nelle caverne adibite a libreria. Anche pubblicizzarli era faticoso, c’era lo zio di Maugeri che aveva aperto un blog artigianale e si postava tramite tam tam. Risultati scarsissimi, tanto che dovette chiudere per fallimento e delegare tutto al nipote.
Però che peso sulle spalle del povero Maugeri.
Complimenti a Gianfranco Manfredi. Ha detto in maniera analitica le cose che penso in maniera disordinata.
Pur non essendo appassionato del gotico sarò un lettore di Tecniche di resurrezione.
Mi chiamo Filippo, non Filippi.
@ Luciano. Balzac era sempre assediato dai creditori. Invidiava e un po’ odiava Dumas che guadagnava molto più di lui e si poteva permettere una vita più mondana. Però se i due si fossero scambiati i conti correnti, non so se Balzac ne sarebbe stato felice, perché Dumas spendeva e spandeva e si trovava braccato dai creditori più di lui. Avevano solo più difficoltà a raggiungerlo, i creditori, perchè Dumas stava sempre in giro, mentre Balzac al massimo si faceva una passeggiata attorno all’isolato di casa sua.
Grazie a tutti per i nuovi commenti e contributi.
Un ringraziamento speciale a Laura Morini e un saluto di benvenuto a Ila.
@ Gianfranco e Luciano
Si dice che Dumas avesse alle sue dipendenze un mucchio di “scrittori fantasma”… (giusto per rimanere in tema gotico).
Ringrazio Terzapagina per aver ripreso e messo in evidenza un commento di Gianfranco: http://terzapagina.blog.kataweb.it/2010/10/18/ripartire-dal-personaggio/
Ben fatto, ragazzi!
(Entro la settimana inserisco il logo di Terzapagina su una delle colonne del blog: promesso!)
Come annunciato, inserisco di seguito la recensione di Sergio Pent linkata da Gaetano.
So che qualcuno di voi ha difficoltà ad aprire i file pdf.
LE «TECNICHE DI RESURREZIONE» DI MANFREDI
Un giallo con medici e mummie
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di Sergio Pent
=
Anche Dan Brown potrebbe trarre giovamento dalla lettura degli ultimi due romanzi di Gianfranco Manfredi. “Ho freddo”, del 2008, e questo novello “Tecniche di resurrezione” (Gargoyle, pp. 489, e 18) ci mettono di fronte a un intrepido narratore svincolato dai canoni e dagli obblighi del genere.
Affabulatore vivace e ironico, grottesco e spumeggiante, Manfredi ha raggiunto, con questo dittico gotico-filosofico, l’apice delle sue capacità di intrattenitore colto e disinvolto, nobile, ricco di tutte le sfumature necessarie all’arte del romanzo. Qui ha tentato l’audace carta dell’operazione storico-fantastica, infarcendo le sue narrazioni di personaggi
veri e fittizi, giocando sul campo della re-invenzione con l’arma del giudice postumo che, nei peccati sociali e politici del passato, riesce a trovare sagaci spunti di confronto con le penurie del disfacimento contemporaneo. Mala vicenda che il lettore amerà seguire è senz’altro quella – in diretta prosecuzione con il romanzo precedente – dei gemelli de Valmont, Aline e Valcour, uniti dalla passione per la ricerca medica e da una formidabile capacità di giocare con le ambiguità della propria epoca, nel 1803, di ritorno dalla tragica odissea americana di Ho freddo. L’Inghilterra del rinnovamento e la Francia di Bonaparte fanno da sfondo a esperienze modernemaancora fragili, come le «tecniche di resurrezione» messe in atto da medici coraggiosi in un contesto sociale post-rivoluzione ambiguo e conservatore.
Le vittime causate dalla mano del folle chirurgo che si fa chiamare Doctor Ending e il caso di Salvy San Subra, la guida egiziana di Napoleone mummificata da una sconosciuta malattia, si incrociano in un gioco di veleni politici e ricerche scientifiche azzardate, dissoluzioni nobiliari e vizietti privati, in cui il tono di un’inchiesta gialla ben si coniuga alla struttura ampia e classicheggiante del romanzo. I giochi di corte e le manovre segrete di una società percorsa dai primi «lumi della ragione», costringono Aline e Valcour a cercare soluzioni nella loro solida unione totale, per far fronte a un nemico invisibile che – al di là degli oscuri delitti – si chiama Storia. Manfredi
sigla un altro singolare, complesso romanzo, che attende la consacrazione dei lettori giusti (Dan Brown compreso).
Sergio Pent
—-
articolo pubblicato su “La Stampa – Tuttolibri” del 16.10.2010
Un piccolo collegamento tra la biografia di Mary Shelley (inserita da Laura Morini) e il tema della depressione (che emerge dai commenti recenti di Gianfranco Manfredi).
Il 22 febbraio 1815 Mary Shelley diede alla luce una bimba prematura di due mesi, Clara, che morì circa due settimane dopo. Dopo la morte della piccola, Mary contattò Hogg (amico di famiglia) mediante una lettera, di cui riporto un passaggio:
« Mio caro Hogg la mia bambina è morta – vieni il più presto possibile. Voglio vederti. Stava perfettamente bene quando sono andata a letto – mi sono svegliata nella notte per darle il latte e sembrava dormire così tranquillamente che non ho voluto svegliarla. Era già morta, ma non lo abbiamo saputo che al mattino – e dall’aspetto è evidentemente morta di convulsioni – Vieni – tu sei una creatura così calma e Shelley teme che mi venga una febbre da latte – perché ora non sono più una madre.»
La perdita della figlia causò a Mary una profonda depressione (pare che spesso fosse ossessionata dalla visione della bimba).
Alla carissima sig.ra Rossella tutto il mio sostegno e il mio pensiero. Conosco la nostalgia tremenda che assale il cuore quando un nostro caro ci lascia. Ecco perchè credo che il sig. Manfredi dia nome e voce non a una paura, ma alla paura di un dolore. Quello che presagiamo al solo pensiero che le persone amate non siano più con noi.
Un abbraccio di fortissima condivisione dal suo affezionato
Professor Emilio
Ho molto apprezzato il riferimento del bravissimo Manfredi alla “riscoperta ” del personaggio, alla sua centralità, alla sua capacità, anche, di farsi “simbolo”, sintesi e rappresentazione.
Non c’è dubbio che il personaggio che rimane impresso nel cuore del lettore sia ammantato da mistero e imprevedibilità, e quindi da una buona dose di indipendenza (come capacità di stupire il proprio creatore). Credo però che il successo di alcuni grandi personaggi della letteratura stia anche nella loro capacità di interpretare grandi paure collettive e individuali, e quindi di farsi mediatori di esigenze di immedesimazione e trasfigurazione.
E’ un processo che trovo strabiliante, per esempio, in Edgar Allan Poe, che in fondo, elabora alcuni dei temi della Shelley, (la morte, il suo segreto, la possibilità per l’anima di essere a dispetto della carne).
In particolare gli elementi gotici oltre che fantastici ci sono tutti nel racconto Metzengerstein pubblicato sul Saturday Courier nel 1832 con al centro il fenomeno della reincarnazione e lo scenario dei castelli. Il protagonista viene ucciso da un cavallo nel quale è trasmigrata l’anima del suo nemico.
Ecco, credo che in questo senso la funzione del gotico in letteratura sia altissima. Perchè non media le esigenze dell’anima e gli interrogativi più pressanti sul significato della fine, perchè – insomma – non vola basso.
Credo quindi che Manfredi operi una intelligente inversione di tendenza di tanta letteratura che pur realistica e naturalistica per esigenze rappresentantive della verità, perde forse di vista quel nostro essere anche altro: luce, ombra, mistero e inafferrabilità.
Un grazie di cuore per le interessantissime riflessioni e una buona serata.
Alla carissima Rossella i miei pensieri di questa sera e di tutte le prossime.
Un abbraccio forte
Butto sul tappeto un paio di temi:
1) Che voi ricordiate Dumas e tutti i suoi ghost writer sono stati utilizzati in qualche romanzo o racconto fantastico?
2) Il nostro personale rapporto con Edgar Allan Poe com’è? Io mi sborniai di lui e delle sue opere quando avevo dodici tredici anni e le mescolavo con Buzzati e Philip Dick e Hoffmann e gli enigmi di padre Brown in una miscela di esilarante e intossicante mistero. Poi misi da parte Poe per tanto tempo perchè mi pareva superato. Da qualche anno lo sto riscoprendo sempre più.
3) I personaggi, seriali o no (a Dracula o Jeckill/Hyde bastò un’unica apparizione per diventare celeberrimi). Quanto ci/vi piacciono? Quanto contano nelle nostre vite di lettori/spettatori? E autori (per chi lo è)?
Manfredi ad esempio: Magico Vento e il suo amico Poe (due personaggi interessantissimi), ma anche Ugo Pastore (il protagonista della serie Volto Nascosto), i due gemelli Valcour e Aline de Valmont (protagonisti di Ho freddo e Tecniche di resurrezione)…
@ Massimo Maugeri , Gianfranco Manfredi, luciano / idefix, Tatjana, Subhaga Gaetano Failla, Carlo S., Salvo Zappulla, M.Teresa Santalucia Scibona, Francesca Giulia Marone, prof. Emilio, Simona Lo Iacono, a tutti gli Amici di Letteratitudine scrivo GRAZIE.
Grazie per le vostre parole che ho sentito “SENTITE”, come fossero spinte da un movimento del cuore.
A presto
Rossella
Un abbraccio solidale a Rossella anche da parte mia.
Coraggio.
– Avete mai letto il romanzo “Frankenstein” di Mary Wollstonecraft, sposa del poeta romantico Percy Bysshe Shelley? Se sì, cosa ne pensate? Che sensazioni ha suscitato in voi?
Sono di quelli che conosce il personaggio Frankenstein senza aver letto il libro. Mi sa che è giunta l’ora di rimediare.
– Se grazie a una sorta di sperimentazione tecnologica vi venisse offerta la possibilità di “vivere per sempre” (a voi e solo a voi)… accettereste? Se sì, a quali condizioni?
Se mi garantissero condizioni di salute decenti accetterei senza esitazioni. Sono troppo curioso per perdermi il futuro, avendo la possibilità di ritrovarmici.
A prescindere da qualunque considerazione di natura religiosa… sarebbe “morale” accettare?
Se non si compie male ad altri non vedo problemi di moralità.
– Ci sono limiti oltre i quali la scienza medica non dovrebbe spingersi?
Il punto di riferimento deve essere sempre il bene dell’uomo. Quello è il limite.
Trovo il libro di G. Manfredi molto interessante e sarà di certo una delle mie prossime letture.
Ciao a tutti.
Ancora sui personaggi. Alcuni sono davvero usciti fuori dalle pagine dei romanzi. Con il loro nome si sono designati comportamenti, atteggiamenti, psicologie, sogni e bisogni di cambiamento. Alcuni di loro hanno “definito” figure nuove, tipiche della modernità. Ad esempio: il Giovane Werther, che si suicida per amore, diventata figura proverbiale per indicare un nuovo genere, molto moderno, di maschio, dominato dai sentimenti e da un trasporto esclusivo per una donna. Il contrario di Casanova, si potrebbe dire. Il Conte di Montecristo, che compie una vendetta come un antico eroe, ma con una differenza tutta moderna: vendica se stesso. E’ una vittima delle Istituzioni, ma non inscena la sua vendetta come atto politico, non è un liberatore sociale, un giustiziere che difende gli umili o si batte per tutti. Lui è fino in fondo un Giustiziere Solitario perché si batte per se stesso, per punire i suoi nemici individualmente, uno per uno. Emma Bovary, che evade in modo ben diverso dal Conte, evade sognando una vita da romanzo, per uscire dal grigiore. Lady Chatterley che mette a rischio la propria rispettabilità sociale, non “semplicemente” per l’Amore, ma per l’Eros. Robinson Crusoe, l’uomo civilizzato costretto da una catastrofe a ripartire da zero, a riscoprire l’autosufficienza del selvaggio (autentico progenitore del Survival). Il dottor Jekill, rappresentazione perfetta di certa schizofrenia contemporanea: grandi ideali, anche morali, esibiti pubblicamente, e pessimi comportamenti privati, ambivalenza tra Perfezione ricercata ed esibita e Mostruosità incontrollabile. Si potrebbe continuare a lungo. Il romanzo è la forma artistica che più di ogni altra ha rappresentato la svolta della Modernità, e ha “codificato” nuovi protagonisti sociali, l’emergere di comportamenti e di sentimenti che non potevano venire espressi se non con Nuovi personaggi, perché prima si può dire non avessero nome, né rappresentanza simbolica. Questi personaggi sono usciti dai romanzi, perché i lettori attraverso di loro si sono riconosciuti e hanno riconosciuto, in modo tanto esemplare, quanto estremo, della trasformazioni del costume, l’emergere di nuovi bisogni sociali, di caratteristici “segni dei tempi”, di trasformazioni antropologiche in atto. Il personaggio può essere realistico (il Giovane Holden) oppure del tutto improbabile e implausibile (come James Bond), ma in ogni caso identifica sia un Carattere Riconoscibile che un Modello di Riferimento. In molta narrativa contemporanea pare che Caratteri e Modelli siano spariti. E’ come se gli scrittori , certi scrittori, non sapessero più guardare fuori da sè, e dunque preferiscano mettere se stessi in pagina: essere il proprio personaggio. Un’identificazione del resto già molto praticata nel teatro e nel cinema comico, in cui chi recita non è “attore”, del senso che non interpreta “un altro da sè”, ma esibisce se stesso, e il più delle volte senza interagire con altri, ma monologando, nel suo “one-man show”. Similmente è avvenuto con le rock e pop star, ma anche con certi cantautori, che pongono se stessi, la propria presenza, il proprio personaggio, al centro della loro “narrazione”. Dunque il narcisismo dello scrittore contemporaneo non è un fenomeno isolato, è esso stesso un segno dei tempi. E’ come se il contenuto principale di ogni narrazione, sia diventato l’Esibizionismo, e questo dovrebbe far molto riflettere sulla nostra società. Il punto non è cosa questo Esibizionismo rivela , ma cosa nasconde. I Personaggi sono sempre, anche i più cupi e inafferrabili, trasparenti, mentre il Personaggio Se Stesso, presentandosi sul palcoscenico sociale, è una Maschera di Se Stesso, non esprime e produce trasparenza, anche nelle versioni più “solari” e “simpatiche” ci resta intimamente Oscuro e Inafferrabile. E’ un Personaggio che manifestandosi come Ego, in realtà si nasconde. Sembra Sincero, ma è Falso. Proprio come sostiene Lady Gaga: “Io sono una menzogna”. Questa dichiarazione, peraltro, somiglia a un noto paradosso filosofico: Un cretese dice: “Tutti i cretesi”sono mentitori”. Mente o dice il vero? L’auto-dichiarazione é un auto-occultamento. Riusciremo a uscire da questo imbroglio? Forse può esserci d’orientamento, ritrovare i Personaggi Fuori di Noi, il Personaggio come Altro da sé. C’è un detto lakota che cito spesso perché ne sento profondamente la verità: “Se vuoi trovare te stesso, cammina con i mocassini di un altro”.
