Cos’è il romanzo oggi? Quale genere narrativo sa raccontare meglio la realtà? Quali sono o saranno le forme espressive dominanti del XXI secolo? Dov’è il limite tra citazione e plagio? Chi stabilisce se un autore, appropriandosi di una parte dell’opera altrui, sta costruendo un nuovo orizzonte di senso o sta solo copiando?
Queste sono alcune delle domande che pone e si pone David Shields: autore di opere narrative e saggistiche di successo, tra cui “Black Planet” (finalista al National Book Critics Circle Award), tradotte in dodici lingue, e di racconti e saggi brevi su varie testate (come, ad esempio, «New York Times Magazine», «Harper’s Magazine», «The Village Voice», «McSweeney’s» e «The Believer»).
Shields, per la verità, è andato oltre. Non si è limitato a porre (più o meno implicitamente) domande, ma ha pubblicato un libro (in Italia è stato appena pubblicato dalla Fazi) intitolato “Fame di realtà. Un manifesto”, dove – tra le altre cose – contesta l’utilità del genere romanzo così come è classicamente inteso. Per Shield (trascrivo dalla scheda del libro) “il romanzo del Terzo Millennio deve nascere dalla rifusione di vecchi materiali letterari, mescolati fino a perdere le tracce della fonte originaria e a fondersi in una forma ibrida tra saggistica e narrativa”. D’altra parte il testo che propone in “Fame di realtà” è composto da 618 citazioni suddivise in capitoli e riportate in una sequenza ordinata e sistematizzata secondo certi criteri che lui stesso ha prescelto, ma… senza indicare l’autore e la fonte (alla fine del libro l’editore, per evitare possibili ritorsioni legali riguardanti la violazione del diritto d’autore, ha imposto l’inserimento di una scheda con l’indicazione degli autori delle citazioni utilizzate).
Ecco cosa scrive Shield (qui nella foto) alla fine del volume, come appendice.
“Questo libro contiene centinaia di citazioni delle quali nel corpo del testo non viene menzionata la fonte. Sto cercando di rivendicare una libertà che gli scrittori da Montaigne a Burroughs davano per scontata e che noi abbiamo perso. La vostra incertezza sugli autori delle parole che avete appena letto non è un difetto ma una virtù.
Uno dei temi centrali di “Fame di realtà” è il furto e il plagio e cosa queste parole vogliano dire. Non sarei riuscito ad affrontare l’argomento senza lasciarmi invischiare. Sarebbe come scrivere un libro sulla menzogna e non poter mentire. Oppure scrivere un libro su come abbattere il capitalismo ma sentirsi rispondere che non verrà pubblicato perché potrebbe danneggiare l’industria editoriale.
Tuttavia l’ufficio legale di Random House ha deciso che fosse meglio allegare un elenco completo delle citazioni (…). Se volete ripristinare la forma originaria in cui il libro andava letto, vi basta prendere un paio di forbici o una lametta o un taglierino e staccare le pagine che vanno dalla 248 alla 262 tagliando lungo la linea tratteggiata.
Di chi sono le parole? Di chi è la musica e tutto il resto della nostra cultura? È nostra, di tutti, anche se per ora non tutti lo sanno. Non si può imporre un diritto d’autore alla realtà.”
Questo libro ha scatenato un ricco e articolato dibattito negli States e in altri paesi, anche perché tra i sostenitori del volume – e delle tesi di Shields – figura il Premio Nobel per la Letteratura 2003 J. M. Coetzee, il quale ha dichiarato quanto segue: “Fame di realtà è un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo, un assalto frontale a tutte le convenzioni, particolarmente a quelle che definiscono il romanzo perfetto. David Shields ci conduce in un viaggio intellettuale affascinante ed esilarante”.
Un’opinione di peso, quella di Coetzee… a cui hanno fatto seguito quelle di Jonathan Safran Foer [«Fame di realtà non è soltanto un libro che fa riflettere, ma è anche uno dei più belli che abbia letto da molto tempo a questa parte»] e Jonathan Lethem [«Ho appena finito di leggere Fame di realtà e mi ha illuminato, intossicato, entusiasmato, sopraffatto. È un vetro attraverso cui guardare il mondo (come lo mostrano letteratura, musica, video), e allo stesso tempo uno specchio in cui vederci riflessi, là in mezzo. Un libro urgente, oltraggioso, e anche un’opera che si compone leggendola»].
Mentre Zadie Smith ha affermato: è «intrigante da leggere, anche se disapprovo la maggior parte di quello che dice».
Non mancano i pareri favorevoli di quotidiani di grido come il New York Times («Il libro di Shields stabilisce i canoni dominanti dell’arte degli anni e dei decenni a venire». The New York Times Book Review) e The Guardian («Intelligente, stimolante e aforistico. Un manifesto provocatorio e divertente»).
Il dibattito si sta diffondendo un po’ ovunque tra gli appassionati di letteratura e ha raggiunto anche il nostro paese. Di questo libro ne hanno già parlato Matteo Sacchi (su Il Giornale), Alfonso Berardinelli (su Il Corriere della Sera), Mariarosa Mancuso (su Il Foglio), Stefano Salis – che ha anche firmato la prefazione del libro – e Nicola Lagioia (sulle pagine culturali de Il Sole24Ore).
Di seguito potrete leggere la prefazione di Salis (ringrazio sia Stefano, sia la Fazi per avermi autorizzato a pubblicarla). Nei prossimi giorni metterò a vostra disposizione altri contributi.
I giudizi di Sacchi, Mancuso e Berardinelli non sono molto favorevoli all’operazione.
Alfonso Berardinelli nel suo articolo sul Corriere scrive – con severità – “Se c’è qualcuno che non si perdona, è proprio chi dice qualcosa che abbiamo pensato e scritto per anni, ma lo dice male, noiosamente e nel tono sbagliato. Mi capita questo leggendo il libro di David Shields “Fame di realtà. Un manifesto” (Fazi) nel quale si annuncia dagli Stati Uniti, patria, fabbrica e paradiso del bestseller programmato, che in verità il romanzo è un genere fuorviante, abusato, quasi sempre un po’ fasullo; e che invece l’ aforisma, il saggio, le scritture fuori genere, gli zibaldoni di pensieri e i diari sono molto meglio: sono più onesti, più appassionanti, dicono cose più vere di quante ne dice un romanzo normale e «ben fatto». Condivido molto di ciò che Shields dice nel suo libro. Ma non riesco a condividere né l’entusiasmo del prefatore, Stefano Salis, né tantomeno le solenni affermazioni di J. M. Coetzee, secondo il quale Fame di realtà sarebbe «un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo…».
Mi preme, poi, evidenziare questo passaggio del pensiero di Berardinelli (spiegherò il perché): “L’aforisma 538 suona così: «Mi ritrovo a dire, succintamente e prosaicamente, che è molto più importante essere se stessi che chiunque altro». Dalle note in fondo al libro si viene a sapere che una tale stupidaggine l’ha scritta Virginia Woolf nel suo famoso saggio “Una stanza tutta per sé”. Che cosa è avvenuto? La frase, che nel suo contesto era al posto giusto, è stata trasformata da Shields in una comica sciocchezza, che starebbe benissimo e sarebbe una cosa seria nel diario di un adolescente, ma nel manifesto estetico di un cinquantenne colto e ambizioso fa cascare le braccia”.
È probabile che Berardinelli abbia ragione, ma – a mio avviso – è proprio questa considerazione che contiene, al suo interno, un aspetto cruciale della questione. Quella frase è stata trasformata. Non è più quella originaria. O meglio, ha perso il suo senso originario per acquisirne uno nuovo (migliore o peggiore che sia). E il suo nuovo senso dipende dal contesto inedito in cui la frase stessa è inserita e dalla sequenza delle altre citazioni in cui è stata incastonata. Credo che questo aspetto della questione sia “centrale” rispetto al tema del futuro della tutela del diritto d’autore.
Ora, la domanda è: prendere una frase, estrapolandola dal contesto originario, per inserirla in un contesto nuovo, inedito, frutto di un insieme sistematizzato e pensato di citazioni, può essere considerato un atto creativo (e, in quanto tale, innovativo e autonomo), oppure si tratta di una semplice e banale operazione di copia-incolla?
È possibile paragonare tale operazione (per tentare un parallelismo con l’arte figurativa) a quelle che compiva Andy Warhol (penso alle note icone di Marilyn Monroe, Mao, Che Guevara)?
E fino a che punto si tratta di qualcosa di innovativo? Può essere considerata innovativa l’idea di rinunciare a indicare gli autori delle “frasi originarie” partendo da una ri-considerazione del diritto d’autore?
Ciò premesso (senza soffermarmi su avanguardie, neo-avanguardie e/o sperimentalismi del passato) questo libro di Shields, a caldo, mi ha evocato due pensieri (o meglio, “suggestioni”):
1. Un vecchio racconto di Roald Dahl, pubblicato la prima volta – se non erro – nel 1953, intitolato “Lo Scrittore automatico” (titolo originale: “The Great Automatic Grammatisator”). È la storia di un giovane aspirante scrittore che inventa una strana macchina in grado di produrre romanzi in quantità industriale rimescolando e ricomponendo un’accozzaglia di racconti, frasi, testi, attraverso una combinazione artificiale (basta premere leve e pulsanti) di trama, stile, linguaggio e genere. Questo racconto lo trovate sia in questo volume, che in quest’altro.
2. Le pillole Bur curate dall’amico Luigi La Rosa. Un insieme di citazioni estrapolate dai contesti originari e sistematizzate – sulla base di un tema prescelto – in capitoli “sotto-tematici”. Qui su Letteratitudine abbiamo avuto modo di discutere de “L’alfabeto dell’amore”, ma ricordo anche Pensieri erotici e Pensieri di Natale. In questo caso, però, a differenza di Shields (e il discrimine vero è proprio qui) alla fine di ogni citazione venivano riportati il nome dell’autore e il titolo dell’opera da cui il testo era stato estrapolato.
Mi fermo qui e passo la parola a voi, ri-proponendovi le domande:
1. Cos’è il romanzo oggi?
2. Quale genere narrativo sa raccontare meglio la realtà?
3. Quali sono o saranno le forme espressive dominanti del XXI secolo?
4. Dov’è il limite tra citazione e plagio?
5. Chi stabilisce se un autore, appropriandosi di una parte dell’opera altrui, sta costruendo un nuovo orizzonte di senso o sta solo copiando?
6. Ovvero… prendere una frase, estrapolandola dal contesto originario, per inserirla in un contesto nuovo, inedito, frutto di un insieme sistematizzato e pensato di citazioni, può essere considerato un atto creativo, oppure si tratta di una semplice e banale operazione di copia-incolla?
7. È possibile paragonare tale operazione (per tentare un parallelismo con l’arte figurativa) a quelle che compiva Andy Warhol (penso alle note icone di Marilyn Monroe, Mao, Che Guevara)?
8. E fino a che punto si tratta di qualcosa di innovativo?
9. Può essere considerata innovativa l’idea di rinunciare a indicare gli autori delle “frasi originarie” partendo da una ri-considerazione del diritto d’autore?
Provate a fornire la vostra risposta (se non a tutte le domande, a quelle che vi interessano di più).
Di seguito, la prefazione di Stefano Salis.
Massimo Maugeri
P.s. Di questo libro ne sta parlando anche Loredana Lipperini su Lipperatura
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PREFAZIONE
di Stefano Salis (nella foto in basso)
La letteratura al tempo del copia e incolla.
La cultura al tempo del remix
Complimenti per la scelta! Avete appena comprato (bravi) o vi siete fatti prestare (avete buoni amici), l’avete cominciata a sbirciare prendendola dallo scaffale in libreria (ottimo giudizio) o, chissà, magari l’avete anche rubata (questo no, però, non si fa!), una copia di una delle opere più importanti di teoria letteraria pubblicate negli ultimi anni. Uno di quei libri destinati a germogliare, con frutti imprevisti e imprevedibili, con influenze più o meno sostanziali sugli autori più diversi, con conferme delle idee che circolano in altri libri, altre opere di altri scrittori, alcuni dei quali non avreste sospettato minimamente che potessero essere d’accordo con simile roba. Perfino qualche Nobel passato, di sicuro qualche Nobel futuro.
Bene. Ora che vi accingete a leggerlo, qualche semplice istruzione per l’uso del libro, forse, vi tornerà utile.
Prima di tutto: l’opera che leggerete è di David Shields, nella sua interezza.
Che novità! E ci mancherebbe pure, direte. E che bisogno c’è di ribadirlo?
C’è. L’opera, infatti, è di Shields, le idee quasi tutte, molte delle parole che utilizza per farle venire fuori, no. L’assemblaggio, però, lo ha fatto lui, e le suggestioni che vengono fuori dal testo provengono dal suo modo di ragionare. E questo, in definitiva, è quello che più conta.
Fame di realtà è un manifesto, una dichiarazione di poetica, un quadro dello status quo narrativo, certo. Ma è anche un’esemplificazione concreta di ciò che tale manifesto vorrebbe prospettare per la letteratura degli anni a venire. La stessa struttura autoriale classica è messa in discussione: un volume costruito con altri libri, ma senza note, senza rimandi espliciti, senza interruzioni di lettura. Un frullato di parole altrui, insomma, che genera, però, un distillato del tutto nuovo.
Il libro è fatto di 618 frammenti, a volte brevissimi, a volte più lunghi e meditati. I pezzi sono selezionati e collocati all’interno di un alfabeto che descrive – con altissima percentuale di arbitrarietà – altrettante parole-chiave, funzionali, ciascuna, allo svolgimento del discorso nel suo complesso. Centinaia sono le citazioni, a volte letterali, a volte interpolate dalla voce dell’autore (di nuovo: concretamente Shields ci fa vedere come dovrebbe agire il manifesto che propugna…), di altri scrittori: opere letterarie, articoli di giornale, saggi, dichiarazioni, opere non ancora pubblicate, interviste e articoli reperibili sul web, persino chiacchierate private con scrittori e intellettuali. E persino (capita in almeno un caso, con Dave Eggers, uno dei numi tutelari di questo libro) dichiarazioni di autori, in seguito dagli stessi autori ritrattate, ma perfette – le dichiarazioni precedenti, diciamo, le idee, come dire… originarie – per ciò di cui si va discutendo. Né ci si ferma solo alla letteratura: jazz, arte, mercato, TV, cinema. Qualunque argomento è buono per supportare la tesi.