Forse una volta la gente aveva più bisogno di rispecchiarsi sui personaggi. Oggi il bisogno pare mutato. E’ come se le persone sentissero il bisogno di essere personaggi per essere specchio degli altri. In questo modo falsano e sfalsano la loro identità.
Forse la letteratura non produce più grandi personaggi, per via di queste mutazioni.
@ Gianfranco Manfredi
Mi pare che neppure la letteratura gotica (o del terrore) contemporanea riesce più a produrre grandi personaggi.
Prendiamo un autore di culto come Stephen King. Ha prodotto saghe sensazionali, costruito personaggi credibili e storie forti. Venduto milioni di copie.
Ma King ha mai creato personaggi che sono davvero usciti fuori dalle pagine dei suoi romanzi?
Il romanzo della Shelley: ovviamente, sì, l’ho letto, prima da ragazzino in versione ridotta per la gioventu’ e, successivamente, in edizione integrale. Qui la lettura fu un tantino piu’ impegnativa, perchè la componente scientifico-avveniristica del romanzo era fortemente ridimensionata a favore della componente filosofica e di riflessioni etico-morali.
Ciò nonostante, Frankestein è entrato con forza nel mio immaginario, anche grazie alla mediazione delle molteplici rappresentazioni cinematografiche (non ultima quella in chiave satirica – e cionondimeno geniale del grande Mel Brooks).
Il sogno dell’immortalità: non penso che vorrei vivere all’infinito. Se fossimo stati attrezzati per questo, la storia dell’Umanità sarebbe stata diversi. Siamo fatti per la finitezza e per l’impermanenza e tante delle nostre Opere in campo letterario, artistico e anche scientifico sono proprio mosse dalla forte consapevolezza della nostra ragilità ed impermanenza.
L’immortalità ci renderebbe troppo simili ad un dio: tanta parte dell’elaborazione mitologica, delle leggende e delle storie è fondata proprio sulla continua dialettica tra vita e morte.
Credo che molto piu’ accativante dell’ipotesi di un vita semza termine (o molto, molto lunga) sia quella della rinascita e della trasmigrazione.
Mi sembra ben piu’ affascinante ipotizzare che si possa vivere una nuova vita in un corpo diverso, avendo un’oscura memoria delle vite precedentemente vissute.
Una combinazione tra sogno dell’immortalità e trasmigrazione è sviluppata in un bellissimo romanzo di Robert H. Heinlein, uno dei maestri indiscussi della science-fiction degni anni ’70-’80, “Non temerò alcun male”, in cui un danaroso magnate dell’industria ottiene – per mezzo di un marchingegno tecnologico ancora in fase sperimentale – che la sua mente trasmigri in un corpo piu’ giovane.
Il burbero personaggio, con una mente da ottantenne, si ritrova così a vivere nello psico-soma di un corpo giovane, appartenente per di piu’ alla sua avvenente segretaria, della quale – prima dell’intervento – era stato segretamente (e platonicamente) innamorato, mentre adesso si ritroverà dall’interno a vivere un rapporto privilegiato ed esclusivo con lei (la cui mente per un’incomprensibile aporia della tecnica applicata) rimane attiva, vivendo assieme con lei i suoi amori eterosessuali.
In un gustoso racconto di Roald Dahl, peraltro, un ricco e danaroso signore, cerca di opporsi al decadimento e alla morte, rivolgendosi ad uno scienzato che preleverà il suo cervello assieme alle principali appendici sensoriali (vista e udito) per metterlo in una sorta di macchinario dove potà vivere er sempre in una sospensione di liquido fisiologico e di nutrienti vari.
La soluzione che al protagonista era parsa geniale si rivelerà essere una intollerabile prigione, perchè pur essendo viva e vivace la sua mente, risulta privato del tutto della possibilità di gestire autonomamente la propria vita, per giunta sbeffeggiato dalla moglie che si esibisce davanti a lui con i suoi nuovi amori.
No, penso che sia decisamente meglio, morire in pace al termine del proprio naturale e fisiologico arco di vita.
Ogni vita che abbia un inizio deve avere una sua evoluzione e una fine: siamo stati fatti per questo.
Per quanto riguardo il terzo quesito, penso che debbano essere posti dei limiti alla ricerca scientifica, soprattutto quando – come mostra bene Michael Crichton in uno dei suoi ultimi romanzi, NEXT – gli scienziati operano esclusivamente al servizio di interessi privati o del proprio stesso interesse e quindi portano la ricerca in quelle direzioni che potranno essere potenzialmente remunerative, senza tenere in alcun modo in conto la necessaria prudenza nell’andare driti alle applicazioni commerciali delle proprie scoperte (e rispettosi del cosiddetto “principio di precauzione”).
Detto questo, a me sembra che Tecniche di Resurrezione di Manfredi sia veramente un grande romanzo che presenta un affresco della società francese (reduce dalla Rivoluzione) e Inglese (in clima di restaurazione), con tutti i fermenti culturali del tempo in cui lo scientismo dell’Illuminismo prende a ricevere potenti contaminazioni dalla nascente anima romantica, un romanzo costruito abilmente con una miriade di personaggi in cui ciascun capitolo è in se stesso una sorta di “puntata”: mi viene da pensare che Manfredi con il suo passato di disegnatore a fumetti abbia saputo abilmente importare nella scrittura la sua capacità di dar vita a delle sceneggiature che se rispondono ad un’unica trama, molto articolata, presentano anche dei micro-episodi ciascuno dei quali è compiuto in se stesso.
E, in effetti, quello che succede è proprio questo: si finisce un capitolo, si fa una pausa e subito si desidera passare all’immersione in quello successivo.
Il tema scientifica pesentato non mi sembra tanto quello dell’immortalità che è al di là della scienza, bensì quello delle “tecniche di resurrezione”, dal momento che esattamente in quegli anni gli uomini cominciavano a riflettere sui confini della vita e sulla definizione di morte.
Quando si è definitivamente e completamente morti?
Come si fa a riconoscere uno che è completamente morto, da uno che, pur sembrando morto, potrebbe ancora risvegliarsi?
Questo l’interrogativo che i medici del tempo e le persone comuni cominciarono a porsi con sempre maggiore insistenza, in alcuni casi sino a rasentare l’ossessione.
Il galvanismo, cioè l’applicazione delle correnti elettriche ai cadaveri e ai soggetti morti da poco tempo, sposò efficacemente questa ossessione, mentre in parallelo si cominciava ad approfondire l’importanza delle correnti elettriche nel funzionamento degli esseri viventi.
L’applicazione della corrente elettrica ai cadaveri, e il fatto che i muscoli potessero avere delle contrazioni alimentò la fantasia che, pur sembrando morti, si potesse rimanere ancora in vita: da qui una serie di consuetudini che si radicarono proprio in quegli anni per garantire che in caso di risveglio il “morto” potesse essere messo in salvo.
L’attesa di molte ore prima di procedere alla sepoltura, il collegare uno degli arti del defunto ad una cordicella che avrebbe fatto suonare una campanella in caso di movimenti: furono tra i tanti dispositivi messi a punto per placare l’ansia (e in alcuni la fobia) del seppellimento prematuro.
D’altra parte è noto che proprio l’applicazione di una forte corrente elettrica al cuore faccia parte del protocollo delle tecniche di rianimazione utilizzate oggiorno in caso di arresto cardiaco, come step ulteriore rispetto al cosiddetto “massaggio cardiaco” accompagnato da insufflazioni polmonari.
Il romanzo di Manfredi ci parla di queste cose e del difficile percorso compiuto dalla medicina scientifica (rappresentata da Aline e Valcour) sia nel suo approccio “curativo” sia nelle sue funzioni piu’ estreme di pratica “resuscitante” e quasi miracolosa.
E’ chiaro che, quando il medico – pur in nome della scienza — applica in modo avveniristico delle tecniche resuscitante ancora non consolidate e di tipo “sperimentale” entra in un’aura carsimatica e stregonesca.
E’ questo il difficile percorso che Aline e Valcour sono stimolati a percorrere, dovendo contrastare da un lato l’interessamento – non umanitario – di chi vuole sfruttare questi nuovi ritrovati per consolidare il proprio potere politico e, dall’altro, l’opposizione anche violenta di chi vorrebbe frenare lo sviluppo di conoscenze scientifiche limpide e certe, mantenendo invece sugli ignoranti un potere derivante dalla forza delle superstizioni (il dottor Ending tra questi personaggi occupa una posizione sicuramente emblematica).
Ringrazio Maurizio Crispi per la sua bella e puntuale lettura. Vorrei solo precisare che non sono “disegnatore” di fumetti, ma soltanto ideatore e sceneggiatore. Fa una certa differenza perchè il cinema come il fumetto sono una forma di scrittura per immagini (e le immagini vengono affidate in genere ad altri), mentre la letteratura da questo punto di vista è più libera e insieme più interattiva, perché il lettore viene condotto ad immaginarsi personaggi e situazioni, dunque contribuisce molto di più a creare il romanzo. E’ per molti versi, un co-autore. Riguardo al romanzo di Heinlein citato da Maurizio, l’ho trovato anch’io splendido. (Vi immaginate un anziano ossessionato dal potere e dalla paura della morte, come il nostro Cavaliere, che rivive nel corpo della D’Addario? C’è una battuta di Steve Martin che la butta sul ridere: “Se mi reincarnassi in una donna, passerei il tempo a toccarmi le tette”. Beh, il romanzo di Heinlein ci fa capire che non c’è proprio niente da ridere). Rosario invece ricorda giustamente che Stephen King è avaro di grandi personaggi. Giusto, però qualcuno è riuscito a sfoderarlo. La pazza fan di Misery è una Bovary pervertita: si è identificata in un personaggio immaginario, ma allo stesso tempo lo ha proiettato fuori di sè idolatrandolo, se ne sente sacerdotessa, vuole impedire che Misery muoia, a costo di uccidere lo scrittore che l’ha creata. Un personaggio straordinario. Un grande personaggio è anche l’inquietante clown di It, tant’è che quando sul finale rivela al di là dell’immagine la sua natura di mostruoso ragno del sottosuolo, non ce ne frega niente di quel ragno lovecraftiano, rimpiangiamo il clown. Quel clown vampiro di ragazzini ci terrorizzava molto di più. Si può morire di entartainment? C’è una natura sinistra nel divertimento clownesco? Quale bambino non ha provato una certa paura di fronte alla maschera di un clown? Queste domande, incarnate in personaggio, e nella sua ambigua fascinazione su un gruppo di ragazzini, suscita parecchi fantasmi in noi. O sbaglio?
Mi scuso con Gianfranco Manfredi per l’imprecisione sul termine “disegnatore”: conosco bene la differenza tra disegnatore e sceneggiatore e so bene che in tutte le storie a fumetti di cui sono un grande cultore il disegnatore e lo sceneggiatore dividono una co-autorialità (anche se io ritengo – per quanto riguarda il mio gusto personale – che una grande storia a fumetti di tipo seriale o nella forma del graphic novel per riuscire bene deve sempre avere alle spalle un grande sceneggiatore).
Le mie parole successive indicano chiaramente che io pensavo più specificatamente al lavoro dello sceneggiatore e non tanto a quello del disegnatore.
Sono d’accordo sulla grandezza di certi personaggi kinghiani (ora purtroppo sempre più rari nelle sue ultime prove). Il Clown di IT: giova forse ricordare che, probabilmente, Stephen King possa essersi ispirato al caso di un “celebre” serial killer, john Wayne Gacy, con più di 30 vittime al suo attivo (tra i nove e i ventisette anni) che venivano circuite con promesse di lavoro e altri abbindolamenti di vario genere dosati con astuzia in funzione dell’età, del genere e delle caratteristiche della preda di turno, poi seviziati e uccisi, per fiinire sepolti sotto il pavimento della casa in cui viveva. Si dice anche che, talvolta, frequentasse dei luoghi dove si radunanvano molti ragazzini, travestito da clown e che, con questo costumo addosso, li convincesse a seguirlo (almeno questo era riportato in uno dei pannelli esplicativi in una mostra itinerante sui serial killer, da me visitata a Firenze alcuni anni fa).
Arrestato alla fine del 1978, condannato a 25 ergastoli e a 12 sentenze di morte, venne giustiziato nel 1994. Durante il periodo di detenzione prese a dilettarsi di pittura, dipigendo prevalentemente (e ossessivamente) ritratti di clown. Un dettaglio macabro è che le sue opere, tuttora esposte e vendute in molte gallerie d’arte, sono diventate dei veri oggetti di culto per i collezionisti più morbosi.
La forza immaginifica del clown nel romanzo kinghiano deriva da numerose stratificazioni culturali, fra cui indubbiamente questa, e – essendo così sfaccettata e multideterminata – ha sicuramente conquistato un posto di rilievo nel reame del perturbante.
Pur essendo un lettore appassionato delle opere di King non credo che i pur ottimi personaggi protagonisti in negativo di IT o di MISERY siano entrati nell’immaginario collettivo come – per dire – un Harry Potter o, scendendo un po’ di livello di popolarità, una Kay Scarpetta.
Ci sono anche capolavori assoluti, restando a King, dove non figurano personaggi prevalenti: vedi “L’ombra dello scorpione”.
Da ciò se ne può dedurre che è possibile scrivere grandi romanzi anche senza creare grandi personaggi. E che forse gli autori di oggi hanno minori esigenze, per quanto detto più su, di creare grandi personaggi. Senza che questo sia un impedimento per scrivere grandi romanzi.
Forse la lettertura contemporanea ha definitivamente perso il carattere di epicità che aveva in passato. Il fatto è che il mondo occidentale non ha più bisogno di eroi, anche quando il romanzo non si limita a mettere in scena lo stesso autore nelle sue varie personificazioni e nei suoi rovelli mentali. Non può esservi eroismo nei piccoli fatti quotidiani, tanto più nella loro assurdità, che sono ormai il tipico oggetto narrativo del romanzo moderno. Leopold Bloom l’anti-eroe ha sostituito Ulisse, l’eroe epico per eccellenza, già agli albori del ‘900. Non sono certo eroi neanche l’agrimensore K. o il disgraziato protagonista del Processo.
Sopravvivono forse in alcune letterature più localmente caratterizzate, dove ideali, valore e coraggio assumono ancora un residuo di senso perché la società lì non ne è ancora stata completamente svuotata ed assorbita dal senso di vuoto che si è impadronito del mondo del maggiore benessere. Penso alla letteratura sudamericana, al colonnello Buendìa di Marquez. Penso agli “eroi” del passato che ripercorrono qua e là il “Sopra eroi e tombe” di Sabato (che qui si vota in un post parallelo a questo per il LB Award). Alla letteratura occidentale contemporanea non è rimasto che esorcizzare il male attraverso gli eroi negativi di King o i vari serial killer alla Hannibal, oppure gli eroi destinati in qualche modo alla sconfitta (e penso al Marlowe di Chandler, e a tutta una sfilza di suoi epigoni). Possibile che il genere gotico (e poi l’horror), da Polidori a Mary Shelley, a Poe, a Machen, a Lovecraft, prefigurasse già tutto questo?
Contentissima per Gianfranco e per la sua nuova creatura. Molto interessante per me che tratto prevalentemente il tema morte. Alla domanda di Massimo, dopo aver scritto migliaia di post nel thread dedicato alal letteratura dei vampiri non potre dire che sì, accetterei la proposta. Unica clausola: tra qualche anno. Dovessi schiattare mi perderei troppe cose, ora.
Ho letto il romanzo della Shelley e l’ho trovato fantastico . Uno dei migliori romanzi gotici di tutti i tempi, campanilismo a parte perche la Mary era una donnina come la sottoscritta… Non solo la vita dopo la morte ma anche la diversità, l’isolamento, la sensazione di inadeguatezza, tutti sentimenti reali e attuali, purtroppo. Sempiterni, pure loro.
La sicenza medica non dovrebeb sforare nell’assurdo. Immagino ci siamo sperimentazioni in atto molto lungi dalla nostra immaginazione. Ho visto una volta delle immagini di un cane a cui avevano amputato una zampa e gliel’avevano ficcata nello stomaco. Non ne capisco il senso anche se, almeno mi auguro, un senso ce l’abbia.
Ancora i miei complimenti a Gianfranco e alla Gargoyle che ha fatto un altro centro perfetto.
🙂
E’ vero. Un grande personaggio non è indispensabile a un romanzo. Ad esempio “Dieci Piccoli Indiani” di Agatha Christie, non ha un vero protagonista, ma resta un modello e un classico. Tuttavia io credo che un personaggio indimenticabile rappresenti un quid in più. Senza un personaggio memorabile, è assai difficile che i lettori si impossessino davvero di una narrazione. Una narrazione , anche la più semplice, ha una sua complessità di struttura e di livelli che rende possibili letture diverse. Il personaggio sintetizza simbolicamente il senso di un racconto e lo prolunga anche oltre la fine. Molti personaggi destinati a un solo romanzo, sono stati richiamati “in vita” a gran voce dai lettori. E’ anche cosa dei nostri giorni: sia la Rowling di Harry Potter che la Meyer di Edward Cullen appena hanno manifestato il desiderio di concludere la serie e passare ad altro, sono state subissate di richieste che le hanno costrette a cambiare idea, anche se miliardarie come sono, ormai potrebbero fregarsene e dedicarsi tranquillamente a quello che vogliono. I lettori decidono del futuro di un personaggio più di quanto non possa fare uno scrittore, che spesso anzi “odia” quel personaggio tanto ben riuscito perché è sicuro di avere in serbo cose migliori. E’ il caso di Arthur Conan Doyle con Sherlock Holmes. Per quanto abbia cercato di ammazzarlo più volte, l’editore e i lettori lo costringevano a riportarlo in vita. Nel mio piccolo, l’ho sperimentato con la mia serie a fumetti Magico Vento, appena conclusa. Volevo completarla perché mi pareva giusto ( e sinceramente anche liberatorio, per me) che una saga così lunga e impegnativa avesse una fine. Però i lettori questo fatto non l’hanno digerito molto bene (anche se Ned e Poe, cioè i protagonisti, non sono morti! E ti credo: sarei stato linciato se avessi osato ucciderli! E poi non lo avrei mai fatto, perché li ho adorati e gli resterò sempre affezionato). Anche in “Ho freddo”, il romanzo precedente a Tecniche, c’è un personaggio (non dico quale per non rovinare sorprese) nato dalla pagina, scrivendo, perché in origine non l’avevo progettato, e che per la sua forza intrinseca è stato molto amato dai lettori. Alla fine del romanzo, quel personaggio moriva. Già alla prima lettura casalinga, prima che il romanzo uscisse, mia moglie mi aveva detto: “Sei uno stronzo!”. Persino qualche critico letterario, quando il romanzo è uscito, mi ha discretamente, a tu per tu, rimproverato per averlo fatto morire, pur ammettendo che quel tragico finale era coerente e rigoroso. Di solito non sono cose che i critici dicono: i critici prendono per buono quanto viene scritto e lo giudicano, non si mettono a fare i fan di questo o quel personaggio. Ora, io avevo in serbo una soluzione, per fortuna , già calcolata in precedenza, e in Tecniche chi vorrà, potrà leggersela. Resta il fatto che spesso un personaggio ben riuscito ha un suo potere sullo scrittore stesso: non si può fare di lui quello che si vuole. Il personaggio insomma ha un’evidenza espressiva che va al di là della narrazione. Tornando ai Grandi, Flaubert si irritò molto per il successo di Emma Bovary, e ancor più perchè i lettori credevano fosse una persona reale, che non potesse essere stata creata dall’immaginazione, talmente era vivida e autentica. Così, pronunciò (mentendo) la famosa frase: Bovary c’est moi. No, nel personaggio c’è sempre qualcosa di più di un transfert dello scrittore, il personaggio lo fa anche il lettore con la propria sensibilità. E allo stesso tempo, il personaggio (la Creatura, potremmo dire con Frankenstein) acquista una sua autonomia. Paragonando la scrittura al sesso: si può fare l’amore benissimo senza mettere al mondo dei figli, ma quando capita che nasce un figlio, beh è un evento in più rispetto al rapporto sessuale. E quel figlio ha una sua autonomia. Dunque fuor di metafora, uno può raccontare una bella storia, ma se da quel racconto germina un personaggio che i lettori sentono e fanno proprio, se quel personaggio E’ il racconto stesso, più altri racconti potenziali, beh bisogna esserne orgogliosi, anche perchè questo non capita sempre. Si scrivono molte più storie che grandi personaggi. E proprio nelle fasi storiche in cui di personaggi ( e di figli, tra l’altro) se ne creano pochi, vale la pena ricordare che si tratta di una grande esperienza. Le nuove generazioni di lettori si affermano e-leggendo nuovi personaggi . Sandokan resta ancora memorabile per chi ha una certa età (e Paco Taibo II lo ha appena riportato in vita con un romanzo già uscito in Spagna e che presto verrà pubblicato in Italia). Ma Banana Yoshimoto ebbe a dichiarare che non avrebbe mai fatto la scrittrice “da grande” se non avesse tanto amato “da piccola” il personaggio di Lady Oscar, che è nato con la SUA generazione. Questo nei fumetti è chiarissimo. Nei romanzi contemporanei molto meno. Allora, per la miseria: vogliamo lasciarli solo ai fumetti e ai telefilm i personaggi? Per uno scrittore, anzi per un narratore, questa resa equivale a una sconfitta. Ma secondo voi, se Dickens invece di inventarsi Scrooge (per dirne uno) avesse messo in pagina se stesso, ce ne fregherebbe ancora qualcosa di leggerlo?
Insomma, mi pare il caso di dire:
… Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre «qualcuno». Mentre un uomo – non dico lei, adesso – un uomo così in genere, può non essere «nessuno». (Sei personaggi in cerca d’autore, Pirandello,1954, p. 81)
Grazie mille a tutti per i nuovi commenti.
Un saluto di benvenuto a Rosario e Maurizio Crispi.
Un saluto di bentornata a Simonetta.
(Bello il riferimento pirandelliano di Simona).
@ Gianfranco
Bellissimi questi tuoi commenti sul rapporto narrazione/personaggi.
Una considerazione…
A proposito di personaggi “memorabili” (mi riferisco a quelli che entrano a far parte dell’immaginario collettivo) noto che quelli di ultima generazione (Harry Potter, Edward Cullen, Kay Scarpetta) sono personaggi seriali, mentre in passato si imponevano all’attenzione del lettore anche personaggi apparsi in un solo libro (come il Conte di Montecristo, o Emma Bovary).
Secondo voi, perché?
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P.s di personaggi seriali ne abbiamo discusso in questo post
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/10/il-maresciallo-bonanno-e-i-personaggi-seriali-incontro-con-roberto-mistretta/
Un personaggio puo’ fare molto di piu’, se ti fa riflettere su cio’ che fa, sul modo e sulle ragioni per cui lo fa. E io faccio parte di quei lettori a cui Gianfranco si riferiva poco fa, probabilmente. Il fatto e’ che talvolta focalizziamo la nostra attenzione sui fatti narrati e non sulle caratterizzazioni. Anche un periodo storico ben analizzato e “raccontato” assume la consistenza di un personaggio, come e’ avvenuto in Ho Freddo appunto, in cui il luogo, il momento, di certo hanno conferito alla storia quello spessore e quella densita’ che altrimenti sarebbero stati meno palpabili ed intensi. Di fatto se invece del Rhode Island del 1795 in cui quei fatti sono realmente accaduti ci fosse stato che so Poggio al Melo del 2005 in cui quei fatti risultavano totale finzione, la storia sarebbe risultata completamente diversa. Ma non diversa nei fatti, diversa nell’atmosfera, negli stati d’animo che avrebbe trasmesso, perche’ Poggio al Melo non sarebbe stato un personaggio “vero”. Questo e’ anche il grande valore di una base storica analizzata a fondo.
Non conta in che modo uno si avvicini ai personaggi, se sia tramite un fumetto, un libro, un cartone animato (Lady Oscar, caspita, sapevo tutto sulla rivoluzione francese e a scuola manco l’avevo studiata ancora!), e’ il modo in cui avviene l’avvicinamento, e cio’ che esso suscita e lascia come strascico, una sorta di piccolo “contagio”.
Io credo fermamente che in un buon libro, qualunque esso sia, oltre la storia debba esserci una solidita’ a livello di personaggio, altrimenti non resta nulla di credibile. Sto leggendo, o meglio dovrei dire che sto cercando di finire di leggere, un romanzo (di cui non faccio il titolo perche’ non mi pare bello) in cui ho trovato dei personaggi cosi’ male assortiti, cosi’ assurdi e poco credibili al punto che non riesco davvero a voltare le pagine. Sta li’ da un mese e piu’, non c’e’ verso, mi sono letta altri 8 libri nel frattempo, e quello non mi riesce di finirlo. Quindi grazie al cielo qualcuno crea dei personaggi cercando di dare loro uno spessore. Se poi restano attaccati addosso e non si riesce a liberarsene… beh, io non la vedo come una cosa negativa. Io ne sarei orgogliosa.
Per quanto concerne Stephen King e i personaggi delle sue storie, credo che uno dei motivi del successo potrebbe essere dovuto al fatto che il Re è stato capace di creare degli antipersonaggi (persone ordinarie, personaggi “della porta accanto”) che si trovano a vivere situazioni terribili e abnormi, ma – in alcuni casi – così ben caratterizzati da apparire veri.
Paradossalmente, nel caso di King, il lettore pare attratto da questi personaggi che sono di tutt’altro tipo rispetto a quelli “memorabili, ma irraggiungibili (o diversi)” di molte delle grandi storie della letteratura. Il lettore si rispecchia e si immedesima in questi personaggi, può essere uno di loro.
(Ehi, amico – pare dire King-… guarda che quel tizio potresti essere tu).
E poi, in quasi tutte le storie, viene implicitamente introdotta la vecchia domanda anni Cinquanta (che ancora tira)… “what if?” (cosa succederebbe se?).
Un saluto anche a Ila…
Tornando a “Tecniche di resurrezione” mi preme segnalarvi questo articolo di Errico Buonanno pubblicato sulle pagine de “Il Riformista”: http://www.gargoylebooks.it/site/content/tecniche-di-resurrezione-sul-riformista
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Riporto il testo di seguito…
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da “Il Riformista”
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Errico Buonanno, critico e scrittore a sua volta (Sarà vero, L’accademia Pessoa, Piccola serenata notturna) saluta con entusiasmo l’uscita dell’ultimo romanzo di Gianfranco Manfredi, sulla rubrica “Scaffale Aperto” del quotidiano Il Riformista.