David Shields – americano, cinquantaquattro anni, nove libri prima di questo, tra i quali The Thing About Life Is That One Day You’ll Be Dead (Knopf, 2008), che riuscì a entrare nella classifica dei bestseller del «New York Times», romanziere ora chiaramente stufatosi del genere – dichiara esplicitamente, alla fine del volume, che il libro dovrebbe essere letto dal fruitore senza avvertimenti e senza consapevolezza della miriade di citazioni che contiene. I legali della casa editrice americana, la prestigiosa e potente Random House, che per prima ha pubblicato l’opera, hanno sconsigliato l’autore dall’omettere totalmente le fonti, e per di più in questa enorme quantità. E dunque potrete controllare quando volete “chi ha detto cosa”; ma, vedrete, non vi servirà più di tanto. «Se volete ripristinare la forma originaria in cui il libro andava letto, vi basta prendere un paio di forbici o una lametta o un taglierino e staccare le pagine che vanno dalla 248 alla 262 tagliando lungo la linea tratteggiata», scrive Shields in chiusura.
Il gioco del “chi l’ha detto?”, il piccolo Trivial di Fame di realtà, lo dichiariamo in partenza, non vale la candela. Non è un’opera da leggere andando continuamente a verificare a chi appartiene la citazione tal dei tali. Dopo un po’ ne avrete abbastanza (anzi, si perde la cosa più importante di questo libro: condividere o confutare le idee che vi sono esposte) e l’esperimento, per di più, funziona poco, almeno per noi italiani, perché la stragrande maggioranza dei citati sono autori ben poco noti da queste parti; per lo più saggisti, giornalisti, scrittori che hanno riflettuto e stanno riflettendo su come si è modificata la letteratura negli ultimi anni. Autori di una certa area culturale anglosassone che potremmo individuare, grosso modo, in quel gruppo eterogeneo di scrittori e saggisti stanchi dei moduli tradizionali della narrativa e della saggistica, che utilizzano le nuove tecnologie e sperimentano, con risultati alterni, gli esiti di una ricerca complicata e delicata. E, in più, l’incertezza sulle parole degli autori che leggete è, come dice Shields, un pregio, non un difetto del libro.
«Uno dei temi centrali di Fame di realtà è il furto e il plagio e cosa vogliono dire queste parole. Non sarei riuscito ad affrontare l’argomento senza lasciarmi invischiare», spiega Shields, sempre nell’Appendice. «Sarebbe come scrivere un libro su come abbattere il capitalismo ma sentirsi rispondere che non verrà pubblicato perché potrebbe danneggiare l’industria editoriale». Magari questo vi sembra un sofisma, e va bene: almeno spiega, però, il modo in cui il testo è stato scritto e perché. Per entrare nello spirito del libro, è forse questa la frase (che Shields usa per chiudere) più appropriata: «Di chi sono le parole? Di chi è la musica e tutto il resto della nostra cultura? È nostra, di tutti, anche se per ora non tutti lo sanno. Non si può imporre un diritto d’autore alla realtà».
Va da sé che il tema del diritto d’autore sarà sempre più centrale negli anni a venire, quando il concetto stesso tenderà a sfumarsi (insieme a quello di plagio) in nome del remix, anche grazie (o per colpa di, a seconda dei punti di vista) alla enorme quantità di materiale disponibile simultaneamente, utilizzabile prontamente e visibile gratuitamente che le nuove tecnologie (Internet in testa) ci garantiscono. Non è questa, ovviamente, la sede per approfondire il complesso soggetto del cambiamento del concetto di diritto d’autore, ma lo sfondo culturale sul quale si adagia il libro di Shields è esattamente questo.
La tecnologia, inoltre, opera sulle idee: un fenomeno, questo, che spesso gli intellettuali e i critici letterari faticano ad accettare, eludendolo a bella posta e a priori, ma che si rivela difficile da aggirare. Basta guardarsi intorno, e basta avere un minimo di nozione di storia della cultura per vederlo in atto.
Per esempio: viviamo in un mondo assai diverso da quello in cui è nata e si è sviluppata la forma narrativa “romanzo”, quella che maggiormente le prende nel libro di Shields. Perché mai dovremmo pensare che questa non si debba evolvere per stare al passo coi tempi? O che magari, invece, sia diventata inservibile per essere rappresentativa della cultura e della nozione contemporanea di letteratura?
Ecco: forse è questo, ancora più del plagio (ma è evidente che sono temi connessi), il nocciolo del manifesto di Shields.
Se ne sono accorti in parecchi, del resto. A lettura finita, o mentre ancora leggete, vi renderete conto che Fame di realtà centra direttamente l’oggetto sul quale da anni molti critici letterari stanno riflettendo. Ecco perché l’impulso a rileggere queste pagine, a coglierne sempre nuovi spunti (o a controbattere, ancora con più violenza), sarà, lo garantiamo da prefatori entusiasti, irresistibile.
Molti scrittori americani, dal canto loro, ammettono che questo libro rimarrà a lungo sul loro comodino. Già, perché l’opera di Shields è finita nelle mani giuste. Ancora prima di uscire (la prima edizione americana data febbraio 2010), è stata letta e commentata in bozze. Appena pubblicata (con i commenti pre-lettura nei risguardi di copertina) ha subito scatenato un dibattito in America e in Inghilterra come non se ne vedeva da tempo, soprattutto sulla critica letteraria. Dibattito che nelle comunità internettiane e, soprattutto, tra gli scrittori di narrativa ha spopolato. E che non era, si badi, il trito dibattito su “il romanzo è morto?” (tipico tema balneare per stanche redazioni culturali dei giornali nostrani) ma, ben più sostanzialmente, su quale forma di letteratura ci dovremo aspettare per il futuro, quali modelli narrativi, quali suggestioni arrivano dalla realtà che ci circonda e che viviamo tutti i giorni.
I colleghi scrittori di lingua inglese hanno fatto a gara per recensire, lodare o anche (come ha fatto Zadie Smith in un articolo che diventerà forse libro, verosimilmente un contro-manifesto rispetto a questo che state per leggere) per contrastare il libro di Shields: da Geoff Dyer a Dave Eggers, da Tim Parks a Jonathan Lethem a Phillip Lopate, finissimo saggista e uno degli autori più citati e tenuti in considerazione da Shields.
Non abbiamo intenzione di riassumere le idee di Shields, banalizzandole. A grandi linee si può dire che la tesi è che il romanzo – inteso come costruzione di una storia fatta di sola immaginazione, con personaggi, trama, punti di vista – sia atrofizzato o siano atrofizzati gli autori. Tanto che gli scrittori letterari più interessanti, forse spiazzati da un mondo sempre più artificiale, continuano a mescolare la “propria” vita (o quella di altri) per «desiderio di realtà», per poter narrare: vi bastino i nomi di Zadie Smith, sebbene ostile a Shields, di J.M. Coetzee (tre romanzi simil-autobiografici), ma anche James Frey, al centro di un eclatante caso letterario qualche anno fa per il memoir A Million Little Pieces rivelatosi poi troppo inventato (e Shields ritorna moltissimo su questa vicenda, per il valore di paradigma che assume), o Dave Eggers che ha scritto almeno due «docuromanzi».
E se è vero che la cultura che ci circonda è piena di frammenti di realtà, simulata o meno (esempio: il successo dei reality show, dei film che “fingono” il documentario, alla Borat), forse l’arte, che dovrebbe imitarla (?), secondo i precetti classici, vive un’impasse o un ripensamento. O, semplicemente, sta cambiando pelle. E l’obbligo è interrogarsi su come realtà e finzione debbano confrontarsi sul terreno della pagina scritta. Inserire pezzi di realtà, fare collage delle proprie esperienze, manifestare al lettore i movimenti del cervello dello scrittore: ecco alcune delle suggestioni che Shields provocatoriamente espone. La realtà irrompe nella scena letteraria, travolge le distinzioni fiction/non-fiction, viene digerita e remixata e restituita sotto forme ambigue, dal personal essay al saggio lirico, dalla sghemba natura del memoir, con ampia facoltà di invenzione, all’autobiografismo con licenza d’immaginazione.
Tutte questioni messe in campo, con forzature, talvolta, anche decise. Citazione 307: «Fiction e non-fiction non esistono più: esiste solo la narrativa (O forse non esiste nemmeno questa?)». Citazione 311: «Le forme si adeguano alla cultura: quando muoiono, lo fanno per una buona ragione. Vuol dire che non incarnano più il senso della vita. Se i reality riescono a trasmettere qualcosa che uno spettacolo più palesemente scritto o lavorato non riesce ormai a fare, questo per uno scrittore dev’essere più una sfida che un oltraggio». Con tanti saluti allo snobismo intellettuale di questa metà del mondo.
Ecco una citazione decisiva delle argomentazioni di Shields, quasi simbolicamente posta al centro esatto del libro: «Amo la letteratura, ma non perché ami le storie in sé. Trovo quasi tutte le mosse del romanzo tradizionale incredibilmente prevedibili, fiacche, improbabili ed essenzialmente inutili. Non ricordo mai i nomi dei personaggi, gli snodi della trama, i dialoghi, i dettagli dell’ambientazione. Non mi è chiaro cosa dovrebbero rivelare sulla condizione umana narrazioni simili. Invece sono attratto dalla letteratura come forma di pensiero, di coscienza, di sapienza. Mi piacciono le opere che mettono a fuoco non solo pagina dopo pagina ma riga dopo riga quello che importa veramente allo scrittore, invece di sperare che tutto questo emerga chissà come misteriosamente dalle crepe della narrazione, che è quello che oggi accade in quasi tutti i racconti e i romanzi. Le opere-collage parlano quasi sempre di “quello di cui parlano” – che potrà sembrare un tantino tautologico – ma quando leggo un libro che mi piace davvero, sono emozionato perché sento l’emozione dello scrittore che in ogni paragrafo sta palesemente esplorando il suo soggetto».
A un certo punto del libro, negli ultimi capitoli – fondamentali per capire il manifesto – Shields se la prende con Jonathan Franzen, il cui romanzo, Le correzioni, è stato probabilmente il simbolo narrativo dei primi dieci anni del XXI secolo. Non è utile soffermarsi su questo singolo caso: è il contesto generale che ci obbliga a ripensare cosa sarà della prosa nei prossimi decenni. «Al centro della “cultura letteraria” si trova il romanzo supervenduto di scrittori che non sono né carne né pesce, il solito monnezzone di quattrocento pagine. Incredibile, la gente continua a sciropparsi roba simile». «C’è inevitabilmente qualcosa di terribilmente artificioso nel romanzo tradizionale: riesci sempre a sentire le ruote dell’ingranaggio che girano». «Se scrivi un romanzo, ti siedi e fili un po’ di narrazione. Se sei uno scrittore romantico, scrivi romanzi su uomini e donne che si innamorano, guarnisci con un po’ di narrativa ecc. E va bene, ma non conta niente. Il romanzo in quanto romanzo è una forma di nostalgia». «I romanzi che mi piacciono sono quelli che non hanno l’aria di esserlo». Si potrebbe continuare a lungo, ma crediamo che sia sufficiente.
Shields contesta il romanzo, la sua forma, il suo status presente. È in buona compagnia, e forse non è nemmeno una novità. Ed è persino ovvio ripetere che continueranno a essere scritti ottimi, eccellenti romanzi-romanzi nei decenni a venire.
Ma come non c’è niente di male a guardare e produrre anche oggi un bel film in bianco e nero, è certo che dopo l’introduzione del colore le cose, per il cinema, sono cambiate radicalmente.
Così, alla base di questo volume, che coglie come pochi altri lo spirito del tempo (quello che chi vuole fare bella figura chiama Zeitgeist) c’è la possibilità (il dovere) di uscire dagli schemi ai quali siamo abituati.
Basta con le etichette formali nelle quali incasellare la narrativa (di comodo uso giornalistico, senza dubbio), basta con l’idea dell’originalità a tutti i costi (nell’arte succede già, da secoli: il dipinto di Bacon che riprende Velázquez è citazione, deformazione, originalità, tutti riconoscono la provenienza, nessuno si scandalizza, nessuno pensa ad appropriazione indebita), basta con il ricorso alla sola forma narrazione di una storia.
Se la letteratura è un oggetto che prima di tutto ha a che fare con l’uso della lingua – cosa che molti scrittori tendono a dimenticare – c’è bisogno di una nuova consapevolezza su come si scriveranno i “romanzi” (meglio: le opere che saranno giudicate come letteratura) nel prossimo, anzi nell’immediato, futuro.
Nel quale, non dimentichiamolo, persino la parola sarà uno strumento che non basterà più. Di nuovo, le tecnologie, la possibilità di inserire suoni, immagini e chissà cos’altro (oltre che il tempo che ci vorrà ad abituarci, all’idea e al fatto) sbaraglieranno le nozioni che abbiamo avuto finora.
Dunque copiate, remixate, frullate, ragionate, contestate, accettate, rifiutate e, se siete scrittori, producete: questa sfida è soltanto all’inizio. Il dibattito comincia a partire da questo libro. E continuerà, a lungo, nei libri, nelle discussioni on-line e su carta, nel modo nuovo di pensare all’arte.
La parola a ciascuno di noi. Ora basta, avete perso anche troppo tempo su questa introduzione. Iniziate a leggere e meditare. Ci farà bene, a tutti noi innamorati della letteratura.
Milano, settembre 2010
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AGGIORNAMENTO DEL 28 OTTOBRE 2010
Pubblico l’articolo firmato da Nicola Lagioia, pubblicato sull’allegato “Domenica” de “Il Sole24Ore” di domenica scorsa (24 ottobre), con riferimento a questo libro di Shields e alle tematiche da esso trattate.
Ringrazio Nicola e la redazione di Domenica per aver messo a disposizione di Letteratitudine il suddetto contributo.
Massimo Maugeri
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LETTERATURA E NUOVE TECNOLOGIE di Nicola Lagioia
(da “Domenica de “Il Sole24Ore” del 24 ottobre 2010)
Letteratura e nuove tecnologie I
Interrogarsi su come la rivoluzione digitale inciderà sulla letteratura è un buon punto di avvio. Ma un’altra valida domanda è: come la letteratura rivoluzionerà la rivoluzione digitale a proprio uso e consumo?
Tolstoj si è servito delle novità tecnologiche della sua epoca per far morire Anna Karenina sotto un treno. Se dai mezzi di trasporto passiamo ai mezzi di comunicazione, la musica non cambia: Thomas Pynchon usa il sistema postale per raccontare la paranoia post-moderna nell’ “Incanto del Lotto 49”; per non parlare della corrispondenza di Goethe e di Laclos.
Simulazioni di realtà, modelli di menti interconnesse: gli eredi di Philip Dick sono pregati di riscuotere alla cassa.
Letteratura e nuove tecnologie II
Chiedersi cosa ne sarà della letteratura con il cambiamento del supporto di cui ci serviremo per leggere – dalla carta all’e-book, al web – è invece un falso problema. Si tratta di un falso problema perché non sono carta, e-book, web il vero supporto della letteratura, bensì il cervello umano. La letteratura è fatta di linguaggio e il linguaggio è la forma di comunicazione più astratta e sofisticata a disposizione perché è l’unica che per esistere non necessita di un supporto che sia fuori di noi.
Siamo in una stanza vuota, insieme a un amico. Pur essendo dei ballerini di danza classica, non riusciremo a riprodurre a beneficio del nostro spettatore un celebre “Lago dei cigni” eseguito da Nureyev con il Royal Ballet nel 1962. Potremo raccontargli “Apocalypse Now” ma non farglielo vedere. Potremo cantargli “My Way” o disegnargli (la stanza non era completamente vuota) “Le muse inquietanti” di De Chirico, ma per fargli fare effettiva esperienza di tutto questo ci sarà bisogno del supporto: cd, dvd, quadro, catalogo d’arte, Nureyev in carne e ossa. Invece, proviamo a sussurrare all’orecchio del nostro amico: “Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo” e – traduzione a parte – avremo riprodotto perfettamente l’incipit di “Anna Karenina”. Stessa cosa se, rimasti soli nella stessa stanza vuota, l’incipit in questione ci limitiamo a pensarlo: ” “.
La letteratura è da sempre al di qua e al di là della riproducibilità tecnica. Il papiro, la pietra, la carta, lo schermo… sono semplici stampelle dell’unico hardware di cui il linguaggio necessiti: un cervello di sapiens sapiens. La letteratura è l’opera d’arte nel regno della sua riproducibilità biologica.
Sulla presunta marginalità della letteratura
I romanzi di Dickens dettavano l’agenda dell’intrattenimento pubblico. Oggi il pubblico della letteratura è minoritario rispetto a quello della tv. Ma perché lagnarsene, dal momento che la letteratura è la vera eminenza grigia celata dietro le forme più popolari di rappresentazione? Prendiamo le serie americane: hanno tutte una matrice balzachiana “sporcata” da un po’ di sano realismo tardo novecentesco (“Mad Men” deve tutto a Balzac, deve tutto a “Pastorale americana” di Roth, deve in fondo tutto anche a “Libra” di DeLillo). Il debito dei “Simpson” o di “South Park” verso scrittori come Pynchon è dichiarato, e – letteratura a parte – i reality show hanno il proprio momento di singolarità nelle performance di artisti elitari come Sophie Calle.
Allora: chi vogliamo diventare? Ci accontentiamo di adattare alle esigenze del mercato una delle tante applicazioni della meccanica quantistica o aspiriamo a essere Niels Bohr?
Dittatura della trama
Oggi può suonare ridicolo l’uno due di agnizione e morte che tocca in “Guerra e pace” al principe Andrej. Ma l’obsolescenza di alcune trame significa l’obsolescenza della trama tout court? Non sarà che – già da tempo – la trama non è più un cavallo di Troia del pensiero, ma una sua particolare forma d’organizzazione?
Esempio: è stato detto che la “Recherche” sarebbe un’opera di saggistica letteraria sostanzialmente priva di trama. Ritengo infatti che pochi saggi indaghino i meccanismi della gelosia amorosa come fa Proust nel suo romanzo. Ma per farlo con quella profondità e quella perizia (e quell’economia: in venti pagine di Proust sono racchiusi alcuni volumi di psicologia comportamentale) non servono forse due personaggi come Charles e Odette, due personaggi come Marcel e Albertine, una città come Parigi? E non è questa una trama? Non è l’insostenibile leggerezza di questi dettagli a separare fiction da non fiction?
Fame di realtà
I media utilizzano la realtà per produrre narrazioni a ciclo continuo. Gli episodi di cronaca nera vengono smontati e rimontati in tv con una foga che farebbe sorridere il Queneau di “Esercizi di stile”. Questa continua produzione di narrazioni è, oggi, la lingua del potere, cioè l’antitesi di quella letteraria. L’una è bidimensionale, l’altra restituisce una complessità. La lingua letteraria esercita sulla lingua del potere una funzione di verità: svela cosa c’è dietro. La guerra ai tempi di Tolstoj è diversa dalla guerra ai tempi di Beckett. L’amore ai tempi di Saffo è diverso dall’amore ai tempi di Amici di Maria De Filippi. Non tutte le storie sono state già scritte.
Più reale del re
Non c’è realtà che non affascini un artista. Non c’è realtà che un artista non possa digerire. Chi è mimetico rispetto a chi? I fratelli Wachowski chiesero al filosofo francese Jean Baudrillard una consulenza per il seguito di “Matrix”. Baudrillard declinò l’invito: “non voglio collaborare a un film sulla matrice che la matrice stessa avrebbe potuto realizzare”.
Nicola Lagioia
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AGGIORNAMENTO DEL 2 NOVEMBRE 2010
Aggiorno il post inserendo una lezione di David Shields tenuta nel mese di marzo presso l’Università di Richmond.
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Diciamo che questo è un post piuttosto impegnativo (e che ci farà compagnia per diversi giorni).
Leggetelo con calma, dunque.
Poi, intervenite.
Nasce tutto da questo libro di Shields… (in Italia è stato appena pubblicato dalla Fazi) intitolato “Fame di realtà. Un manifesto”, dove – tra le altre cose – si contesta l’utilità del genere romanzo così come è classicamente inteso.
Per Shield (dalla scheda del libro) “il romanzo del Terzo Millennio deve nascere dalla rifusione di vecchi materiali letterari, mescolati fino a perdere le tracce della fonte originaria e a fondersi in una forma ibrida tra saggistica e narrativa”.
D’altra parte il testo che propone in “Fame di realtà” è composto da 618 citazioni suddivise in capitoli e riportate in una sequenza ordinata e sistematizzata secondo certi criteri che lui stesso ha prescelto, ma… senza indicare l’autore e la fonte (alla fine del libro l’editore, per evitare possibili ritorsioni legali riguardanti la violazione del diritto d’autore, ha imposto l’inserimento di una scheda con l’indicazione degli autori delle citazioni utilizzate).
Questo volume ha scatenato un ricco e articolato dibattito negli States e in altri paesi, anche perché tra i sostenitori del volume – e delle tesi di Shields – figura il Premio Nobel per la Letteratura 2003 J. M. Coetzee, il quale ha dichiarato quanto segue: “Fame di realtà è un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo, un assalto frontale a tutte le convenzioni, particolarmente a quelle che definiscono il romanzo perfetto. David Shields ci conduce in un viaggio intellettuale affascinante ed esilarante”.
Un’opinione di peso, quella di Coetzee… a cui hanno fatto seguito quelle di Jonathan Safran Foer [«Fame di realtà non è soltanto un libro che fa riflettere, ma è anche uno dei più belli che abbia letto da molto tempo a questa parte»] e Jonathan Lethem [«Ho appena finito di leggere Fame di realtà e mi ha illuminato, intossicato, entusiasmato, sopraffatto. È un vetro attraverso cui guardare il mondo (come lo mostrano letteratura, musica, video), e allo stesso tempo uno specchio in cui vederci riflessi, là in mezzo. Un libro urgente, oltraggioso, e anche un’opera che si compone leggendola»].
Mentre Zadie Smith ha affermato: è «intrigante da leggere, anche se disapprovo la maggior parte di quello che dice».
Il dibattito si sta diffondendo un po’ ovunque tra gli appassionati di letteratura e ha raggiunto anche il nostro paese. Di questo libro ne hanno già parlato Matteo Sacchi (su Il Giornale), Alfonso Berardinelli (su Il Corriere della Sera), Mariarosa Mancuso (su Il Foglio), Stefano Salis – che ha anche firmato la prefazione del libro – e Nicola Lagioia (sulle pagine culturali de Il Sole24Ore).
Sul post leggere la prefazione di Salis (ringrazio sia Stefano, sia la Fazi per avermi autorizzato a pubblicarla). Nei prossimi giorni metterò a vostra disposizione altri contributi.
I giudizi di Sacchi, Mancuso e Berardinelli non sono molto favorevoli all’operazione.
Alfonso Berardinelli nel suo articolo sul Corriere scrive – con severità – “Se c’è qualcuno che non si perdona, è proprio chi dice qualcosa che abbiamo pensato e scritto per anni, ma lo dice male, noiosamente e nel tono sbagliato. Mi capita questo leggendo il libro di David Shields “Fame di realtà. Un manifesto” (Fazi) nel quale si annuncia dagli Stati Uniti, patria, fabbrica e paradiso del bestseller programmato, che in verità il romanzo è un genere fuorviante, abusato, quasi sempre un po’ fasullo; e che invece l’ aforisma, il saggio, le scritture fuori genere, gli zibaldoni di pensieri e i diari sono molto meglio: sono più onesti, più appassionanti, dicono cose più vere di quante ne dice un romanzo normale e «ben fatto». Condivido molto di ciò che Shields dice nel suo libro. Ma non riesco a condividere né l’entusiasmo del prefatore, Stefano Salis, né tantomeno le solenni affermazioni di J. M. Coetzee, secondo il quale Fame di realtà sarebbe «un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo…».
Ho evidenziato questo passaggio del pensiero di Berardinelli: “L’aforisma 538 suona così: «Mi ritrovo a dire, succintamente e prosaicamente, che è molto più importante essere se stessi che chiunque altro». Dalle note in fondo al libro si viene a sapere che una tale stupidaggine l’ha scritta Virginia Woolf nel suo famoso saggio “Una stanza tutta per sé”. Che cosa è avvenuto? La frase, che nel suo contesto era al posto giusto, è stata trasformata da Shields in una comica sciocchezza, che starebbe benissimo e sarebbe una cosa seria nel diario di un adolescente, ma nel manifesto estetico di un cinquantenne colto e ambizioso fa cascare le braccia”.
È probabile che Berardinelli abbia ragione, ma – a mio avviso – è proprio questa considerazione che contiene, al suo interno, un aspetto cruciale della questione. Quella frase è stata trasformata. Non è più quella originaria. O meglio, ha perso il suo senso originario per acquisirne uno nuovo (migliore o peggiore che sia). E il suo nuovo senso dipende dal contesto inedito in cui la frase stessa è inserita e dalla sequenza delle altre citazioni in cui è stata incastonata.
Ora, la domanda è: prendere una frase, estrapolandola dal contesto originario, per inserirla in un contesto nuovo, inedito, frutto di un insieme sistematizzato e pensato di citazioni, può essere considerato un atto creativo (e, in quanto tale, innovativo e autonomo), oppure si tratta di una semplice e banale operazione di copia-incolla?
E poi…
È possibile paragonare tale operazione (per tentare un parallelismo con l’arte figurativa) a quelle che compiva Andy Warhol (penso alle note icone di Marilyn Monroe, Mao, Che Guevara)?
E fino a che punto si tratta di qualcosa di innovativo? Può essere considerata innovativa l’idea di rinunciare a indicare gli autori delle “frasi originarie” partendo da una ri-considerazione del diritto d’autore?
Riscrivo anche le altre domande e non vi tedio oltre (ma ci tenevo a evidenziare i passaggi principali del post)…
Cos’è il romanzo oggi?
Quale genere narrativo sa raccontare meglio la realtà?
Quali sono o saranno le forme espressive dominanti del XXI secolo?
Dov’è il limite tra citazione e plagio?
Chi stabilisce se un autore, appropriandosi di una parte dell’opera altrui, sta costruendo un nuovo orizzonte di senso o sta solo copiando?
A tutti voi una serena notte e un buon inizio settimana.
Voglio contribuire al dibattito, così di slancio, riservandomi di entrare successivamente nel merito delle altri e complesse questioni buttate sul tappeto, con un primo spunto.
Il “furto” letterario o delle idee altrui è stato sempre praticato sia nella letteratura fiction, sia in quella scientifica.
Una pratica conosciuta anche con il termine di “contaminazione”, “sincretismo”, o più semplicemente di “citazione”.
Anche i cineasti ricorrono spesso alla “citazione”, senza quasi mai citare nelle interviste e nelle dichiarazioni succesive quale ne sia la fonte.
Spetta al critico dell’opera e al suo fruitore, individuarla.
Ma tornando a noi, quello che volevo dire è questo.
Freud nella scrittura di quella che è considerata l’opera fondamentale nella statuizione di alcuni pilastri della nascente teoria psicoanalitica (mi riferisco a “L’interpretazione dei sogni”, fondo le sue osservazioni sui diversi aspetti del sogno su altri autori che, il più delle volte, nemmeno si preoccupo di citare doverosamente (salvo alcune eccezioni). Tuttavia, egli rispetto agli autori che citava, fece un passo culturale enorme e creò qualcosa di nuovo che si rivelò fondamentale per lo sviluppo della nuova “scienza”. Gli altri non erano mai andati “oltre”.