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HORROR RAFFINATO E DA VERTIGINE
(Sabato 9 ottobre pagina 173 sezione: RECENSIONI)
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Prima di parlare del suo nuovo romanzo, Tecniche di resurrezione, è il caso di confessarlo apertamente: adoro Gianfranco Manfredi. Non lo adoro perché “nobilita” il genere horror, ma per il motivo esattamente opposto. Perché lo capisce, lo rispetta e non lo tradisce. Gli spazi in cui ambienta le sue storie, è vero, sono quelli dell’horror delle origini, le paludi dell’Europa di fine Settecento, la Londra ottocentesca dei vampiri, l’America puritana di Hawthorne. Ma se tutto ciò è chiaramente un omaggio, ed è trascurabile, il punto cruciale è invece un altro. I suoi romanzi (su cui la casa editrice Gargoyle sta giustamente puntando con forza) tornano a usare il gusto gotico per dare corpo a un sentimento scomparso, trascurato, e che tuttavia era il vero cardine di questa gloriosa tradizione: la vertigine. Un sentimento romantico. La vertigine che provava Leopardi davanti all’Infinito era lo stesso, identico cruccio che provava la Shelley scrivendo il suo Frankenstein: il senso della limitatezza dell’uomo davanti alla vita, il contrasto tra l’anima e la carne. E’ proprio questo ciò che Manfredi mette in scena, tornando a fare agire Aline e Valcour de Valmont (protagonisti del suo Ho freddo) sullo sfondo di un vecchio continente in preda a esperimenti galvanici e tentativi scientifici di sconfiggere la morte, presto sfocianti nel delirio.
Un romanzo raffinato, elegante, inventivo, con un tasso di sangue vertiginoso e, proprio per questo, estremamente romantico.
Errico Buonanno
Domani vi segnalerò altri articoli e recensioni dedicati a “Tecniche di resurrezione”.
Auguro a tutti voi una serena notte.
Massimo: riguardo ai personaggi memorabili di “oggi” talvolta mi viene il dubbio che ci sia anche lo zampino degli editori.
Specie quando si tratta di personaggi seriali di scrittori americani.
Buona notte anche a te
Mi sento un po’ in imbarazzo nell’intervenire in un thread dedicato a un autore e a un libro Gargoyle, ma non posso esimermi dal ringraziare caldamente Massimo e tutti quelli che sono nel frattempo intervenuti.
Ho già espresso nelle colonne del monumentale thread dedicato ai vampiri cosa penso di Gianfranco, e non posso che provare orgoglio nel verificare che l’entusiasmo che suscita in me come lettore è ampiamente condiviso. In realtà, mentre si disserta sulla compiutezza e sull’autonomia che può assumere un personaggio particolarmente ben riuscito, di fronte al caso Manfredi sono portato a sostenere che a volte il vero personaggio è proprio l’autore, specialmente quando riesce a ripetersi con regolarità a determinati livelli.
In quanto alle famose “tecniche di resurrezione”, posso vantarmi di averle sperimentate direttamente, rianimando lo “scrittore” Manfredi dalla non-morte dello sceneggiatore (di qualità eccelsa, va detto) di fumetti, e incoraggiandolo a esprimersi con un respiro e un’ampiezza narrativa che erano estranei ai suoi primi romanzi (la maggior parte dei quali adoro realmente). Oggi HO FREDDO e TECNICHE appartengono a pieno titolo al patrimonio della nostra migliore letteratura, e mi auguro di poter affiancare e sostenere Gianfranco nella stesura di un terzo romanzo, a completare una trilogia da tramandare con orgoglio (termine che ricorre fin troppo spesso parlando di Manfredi) alle future generazioni di lettori.
Il sito Gargoyle dà oggi notizia del presente dibattito, invitando alla partecipazione tutti i propri lettori: mi auguro che, dopo i succhiasangue”, Massimo si trovi a breve a doversi destreggiare con un nuovo thread “monster”. Buonanotte.
Gentile dottor De Crescenzo, grazie da parte di tutti noi lettori e studiosi appassionati di letteratura gotica per quello che sta facendo con la Gargoyle. Credo che questo marchio editoriale sia ormai diventato un punto di riferimento riconosciuto sia dai lettori, sia dalla critica nazionale (come dimostrano le belle recensioni al libro di Manfredi che ho letto qui).
Segnalo questo link sul Frankenstein della Shelley http://www.apav.it/mat/tempolibero/cinemaematematica/futurofiaba/allegatoilromanzo.pdf
Due parole sulla figura di Giovanni Aldini.
Giovanni Aldini (Bologna, 10 aprile 1762 – Milano, 17 gennaio 1834) è stato un fisico italiano.
Nipote di Luigi Galvani, docente presso l’Università di Bologna dal 1798, dove prese il posto del suo maestro Sebastiano Canterzani, incentrò i suoi studi sulle applicazioni dell’elettricità in campo medico e sull’illuminazione, sviluppando la costruzione di fari e dispositivi antincendio. Nel 1807 pubblicò a Londra uno studio sul galvanismo intitolato “An account of the late improvements in Galvanism” nel quale asserisce che in determinate condizioni sarebbe possibile riportare in vita un cadavere mediante stimoli elettrici, una teoria che troverà poi spazio nel romanzo Frankenstein, di Mary Shelley. Sempre mediante stimoli elettrici, durante i suoi spettacoli, induceva movimenti spasmodici ai muscoli facciali, alle braccia e alle gambe di esseri umani e di animali.
Scrisse numerosi trattati in varie lingue, tra le quali l’inglese ed il francese.
Molti suoi esperimenti furono giudicati spettacolari ed anche raccapriccianti (eseguiti su cadaveri); nel 1803 a Londra eseguì un esperimento pubblico sul cadavere di un impiccato shockando i presenti.
Grazie ai denari da lui lasciati fu fondata una scuola di scienze naturali a Bologna.
Su Aldini segnalo questo sito http://corrosion-doctors.org/Biographies/AldiniBio.htm
Qui c’è un altro documento che potrebbe essere di interesse http://www.bium.univ-paris5.fr/chn/textes/parent_aldini.pdf
Ila ha scritto nel suo ultimo post che in un romanzo storico anche l’epoca è un personaggio. Concordo. Il mio metodo consiste in una sorta di full immersion nel periodo in cui ambiento una storia. Leggo molti scritti d’epoca, di varia natura, recupero ricette d’epoca, musiche d’epoca, rappresentazioni teatrali di quegli anni, faccio molte ricerche sugli stili di vita e le abitudini quotidiane. Per definire bene un personaggio credo sia fondamentale capire dove vive, come lavora, come mangia, come si diverte, quali letture ha fatto. Insomma costruire la sua personalità, non soltanto come “carattere”, ma in relazione al suo tempo, in modo che davvero ci appaia come una persona concreta, reale, non come un puro stereotipo. Dunque il mio lavoro di documentazione non è dedicato tanto al tentativo ambizioso di raffigurare lo Spirito di un’Epoca e di dare un giudizio su un Secolo, è invece un lavoro che mi serve a dare realismo al raccolto. Credo infatti che quando uno spunto “fantastico” nasce da una base realistica, l’effetto emotivo sia molto più forte. Se una storia è improbabile fin dal principio, anche nel disegno approssimativo degli ambienti, non c’è sorpresa quando si inserisce una situazione di limite, che sia onirica o surreale o paranormale o miracolosa o horror o delirante, usate l’aggettivo che volete, credo ci siamo capiti: un evento che sfugge alla normalità e al normale andamento della vita quotidiana e che rappresenta l’irruzione di un altro Tempo, nel fluire storico del Tempo.
Paolo ha detto il vero: devo a lui se ho ritrovato la passione di scrivere romanzi. Il lavoro dei fumetti mi consentiva comunque di scrivere quello che volevo e di esercitare la fantasia, ed è ancora molto importante per me, dunque non trovavo particolarmente urgente scrivere altri romanzi in una fase che secondo me dal punto di vista letterario non è molto entusiamante. Però uno scrittore se scrive soltanto sceneggiature rischia di isterilirsi stilisticamente, di abituarsi troppo a scrivere a format, e di cedere, magari per stanchezza, ai cliché e alla ripetizione. Inoltre quello del fumetto è un lavoro di gruppo: si deve lavorare in collegamento non solo con il disegnatore, ma con lo staff redazionale, e risolvere tutti i problemi tecnici che si presentano ( tempi di programmazione, diverse velocità e tempi di esecuzione dei vari disegnatori, coordinamento generale eccetera). Un romanzo invece uno lo scrive da solo e alla fine è l’unico responsabile del risultato. Se è venuto male, non può scaricare la colpa su altri, non può ricorrere al comodo alibi che ho sentito spesso ripeter dagli sceneggiatori cinematografici “la sceneggiatura era bellissima, ma il regista era un incapace”, oppure “quell’attore cane mi ha rovinato il film” o anche “il produttore bastardo mi ha costretto a cambiare il finale”. La maggiore responsabilità che si avverte scrivendo un romanzo, aiuta ad essere anche più autocritici e severi giudici di se stessi, senza alcuna compiacenza.
@ Gianfranco
Ancora una volta grazie per le tue preziose riflessioni.
@ Paolo De Crescenzo
Caro Paolo,
grazie per essere riuscito a intervenire nonostante le difficoltà che so…
E grazie per quello che stai facendo con Gargoyle (a beneficio degli appassionati di letteratura gotica, ma non solo).
Come ha scritto qui sopra Laura Morini (che ringrazio per gli ulteriori contributi) Gargoyle è marchio editoriale “ormai diventato un punto di riferimento riconosciuto sia dai lettori, sia dalla critica nazionale”.
Qualche altro link…
Erika Zini dell’emittente bolognese “Ciao Radio” ha intervistato Gianfranco Manfredi sul suo ultimo romanzo.
(Potete sentire la voce di Gianfranco)
http://www.gargoylebooks.it/site/content/su-ciao-radio-manfredi-racconta-le-sue-tecniche
Alla giornalista Bice Passera, che lo ha intervistato relativamente all’uscita di Tecniche di resurrezione, Manfredi dice “amo i miei personaggi, le storie vanno disegnate prima di tutto a loro misura e soltanto poi in funzione degli avvenimenti da narrare”.
Qui il pdf per leggere l’intero articolo pubblicato sul n. 41 del settimanale VIVO:
http://www.gargoylebooks.it/site/sites/default/files/VIVO%2041%20094%20Libri.pdf
Una cosa che mi piace molto è documentarmi su lavori che non esistono più. Ad esempio sono piuttosto fiero del capitolo di “Ho freddo” in cui racconto come nella campagne del Rhode Island si fabbricassero le candele. Era un lavoro davvero allucinante. Quando ci si avvicina alla Storia bisogna stare attenti a non cedere alla tentazione di renderla troppo simile al presente “altrimenti il lettore non capisce”. Nella Storia non c’è solo permanenza di certi comportamenti umani, e non c’è solo “metafora” di problematiche contemporanee, c’è anche DIVERSITA’. Gli uomini hanno vissuto in modo molto Diverso nel corso dei secoli, con diversi stili di vita, diversi lavori, diverse morali, diverse leggi. Quando oggi si dice: Un altro mondo è possibile, bisognerebbe sempre aggiungere che non solo è possibile, ma ci sono mondi diversi in questo mondo, pur così omologato, e che ci sono stati nella Storia molti modi di vivere diversi dal nostro. Se invece cntinuiamo a proiettare sulla Storia il NOSTRO presente, è come se dicessimo: l’unico modo di vivere possibile è questo. Ciò oltre ad essere antistorico è atteggiamento di una presunzione intollerabile, e nega alla base ogni ipotesi di cambiamento: se infatti la Storia è sempre la stessa e Mutatis Mutandis tutto è sempre stato come il NOSTRO presente, allora lo slogan “Un altro mondo è possibile” è una velleitaria utopia. Un altro mondo non solo è possibile, ma è in atto, è sempre in atto, perchè i cambiamenti viaggiano indipendentemente dalla nostra volontà e spesso anche dalla nostra consapevolezza. Capire la DIVERSITA’ dei nostri avi, aiuta anche a capire oggi, i diversi da noi, la diversità in generale. E aiuta ad apprezzare i cambiamenti in modo critico, cioè valutando quando di positivo comportano e quanto di distorsivo. Nel cambiamento qualcosa si guadagna e qualcosa si perde. Certe cose del Passato ci sembrano ripugnanti, certe altre ci sembrano Purtroppo Perdute, certe opinioni ci sembrano superstiziose o ridicole, altre invece autentiche perle di saggezza che vale la pena riscoprire. Questo credo sia il giusto rapporto da avere con la Storia: misurarne tanto la vicinanza, quando la distanza.
Ci permettiamo di intervenire nel dibattito, dopo aver contattato Massimo Maugeri, per segnalare un romanzo in uscita che tratta il tema di “vivere per sempre”, o della “rinascita” in maniera narrativa, ovviamente, all’interno di un romanzo; si tratta di GRANDE AMORE (Newton Compton) di ANN BRASHARES, autrice di saghe che hanno venduto nel mondo 8 milioni di copie.
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In sintesi, nel romanzo è un’articolata e romantica storia d’amore e reincarnazione, il cui protagonista è un ragazzo che “ricorda” le vite precedenti. Daniel ha il dono della “memoria”: conserva cioè il ricordo delle vite passate ed è in grado di riconoscere “le anime” che ha incontrato nelle sue precedenti esistenze, (il titolo originale è “My name is memory”).
E c’è una persona in particolare che Daniel cerca, vita dopo vita: si tratta di Sophia, il suo unico grande amore mai vissuto.
Il suo primo incontro con Sophia risale alla sua prima vita, nel 541 D.C., quando Daniel, ancora ignaro del suo “potere”, era un giovane soldato agli ordini di Belisario in Nord Africa. Qui, incoraggiato dal sanguinario fratello, Daniel dà fuoco a un villaggio di civili scambiandolo per un accampamento tuareg, e si rende conto dell’errore solo quando vede emergere una donna da una capanna in fiamme e cerca inutilmente di salvarla. Lo sguardo di quella donna e il senso di colpa lo tormenteranno da quel momento in poi.
In una vita seguente (nel 552 in Asia Minore), Daniel incontra di nuovo la donna, che questa volta è Sophia, la moglie maltrattata di suo fratello Joachim (lo stesso fratello che aveva nella vita precedente e la cui indole non è migliorata con la reincarnazione). Per espiare la propria colpa, Daniel rapisce Sophia per portarla via dalla violenza del fratello e, dopo un lungo viaggio nel deserto durante il quale i due si innamorano senza confessarselo, la mette in salvo in un altro villaggio, promettendole che tornerà da lei. Daniel però viene ucciso da Joachim e riuscirà a tornare da Sophia solo reincarnandosi nuovamente, ma a quel punto lei, vedendo davanti a sé un ragazzino, non lo riconoscerà.
E così, vita dopo vita, i due continuano a incontrarsi senza mai riuscire a stare insieme, e ogni volta Daniel deve cercare – inutilmente – di farsi “riconoscere” da lei.
L’INCIPIT:
“Ho vissuto più di mille anni. Sono morto infinite volte. Non ricordo precisamente quante. Ho una memoria straordinaria, ma non perfetta. Sono un essere umano. Le prime vite sono un po’ confuse. L’esistenza dell’anima compie lo stesso percorso di ciascuna delle nostre vite, è una regola universale. C’è stata l’infanzia. Ce ne sono state molte. E quando la mia anima era ancora giovane, io avevo già raggiunto tante volte l’età adulta. In quei giorni, in ciascuna delle mie infanzie, la memoria corre più veloce. In quei giorni facciamo le cose meccanicamente, guardiamo in modo strano il mondo intorno a noi. Ricordiamo. Uso la prima persona plurale, ma intendo me stesso, la mia anima, i miei “io”, le mie molte vite. Dico “noi” e mi riferisco anche a tutti gli altri che come me possiedono la Memoria, l’archivio cosciente dell’esperienza su questa Terra che sopravvive a ciascuna morte. So che non siamo in tanti. Forse ne nasce uno ogni secolo, uno su milioni. Ci troviamo di rado, ma credetemi: ce ne sono altri. E almeno uno di loro ha una memoria molto più straordinaria della mia. Sono nato e morto tante volte, in molti posti. La distanza tra questi due eventi è sempre la stessa. Non ero a Betlemme per la nascita di Cristo. Non ho mai visto la gloria di Roma. Non mi sono mai inginocchiato davanti a Carlo Magno. Al tempo stavo cercando di mettere insieme un raccolto in Anatolia, e parlavo un dialetto incomprensibile nei villaggi del Nord e del Sud. Per tutti i momenti sensazionali possiamo contare solo su Dio e sul diavolo. I grandi avvenimenti della storia hanno luogo senza che i più se ne accorgano. Io li ho conosciuti attraverso i libri, come chiunque altro.
Certe volte mi sento più simile alle case e agli alberi che ai miei compagni umani. Me ne sto lì a guardare flussi di persone che vanno e vengono. Le loro vite sono brevi, ma la mia è lunga. A volte m’immagino come un palo piantato sulla riva dell’oceano. Non ho mai avuto un figlio, e non diventerò mai vecchio. Non so perché. Ho visto la bellezza in un’infinità di cose. Mi sono innamorato, e lei è l’unica costante. Una volta l’ho uccisa e molte altre sono morto per lei, ma non è servito a niente. Ancora la cerco; ancora la ricordo. Conservo la speranza che un giorno anche lei si ricorderà di me.”
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Nata e cresciuta a Washington, Ann Brashares ha studiato filosofia al Barnard College a New York, città in cui risiede attualmente. Dopo aver svolto diversi lavori in ambito editoriale, è diventata una scrittrice di successo. La sua serie Quattro amiche e un paio di jeans ha venduto 8 milioni di copie nel mondo e il suo romanzo L’estate di noi due è stato a lungo tra i bestseller del «New York Times». Il suo sito internet è http://www.annbrashares.com.
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Per saperne di più:
http://www.newtoncompton.com/index.php?lnk=101&ISBN=978-88-541-2226-0&idaut=1906;&idcur=
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http://www.newtoncompton.com
Mi riallaccio al commento di Gianfranco Manfredi sull’importanza dell’accuratezza delle ricostruzioni storiche in un romanzo che sia ambientato in un luogo e in’epoca precisi del passato, un passato che è nostro e che, nello stesso tempo, non ci appartiene più (perchè nel frattempo noi siamo andati avanti sia sotto il profilo delle tecnolgie, sia sotto quello della sensibilità e del modo di pensare).
Ci sono due modi di scrivere del passato (oppure di farne dei film), profondamente divergenti uno dall’altro: ricostruirlo con le categorie mentali del Presente, oppure cercare di farlo rivivere cos’ì com’era, con accuratezza e precisione.
In tanti film made in USA quello che accade è l’americanizzazione del passato: nel senso che vicende, anche lontanissime, vengono rivisitate e rese sintone al gusto americano contemporaneo e, se tale processo implica, un imbastardimento della verità storica e della rappresentazione dei costumi e delle tecnologie, poco importa.
Il passato diventa così il luogo delle nostre proiezioni di uomini del presente, una mera convenzione: il racconto è ambientato nel passato, ma ad esso sono applicate spudoratamente tutte le categorie del presente.
Quando ho visto “Troy”, ad esempio, mi è sembrato che la ricostruzione della guerra di Troia non fosse altro che una versione americana dell’invasione dell’Iraq, con le navi dei Greci – a migliaia – rappresentate come mezzi da sbarco di truppe moderne, per non parlare del fraseggiare utilizzato dai diversi personaggi e della loro sensibilità abbozzata a colpi d’accetta.
“Ho freddo”, come anche “Tecniche di resurrezione” è fondato su di un’approfondita attenzione storiografica, su ricerche d’archivio, ma anche su sopraluoghi effettuati sui luoghi descritti.
E’ quest’aspetto che rende unico e originale un romanzo, a differenza di altri testi (e film) in cui viene presentato sempre lo stesso polpettoncino (in cui a cambiare sono solo i luoghi, le date, i nomi dei personaggi, ma non la sostanza).
La godibilità di un romanzo sta nel fatto che ti aiuti a sognare (quando l’accento è posto sulla dimensione fantastica) oppure a viaggiare nel tempo e nello spazio.
E un viaggiatore (che non sia semplicemente turista) ha bisogno di informazioni attendibili e soprattutto gli deve essere data la possibilità di immergersi nel contesto, impregnandosi della sua sensibilità (che è anche quella della struttura intrinseca del pensare e di costruire rappresentazioni del mondo di chi lo abita).
Credo che questi due romanzi di Gianfranco Manfredi, proprio per questi motivi, escano dal genere ed entrino a pieno titolo nel solco della grande letteratura.
Concordo con Maurizio Crispi.
Bellissimo e da brividi il booktrailer..
🙂
– Avete mai letto il romanzo “Frankenstein” di Mary Wollstonecraft, sposa del poeta romantico Percy Bysshe Shelley? Se sì, cosa ne pensate? Che sensazioni ha suscitato in voi?
La mia prima lettura del romanzo di Shelley risale agli ultimi anni delle elementari.Prima di allora conoscevo solo la versione di James Whale e quando iniziai a leggere il libro rimasi sorpreso.Era completamente diverso dal film.L’inizio ambientato al Polo Nord mi disorientò parecchio all’inizio ma poi lentamente il dramma di Frankenstein e della sua creatura mi avvinsè e in un solo pomeriggio ne terminai la lettura.Ricordo di essermi identificato nella creatura,di aver visto nelle sue disavventure quelli che all’epoca erano i miei problemi a relazionarmi e farmi accettare dai miei coetanei.Ancora oggi “Frankenstein” rimane uno dei miei libri preferiti e il finale,con la creatura che sceglie di scomparire tra i ghiacci del Nord è un immagine che mi rimarrà indelebilmente incisa nel cervello.
– Se grazie a una sorta di sperimentazione tecnologica vi venisse offerta la possibilità di “vivere per sempre” (a voi e solo a voi)… accettereste? Se sì, a quali condizioni?
A prescindere da qualunque considerazione di natura religiosa… sarebbe “morale” accettare?
No,non penso che accetterei.Non credo di possedere la forza di volontà necessaria a vivere in eterno.Dopo un paio di secoli probabilmente mi stuferei e passare l’eternità tormentato dalla noia non mi alletta.
Non credo che accettare o non accettare una simile proposta sia immorale o morale.Qui entrano in gioco anche fattori legati alla personalità e alla volontà degli individui.
– Ci sono limiti oltre i quali la scienza medica non dovrebbe spingersi?
Si,questi limiti coincidono con la sicurezza e il benessere dei propri simili.Un esempio perfetto di come può essere la scienza quando non tiene conto del fattore umano è rappresentato dalla Germania nazista.Una nazione capace di enormi progressi scientifici in tempi brevi (la base dei moderni viaggi spaziali deriva da ricerche effettuate da scienziati nazisti) ma al prezzo di montagne di cadaveri umani.
Riguardo al rapporto tra gli americani (i cineasti in particolare) e la Storia, ricordo che da ragazzino non riuscivo proprio a sopportare il peplum: quegli antichi romani con le pettinature anni 60 alla Grease, amori ideali e famiglie monogamiche, visibilmente a disagio in toga perché non sapevano mai come sistemarsela, terribilmente imbranati nell’uso del gladio, con schiavi che sembravano dei domestici e ancelle che sembravano pin-up, beh tutto questo lo trovavo davvero ridicolo. Unica eccezione (parziale) Spartacus di Kubrick che se non altro aveva un senso “politico” di lettura. Rispetto a questi film preferisco quelli di Ercole e Maciste che essendo mitologici potevano permettersi ricostruzioni puramente fantastiche e immaginarie, e dunque erano più onesti. Poi ho apprezzato molto Satyricon di Fellini, film puramente visionario, fondato su una tesi secondo me illluminante e cioè che per l’uomo contemporaneo l’antichità ( il mondo pagano in particolare ) non sia rappresesentabile se non come un delirio totale: avete presente la bellissima sequenza del bordello “popolare”? Quello è un pezzo di cinema dell’orrore assoluto. Mentre il Caligola con le modelle di Penthouse è una cacata imbarazzante (scusate il termine). Andate in visita al Colosseo e leggete i cartelli che illustrano come il pubblico assisteva ai giochi… un rito davvero incomprensibile per noi moderni… poi confrontatelo con il Gladiatore di Ridley Scott e il suo pubblico da stadio o da televisione… non solo c’è da provare un profondo senso di pena per la ricostruzione iper-finta, ma c’è da arrabbiarsi per tutte le occasioni di racconto drammatico, allucinante, incomprensibile persino, che si è mangiato. Lo spettacolo vero e più sconvolgente avveniva sugli spalti , non nell’arena. Le persone anemiche, tanto per dirne una, nelle pause dei massacri andavano a bersi il sangue delle vittime. Il cinema conemporaneo ha troppo poco coraggio per mostrare queste cose, per raccontare la distanza assoluta che ci separa da certe culture arcaiche. La narrativa invece potrebbe e dovrebbe fare molto, invace pare giudicare più appagante sul piano commerciale, ridurre la Tragicità della Storia a una sfilata in costume. Sono rimasto “fulminato” quando ho letto la recensione di Pent al mio romanzo perché centra un aspetto di cui nemmeno io mi ero reso conto: io scrivo romanzi storici in cui la Storia appare come Nemica dell’Umanità. Questo è l’esatto contrario de “la Storia siamo noi”. Noi siamo invece travolti dalla Storia che in certi momenti è davvero un orrore indicibile. E riscoprire gli orrori del passato, ci aiuta a riconoscere con ben altra consapevolezza gli orrori del presente.
Ho dimenticato di dire che nel mio interesse per i temi di Frankestein penso abbia inciso anche il fatto che da studente tradussi per la Bompiani il “Frankenstein liberato ” di Brian Aldiss. Quella traduzione fu molto importante per me, perchè mi insegnò la “misura” del romanzo, e quanta fatica si debba fare per costruire ricostruire un testo “parola per parola”, ma cercando di risppettarne anche i ritmi e lo stile, non solo il contenuto. Credo che chiunque ambisca a diventare un narratore da grande, farebbe bene a tradurre prima di mettersi scrivere un romanzo proprio. Se si impara a tradurre un altro, poi si riesce a scrivere in proprio con un’altra maturità. Uno scrittore dopotutto traduce delle dee, degli spunti narrativi, in parole. Cioé qualsiasi scrittore, quando scrive, traduce se stesso, i propri pensieri, le proprie visioni, sulla pagina. E pr tradursi bisogna anche seceglier le parole giuste e più espressive tra le tante possibili, non limitarsi a buttare giù le prime che ci vengono in mente. Per questo l’esperienza del tradurre è davvero molto importante (a patto di impegnarsi seriamente, evitando il “traduttore automatico”). In genere si pensa che per tradurre si debba conoscsre alla perfezione la lingua originale, il che è vero solo in parte, serve ad evitare equivoci e fraintendimenti letali e a rispettare l’autore che si traduce, però tutti i grandi traduttori ffermano giustamente che per tradrre bene, bisogna conoscere molto bene, la PROPRIA lingua, cioè quella in cui si traduce, anche per un semplice fatto: quel romanzo verrà letto in traduzione, la sua lingua deve diventare una lingua trasparente al lettore.
I traduttori “lingua madre” per essere più chiari, conoscono perfettamente tutte le sfumature della lingua originale, ma in genere sono dei pessimi traduttori perché non conoscono abbastanza bene la lingua in cui si traduce.
Altro punto. Quando si scrive un romanzo storico, ci si imbatte spesso in espressioni che oggi non si usano più e in parole che molti lettori moderni non capiscono. Cosa si fa? Alcuni le traducono nel linguaggio contemporaneo, così capita di leggere che il faraone Ramses usa la parola “inconscio” per riflettere sui propri sogni, oppure che un cavaliere medievale dice: “Che mi frega?” Questa è roba da vomitare. Una vera presa in giro del lettore: se un faraone parla d’inconscio allora tanto vale che accenda la luce elettrica quando entra in camera da letto o che tiri lo sciacquone quando va al cesso. Dunque per evitare termini oggi oscuri, bisogna sceglierne altri che appartengano sempre all’epoca, ma che siano più chiari per il lettore di oggi. Basta avere un po’ di attenzione e di cura.