Ed ecco qui il nocciolo della osservazione che mi hai stimolato, così d’impeto.
Gli autori della narrativa non vivono in una campana di vetro. Hanno spesso le loro preferenze. leggono molto. Alcuni si sono formati con la lettura dei classici della letteratura.
Credo che sia normale che possano usare cose scritte da altri autori, anche senza la citazione della fonte che, se vorrà e potrà, il lettore potrà identificare.
Poi starà a lui creare qualcosa di nuovo, anche utilizzando all’inizio alcuni mattoni presi dalle opere di altri autori, precedenti o contemporanei che siano.
Penso che il dibattito debba ruotare attorno a questo punto fondamentale.
Poi. l’esegesi del testo consentirà di identificare gli elementi spuri da quelli veramente original.
E l’opera, eventualmente, verrà ricordata solo per i suoi elementi innovativi, non per ciò che ha preso da altri autori
Non vedo nulla di così innovativo, piuttosto mi sembra una bella furbata da parte dell’autore che, in mancanza di genio creativo, ha ben pensato di confezionare un qualcosa usando il frutto del genio letterario altrui. Mi chiedo anche che cosa direbbe se l’editore non gli desse i diritti d’autore, cioè il riscontro economico della vendita del libro: non stava dicendo che lal cultura è di tutti? E allora perchè non dare i diritti d’autore a tutti quelli che leggono il suo libro dal momento che l’arte è patrimonio di tutti? Altro che innovazione, nuovo manifesto del romanzo, e via di seguito: mi sembra piuttosto la trasposizione letteraria di quel pezzo di cacca messo in scatola da un certo artista: grandiosa idea, arte moderna, certo, ma, per favore, messa in scatola una volta, che non si ripeta più. Abbiamo visto e capito. La ripetizione la lasciamo agli studenti di liceo che devono farsi le ossa. Mi auguro che, all’illuminazione esperita durante la scrittura di questo suo “romanzo”, ne segua un prossimo in cui la voglia di sperimentare sia esaurita e che, oltre alla forma, l’autore desideri anche dire qualcosa di suo. Siamo fatti di quello che ci sta alle spalle ma lo spunto e l’esito creativo dell’atto artistico è ben altra cosa. Ci vuole del fegato per scrivere; per fare esercizio di scrittura basta avere un cervello.
a me questo libro incuriosisce tanto. e l’idea del “furto/non furto” letterario mi piace. un libro provocatorio che guarda avanti.
Certo l’operazione è discutibile, come dice Antonella Beccari. Però mi piace lo spunto offerto da Maurizio Crispi. Alla fine credo che questo libro contenga una grossa provocazione, non tanto sull’aspetto sperimentale, quanto sulla questione diritti d’autore.
Mi spiego meglio.
Secondo me il punto non è essere pagati o meno sul lavoro svolto per realizzare un libro come questo (Shield ha svolto un lavoro di ricerca, di selezione e di ricomposizione: se il libro vende è giusto che venga pagato), ma sull’uso dell’arte.
Come Shield ha utilizzato la scrittura di altri, altri possono utilizzare la sua senza problemi legati alla violazione dei diritti d’autori.
Per me il nocciolo fondamentale della questione è questo.
Mi colpisce molto il sostegno di Coetzee, non tanto perché è un Premio Nobel, tanto per il fatto che è un autore per cui STRAVEDO.
Come mai uno come Coetzee, che ormai ha ben poco da dimostrare, sostiene questo libro, dicendo addirittura che “Fame di realtà è un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo, un assalto frontale a tutte le convenzioni”?
Evidentemente ci crede. Ed io do credito a Coetzee.
Bene, Alberto, se il nocciolo fondamentale della questione è: “Come Shield ha utilizzato la scrittura di altri, altri possono utilizzare la sua senza problemi legati alla violazione dei diritti d’autori”, non prendiamo in considerazione il suo libro come arte del romanzo, per favore. Se vuole essere una provocazione che sia, ma di qui a parlare di arte dello scrivere ce ne vuole. E sinceramente in proposito non ci spendo una parola: mi leggo le fonti e faccio prima. Per i condensati ci aveva già pensato Reader’s Digest: qualcuno se li ricorda?
Cara Antonella, condivido le tue perplessità. Ma mi pare di capire che questo libro non si ponga come arte del romanzo, anzi al contrario va contro il genere romanzo per come lo intendiamo noi. Mi pare che lo si voglia presentare come un provocatorio manifesto, più che altro.
Credo anche che il paragone con il Reader’s Digest o con altre forma antologiche non sia adeguato. Qui siamo di fronte ad un assemblamento di citazioni senza indicare gli autori, se non a fine volume, e non ad una selezione antologica.
Ripeto, Antonella, a scanso di equivoci. Le perplessità rimangono, ma la curiosità è tanta. Però prima di emettere un mio personale e opinabile giudizio definitivo voglio leggere il libro.
Be’, Valeria, io non sono un Premio Nobel, anzi “sono niente”; ma “stravedo” per quello che percepisco. Quanto a Coetzee, può essere che abbia voluto vedere in questo libro un barlume di quello che vorrebbe che fosse la nuova letteratura: insomma, probabilmente ci ha visto una fase pionieristica di un “progetto letterario collettivo inconscio” che si sta andando a coagulare lentamente. E sarebbe ora. Ma di qui a definire, quello di Shields, un capolavoro… mah.
Alberto, il paragone con Reader’s Digest voleva essere ironico e , visto che siamo in provocazione, provocatorio
Mi sembra di aver capito, a questo punto, che si sia già arrivati a non parlare più di arte del romanzo rispetto al libro di Shields ma di manifesto letterario ad usum provocazione…. ;-D …. .
Vado a dormire sogni più tranquilli.
Ciao
Cara Antonella, è quello che si evince dalla prefazione di Salis.
Ricopio due brevi brani.
“Fame di realtà è un manifesto, una dichiarazione di poetica, un quadro dello status quo narrativo, certo. Ma è anche un’esemplificazione concreta di ciò che tale manifesto vorrebbe prospettare per la letteratura degli anni a venire. La stessa struttura autoriale classica è messa in discussione: un volume costruito con altri libri, ma senza note, senza rimandi espliciti, senza interruzioni di lettura. Un frullato di parole altrui, insomma, che genera, però, un distillato del tutto nuovo.
(…)
viviamo in un mondo assai diverso da quello in cui è nata e si è sviluppata la forma narrativa “romanzo”, quella che maggiormente le prende nel libro di Shields. Perché mai dovremmo pensare che questa non si debba evolvere per stare al passo coi tempi? O che magari, invece, sia diventata inservibile per essere rappresentativa della cultura e della nozione contemporanea di letteratura?
Ecco: forse è questo, ancora più del plagio (ma è evidente che sono temi connessi), il nocciolo del manifesto di Shields.”
Un volume contro la precisione delle citazioni ma con i nomi dei marchettari-testimonial citati precisini precisini in tutta evidenza: che non ve ne scappi uno, ahò!.
Per dirla chiara e tonda, da lettore onnivoro e da scribacchino: non me ne frega niente di niente di leggere pretenziosi manifesti sui romanzi e sulle parole decontestualizzate (a parte quando fanno pubblicità).
Shields dichiara: “La vostra incertezza sugli autori delle parole che avete appena letto non è un difetto ma una virtù”
Io non sono per nulla d’accordo con questa sua rivendicazione di ignoranza pop-post-postmoderna. Anzi, la penso esattamente al contrario. E cito (facendone nome, cognome, data e luogo) il viennese Karl Kraus, che attorno al 1916 disse: “Non contano solo le cose dette ma anche chi le dice”
Perciò, con tutte le cose al mondo che ho da leggere, questo libro non lo comprerò certo. E poi…Dio mio…che copertina orrenda.
Sono molto daccordo con Alfonso Berardinelli e con quanto sostiene Antonella Beccari. Mi sembra troppo comodo e facile copiare la fatica e l’originalità di un altro autore. Per me, è un furto intellettuale!
Scrivere è una scelta di vita, non un semplice mestiere per tutti.
Chi non ha niente da dire, può benissimo dedicare il proprio tempo ad
altre attività. Del resto solo un attento ed accanito lettore è in grado
di riconoscere l’autentica fonte del plagio, anche se ben manipolata.
Aforisma del giorno, non mio, :-
” Il suo manoscritto è sia buono sia originale. Ma la parte buona non è
originale, e la parte originale non è buona. “SAMUEL JOHNSON
E ancora un saggio parere sul tema:-
“I poeti immaturi imitano. I poeti maturi rubano. T.S. ELIOT
Tessy
“Un volume contro la precisione delle citazioni ma con i nomi dei marchettari-testimonial citati precisini precisini in tutta evidenza”.
Secondo me non bisogna confondere l’intento dell’autore con quello degli editori (che è quello di vendere i libri).
Trovo l’operazione intrigante, ma conoscendo l’italica tradizione romanziera penso che qui da noi troverà consensi pari a zero.
Caro Alberto, mi discosto da questo manifesto: “un’esemplificazione concreta di ciò che tale manifesto vorrebbe prospettare per la letteratura degli anni a venire?”.
Meno se ne parla e meglio è: non voglio alimentare idee simili.
D’altronde, a mancanza di sostanza, subentra la cultualità della forma. Che decadenza!
Ciao ancora. E grazie per lo scambio.
Concordo con i perplessi. Ma non capisco Coetzee. Appoggiando un manifesto del genere non va contro se stesso e la sua attività di romanziere per come l’ha portata avanti finora?
Il New York Times scrive: “Il libro di Shields stabilisce i canoni dominanti dell’arte degli anni e dei decenni a venire”
Io, dei CANONI DOMINANTI DELL’ARTE me ne strafotto. Soprattutto quando qualche criticonzolo supponente pretende di stabilirli a priori.
Che vadano a cagare.
E ci lascino la libertà di scrivere e leggere ciò che ci pare.
Condivido un po’ meno questo tono aggressivo, Luciano. Non è possibile manifestare il proprio dissenso senza bisogno di mandare a cagare il prossimo? E poi non credo che il proporre un manifesto (non mi sono mai piaciuti) o il fatto che un critico esprima un’opinione sia vincolante della libertà di chiccessia.
di chicchessia.
Leo: di solito sono molto, molto paziente e pacifico.
Ma a volte Cambronne (che a Waterloo, con grande sintesi, insultò gli inglesi) aveva ragione a tagliarla corta.
Leo: sia chiarissimo che la mia polemica non è con te ma con Shields, con i redattori del NYT & C.
E che se li avessi davanti in un dibattito, direi uguale.
Comunque in linea di massima sono d’accordo con te. L’idea di qualcuno che ti fissa i canoni fa venire l’orticaria.
Ma cosa pensi dell’opinione di Coetzee? Perché uno come lui si è schierato in questo modo? Che interessi può avere?
Mi lascia perplesso e ho un dubbio. Questo: quel’era il contesto delle parole di Coetzee?
Erano solo queste oppure facevano parte di un ragionamento più ampio? Insomma: sono state in un una qualche maniera estrapolate?
Ecco allora perchè (a volte) essere brutalmente chiari (“Io, dei CANONI DOMINANTI DELL’ARTE me ne strafotto….Che vadano a cagare”) ci preserva (almeno abbastanza) dal rischio di manipolazione del nostro pensiero.
Soprattutto quando siamo in presenza di “ladri di parole”, dichiarati e manipolatori, come questo Shields.
Perché Warhol ha potuto manipolare e rubare immagini e non si potrebbe fare altrettanto con le parole?
a me questo libro intriga assai. sono a favore della libertà e della promiscuità di espressione.
Sicuramente le parole di Coetzee saranno state estrapolate. Ma di certo, a meno che non si tratti di una bufala (ma non credo), tra le altre cose ha detto ‘Fame di realtà è un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo’.
Queste parole, a prescindere dal contesto, parlano chiaro.
Le pietre miliari segnano le grandi strade.
Ma esistono anche i piccoli sentieri nel bosco o le piste non ancora tracciate.
E spesso gli amanti preferiscono addentrarsi in questi luoghi.
Qui c’è l’opinione di “The Telegraph” che è un giornale britannico e non americano http://www.telegraph.co.uk/culture/books/bookreviews/7265282/Reality-Hunger-A-Manifesto-by-David-Shields-review.html
Shield e Coetzee amanti? Ci si potrebbe scrivere un romanzo.
credo che la questione diritti d’autore nell’epoca di internet sia di fondamentale importanza e meriti di essere affrontata anche in maniera provocatoria. ben vengano libri come questo.
Ci vuole del fegato per scrivere: ma tanti, se vogliono possono scrivere. Molto più fegato ci vuole a pubblicare ciò che si è scritto, facendo trapassare la propria scrittura da fatto privato a evento pubblico.
Questo passaggio è un punto cruciale, non da poco.
Forse un buon 70% di ciò che viene pubblicato oggi, avrebbe dovuto rimanere confinato nell’ambito del privato o, al più, della piccola cerchia di amici e conoscenti.
Scrivere e pubblicare è una cosa seria…
Internet, con la sua velocità, ci sta abituando alla necessità di un accurato lavoro di rifinitura e soprattutto all’esercizio di un’autocritica severa, alimentando piuttosto il nostro autocompiacimento narcisistico.
Lo scrittore vero è uno che deve essere molto bravo a tagliare ciò che ha scritto, impietosamente, se è necessario. O, eventualmente, a cassare tutto quanto e a riscrivivere daccapo.
La vera scrittura non sarebbe un’arte altrimenti, ma soltanto un banale mestiere.
Premesso che secondo me il romanzo non morirà mai è indiscutibile che la scrittura, la c.d. narrativa, si evolve insieme alla società. Come sarà la narrativa del futuro? E chi lo sa? Di certo sarà diversa da quella che si scrive oggi, così come oggi è diversa da com’era ai tempi di Goethe.
Allo stesso modo nessuno può prevedere quali saranno i libri destinati a rimanere e quelli destinati a perdersi nell’oblio. Ma non c’è dubbio che resteranno quelli che saranno maggiormente in grado di raccontare il proprio tempo o di fornire una particolare visuale.
La questione dei diritti d’autore è in rapida evoluzione. Si parla già da tempo di copyleft.
Esce in Italia, per l’editore Fazi, Fame di realtà di David Shields. Un libro accolto con entusiasmo da critici e scrittori (si veda, al link qui di sotto, la scheda del testo con la sottostante rassegna stampa italiana), che si pone il compito “meta-letterario” per eccellenza. Ovvero, stabilire i confini, sempre ibridi, tra narrazione e realtà, fornendo una sorta di tassonomia dei vari modelli narrativi e proponendo un nuovo orizzonte per la creazione. Ne emerge, tra l’altro, una concezione “modulare” del romanzo: libera combinazione, con variabili infinite, di strutture componibili. «La massima originalità per uno scrittore – sostiene Schields – è rubare bene». Di questa teoria e tecnica della letteratura parliamo con Stefano Salis, che ha curato l’edizione italiana del volume, e col critico Alfonso Belardinelli, autore con Pierigiorgio Bellocchio della raccolta completa della storica rivista Diario (Diario 1985-1993, edizioni Quodilibet).
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http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=320870
Già nel lontano 1999:
“Il libro è il primo “romanzo arlecchino” della storia della letteratura italiana, ottenuto per circa il 90% cucendo assieme “ritagli” di stoffa letteraria di oltre settanta autori. La storia è ambientata ai tempi del concerto veneziano dei “Pink Floyd” (luglio 1989): l’adolescente Costanzo Dorigo, dapprima attratto da una shopenhauriana tentazione di “rinuncia alla volontà” (la stessa che ha sospinto suo fratello Guiscardo nel tunnel della droga) sente poi gonfiarsi in petto una indeterminata quanto perentoria voglia di “cambiare il mondo” (come già era accaduto, una ventina di anni prima, a suo padre, ex-sessantottino rifluito)”.
http://www.ibs.it/code/9788887645019/anonimo-veneziano/scoppi-in-aria-schopenhauer.html
Scrivo un paio di cose, sperando che abbiano a che fare con la discussione in corso.
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Un aneddoto che riguarda Mark Twain. Lo ricordo più o meno così: un prete, amico di Mark Twain, invita lo scrittore a partecipare alla messa della successiva domenica dove ci sarà una predica che il prete ritiene di notevole bellezza. Mark Twain accetta l’invito.
Dopo la messa il prete gli chiede:
“Ti è piaciuta la mia predica?”
“Sì, bella. Ma era tutta copiata da un grande libro.”
“Copiata?! No di certo. E poi, come si chiama questo libro?”
“Vocabolario della lingua inglese.”
*
Il gioco degli scacchi perde del tutto la sua bellezza se pensiamo che, nonostante l’enorme possibilità combinatoria legata alle mosse sulla scacchiera, tali combinazioni non sono infinite, bensì finite.
*
I due esempi hanno a che fare, secondo me, con un paio di ossessioni: l’ossessione della finitezza e quella analitica. E rimangono appunto delle ossessioni. Oppure argomenti per computer. Se ne vengo contagiato perderò la bellezza dell’Odissea o della Nona, considerando la prima un elenco di segni “copiati” disposti in un certo ordine sullo spazio d’una pagina e la seconda delle note musicali “copiate” disposte in un certo modo per intervallare il silenzio. (Ma provate a copiare il silenzio o lo spazio e il modo in cui ognuno di noi vive lo spazio e il silenzio, e perfino il silenzio-spazio…).
*
Nella frase finale, in appendice al volume, Shields scrive:
“Non si può imporre un diritto d’autore alla realtà.”
Frase molto sonora, da manifesto appunto. Bisognerebbe tuttavia che l’autore chiarisse un particolare piccolo piccolo: cosa significa per lui realtà…
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Ho l’impressione che,
quando si incontreranno lungo le Strade della letteratura,
questo Manifesto di Shields (che deve fà da pietra miliare pe’ tutti li prozzimi secula et seculi seculorum, segnando er Regomamento a cui bisogna atenèsse pe’ scrive’ bbbono) e un romanzo vero e proprio che se ne impipperà delle suddette pietre miliari,
il Manifesto finirà fuori strada, con le ruote per aria pateticamente come un povero Suv.
ahahahahahha 😀
Starei con Luciano nel mandare a cagare tutte le teorie sui canoni dominanti dell’arte. E quanto alla domanda di Diego Marotta, riguardo a Warhol (Perché Warhol ha potuto manipolare e rubare immagini e non si potrebbe fare altrettanto con le parole?) non fa che confermare la mia opinione, avendo sempre nutrito grossi dubbi riguardo al valore reale dell’opera di Warhol, o similmente di Roy Lichtenstein.
In realtà però non è tanto il principio della manipolazione in sè a sconcertarmi, ma il “come” viene attuato. La mia personale teoria sull’arte è di una semplicità estrema: bello e brutto. E trovo in genere bello ciò che è intelligente e originale. E trovo che si possa utilizzare materiale artistico altrui (pittorico, letterario, musicale che sia) in modo intelligente ed estremamente creativo (faccio un esempio musicale: le Variazioni Gloldberg di Uri Caine, o la reinvenzione di Mozart da parte di Stravinsky nella Carriera di un Libertino). Trovo brutto ciò che è stupido, oppure noioso e ripetitivo (esempio parallelo lampante: la musica di Vivaldi rifatta dai Rondò Veneziano).
Quanto al romanzo è da quando ho imparato a leggere che ascolto il De Profundis a questo genere letterario. Ma poi mi capita di leggere Bolano (I Detective selvaggi, 2666,…) o W.G. Sebald (Austerliz, Gli anelli di Saturno, Gli emigrati,..) e allora mi vien voglia di cantare io il De profundis a questi menagrami.
Sui diritti d’autore, e i confini tra citazione e plagio. Sembrerebbero sottili, ma non è poi tanto vero: plagio è appropiarsi di una storia, di una melodia, di un passo letterario, di una soluzione, di un meccanismo fondamentale di un libro e rendercelo per quel che già era, senza significative variazioni. Citazione è appropiarsi di materiale altrui (specie se noto ai più) per utilizzarlo ad altri fini, con altri intenti, in modo diverso e originale. E lo hanno fatto tutti, in qualsiasi campo artistico. A volte con risultati discutibili (torno a Warhol, ma ancor di più a Lichtenstein), a volte entusiasmanti. Credo che quel “noto ai più” forse sia la chiave che possa implicare i “risvolti giuridici” relativi ai diritti di autore (e qui mi attendo prima o poi il parere illuminante di Simona). Ritengo infatti che la notorietà e la riconoscibilità palese implichi il concetto di “patrimonio comune”, che non va quindi a ledere i diritti dello “scippato”. Diverso dovrebbe essere il caso della tutela di un autore perlopiù sconosciuto. Ma, confesso, questo è l’aspetto del discorso che mi interessa meno.
Purtroppo il mondo cambia. Si evolve o si involve. Le nuove tecnologie ci costringono a fare i conti con il concetto di tradizione anche in campo artistico. Interpreto la provocazione contenuta in questo libro in questo senso, senza permettermi di dare giudizi giacche’ non l’ho letto.
Non sarà certamente un romanzo-manifesto a determinare il cambiamento o la destrutturazione del romanzo nelle forme che la tradizione ci ha consegnato. Il reale nelle sue multiformi articolazioni di per sé incide su forme e contenuti del romanzo; il proliferare di gialli e noir per esempio, raccattati negli interstizi delle cronache quotidiane, credo sia la prova lampante di come il reale, vissuto e molto spesso rappresentato, incida sulla nozione stessa di romanzo. Shields, dopo l’immane sforzo, non so se erudito o meno, di raccogliere e citare, avrebbe anche potuto provvedere alla denominazione della sua creatura, o no? Un’ultima notazione: si potrebbe ipotizzare che il suo “prodotto” sia in un certo senso anche la metafora della rete internet? Citazioni interpolate, appropriazione indebita di pensieri, tesi, emozioni altrui, intreccio parola-immagine, mania dello sperimentalismo a tutti i costi… Se così fosse, non sarebbe un prospettare la forma futura del romanzo, ma uno scimmiottare una realtà in atto nella rete.
La tesi di Shields è la più contemporanea che io conosca. A me succede di parlare e persino pensare in quel modo.
Il fatto di essere “contemporanei” non è, in se e per se, nè positivo nè negativo nè nulla: è solo una mera constatazione che (per di più) dura lo spazio di poco tempo.
Shakespeare è mio contemporaneo? No.
Seneca? No.
Ovidio? No.
Casanova? No.
Maupassant? No.
La Dickinson? No.
Stevenson? No.
Mi parlano? Altroche.
Moccia è mio contemporaneo? Sì.
Dan Brown? Sì.
Bruno Vespa? Sì.
Paulo Coelho? Sì.
Mi parlano? Nemmeno un poco.
Il libro di David Schields non è originale. Nel dir questo non formulo una perentoria critica negativa, ma ne rilevo il lapalissiano tratto caratterizzante; in ciò risiede, infatti, la sua carica che più che costituire novità assoluta, acquista il rilievo di una tessera nell’ampio e variegato mosaico del ripensamento delle due tematiche che stanno dietro a Fame di realtà, e che ripropongono due dibattiti che ciclicamente si ripresentano: il destino della forma romanzo (o meglio l’interrogarsi su quali siano le forme di narrazione che più si adattano a descrivere la realtà attuale, in tempi di sclerotici cambiamenti, di fluidità, in senso baumaniano) e il concetto del riuso dei materiali letterari, del confine tra il recupero e il plagio, dello statuto mutato del diritto d’autore. Il dibattito sulle sorti del romanzo, sull’esigenza di aggiornare carta d’identità e connotati del genere letterario per antonomasia che ha incarnato la modernità, descrivendone gli attraversamenti, i passaggi e che da tempo viene considerato anacronistico, almeno nella sua declinazione più tradizionale, è sport assai largamente praticato da scrittori, opinionisti culturali, critici letterari.
In effetti, il diaframma (già assottigliatosi progressivamente nel tempo) tra fiction e no fiction è stato del tutto disintegrato, essendo sfumato il limite, sbiadito lo specifico. Altrettanto vero poi, a mio avviso, è che queste forme miste di letteratura che scardinano i rigidi confini di genere siano quelle che meglio interpretano e restituiscono sulla pagina lo spirito dei tempi (non scrivo Zeitgeist, per non apparire troppo snob). E ciò è riscontrabile non solo nella letteratura americana (Eggers, Lopate) ma anche all’interno dello scenario italiano (penso a taluni autori della squadra di Minimum fax). Ibride forme che nemmeno riescono, in verità, del tutto originali e prive di taluni imprescindibili antecedenti, fatte le debite proporzioni e distinzioni (vedi Hazlitt, Orwell). Qui entra in campo il secondo argomento forte del libro di Schields: l’imitazione, il riuso del materiale letterario altrui (e l’implicito discorso che è stato sollevato circa il giudizio da esprimere su simili operazioni). La parola imitazione, ammetto un po’ scolasticamente, mi fa sovvenire per immediata associazione il Petrarca e quanto ne scriveva in talune sue epistole: dove l’imitazione ha a che fare più con la familiarità, con la frequentazione compiaciuta e insistita con voci avvertite come affini, per cui un’assimilazione tanto involontaria quanto naturale, produrrebbe il riuso (cui presiede la memoria) che si traduce in ultimo in ricreazione; esito più alto e conchiuso della imitazione in ambito letterario per il nostro. Montaggio e libertà delle soluzioni stilistiche garantirebbero la legittimità del riuso, perché da esso possa sorgere il “miele” del nuovo, l’originalità che trova salde fondamenta nel già scritto. Venendo a tempi ancor più vicini, se per esempio andiamo a considerare il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez nelle Operette morali di Leopardi, ad un’analisi più attenta emerge come Leopardi, nel montaggio del dialogo, abbia attinto pienamente alla seconda traduzione italiana della Storia di America del Robertson ad opera del Pieraccini (scrittore dalla prosa non priva di stile); e dove il raffronto testuale arriva a denunciare un quasi presunto plagio (ma nessuno si sognerebbe di muovere simile obiezione, proprio perché diverso è l’uso, il montaggio, il contesto entro cui quegli atomi di discorso letterario convergono nel dare dignità ad altro testo: e che testo!).
Del resto nel Novecento, l’idea di una letteratura come germinante palinsesto è stata poi largamente condivisa ed accettata da molti teorici della letteratura (su tutti Gerard Genette). Per non dire degli autori che hanno frequentato in maniera sistematica il riuso dei materiali letterari altrui per il montaggio delle loro “originali” scritture: penso alle cripto-citazioni che si annidano quasi in ogni pagina dei romanzi di Vincenzo Consolo oppure alle spie testuali contenute nelle opere di un altro grande siciliano, Gesualdo Bufalino.
Si tratta di “bugie sincere” (avverto che anche questa è una cripto-citazione, non volendo giocare sporco, almeno questa volta) che vanno considerate senza scandalo e per le quali, semmai, rimane sempre valido il criterio del giudizio di valore, della bontà o meno dell’operazione condotta dall’autore, che spetta in totale libertà di giudicare al lettore (e questo vale anche per il libro di Schields). Fame di realtà è (a mio modesto avvisto) un libro meritorio, ma la mia posizione circa il suo valore rifugge dagli estremismi opposti espressi dall’oltremodo entusiasta prefatore Stefano Salis e dallo scettico Berardinelli. Niente di nuovo o poco di nuovo.
Domenico Calcaterra
Il fatto che un libro come questo sia capace di far discutere in un modo così acceso giustifica già la sua esistenza. Farei oiuttosto volentieri a meno dei libri che lasciano indifferenti, ovvero la maggior parte dei romanzi che vengono pubblicati oggi.
Il pezzo di Domenico Calcaterra è proprio bello. L’ho appena letto e lo condivido.
Nel precedente post intendevo dire che – dai, ammettiamolo – oggi viene pubblicata troppa roba, troppi romanzi. La maggior parte di essi non arrivano nemmeno nelle librerie.