Uno degli aspetti interessanti delle “Tecniche di resurrezione” è proprio questo: la storicità è data ANCHE dal suo ritmo. Noi lettori del 2010 ci rendiamo che la vicenda è ambientata nel 1803 ANCHE perchè Manfredi la racconta con un passo narrativo diverso da quello attuale, con frasi lontanissime dalla moda uscita dalle scuole di “scrittura creativa” e vicine (piuttosto) agli autori dell’Ottocento.
Ci si annoia?
Ovviamente no. Perchè la noia o il piacere della lettura non vengono dati (e Manfredi lo sa e lo pratica benissimo) dalla tanto vituperata “lentezza” nè dalla tanto strombazzata “velocità”.
La rapidità o la lentezza di un testo (o di un film o di una melodia o di un ritmo) non sono (in se e per se) nè un valore nè un disvalore. Così come non lo sono (in se e per se chiarezza od oscurità.
La noia, il fastidio o il piacere ci arrivano da altre fonti. Soprattutto due: la tensione e il cambio di ritmo.
E Manfredi (lo scoprirà chi legge il romanzo) sa perfettamente dove si trovano, queste due sorgenti. E sa come utilizzarle.
Lo abbiamo intervistato, Gianfranco Manfredi, e la sua composita produzione ci ha infinitamente interessato. Cosa abbiamo compreso che non abbiamo voluto dire, riservandocela come arma, come ulteriore freccia per dire altro in altre recensioni? Anche in Tecniche di resurrezione ti pone davanti una realtà non spezzettata, non televisivamente narrata. Ti resta la sensazione che ci sia molto altro che le parole non hanno detto. E, pertanto, devi rileggerlo, per riuscire a ricostruire la trama di ciò che a teatro è detto “la trama non esposta”. E’ tutto ciò che in filigrana ti offre una miriade di ulteriori suggestioni, un caleidoscopio che si fa via via frastornante, eppure ti conduce, lungo una via perfettamente illuminata e senza infingimenti, a conclusioni sorprendenti.
Mi pare che Alessia e Michela abbiano centrato un punto: Manfredi è uno di quelli che, più lo leggi (libri, fumetti, interviste, interventi) e più ti vien voglia di leggerlo.
E se ne trae pure una grande lezione: quando si scava in profondità, non si finisce mai perchè si trovano sempre materiali nuovi.
Desideravo ringraziarvi per i nuovi commenti pervenuti dando il benvenuto, in questa discussione, a Francesco Moretta e al duo Alessia e Michela.
@ Gianfranco
La recensione di Sergio Pent è particolarmente centrata e lusinghiera. Complimenti, davvero.
Il solido e documentato interesse di Gianfranco per la medicina, in linea con il suo impegno civile dimostrato costantemente e come sceneggiatore di fumetti e come romanziere, ha portato il Centro Nazionale Sangue (Ente del Ministero della Salute) a farsi promotore – nell’ambito di “Staminabilia”, tra gli eventi previsti nel corso dell’imminente prossimo Festival della Scienza (Genova 29 ottobre/7 novembre 2010) – di una presentazione del romanzo nel capoluogo ligure il 30 ottobre (il romanzo come medium di sensibilizzazione che lo trascende).
@ Gianfranco
Ci daresti qualche informazione in più sugli eventi indicati nel mio precedente commento?
E io sarò a Genova solo qualche giorno dopo…che peccato.
Assai interessante, questa contaminazione promossa dal Ministero della Salute. Ma chi sono i coraggiosi ad averla proposta? Nel piattume conformista e ignorante di gran parte dei burocrati italici, questi qua spiccano con un gesto di innovativa e situazionista intelligenza.
Vi dico quanto so del Festival della Scienza di Genova previsto per la settimana entrante e in particolare il prossimo week end. Lo scopo primario è la divulgazione scientifica. Una questione particolare riguarda il fatto che all’estero, dopo il successo dei romanzi vampirici, si è lanciata una campagna pubblicitaria a favore delle donazioni di sangue da parte delle giovani generazioni, con lo slogan “Affama un vampiro, dona il sangue”. La campagna pare abbia avuto un ottimo risultato negli States. Per il Festival della Scienza di Genova, con analoghi propositi, si è pensato di sollecitare l’interesse giovanile con dei dibattiti, presentazioni di libri e di film, incentrati sui temi della donazione e più in generale della ricerca scientifica. A quanto ho appreso, il convegno ha già avuto qualche difficoltà: ad esempio sono stati tagliati i cineforum che dovevano discutere di alcuni tempi “delicati” dopo la proiezione di una serie di film horror. Temi come la clonazione, l’inseminazione artificiale e la ricerca genetica, giudicati da alcuni, com’è facile dedurre, sconvenienti e pericolosi. Pensate un po’! Evidentemente anche il solo parlarne, a certi “controllori” della pubblica opinione, pare rischioso. Comunque sia, l’incontro con il sottoscritto, su Tecniche, avrà luogo verso le 18.30 presso il Caffé Letterario di Piazza Erbe, sabato 30. Per l’occasione, il Festival ha pubblicato una penny dreadful, cioè un opuscolo narrativo che richiama quelli di epoca vittoriana e che contiene tra l’altro i primi due capitoli di Tecniche. Questo opuscolo stampato in un migliaio di copie, verrà mandato anche ai centri AViS. Ora, Tecniche non tratta di vampiri, però ci sono molti temi nel romanzo dedicati alla ricerca scientifica, alla donazione di organi, ai confini clinici vita-morte, e soprattutto al rapporto medico-paziente. Nel romanzo soprattutto con il personaggio del protagonista, il medico Valcour de Valmont, mi interrogo su alcuni problemi: fino a che punto di può distinguere la cura del corpo da quella dell’anima? Nel rapporto umano sempre auspicato tra medico e paziente come persona, fino a che punto ci si può spingere, e dove invece conveiene mantenere un rapporto distaccato? Il mio Valcour, da un lato è il medico che tutti sogniamo: visita i pazienti a casa loro e solo se strettamente necessario li ospedalizza, per quanto abbia un atteggiamento piuttosto burbero nei loro confronti è incline anche a prescindere dalla propria volontà a identificarsi a tal punto con le condizioni del paziente, da ricavarne problemi psicosomatici e da giungere fino al punto (“fantastico” ovviamente) di condividere persino gli incubi e i deliri dei propri pazienti, rischiando a più riprese di smarrire il senno. Valcour è dunque una figura di limite , per molti versi assai più estrema del dottor House. Se questo , indipendentemente dal romanzo in sè, può favorire delle riflessioni , ben venga. Anche altre questioni sono in gioco: come mai di fronte a un medico, noi pazienti tendiamo a ondeggiare tra una fiducia quasi miracolistica nelle cure, e una profonda diffidenza spesso anche non poco spaventata? La narrativa horror moderna ha molto da dire in proposito: i romanzi dell’ottocento sono pieni di figure di medici da un lato “progressisti”, dall’altro vissuti con profonda angoscia perchè esposti ad errori e a deviazioni che ci paiono mostruose: Frankenstein, il dottor Jekill, il dottor Moreau, prima ancora il dottor Faust, e dopo di loro altri infiniti bau-bau come l’indimenticabile Doctor Phibes interpretato da Vincent Price. Da dove è nata storicamente questa paura del medico? E come conciliarla con la nostra richiesta impellente di diritto non soltanto alle cure, ma alla guarigione infallibile?
Sperando non appaia come una auto-citazione, e per minimamente ricambiare la valanga di cose che stiamo apprendendo, si può leggere la nostra recensione di TdR anche qui:
http://stefanodonno.blogspot.com/2010/09/gianfranco-manfredi-tecniche-di.html
qui, invece, l’intervista a Gianfranco Manfredi:
http://napolimisteriosa-autori.blogspot.com/2010/08/alessia-e-michela-orlando-basta-con-gli.html
del suo Magico Vento, nonché della evoluzione creativa che ci pare aver colto, qui:
http://napolimisteriosa-autori.blogspot.com/2010/08/alessia-e-michela-orlando-corso-di.html
altro ancora si potrebbe leggere qui:
http://napolimisteriosa-autori.blogspot.com/2010/08/alessia-e-michela-orlando-i-vampiri-e.html
Cogliamo l’occasione, sperando non sia fuori luogo (l’eventuale rimozione del testo sarebbe ineccepibile, in tal caso), per dire che abbiamo iniziato una battaglia contro “come dire”.
Vogliamo proprio ucciderla. Pertanto proponiamo un acronimo in suo luogo: Ormai Malvolentieri Sogniamo Amore. Ci permettiamo questa segnalazione sperando che in questa discussione possa raccogliere qualche adesione.
C’è anche una ragione recondita: l’acronimo è O.M.S.A…
Si può leggere qualche spunto divertente qui:
http://napolimisteriosa-autori.blogspot.com/2010/10/alessia-e-michela-orlando-omsa-uccidere.html
Alessia e Michela
Una precisazione d’obbligo. Nel suo insieme il Festival della Scienza di Genova (che dura dieci giorni) è un evento complesso e a suo modo “grandioso” . Ne potete leggere un primo rapporto su due/tre pagine speciali di Repubblica di oggi e altri rapporti appariranno suppongo sui giornali nei prossimi giorni. Dunque l’iniziativa cui ho fatto riferimento prima e l’incontro che mi riguarda più da vicino, sono solo minima parte del Festival.
Sapete che…come dire?…ogni tanto il Web non lo sopporto più? Soprattutto quanto frequento siti interessanti popolati da persone interessanti che scrivono cose interessanti. Il motivo è molto semplice: il mio muso sbatte con troppa dolorosa evidenza contro un fatto brutale e impietoso. Non avrò mai tempo per poter inseguire tutti i consigli che mi vengono suggeriti, per correr dietro alle suggestioni lanciate, per mordere i bocconi che mi vengono mostrati e che vorrei assaporare. Certo: lo so già che la vita è ricchissima e inesauribile. E non ho bisogno del Web per scoprirlo. Ma vedermi squadernato davanti tutto questo bendidio, tutte queste infinite possibilità che (ne sono consapevole) non potrò mai percorrere, mi fa nascere una certa malinconia.
Forse nulla come il Web mi fa toccare con mano quanto le nostre vite personali sono solo un minuscolo frammento dell’immensa Possibilità. Un’analoga sensazione la provavo quando, da ragazzino, per strada incrociavo decine di ragazze che mi piacevano e che avrei voluto amare tutte ma sapevo (con dolcissima e atroce certezza sapevo) che non sarebbe mai accaduto.
Sorridiamo, egregio Luciano. Ci pare aver colto una Sua adesione omicidiaria al nostro post.
Grazie
Alessia e Michela
Ciao a tutti. Mi inserisco a discussione avanzata e condivido appieno le valutazioni entusiaste su ‘Tecniche’. Premetto che non ho ancora terminato di leggere: ma il fatto che lo centellini come in un rito serale, godendo scena per scena e cercando di farmelo durare il più possibile (“Fino a che avrò ‘Udolpho’ da leggere, mi sentirò come se nulla potesse rendermi infelice” scrive Jane Austen in ‘Northanger Abbey’), mi sembra costituisca già un buon titolo per esprimermi.
Certo, appena ho avuto il libro tra le mani mio figlio (V ginnasio) me l’ha requisito, ci è letteralmente impazzito e ora lo sta pubblicizzando tra i suoi compagni. Certo, il periodo storico è tra quelli che più mi affascinano, il personaggio di Valcour è delizioso e si vorrebbe averlo come frequentatore abituale di casa. E certo, lo stile limpido, brioso e insieme controllatissimo di Gianfranco conquista il lettore. Ma il fascino del romanzo mi pare vada ben oltre. Quel che forse mi colpisce di più è la ricchezza di implicazioni e possibili piani di lettura: in un’avvincente storia di mistero, fitta di colpi di scena e densa di fascino d’ambiente, l’Autore riesce cioè a compenetrare dimensioni diverse con uno straordinario equilibrio. Da un lato c’è il grande affresco storico, con riferimenti culturali e filosofici coltivati con rigore fin nei particolari. D’altro canto la vicenda vibra di una (genuina, il che non è poco) attenzione etica e sociale, occhieggiando all’oggi con deliziosi ammiccamenti tra le righe, ma nel rispetto delle dinamiche e del sentire d’epoca. Su questi aspetti rinvio alle belle riflessioni articolate da tanti amici già su questa pagina e nell’ambito della discissione parallela su vampiri e altri orrori.
Ma, ancora, ‘Tecniche’ non scorda la dimensione del divertimento, e prosegue un affascinante discorso sul mostro già varato con ‘Ho freddo’. Se quello era uno splendido romanzo di vampiri dove i vampiri non ci sono, non almeno nel senso più ovvio, qui con la stessa libertà sono chiamati in scena il mad doctor e il corpo reviviscente, la Mummia e persino quella declinazione teratologica ormai ben nota al pubblico che è il serial killer dalla maschera simbolica (non del Grido di Munch ma di inquietudini in fondo non troppo lontane, col rapporto tra fondi-cassa e diritti del consociato). Per non parlare dell’ombra di Sade – altro personaggio dell’odierna House of Horrors – alle spalle dei due fratelli protagonisti. Quel che emerge è una teratologia esplorata felicemente nelle sue due dimensioni possibili: da un lato la teratologia sociale, a mostrare quanto efficacemente l’horror sveli dinamiche collettive e nervi scoperti di un’epoca (anche) attraverso la rifrazione/confronto con altre, passate ma strettamente connesse; dall’altro quell’inquietudine personale e interiore che accede alle grandi domande dell’uomo.