Interessante pezzo, questo di Calcaterra. E m’ha pure costretto a riprendere in mano il gigantesco volumone con le Opere di Leopardi perchè (confesso) il dialogo tra Colombo e Gutierrez non me lo ricordavo proprio.
Prima, a cena, discutevo con mia moglie Tatjana del libro di Shields: lei fa la giornalista, è donna assai pratica, ama molto i romanzi ed è assai scettica sulle “ciacole” e dunque sbuffava davanti alla solita solfa sulla “crisi del romanzo”. Noi due abbiamo 56 anni e questa vacua fiaba l’abbiamo sentita fin da quando andavamo al primo anno delle superiori (si parla del 1968/69).
Forse la verità (ci dicevamo) è molto semplice:
– chi sa raccontare scrive romanzi,
– chi li ama ascoltare li legge,
– chi ne capisce a fondo i meccanismi li condivide con gli altri e fa il critico,
– chi non sa inventare romanzi, non ha l’umiltà di godersi quelli altrui e i meccanismi lo irritano perchè non sa usarli, si mette a fare il criticonzolo.
David Shields, leggo nella bio, è autore di opere narrative e saggistiche di successo, tra cui “Black Planet” (finalista al National Book Critics Circle Award), tradotte in dodici lingue, e di racconti e saggi brevi su varie testate (come, ad esempio, «New York Times Magazine», «Harper’s Magazine», «The Village Voice», «McSweeney’s» e «The Believer»).
Non può essere che si è semplicemente rotto le balle del genere romanzo e aveva voglia di sperimentare?
E che sarà mai?
Non c’è mica da strapparsi i vestiti di dosso per protesta, no?
Magari tra un paio d’anni cambia idea e ti scrive il più grande romanzo del terzo millennio, così fa rodere un po’ il fegato al suo amico Jonathan Franzen.
alla domanda 6: l’unico modo per dare un senso ad una citazione è quello appunto di dire da dove è stata presa, più ancora di chi l’ha detta. Una frase tolta da un’opera non “appartiene” più all’autore “originario”, proprio perché non sono tanto le parole a fare la differenza quanto la loro combinazione. L’arte è fatta di gesti banali combinati in maniera creativa. Io non darei importanza alla maggiore o minore creatività, all’innovatività ecc. Contano i risultati, a differenza che nel calcio 🙂
Tutto questo senza aver letto il libro.
Sul plagio: in musica è più facile, una canzone per dire, esiste anche come esecuzione, la si può riprodurre in maniera più o meno differente. Se la presenti in pubblico, devi dire di chi è, è un obbligo morale. Se fai una canzone consapevole di averla già sentita, anche solo in alcuni passaggi, uguale. Per i libri penso che sia un po’ diverso. Comunque nel momento in cui il tuo gesto creativo, anche nel copiare, diventa un prodotto, messo sul mercato, allora non va bene. Se vuoi trasmettere delle idee prese altrove lo fai gratuitamente. Se stai in piazza a cantare o a leggere delle pagine per puro gusto puoi anche non dire nulla, ti stai divertendo e basta.
Per tornare al libro faccio un esempio: la frase “una bugia ripetuta mille volte diventa verità” è una frase sbagliata dal mio punto di vista, spero anche per quello degli altri. Se non dico che l’ha detta Goebbels non ha senso dirla. In nessun caso penso. È una frase che ha un senso solo per permettermi di ricordare un dato momento storico, oppure per parlare di propaganda. Rimane comunque una frase stupida, anche se volessi parlare del suo sottotesto non userei le stesse parole, perché sono conscio di chi le ha dette. Invece nel caso del libro in questione, non dichiarare, almeno non subito “le fonti” può essere utile, perché così si può leggere senza condizionamenti. È un gesto creativo, molto più di un’opera d’arte. Ultimo sul pensiero di Berardinelli: non c’è un posto giusto per le frasi, dipende da cosa voglio fare. Se voglio dire qualcosa a qualcuno devo farmi capire, e allora uso il suo metro, se voglio solo esprimermi dico quello che mi pare, come mi pare. E poi vale anche per questo commento…
Tirata in ballo dal carissimo Carlo (a cui mando un forte abbraccio) preciso:
1- Vi è profonda differenza, ovviamente, da un punto di vista giuridico, tra plagio e citazione, costituendo il primo l’appropriazione della paternità di un’opera altrui, e la seconda il riportare lo scritto altrui citandone fonte e autore, ma quest’ultima non è del tutto libera, anzi. E’ esplicitamente regolata dalla legge sul diritto d’autore e soggiace a limiti.
2- Infatti in linea di massima il diritto di citazione costituisce una deroga al divieto di copiare e riprodurre scritti altrui , deroga prevista e disciplinata dall’art. 70 della legge 633/1941(sul diritto d’autore).
Tale articolo dice che : “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opere e la loro comunicazione al pubblico sono liberi, se effettuati per uso di critica o di discussione, e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; inoltre, la citazione deve sempre essere accompagnata dalla menzione del titolo dell’opera, del nome dell’autore, dell’editore e, se si tratta di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull’opera riprodotta”.
3- Quindi, se la citazione è effettuata e indicata correttamente, secondo quanto previsto dalla suddetta disposizione,è consentita e non sarà necessario richiedere il consenso dell’autore. Viceversa essa è illegittima.
—–
Buona notte a tutti!
Passo solo per salutarvi affettuosamente e ringraziarvi per il grande quantitativo di commenti pervenuti.
Purtroppo stasera non sono riuscito a leggerli, e vi chiedo scusa.
Spero di riuscire a recuperare domani sera. E spero che possiate continuare a dialogare.
(Quasi in contemporanea con Simona).
Aggiungo che, al di là del fatto di essere favorevoli o contrari al libro di Shields credo – o meglio, spero – che le domande poste possano offrire occasioni di utile confronto.
Ancora grazie e una serena notte a tutti.
Plagio? Citazione? Influenza?
Faccio un esempio molto semplice (tratto in parte dalle mie esperienze di giurato in premi letterari e musicali).
Mi arriva sul tavolo il pezzo (racconto o canzone) di XY, che mi piace molto. Lo segnalo ad altri membri della giuria, ne parliamo, nella discussione emergono varie opinioni e qualche informazione. Il pezzo SEMBRA vicino alle opere di un autore/autrice di valore.
Le ipotesi possono essere tre:
1) il pezzo di XY risente dell’influenza di quell’opera e ha (o non ha) una propria originalità,
2) il pezzo di XY contiene una o più citazioni (esplicite o nascoste con tanto di strizzate d’occhio) a quell’opera,
3) il pezzo di XY è copiato (in parte o in toto) da quell’opera.
Nel terzo caso, XY viene eliminato senza ulteriore discussione.
Nel caso 1) e 2), dipende dalla qualità del suo pezzo.
… coincidendo con certe preoccupazioni maoiste o zen, in realtà, si annuncia un epoca nuova che sta per succedere all’umanesimo: il dominio di un epistemologia del decentramento.
Per concludere si può constatare che la scoperta inattesa di qualcosa di infinito o di sconosciuto sembra gettarci in un nulla e che oggi non è facile poter valutare se effettivamente non ci si trovi sull’orlo di un ultimo annientamento, questa volta di un annientamento “ cosmico”.
Ma le dimensioni del cosmo non sono appunto quelle della coscienza?
Georges Mathieu
Questo pensiero fu scritto da un pittore astrattista nel 1967, francese, che viveva a Parigi, evidentemente preoccupato per le sorti dell’Arte nel vicino futuro. (Per essere più chiari, quando parliamo di “epistemologia del decentramento” ci riferiamo ad un metodo di conoscenza decentrato . . .)
A grandi passi dall’America arrivò – nello stesso periodo – la pop art, concepita per un pubblico di massa, avente requisiti quali la transitorietà (soluzione a breve termine), il consumo (facilmente dimenticata), indirizzata alla gioventù, brillante, sexy, grossi affari … la pop art si sviluppo nel grande teatro del desiderio e dell’illusione, ovviamente appoggiata dai mass media.
Ma, anche se può sembrare il contrario, non sono contro Andy Wahrol, Lichstein, Oldenburg, etc.; ritengo che questi artisti siano stati gli interpreti – molto pronti nel cogliere l’esigenza del momento – di una stagione della Storia che usciva dalla seconda guerra mondiale e rappresentando un mondo assetato di boom economico, ecco a voi i ricordi di un’America sotto il casco, con i bigodini sulla testa, la coca cola, la tomato, Marylin, i Kennedy, il Vietnam…
Dall’altra parte dell’Oceano, in Europa, le grandi industrie sfornavano automobili, lucidatrici, aspirapolveri, pentole a pressione, elettrodomestici, i miei votavano a favore di aborto e divorzio (e i vostri genitori?), quasi tutti avevano i glutei strizzati dai mitici blu jeans, mentre gli intellettuali dalle menti indipendenti percorrevano ripidi sentieri, nel rifiuto del processo di “fabbricazione artistica”.
Il molteplice sostituì l’unicità e se la storia aveva bisogno di muoversi in orizzontale, lo richiedevano le variabili economia-bisogni artistici culturali.
Detto ciò, non trovo un parallelismo fra “Fame di realtà” di Shields ed il pop di Warhol che, invece, potrebbe avvicinarsi al romanzo di Stephen King, se non altro per come viene ideato.
E’ comunque molto saggia la domanda di Subhaga Gaetano quando scrive cosa intendiamo per realtà, alla quale aggiungo non dovremo fare la netta distinzione tra realismo e REALTA’?
saluti
Pochi giorni fa (non avevo letto nulla su questo libro che certamente compererò e sul dibattito suscitato) pubblicavo su un blog di viaggio (http://www.ilreporter.com/parole-nomadi/c-come-citazioni) un post che iniziava così… “Scrivere è prendere in prestito parole e concetti per rimetterli in movimento. Scrivere è condividere frammenti di pensiero con chi ci ha preceduto e con chi ci leggerà”. Poi riportavo una serie di citazioni da vari autori costruendo un dialogo immaginario e quindi continuavo …: “E’ questo un gioco costruito a tavolino, o meglio a computer. Ma in fondo scrivere, ancor di più se si tratta di saggi e non di racconti, è anche giocare a questo gioco: citare, più o meno consapevolmente. Qualche volta, ricomponendo frammenti di letture e di esperienze, riusciamo ad aggiungere una goccia al grande mare del sapere universale. Nel XII secolo, il filosofo Bernardo di Chartres sintetizzava questo concetto in un famoso aforisma: “Siamo come nani sulle spalle dei giganti”. Dunque, se possiamo vedere più lontano è solo perché stiamo sulle loro spalle, perché, ripercorrendo sentieri già battuti, talvolta intravediamo nuove vie. Ma come in viaggio è sempre più rara la dimensione della scoperta, anche nella scrittura è difficile inventarsi cose nuove. Scrivere significa prima di tutto leggere altri libri, amarli, interiorizzarli. Chi scrive è solo uno dei tanti attori di un processo creativo a più mani, un anello della catena che unisce gli scrittori del passato ai futuri lettori. Scrivere è prendere in prestito pensieri e rimetterli in movimento, arricchendoli con l’esperienza del nostro viaggio esistenziale. Chissà, forse anche queste mie parole sono tutte citazioni. Chi saprebbe più dirlo?”
Il problema secondo me non è dove finisce la citazione e inizia il plagio. Spesso i pensieri altrui diventano nostri non solo perché inseriti in un nuovo contesto, ma anche perché interiorizzati e fatti propri e inseparabili da altri nostri o di altri. Un tempo gli scrittori erano anonimi, abbiamo dubbi anche sulla persona di un grande come Shakespeare… perché noi moderni o postmoderni siamo così affamati di eternità? Se solo qualche briciola del nostro pensiero vivrà attraverso le voci di altri, questa è eternità vera, questo è il nostro piccolo grande contributo all’umanità intera.
Anna
Brava, Anna. Bellissimo post. Sono d’accordo con tutto quello che dici. Un applauso per te.
finalmente un libro che riesce a creare un dibattito a livello internazionale. erano anni che non accadeva.
Il discorso sarebbe lungo. Tuttavia spero di avere il dono della sintesi nell’esporre quanto penso delle questioni fondamentali poste dall’opera di David Shield; pertanto faro’ il mio elenco di argomenti – spesso l’uno dipendente dall’altro.
Ecco quanto:
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1) Il punto centrale della letteratura secondo me e’ la CREATIVITA’. Percio’ la qualita’ fondamentale dello scrittore di storie, racconti, romanzi, fiabe, insomma del narratore, e’ sempre stata e resta tuttora la sua capacita’ di essere se stesso nell’atto della scrittura.
2) Questo significa che COPIARE qualcosa di non proprio e’ gia’ atto non pertinente alla creativita’. E’ logico ed incontrovertibile, questo: quel che suolsi definire un ”dato di fatto”: se inserisco nella mia opera una serie ESATTA E DI SOSTANZIOSA QUANTITA’ di parole che esiste altrove nello stesso ordine, io vendo cosa non mia, perche’, se e’ vero che quattro o cinque parole possono essere casualmente ripetute nello stesso ordine, questa casualita’ e’ altamente improbabile nel caso di venti trenta parole.
3) Invece, la RIELABORAZIONE di uno scritto altrui implica la creativita’ del rielaboratore, dunque diviene cosa sua, in quale parte e’ da vedersi caso per caso.
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Infatti esistono precise leggi dello Stato e principi, che ottimamente hanno elencato qui sopra sia Luciano Idefix che Simona Lo Iacono: leggi e principi di valutazione, questi, che nel mondo moderno sono indispensabili, credo, e che sono anche giusti nei confronti dei CREATORI delle opere pubblicate, degli ”originali” insomma.
Ma, mi chiedero’ ora, fino a che punto questi ”creatori” lo sono appieno? Fino a che punto i loro libri sono ”originali”? Dunque, rispondendo a tali quesiti, ora entreremo nel vivo della discussione culturale ed artistica – tramite quanto segue:
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4) ALCUNE caratteristiche umane sono sempre le stesse, in tutto il mondo e nel corso di tutta la storia che ci e’ dato conoscere dalle fonti e tramite la memoria individuale. Insomma, ALCUNI interrogativi, problemi, sentimenti ed atti vitali nascono identici in ogni uomo del mondo, ma seguono poi nel loro svilupparsi dei percorsi spesso diversissimi ed influenzati dall’ambiente geografico, dalle scelte politiche, dalle condizioni economiche, tecnologiche e scientifiche oltre che dalle religioni. Insomma siamo tutti uguali nel mondo solo appena nati.
Percio’, se, mettiamo, Cicerone a quarantacinque anni d’eta’ e’ identico per certi tratti sostanziali sia a me, sia ad un cinese di oggi, sia anche a un suo altro coevo e coetaneo cinese come pure ad altri uomini esistiti prima e dopo di lui ovunque, va da se’ che Cicerone sia anche diverso, sia da me che da un cinese di oggi ed anche da un romano esistito trecento anni prima di lui o da un uomo che esistera’ nel 2350 d.C. per quanto riguarda altri aspetti altrettanto sostanziali.
Cio’ premesso, ci chiediamo:
CIO’ BASTA PER DIRE CHE QUANTO SCRITTO DA CICERONE E’ PATRIMONIO INTIMO DI TUTTI GLI UOMINI DELLA TERRA? (E anche, dunque, per dire che, per questo motivo, ripetere quanto espresso da Cicerone per iscritto nel I secolo a.C. NON E’ ALTRO CHE ATTINGERE AD UN BAGAGLIO ESPERIENZIALE COMUNE A TUTTA L’UMANITA’, onde per cui dire le stesse cose di Cicerone NON SIGNIFICA FARSI INFLUENZARE PROFONDAMENTE DAL SIGNOR CICERONE MA SEMPLICEMENTE USARE QUANTO E’ DIVENUTO PARTE DI SE’?).
E’ ovvio che occorra mettere dei limiti, anzi, meglio, occorre DEFINIRE cosa sia orizzonte culturale comune a tutti gli uomini e cosa non lo sia. Questo per ovvio RISPETTO dell’individualita’ di Cicerone, chiaramente, piu’ che per sapere cosa siamo e cosa non siamo noi.
Ed eccoci giunti al signor Shield. Il quale rivendica la proprieta’ spirituale di ogni opera letteraria in nome e per conto di tutti gli autori e, mi sembra in fondo, anche di tutti gli uomini di oggi. Tutto e’ di tutti – od ho capito male? – dice Shield; anzi dice che l’agire artistico di oggi ha un senso SOLO se l’artista mette la PROPRIA firma sotto a quanto egli decide di prendere da qualsiasi altra opera esistente o esistita.
Capiamo che l’arbitrio e’, cosi’, infinito e tutto nelle mani dell’autore citante, con pochi margini riservati alle volonta’ del citato (o del copiato, piuttosto, sarebbe esatto dire). Facile, no? Se Cicerone non esprime Cicerone ma noi tutti, e’ come se quanto firmato da Cicerone fosse firmato da noi tutti.
Ma cosi’ non e’ affatto, a mio avviso. Proprio no.
Perche’?
Perche’ fra i miliardi di atti che un uomo compie nel corso della propria vita, CE NE E’ ALMENO UNO CHE E’ UNICO ED IRRIPETIBILE e nessuno sa quale sia. Dunque nessuno sa ESATTAMENTE quale parola, quale virgola, quale semplice lettera sia stata quell’atto unico di Cicerone e quale non lo sia stata. Non possiamo presumere un bel niente.
***
La conclusione e’ cosi’ questa: DEVE PREVALERE SEMPRE IL RISPETTO PER CIO’ CHE DI INDIVIDUALE SIA CONTENUTO IN UN’OPERA LETTERARIA, tanto quanto deve prevalere sempre il rispetto verso un singolo uomo piuttosto che ogni altra considerazione che accomuni gli uomini fra loro creando classificazioni, serie, tipologie e quant’altro.
P.S.
Ovviamente lo scopiazzamento consapevole (e’ di questo che Shield parla, non dell’inconsapevole), per me, in base a quanto detto, rimane accomunabile ad una profonda scarsita’ di ispirazione, originalita’ ed anche di buonsenso e di rispetto umano. Cosa di natura ”industriale” e ”seriale” in fondo. Gli antichi si comportavano diversamente… ma adesso non proseguo che e’ tardi. Pardon
il problema non è usare le parole di altri, ma come lo si fa.
secondo me realizzare un’opera capace di offrire qualcosa al lettore in un caso come quello di Shields è MOLTO PIU’ DIFFICILE e innovativo che scrivere un’opera di sana pianta. secondo me è così.
Buon giorno a tutti!
Ieri sera ero piuttosto stanca e non ho potuto approfondire l’argomento riguardante il diritto di citazione.
Preciso che il testo dell’art 70 (che ho riportato nell’altro commento) è il risultato di una modifica apportata dal decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003, emanato in attuazione della direttiva 2001/29/CE “sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione”.
E’ molto importante sottolineralo perchè questo decreto ha espressamente preso in considerazione il fenomeno “internet” e quindi la citazione soggiace ai limiti normativamente previsti anche ove venga tratta da siti, blog, persino mail e news group (queste le ultime riflessioni giurisprudenziali sull’argomento).
——
Ripeto il nuovo testo dell’art 70:
“Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”.
———–
Il vecchio articolo 70 suonava invece così: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera, per scopi di critica, di discussione ed anche di insegnamento, sono liberi nei limiti giustificati da tali finalità e purché non costituiscano concorrenza alla utilizzazione economica dell’opera. Nelle antologie ad uso scolastico la riproduzione non può superare la misura determinata dal regolamento il quale fisserà la modalità per la determinazione dell’equo compenso. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull’opera riprodotta”.
——
Come si può vedere da un confrnto tra i due articoli la novità è costituita dall’espressione “comunicazione al pubblico”, che abbraccia, come riferito, l’utilizzazione di tutti i mass media, vecchi (giornali e radio) e nuovi (tv e web). Ne consegue che “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione”.
——-
Buon lavoro a tutti!
Ribadendo che la tesi di Shields mi pare fumo stantio con qualche aroma rubacchiato qua e là, provo a raccontare il rapporto opere altrui/originalità personale.
E tenterò di farlo riassumendo ciò che dico quando, negli incontri a scuola o in biblioteca, i ragazzi (o gli adulti) mi chiedono “quanto ti influenzano gli scrittori che ti piacciono? Li copi?”
Racconto più o meno così:
“prendiamo i mattoncini del lego. Ogni libro che ho letto, ogni fumetto che ho divorato, ogni film che ho visto, canzone che ho ascoltato, concerto a cui sono andato, ogni scrittore e musicista e regista e disegnatore e pittore che ho amato e che amo o che detesto, ogni sogno che ho fatto, incubo che ho sudato, desiderio che ho alimentato, speranza che ho acceso, bacio che ho dato, i gol che la mia squadra ha segnato, ogni gol che la mia squadra ha subito, le fragole che ho mangiato, le lacrime piante, le risate esplose, le rabbie trattenute, i sorrisi condivisi….e così e così e così avanti…insomma tutta la mia vita sono miliardi e miliardi di mattoncini del lego. Provate a pensare quanti e quanti ne ho. Quando scrivo una storia vado nell’immenso magazzino dove stanno questi mattoncini e ne prendo una carrettata. Con loro formo un libro: è composto dai tantissimi pezzi della mia vita ma il modo in cui li combino fa sì che la forma finale sia del tutto nuova”
Una teoria, portata all’oggi, del concetto di imitazione petrarchesco. Anche se, in verità, Petrarca convocando la memoria come motore primo del “riuso”, distingueva tra le cose che “incontriamo” che sono destinate a rimanere caduche e quelle che ci coinvolgono e delle quali siamo per così dire intrisi. Convengo con tutto me stesso con quanto scrive luciano nel post precedente. Bravo Luciano!…
Domenico, grazie per avermi fatto venir voglia di riprendere in mano Petrarca. Non ho nessun problema a confessare che “il concetto di imitazione e del riuso petrarchesco” non me li ricordo più. Una delle grandi lezioni dei miei (bravissimi) professori del liceo classico (proprio il Francesco Petrarca) a Trieste fu:
MAI vergognarsi di riconoscere apertamente la propria ignoranza.
Per questo sono un sostenitore anch’io dell’onestà dell’ignoranza; non foss’altro per il fatto che tutto rientra nel recuperabile. E talvolta, aggiungo, il “recupero”, a distanza d’anni, può risultare assai proficuo (dico questo per personale esperienza). Grazie a te.
Un umile tentativo di risposte a tali ponderose questioni:
1. Cos’è il romanzo oggi?
Quello che era ieri, con successive modifiche secondo i tempi.
2. Quale genere narrativo sa raccontare meglio la realtà?
Nessuno. Perché perdere tempo a raccontare la realtà? Quella che si racconta non è mai la realtà.
3. Quali sono o saranno le forme espressive dominanti del XXI secolo?
Quelle che ci sono già adesso. O forse si tornerà ai graffiti.
4. Dov’è il limite tra citazione e plagio?
I limiti, mi sa, sono stabiliti dalla legge.
5. Chi stabilisce se un autore, appropriandosi di una parte dell’opera altrui, sta costruendo un nuovo orizzonte di senso o sta solo copiando?
Sta costruendo un nuovo orizzonte di senso (espressione orrenda) solo se l’opera copiata risulta essere di bellezza maggiore dell’originale. Per esempio, Bach, copiava spesso melodie. Ma chi si ricorda gli autori da cui copiava?
6. Ovvero… prendere una frase, estrapolandola dal contesto originario, per inserirla in un contesto nuovo, inedito, frutto di un insieme sistematizzato e pensato di citazioni, può essere considerato un atto creativo, oppure si tratta di una semplice e banale operazione di copia-incolla?
Può essere considerato un atto creativo. Anche cucinare una frittata con le cipolle è un atto creativo.
7. È possibile paragonare tale operazione (per tentare un parallelismo con l’arte figurativa) a quelle che compiva Andy Warhol (penso alle note icone di Marilyn Monroe, Mao, Che Guevara)?
E’ possibile. Ma è roba vecchia.
8. E fino a che punto si tratta di qualcosa di innovativo?
Fino a nessun punto.
9. Può essere considerata innovativa l’idea di rinunciare a indicare gli autori delle “frasi originarie” partendo da una ri-considerazione del diritto d’autore?
Più che altro può essere considerata una furbata. Una fatica in meno per pensare qualcosa con la propria testa.
Saluti
Se Shield fosse un
furbo e il suo intento fosse quello di far parlare di se’, direi che c’è riuscito in pieno. Anzi, sarebbe un genio.
l’imitazione è per noi oggi una pratica sconveniente, immorale, indice di mancanza di valore.
questa istintiva ripulsa all’imitazione dimostra quanto la nostra cultura contemporanea sia ancora erede delle ideologie romantiche della rivoluzione idealista, e quanto sia ancora segnata dalle sue componenti ideologiche e libertarie.
queste radici formano il nostro modo di comunicare quotidiano ancora oggi: per tutto ciò che attiene alla creazione nella comunicazione estetica, infatti, il dato primario ed elementare si fonda sull’assioma secodo cui il soggetto creativo si definisce essenzialmente a partire dalla propria irripetibile autonomia e libertà,e quindi al diritto irrinunciabile all’identità e alla proprietà di ciò che produce.
non è un caso che il diritto d’autore nasca nell’ottocento col codice napoleonico.
eppure nel classicismo di antico regime, l’imitazione è il principio regolatore, imitazione della natura e dei modelli che virtuosamente l’hanno imitata, perchè questo sistema è tutto fondato sul principio di autorità della tradizione, e quindi sulla funzione positiva del suo riutilizzo. si tratta di un sistema che non si scandalizza di costituirsi sul principio di “non originalità” come valore altamente produttivo, perchè è un sistema codificato sul valore delle regole, persuaso che solo sulla certezza “esemplare” e stabilmente perenne della norma sia possibile produrre poesia e arte.
perchè stupirsi dunque? e’ chiaro che questo libro è una provocazione prima di tutto al nostro modo di relazionarci gli uni con gli altri, perchè è dal nostro modo di vivere che discende quello di scrivere.
credo che questo libro abbia il valore di un muso duro, di un manifesto, di un punto di rottura.
era ovvio che accadesse nell’età di internet dove tutto è a portata di tutti, dove la stessa creatività rimbalza da utente a utente e dove infine non mettiamo in gioco solo il nostro modo di scrivere, ma di interpretare noi stessi.
“Cos’è il romanzo oggi?”
Credo sia una domanda in/sensata: esistono I ROMANZI non IL ROMANZO.
C’è “Avventure della ragazza cattiva” di Vargas Llosa e “Il codice Da Vinci” di Dan Brown , “2666” di Bolano e il settecentoquarantanovesimo giallo da Stoccolma Di Sotto, “The dome” di King e il noiosissimo “La torre” di Tellkamp, “Canti del caos” di Moresco e il bluff “Gli illuminati” di Bello, Javier Marìas e Moccia, il grande Ernesto Sabato novantanovenne e Melissa co’ a spazzola, il meta-fantasy di Gene Wolfe e l’ennesimissimissimissimo commissario alcolizzato co’ a figlia ‘noressica e le scarpe consunte, “Rosso Floyd” di Michele Mari e il thrilling con il segreto che farà tremare il Vaticano perchè se scopre che Mozart era fijio de la nonna der Papa che era er fratello de l’Imperatore de li Ming de la piramide maja nascosta nel manoscritto de Dante e de li mortacci sui, il bellissimo gotico storico-politico di Gianfranco Manfredi e i pipponi di chi si contempla le cuciture delle poltroncine der salotto.
Non esiste IL ROMANZO: esistono I ROMANZI.
Che vuol dire non esiste IL ROMANZO? E’ ovvio che poi si suddivide in generi e sottogeneri, è sempre stato così. Ma il linea generale IL ROMANZO esiste. E si differenzia, per esempio, dal SAGGIO (anche la saggistica può essere dislocata in diverse tipologie).