Manfredi è come quei giocatori di calcio che stanno in serie B o C, a centrocampo fanno le fortune delle piccole squadre che se li prendono, segnano pure un bel po’ di gol, eppure le Grandi della serie A non li comprano nemmeno col lanternino.
Poi (quando un giorno o l’altro arrivano in Nazionale a 35 anni) la critica dice “ma dov’erano nascosti fino a oggi?”.
Al che vien voglia di dirgli (ai critici): “no, scusate. Fino a oggi dov’è che eravate nascosti voi”.
Ringrazio tutti per i nuovi contributi. In particolare Franco Pezzini, a cui dò il benvenuto in questo dibattito.
@ Gianfranco
Sarebbe bello se ci raccontassi – a riflettori spenti – l’esito del Festival della Scienza di Genova (almeno per la sezione che ha riguardato te).
@ Massimo. Subito dopo Genova, andò a Istanbul per la Fiera del Libro e del Fumetto e mi tratterrò là per tutta la settimana. Una corrispondenza la posterò senz’altro, al mio ritorno: sono molto curioso di vedere se in Turchia troverò lo stesso fattivo confronto tra scrittori, lo stesso cosmopolitismo aperto che ho trovato in altri convegni internazionali e che a mio parere caratterizza questo momento letterario, anche se i critici di casa nostra non se ne sono accorti e continuano ad andare in cerca dello “specifico italiano”, delle “nuove generazioni di scrittori italiani” (come se si venisse immessi in letteratura a ondate generazionali successive) e a valutare il lavoro degli scrittori in generale in relazione a “scuole nazionali” spesso del tutto inesistenti. L’ignoranza della critica accademica rispetto al quadro operativo della scrittura in questa epoca globalizzata, non manca costantemente di sorprendermi, anche nel campo dei riferimenti. Non riesco personalmente a dare la minima credibilità a critici e in particolare a storici della letteratura contemporanea, che MAI in vita loro hanno scritto qualcosa su autori come Ken Follet, Grisham, Stephen King, Chrichton, quasi la loro influenza sia stata nulla, o da confinare al dominio dei “generi” , a una sorta di campo “popolare e di mercato” inteso, da quella critica, come Pre-Letterario, e tutto sommato insignificante. Il risultato è che si occupano di opere DAVVERO insignificanti, coltivando e militando senza rendersene conto nel più assoluto provincialismo culturale, alla ricerca di una letteratura di cui in genere lamentano l’assenza, senza capire che è assente proprio perché non c’è. Non varrebbe la pena di occuparsi di quella che c’è?
@ Franco. Grazie per il tuo commento. Certe cose del mio romanzo (ad esempio la descrizione onirica del viaggio della Mummia nel regno dei morti) non capivo neppure io, scrivendo, dove mi avrebbero portato. Poi è capitato che nel thread sui vampiri tu abbia postato delle riflessioni in merito alla simbologia del Serpente come mito di rinascita, e mi hai anche deliziato inviandomi un tuo saggio sull’argomento, leggendo il quale ho finalmente capito cosa diavolo avevo scritto cedendo puramente e semplicemente all’inconscio.
Accolgo l’invito di Massimo Maugeri e posto qui alcune note sul Festival della Lettatura di Istanbul da cui sono appena tornato. Gli stimoli che ne ho ricavato sono talmente tanti, l’esperienza è stata così intensa, che mi ci vorrà tempo per metabolizzare. Vi evito un Diario perchè sarebbe magari interessante da leggere, ma renderebbe impraticabile una discussione, accumulando troppi temi e troppe questioni tuttora per me aperte. Dunque comincerò con alcune note essenziali, dichiarandomi più che disponibile ad approfondire e a rispondere a eventuali richieste di chiarimento. Anzitutto una premessa. Era stato a Istanbul nel lontano 1971. La memoria inchioda i posti in cui si è stati al passato. Quando si scopre come siano cambiate le cose in quarantanni, non si può non vivere una speasante sensazione di viaggio nel tempo cancellato e non ci si può fare a meno di chiedere, cosa penseremmo del NOSTRO stesso passato se venissimo rimpiombati indietro di quarant’anni, ma soprattutto con quali occhi potremmo guardare al nostro PRESENTE. Instanbul è attualmente un città di quindici milioni di abitanti cui vanno aggiunto cinque o sei milioni di immigrati clandestini. La mia prima sensazione è stata di choc assoluto, dato che ricordavo una Istanbul che non esiste più, e che molti dei suoi stessi abitanti attuali non hanno mai conosciuto. A questo va aggiunto il disagio di ritrovarsi costantemente bloccati nel traffico a passo d’uomo , non solo di auto, anche di persone.
La città si distende per cento chilometri. Per arrivare al festival dal mio albergo dovevo farne ottanta al giorno a una velocità non superiore ai trenta chilometri all’ora. La fiera, di dimensioni pari se non superiori a quella del Libro di Torino, era affollata da centinaia di migliaia di persone, in larga maggioranza donne. Ragazze in casual , jeans e maglietta, ragazze in minigonna e ragazze con il foulard , ma tutte con cellulari di ultima generazione . Intere scolaresche di ragazzini anche molto piccoli . Lunghissime file agli stand per le firme degli scrittori. Veniva da ridere, davvero, ripensando ai discorsi sulla Morte del Romanzo, che pure si fanno anche là, ma a quanto risulta evidente piuttosto fuori misura, e fuori da ogni presa d’atto dei fenomeni di aggregazione fisica e culturale che non possono essere certo ridotti a proiezioni virtuali e/o tecnologiche, tale è la loro complessità. Come spiegare una realtà metropolitana di questo genere confrontandola alla nostra piccola Italia? Tremano i polsi solo al tentativo. Omologazione? Non si capisce più di cosa si stia parlando. Dentro Istanbul vivono decine di città diverse anche architettonicamente, stratificazioni storiche e culturali in perpetua trasformazione, culture diverse e multiple accavallate eppure reciprocamente trasparenti, melting pot inimmaginabili. Le omologazioni sono la superficialità vistosa quanto prevedibile (i Pizza Hut, gli Starbuck Coffee), che copre una realtà sfuggente che nessuno sa e può prevedere dove ci condurrà. Quanto ridicoli mi sono sembrati, là in mezzo, i nostri discorsi sulla cultura islamica, da noi conosciuta poco e male, attraverso la stampa, le chiacchiere, le propagande. senza mai passare nel bagno rigenerante e insieme stravolgente del vissuto vero, dell’esperienza personale . Nulla di ciò che si dice corrisponde a quanto di vede e si impara a conoscere anche in pochi giorni di permanenza. me ne sono andato dall’Italia con ancora in testa un dibattito televisivo che avevo visto sui rifiuti di Napoli, ad esempio, nel quale qualcuno aveva osservato (e mi era parso saggiamente) che gran parte della difficoltà di risolvere il problema stava nelle dimensioni metropolitane di Napoli. A Istanbul , nonostante le dimensioni, il problema rifiuti non esiste. La città è di una pulizia che ci fa vergogna. Si cura persino che i cassonetti (peraltro costantemente svuotati) non offendano il gusto estetico, e dunque sono protetti dentro appositi recinti in modo da sparire alla vista.Lo smog è in compenso intollerabile e mi hanno raccontato che in provincia , persino in piccoli centri, la situazione è anche peggiore. Tra funzionamento “svizzero” e paralisi pare debba logicamente esserci opposizione insanabile, eppure a Istanbul i due dati di fatto coincidono.
Ecco. Questo per darvi un primo quadro d’insieme, prima di passare a questioni più squisitamente letterarie.
Ho appena finito di leggere il suo resoconto su Istanbul.
Grazie. L’anno scorso pensavo di andarci in vacanza, ma il mio fidanzato si è opposto dicendo che quella città è ascrivibile nell’elenco dei “luoghi a rischio”.
Gli farò leggere questo suo post.
ci siamo permessi di inserire online il post su Istanbul di Gianfranco Manfredi http://terzapagina.blog.kataweb.it/2010/11/08/istanbul-vista-da-gianfranco-manfredi/
ringraziamo Manfredi e ringraziamo anche Massimo Maugeri per averci dato “carta bianca” per attingere dal suo blog.
Prima questione. Ero stato invitato insieme ad altri autori di fumetti, non solo Bonelliani. Prima sorpresa. Lì alla Fiera le pubblicazioni a fumetti non erano ghettizzate in un’apposita sezione. I fumetti si chiamano (da sempre) in Turchia “romanzi per immagini” , definizione assai più appropriata di bandes dessinées o di Cartoon o di Comic-Books. Sono cioè narrativa, per cui gli stand di editori fumettistici sono mescolati a quelli della Letteratura, negli stessi padiglioni. Non esiste alcuna gerarchia di tipo accademico per cui la narrativa a fumetti sarebbe di per sé inferiore a quella puramente letteraria. E ciò nonostante il fatto che il fumetto turco non esista, nel senso che gli autori di fumetti turchi si possono contare sulla punta delle dita. Ora: cosa ho visto per gli stand? Nonostante la stima profonda e di lunga data dei turchi per la cultura italiana, la nostra letteratura è quasi assente e ci sarebbe davvero da chiedersi come mai ci si preoccupi così poco da parte nostra di pubblicare in Turchia, mentre francesi, tedeschi e americani sono assai presenti. Ma vengo allo specifico dell’horror e del neo-gotico, tema che ovviamente attirava il mio interesse. La Meyer la si è pubblica in Turchia, però in una collana del romanzo rosa, dunque in modo ben distinto dal vampirico tradizionale. Ovvio che il fenomeno vampirico stia emergendo anche là, però più affidato ai classici (tra i quali si può collocare Anne Rice) , mentre del vampirico-sentimentale alla Meyer si diffida e lo si considera poco interessante . Peraltro questi temi stanno appena affiorando e dunque non se ne può prevedere il futuro radicamento. Una sera mi hanno portato in un posto davvero strabiliante, dopo giri infiniti per vicoli tortuosi. Una vecchia sala cinematografica restaurata a Museo, con vecchi proiettori, poster, immagini di attori turchi sconosciutissimi da noi. Lì sopra stanno gli uffici della Horizon, una produzione cinematografica che da poco tempo ha cominciato a ripubblicare in DVD film turchi dagli anni 50 a oggi che percorrono tutti i generi minori, cioè quel tipo di produzione che noi oggi chiamiamo cult e che loro chiamano fanatik. Mi hanno fatto omaggio di un ricchissimo catalogo illustrato che contiene più di duemila film che saranno nel tempo restaurati in digitale e ristampati. Il genere prevalente è la commedia. Parecchi film storici ed epici. Un numero impressionante di film erotici, soprattutto degli anni 70, con donne integralmente nude già sul poster (i nostri poster al confronto erano assai più castigati). Di questa immane produzione non sospettavo neppure l’esistenza. Moltissimi gangster-movies, spy movies o polizieschi, ma quasi nessun Giallo propriamente detto. Un numero incredibile di western locali, più influenzati dai nostri spaghetti western che dal cinema americano. Un nutrito numero di titoli di fantascienza e fantasy fiabesca. Ma di horror, quasi zero. Soltanto due i titoli, negli anni 70, exploitation turche de L’Esorcista. Qualche isolato licantropo (non in quel catalogo, ma reperiti altrove). Zero vampiri. Se dunque in Turchia l’horror è stato assente dalla cultura popolare e di massa per decenni, è evidente che stenti a muovere grandi masse, ma è anche evidente che questi primi passi , già premiati da un notevole interesse di pubblico, segnalano una trasformazione “epocale” in atto. Un discorso analogo all’horror si può fare per il thriller: sempre più numerosi i titoli e gli autori pubblicati e il loro potenziale di mercato ancora largamente inesplorato e imprevedibile . A maggior ragione vale la pensa di esserci se non altro perché quando un fenomeno comincia, è particolarmente vivace e fecondo e attira i lettori migliori, cioè quelli più esplorativi e innovatori del gusto medio. E naturalmente si comincia dalla fine. In pratica: l’ondata di romanzi sugli zombi che avevo già visto abbondantemente deflagrata in Spagna, in Turchia è al principio, ma già attira maggiore interesse del vampiro depotenziato o à la mode che abbiamo conosciuto in Italia in questi ultimi due o tre anni. La letteratura vampirica debutta in Turchia già attraverso un filtro che ne seleziona all’origine le scorie commercialmente imitative e banalmente replicanti.
Ho letto anch’io. Grazie mille a Gianfranco Manfredi.
Conosco Istanbul e l’ho molto amata.
Purtroppo c’è molto pregiudizio nei confronti della Turchia. Anche della Turchia letteraria.
Dal post di Manfredi si evince altro.
Ora quando in Italia accadrà qualcosa di positivo per la letteratura, a ragion veduta potremo dire : “Cose turche”.
@ Annamaria. Istanbul un luogo a rischio? Molto meno di New York. Portacelo al guinzaglio, tuo marito, e cominciata il giro dalla Torre di Galata, dalla quale si ha una vista panoramica complessiva. La Torre venne costruita da un architetto genovese, all’epoca delle repubbliche Marinare. nella piazzetta antistante è esposta una targa che ricorda il padre (il padre!) di Jean Jacques Rousseu che dalla natia Ginevra giunse a Istanbul nel 1710 circa, per lavorare come orologiaio di corte. Dalla stessa torre, nel Seicento (!) un avventuroso e spericolato trasvolatore turco munito di ali artificiali ispirate ai disegni di leonardo, si lanciò attraverso il bosforo, volando per sei chilometri in linea d’aria tra la sponda europea e quella asiatica e atterrando con pieno successo. Ecco: predisponetevi a questi intrecci culturali che testimoniano se non altro quale cosmopolitismo abbia regnato per secoli in Europa e quanti e quali fattivi legami con quel mondo del vicino oriente che oggi la propaganda vuole farci credere così lontano e “pericoloso”.
@ Gianfranco Manfredi
Grazie. Non è ancora mio marito, ma lo sarà presto. Ci sposeremo l’estate prossima. magari potrei proporre un viaggio di nozze proprio a Istanbul.
“Cose turche” come ha scritto Leo. 🙂
Una piccola nota riguardo alla questione islamica. In una città così pazzescamente moderna, ogni tanto risuonano, a spezzare la giornata, i richiami dei muezzin, così incredibilmente melodici e tra l’altro moderni, perchè si avvalgono oggi di tecnologie “ad eco” da sala di registrazione discografica d’avanguardia. La vita continua a procedere inalterata. Non è vero che tutto si blocca. Ma si vedono gruppi che si lavano i piedi in apposite fontane e spezzano il ritmo giornaliero, pregando. Sono richiami che ricordano, per chi ha avuto l’avventura di ascoltarle in passato, le nostre campane, oggi odiatissime in Italia, perché chi si prende una casa in campagna come prima cosa chiede al comune locale di silenziare le campane che lo disturbano, il che la dice lunga circa il nostro rispetto per la tradizione religiosa intesa come rito sociale. All’ora della funzione, tra le due e mezza del pomeriggio e le tre e mezza, anche le Moschee più antiche e turistiche come la Moschea Blu, chiudono ai visitatori, per rispetto della cerimonia e dei fedeli, e questo anche se il traffico turistico porta soldi. Il che mi ha fatto venire in mente il mio imbarazzo (imbarazzo da non credente) quando mi capita di entrare a vedere le bellezze di una chiesa o cattedrale italiana e trovo che c’è una funzione in atto. Mi chiedo quale raccoglimento possano trovare i fedeli, vedendosi circolare attorno turisti svagati con macchina fotografiche al collo. Quale mancanza di rispetto! Non è questione di essere islamici o cristiani, dovrebbe essere questione elementare di civiltà. Peraltro sarebbe sviante pensare che la religione in Turchia (uno dei primi e più importanti stati laici d’Oriente) sia fenomeno di resistenza dell’antico o di difesa fondamentalista rispetto all’Occidente. Il fenomeno è assai più complesso. Oggi in Turchia c’è al governo un’alleanza tra super-americani e religiosi. In altre parole, mercantilismo occidentale e tradizione religiosa non si oppongono affatto, anzi si tengono l’un l’altra. E’ una sorta di diabolico abbraccio che molti turchi vedono minacciare la loro storia profondamente laica e la loro stessa legislazione. Qualcosa di estremamente simile alla nostra destra al governo, insieme irreligiosa e consumista nei comportamenti quanto all’apparenza devota e clericale. Anche noi, come i figli e i nipoti di Ataturk, ci troviamo in questo diabolico abbraccio a dover difendere elementari valori Costituzionali. L’attuale premier turco è grande amico di Berlusconi e negli alberghi turchi, infatti, come canale italiano, non si vede Rai Uno, bensì Canale Cinque. La loro immagine dell’Italia è costituita da Bonolis, Maria de Filippi e Grande Fratello. Ciò non impedisce ai giornali turchi, anche quelli di regime, di irridere ormai apertamente a Berlusconi e alla sua vita “privata” , il che è per noi piuttosto desolante. Mi sono fatto tradurre un titolo che commentava una sortita del nostro premier che prometteva di togliere le prostitute dalla strada e si diceva apertamente fin dal titolo che stavolta la promessa appariva fondata visto che se la porta tutte a casa sua. Questa farsa totale, che non manca di avvilirci, va anche però letta in trasparenza come metafora di un simile destino della LORO rappresentanza politica inquinata insieme da affarismo e da una religiosità di pura facciata. Questo però non significa che chi è religioso non senta acutamente la contraddizione e non ne soffra. Questo dovremo tenerlo sempre presente, anche quando si discute di cose nostre.
Un commento voglio anche dedicarlo a un caso del tutto particolare, ma significativo. Faceva parte della nostra spedizione in Turchia il grande disegnatore di Zagor Gallieno Ferri, persona davvero ammirevole al di là del suo eccellente lavoro, che all’età di 82 anni suonati fa il wind surf. Anche gli appena trentenni tra noi, a furia di traffico, ingorghi e passeggiate per mercati, erano più stremati di lui. Ferri è stato intervistato dalla TV turca, con un lungo servizio dedicato a lui e al suo personaggio, gli sono stati dedicati articoli di una pagina intera su molti quotidiani, al mercato lo riconoscevano e lo festeggiavano con applausi a scena aperta. Una sera gli è stata dedicata una festa in un locale di giovani, in un quarto piano affollatissimo, senza uscite di sicurezza, tutto in legno, in cui si sono esibiti in suo onore diverso gruppi rock, tra i quali uno post-punk formato da tre scatenate ragazze turche (grande bassista, mi è stato detto, io soffro di claustrofobia in ambienti troppo chiusi e affollati, per cui purtroppo sono dovuto uscire). Ferri era più che commosso. Giunto alla sua età, mai in Patria gli era capitato di essere stato così celebrato e trasversalmente alle generazioni. Beh, quanti bravissimi professionisti, conosciuti e popolari all’estero, abbiamo in Italia ? E perché se ne parla così poco? Perché il nostro paese, noi stessi, non sappiamo mostrarci riconoscenti a queste persone? Altri brutti interrogativi che continuiamo da sempre a portarci dietro senza saper trovare risposta.
@ Annamaria. Preparati anche agli acquisti. Ho visto delle scarpe Dockers originali a 39 lire turche, che corrispondono all’incirca a venti euro. DVD di film americani o di serie tipo Lost venduto a 2 o Tre lire turche l’uno, cioè a 1 euro/1 euro e mezzo, mentre noi gli stessi oggetti possiamo pagarli anche 22/24 euro. Viaggiando si impara che nel nostro cosiddetto mercato non esiste valore oggettivo, intrinseco delle merci. E anche questa è una bella materia di riflessione. Se le major americane fanno profitti anche vendendo i loro film a 1 euro, quanti ne fanno su di noi babbi? E poi se la prendono con il download gratuito! Ma per favore! Esistesse il download delle scarpe, mi scaricherei anche quelle.
Due smisurati quartieri periferici. Uno è stato costruito negli anni 70. Palazzoni di una certa distinzione, in quartiere residenziale modello, immersi nel verde e nei parchi. Oggi non ci abitano più i ricchi, passati ad altre magioni. Ci abitano persone di ceto medio, ma il quartiere non si è per nulla degradato nelle sue strutture e nella sua vivibilità. Poco oltre sorge un altro quartiere sorto d’incanto da appena quattro anni, dove prima c’erano solo campagne. Nessuno spazio verde, solo disumani e colossali ipermercati di cemento, come nel più squallido dei panorami lombardi. La crisi ovviamente colpisce anche lì, per cui quegli ipermercati e shopping center, non attirano più come prima una massa gigantesca di consumatori. Ma le grandi compagnie se ne fregano. Si annettono terrotori, ci costruiscono le loro cattedrali, rapinano le persone con il miraggio magari dei grandi sconti, poi finita la rapina se ne vanno a rapinare altrove e lasciano intere città da Blade Runner che dopo aver cancellato il paesaggio hanno distrutto anche ogni possibilità di vera vita sociale. In Lombardia, dove abito, per vedere e poter valutare i risultati di questa trasformazione speculativa abbiamo dovuto aspettare una ventina d’anni. Lì tutto questo è avvenuto in un tempi incredibilmente veloce: soltanto quattro anni! Quando si celebra il cosiddetto “libero mercato” che libero non è per nulla, ci rendiamo conto di cosa stanno facendo al mondo e a noi stessi queste compagnie internazionali?
Gianfranco, la possibilità di effettuare acquisti a basso costo potrebbe essere uno degli elementi da utilizzare per convincere il mio lui a organizzare una vacanza a Istanbul, che poi dal punto di vista letterario non dimentichiamo che è la patria di Pamuk.
Ci sono, ho scoperto, altri celebrati autori turchi, interessanti quanto Pamuk. Purtroppo non sono tradotti in italiano, ma si trovano in francese. Comunque anche questo è interessante, parlo del fatto che Pamuk non è un fungo spuntato in splendido isolamento, ma il frutto di una narrativa che in particolare sul romanzo storico di ricostruzione (tipo “Il mio nome è rosso”) vanta una ricca tradizione.
@Gianfranco.Non mi stupisce l’accoglienza tributata a Ferri,in passato in Turchia furono girate alcune pellicolenon autorizzate su Zagor il che indica che almeno le storie classiche del personaggio lì sono state pubblicate.(e con ogni probabilità sono anche rimaste nell’immaginario locale data l’accoglienza a Ferri) Sull’immagine falsata che abbiamo dell’Islam è illuminante un racconto ucronico di Bruce Sterling,pubblicato nell’antologia “Strani attrattori” e interamente narrato da un giornalista musulmano che fornisce un autentico ribaltamento di molti luoghi comuni.
Il bello della conoscenza è questo:
più impariamo e più scopriamo che siamo ignoranti.
A quel punto si aprono due strade:
una ci porta avanti (pur nella consapevolezza che imparare è come l’orizzonte, sempre davanti a noi),
una ci porta a chiuderci dentro i nostri quattro muretti.
Non c’è alternativa: o cittadini del mondo o leghisti/talebani.
Caro Gianfranco,
grazie mille per i tuoi nuovi commenti e per averci raccontato l’esperienza di Istanbul.
@ Francesco. La Horizon International ha da poco pubblicato i due DVD dei film di Zagor girati nel 1971. I DVD hanno i sottotitoli italiani. Sono davvero divertenti. Alla Fiera è intervenuto anche l’attore che li interpretò all’epoca. E’ vero che non erano autorizzati, ma Bonelli ha fatto pace quando glieli hanno mandati e si è divertito. Li consiglio entrambi per una di quelle visioni tra amici in cui i film non si vedono in religioso silenzio, ma spanciandosi dalle risate. Qui per la verità si sorride: la totale, surreale improbabilità degli scenari si accompagna a una grazia favolistica del racconto che in qualche modo riesce ad essere poetica. Chi fosse interessato a questi o ad altri titoli del catalogo della Horizon può scrivere alla mai fanatik@filmfanatik.com
@Gianfranco.Grazie per la dritta,da vecchio fan di Zagor avevo la curiosità di vedere quei film.
Bellissimo reportage, Gianfranco.
Vien quasi voglia anche a me di andarci a Istanbul.
Se non avessi una maledetta paura dell’aereo…
@ Valter. Un amico turco che doveva andare a Parigi e non aveva voglia di pendere l’areo, mi ha raccontato di esserci andato in auto e già che c’era di aver fatto anche una puntata in Italia. Ci siamo fatti molte risate anche perchè noi ormai si sa : o aerei o a casa. Poi dopo essere rimasto bloccato per ore e ore nel traffico di Istanbul ho capito che il mio amico aveva voluto provare il brivido di guidare la macchina sul serio. Al tempo non faceva più caso considerato quello necessario a Instanbul per fare pochi chilometri. A volte, e vi assicuro che non sono nostalgico, mi viene da pensare a quando noi da ragazzi ci imbarcavano su degli scassati pulmini, per affrontare viaggi spericolati e tra l’altro con in tasca poco più di quanto necessario alla benzina. Era un altro viaggiare. Oggi si prende l’aereo si finisce in un albergo identico a quelli ci siamo abituati in Europa e se va bene ci ritroviamo in un film di Sophia Coppola che non è proprio il massimo della vita. Al di là di questo, è incredibile quanto si impara vedendo come sono cambiati a distanza di anni certi paesaggi, non solo urbani. Spesso in noi (è naturale che sia così) il ricordo di posti che abbiamo visitato si sedimenta in un tempo eterno e fisso, quasi che tutto dovesse restare sempre uguale. Anche le nostre idee di altri popoli restano ferme di decenni. Emma Bonino, che va spesso al Cairo, mi ha raccontato che tutte le volte che qualcuno dei suoi amici deve andare in Egitto si preoccupa di chiederle cosa deve portarsi dietro, a partire dalle scorte alimentari, figurandosi magari di trovare una città antica, coi cani morti per strada e schiere di mendicanti. Dopodiché trova una metropoli sconfinata e iper-moderna rispetto alla quale le nostre sembrano piccoli borghi di provincia. Detto questo, dato che ero stato a Instabul quasi quarant’anni fa, ripeto che lo choc è stato analogo a quello di incontrare alla stessa distanza di anni il tuo primo amore, o magari un compagno di scuole che ti ha contattato via FaceBook (e di cui non hai nemmeno riconosciuto la Face). Improvvisamente riacquisti il senso del tempo passato, anche sulla TUA pelle. Ma l’analogia si ferma qui, una volta che ti sei rammaricato che Carnaby Street non sia più la stessa, o che il quartiere di londra in cui avevi vissuto per un anno abitato negli anni 70 dalla working class, ora è uno sterminato villaggio indo-pakistano, te ne viene un altro di pensiero: che il mondo si trasforma (e non necessariamente imbruttisce o invecchia) a un ritmo assai più veloce di quanto non ci accada di percepire qui in Italia. Quando vado a Roma, non la trovo molto diversa dai primi anni 80, in cui ci avevo abitato. La Londra di oggi invece non c’entra proprio nulla con quella che avevo conosciuto da ragazzo. La nuova Istanbul poi, ci vorrebbe un anno per visitarla bene e comprenderla. E non si ferma mai. Lì mi hanno anche svelato che i nuovi afflussi di immigrati clandestini sono rappresentati in massima parte dai rom cacciati dalla Francia o dall’Italia. Abitano in quartieri periferici, ma in case, non in roulotte o in campi di baracche.
Gianfranco Manfredi e la resurrezione del gotico (di Luca Pantarotto).
Da “AtlantideZine.it”
http://www.atlantidezine.it/gianfranco-manfredi-tecniche-resurrezione.html
Il post è sempre aperto.
Il libro di Manfredi lo sto leggendo in questi giorni. Non ha una partenza “a razzo”, ma più si va avanti più intriga ed appassiona. Ed è molto ben scritto e splendidamente documentato dal punto di vista storico. I miei complimenti a Gianfranco!
Gianfranco, come stanno procedendo le presentazioni del libro?
Sarai alla Fiera romana della piccola e media editoria “Più libri, più liberi”?