E’ ovvio che quando Shields si chiede che cosa è IL ROMANZO oggi fa riferimento a quella tipologia di scrittura che genericamente racchiudiamo nei limiti di tale definizione.
Ai tempi di Verga il romanzo andava in direzione del naturalismo/verismo, nel Novecente ha preso piede il romanzo psicologico e poi quello neorealista.
Questo era IL ROMANZO nelle suddette epoche. E oggi? Che cos’è IL ROMANZO oggi?
La domanda mi sembra perfettamente calzante.
Mi piace molto l’intervento di terzo anno di lettere moderne, mi pare che abbia colto il nocciolo della questione.
Ci rendiamo conto oppure no, che viviamo in un’epoca assolutamente nuova e INEDITA della storia dell’umanità per quanto concerne il modo di comunicare e gli strumenti di comunicazione?
Ci rendiamo conto, o vogliamo far finta di vivere ancora nel Novecento?
Vogliamo capire che l’irruzione di internet, per quanto la cosa possa darci fastidio, ci costringerà TUTTI a rivedere i concetti stessi di creatività e di tutela dei diritti?
Questo libro di Shields arriva come un’utile provocazione.
La speranza è che riesca, non dico ad intaccare, ma almeno a scalfire la parte intorpidita della nostra natura (tendente, per istinto di conservazione, al mantenimento della tradizione) che stenta a rendersi conto che siamo lontani anni luce dai tempi di Leopardi o di Petrarca proprio per via dell’impennata rapidissima della tecnologia applicata alla comunicazione (incluso quella artistica).
E visto che mi sono infervorata faccio mio il post numero 100. Ecco.
Monica: quando dico “non esiste IL ROMANZO come categoria generica, ma solo I ROMANZI come singole individualità” non intendo (ovviamente) negare specificità al “genere” romanzesco. Che è diverso dal saggio, dalla poesia, dal cinema, dal fumetto, dall’intervista eccetera, anche se a volte le “terre di confine” sono fluttuanti e piene di mercanti e contrabbandieri di generi.
Voglio dire una cosa diversa: è tale e tanta la varietà delle opere narrative di oggi (romanzi recenti, appena nati, in gestazione o addirittura in fase di amoreggiamento tra autore e tema), che è impossibile e velleitario pretendere di intrupparle in un unico schema.
Da vicino, nessun romanzo è normale.
Il passo di Shields citato in apertura non è un modello di chiarezza e in parecchi lo hanno notato: cosa si intende per realtà? Siamo al “materialismo volgare”? Alla ricerca dell’effetto “reality”? Al “reale è razionale”? Cosa significa perdere interesse alla storia, ai personaggi alle dinamiche narrative in favore del Pensiero dell’Autore? Dunque storia personaggi e narrazioni non sono movimenti del Pensiero? Tutte le storie primigenie a partire da quella di Adamo ed Eva, sono estrinsecazioni di un pensiero e “sapienziali”. Ma poi il Pensiero deve essere necessariamente inteso come il Pensiero dell’Autore? Preoccupazione dell’autore non dovrebbe essere quella di sparire nel mare delle storie o come scrisse Oscar Wilde, aspirare a diventare Anonimo? Non so… a me pare che molti buttino là delle suggestioni filosofiche però mica se la cavano tanto bene con la Filosofia. E’ stato (per la miseria) il Romanzo Filosofico settecentesco a gettare le basi del romanzo moderno. Ma anche molta filosofia precedente è narrativa. Cosa sono i Dialoghi di Platone? Non un trattato del tipo Critica della Ragion Pura di Kant, bensì dialoghi aperti, ambientati, tenuti da personaggi ciascuno a suo modo “esemplare”. Nel suo Entretien sur la Pluralité des Mondes, de Fontenelle si ricollega esplicitamente a quello stile di conversazione ambientale, rappresentata. Ma prendiamo i Viaggi di Gulliver, esaltazione del romanzesco: eppure in quei suoi viaggi tra una serie di mondi possibili (quanto “in atto”) e tra avventure di limite, la mappa è filosofica. Swift illustra un Pensiero. Si ha l’impressione che ogni tanto qualcuno si svegli dal letargo e sentenzi: bisogna fare così. Perchè? Di cosa si parla? Davvero l’atto creativo è sempre improvvisato e ricomincia sempre da capo e dal nulla? Si può rifondare qualcosa senza preoccuparsi di salde fondamenta? Per quanti secoli ancora ci toccherà discutere della Fine del Romanzo? Ed è la tecnologia a pronunciare il canto funebre finale? Quanta inconsapevolezza… scusate, ma a volte cascano davvero le palle.
Luciano: apprezzo la precisazione. E colgo un elemento importante nel tuo precedente post. ‘è diverso dal saggio, dalla poesia, dal cinema, dal fumetto, dall’intervista eccetera, anche se a volte le “terre di confine” sono fluttuanti e piene di mercanti e contrabbandieri di generi’
Ma soprattutto quando dici ‘è tale e tanta la varietà delle opere narrative di oggi (romanzi recenti, appena nati, in gestazione o addirittura in fase di amoreggiamento tra autore e tema), che è impossibile e velleitario pretendere di intrupparle in un unico schema’.
Bravo!
Vedi che anche tu fai riferimento all’OGGI? Ed è giusto, perché oggi è sempre diverso da ieri. E’ sempre stato così. Ma arrivo a dire che l’oggi di oggi ( mi si perdoni il gioco di parole ) è un po’ più diverso proprio per l’impennata tecnologica di cui dicevo prima.
Quando tu dici che ‘è tale e tanta la varietà delle opere narrative di OGGI che è impossibile e velleitario pretendere di intrupparle in un unico schema’ dici una cosa che condivido.
Per cui il ROMANZO OGGI è qualcosa che è ‘impossibile e velleitario pretendere di intruppare in un unico schema’.
Probabilmente è questa la direzione del romanzo di oggi. Ma proprio questa maggiore difficoltà a schematizzare, l’abbandono delle “terre di confine”, il fluttuare tra i generi secondo me sono segnali di debolezza del genere romanzo così come comunemente inteso.
@ Manfredi
Dici: Ma anche molta filosofia precedente è narrativa.
Ti faccio un assist. Anche molta narrativa dell’Ottocento e del Novecento ccontiene filosofia. Non ci sono elementi di filosofia e saggistica nella Recherche di Proust? E nell’Uomo senza qualità di Musil?
E allora?
Secondo me il punto è un altro, come ho cercato di spiegare nei post precedenti. E’ mutato il contesto comunicativo, sono cambiati i medium di supporto per la circuitazione dell’arte, con innegabili effetti sulla produzione artistica. E questo vale anche per il romanzo, per i motivi già detti.
Morirà il romanzo? Io spero di no.
Ma chi può dirlo?
Non credo che Shields sostenga tout court che il romanzo è morto, ma di certo evidenzia una debolezza del genere. E io sono d’accordo.
E poi, non c’è nulla di eterno. Se morirà il romanzo, vuol dire che prenderanno piede altre forme (magari forme ibride) di arte comunicativa.
Evviva.
Del resto l’opera lirica è morta. La ascoltiamo nei teatri delle nostre città. Magari acquistiamo cd e dvd di questa e di quell’opera.
Ma non c’è più nessuno, oggi, che produce nuove opere liriche. O magari, qualcuno c’è. Ma è fuori dal tempo.
Se qualcosa del genere accadrà al romanzo, penso che nonostante tutto sopravviveremo.
E adesso raccogliamo le palle, su.
🙂
Altra cosa. Dici: ‘Si ha l’impressione che ogni tanto qualcuno si svegli dal letargo e sentenzi: bisogna fare così’.
Quello di Shield si presenta come un manifesto, ovvero una proposta, non come un’imposizione.
Per cui spero che lei continui a scrivere ottimi romanzi ( ho seguito il thread su Tecniche di resurrezione ) prima che il genere esali l’ultimo respiro.
🙂
Passo dal Tu al Lei con molta disinvoltura. Abbiate pazienza. Non sempre è facile relazionarsi in un web forum in maniera corretta.
Debolezza del genere Romanzo? Oggi si pubblicano romanzi in quantità incredibili. Qualcuno di ottima fattura, altri almeno buoni, diversi certamente mediocri, molti orribili (ma talvolta di gran successo). Basta questo per decretare l’agonia di un genere? Io non ho niente contro le analisi della letteratura oggi, delle sue tendenze, delle sue peculiaritàia rispetto a quella di ieri o di ier l’altro. Solo mi irrita un pò la pretesa di volere intravedere cosa è la letteratura di domani, il voler stabilire aprioristicamente dei canoni.
E credo che il domani ci riservi molte sorprese, oggi non prevedibili, che possono spaziare dalla morte del romanzo al suo rifiorire in forme nuove e impreviste, oppure la sua rinascita grazie a un capolavoro che segue inaspettatamente i canoni più tradizionali. In barba a tutti i manifesti programmatici. Chi può dirlo?
E questo è il bello.
Infatti. Chi può dirlo?
Ma credo che il diritto di provare ad immaginare il futuro non possa essere tolto a nessuno.
Ho citato de Fontenelle non a caso. Negli Entretiens discute (o meglio fa discutere i suoi personaggi) sulle possibilità di vita intelligente sugli altri pianeti (siamo nel primo decennio del settecento!). Nella Querelle, li fa discutere su un altro tempo all’epoca molto sentito (e che riecheggia in questo blog, qua e là): sono superiori gli Antichi o i Moderni? Ora: a proposito di internet, ma non lo vedete che i forum riproducono questa forma di discussione filosofica aperta su temi? Noi partecipiamo a dei Simposi, convinti di aver creato una cosa nuovissima. La differenza vera è un’altra, che nei simposi spontanei in Rete, purtroppo non c’è un Socrate. Soltanto un autore “esterno” può offrire un percorso ai “personaggi”, dare una dinamica alla discussione, mostrare il cammino di un ragionamento tra le contraddizioni. Ma sarebbe consigliabile che un simile autore esterno, non presumesse di esporre il proprio pensiero SENZA i personaggi, altrimenti entriamo nel campo del soliloquio o del monologo interiore che certo ha anche dato luogo a dei capolavori letterari, ma questo sì… temo abbia l’esito di negare la Pluralità verso una forma di Soggettivismo Narcisistico (che peraltro credo fortunatamente ci stiamo lasciando alle spalle). Prendiamo un altro tema, quello dei plagi o delle citazioni non denunciate. Problema di oggi? Direi proprio di no. Un uomo di chiesa e studioso settecentesco passò polemicamente al setaccio un saggio di Jean Jacques Rousseau (Il Discorso sulle Scienze e le Arti) dimostrando come fosse quasi per intero un collage di citazioni non denunciate di altri filosofi (a partire da Montaigne) e accusandolo in conseguenza di non aver fatto altro che un “copia e incolla”. Resta il fatto che la torsione del ragionamento propria del saggio di Rousseau dava luogo a qualcosa di completamente nuovo, che cioé attraverso la rete di queste citazioni inespresse, ma spesso letterali, egli era riuscito ad esprimere un pensiero del tutto originale. Come si vede, questa questione non nasce su Internet, né tantomeno può essere riferita unicamente al diritto d’autore, che nasce alla fine dell’ottocento ed è una forma di regolazione contrattuale che ha fatto indubbiamente il suo tempo. Il che non significa che non debba essere ridefinita: un conto è un ragazzino che presenta una ricerca scolastica redatta con un copia e incolla più o meno coerente e riuscito, tutt’altro conto è un barone che fa compiere ricerche agli allievi per pubblicare , rapinandole, un libro suo, o che usi senza citarle intere sezioni di opere di colleghi magari meno illustri,presentandole come proprie (è accaduto molto di recente in Italia, ricordate le polemiche su Umberto Galimberti?). Un minimo di discrimine tra i diversi casi si deve pur applicare. Resta il fatto che la questione è antica quanto la Storia della Letteratura e della Filosofia. Mutatis Mutandis, certo, a patto di discutere di sostanza e non di mutande, se mi permettete il facile gioco di parole. Sbagliato è assumere lo stato attuale della tecnologia come assetto definitivo, o addirittura come dissolvente di statuti che lo precedono e lo includono. Dopotutto, per citare un altro grande scrittore-filosofo Philip Dick, chi ci dice che gli androidi non sognino pecore elettriche?
Carissima terzo anno di lettere moderne,
in realtà la nascita del diritto d’autore non può essere attribuita al code Napoleon ma a un’epoca di molto antecedente.
Infatti risale all’invenzione della stampa ed in particolare alla possibilità di realizzare con essa un notevole numero di copie delle opere in poco tempo. Nel corso degli anni, il sempre più crescente interesse per la creazione intellettuale fece assurgere l’opera letteraria al rango di bene commerciale avente un proprio valore economico. I costi relativi all’acquisto dei manoscritti, al compenso che doveva essere dato ai correttori e al costo dei macchinari, assieme allo svilupparsi della concorrenza tra stampatori, giustificarono la nascita di un sistema di concessioni per assicurare agli editori l’esclusiva produzione di una determinata opera, e, conseguentemente, la vendita della stessa.
Nacquero, così, i c.d. “privilegi” nella forma del brevetto o di una lettera patente, i quali venivano concessi discrezionalmente dall’organo di vertice politico. Tali privilegi, tuttavia, potevano essere attribuiti esclusivamente agli stampatori, riconoscendosi all’autore dell’opera il solo vantaggio di rivendicarne la paternità.
A causa della mancanza di una legge generale che regolasse la materia e di una figura istituzionale atta al rilascio e al controllo dei privilegi, nel corso dei decenni si verificarono numerose violazioni delle concessioni e si andarono affermando monopoli sempre più forti. La necessità di una regolamentazione portò nel 1517 ad emanare a Venezia un corpo di norme generali che prese il nome di “Parte”. Tale normativa revocava tutti i privilegi sino ad allora concessi, attribuendo al Senato il potere in merito alla gestione del sistema dei privilegi.
Nel corso degli anni, i governanti e l’opinione pubblica mostrarono una maggiore sensibilità nei confronti dell’autore e del suo ruolo all’interno del sistema economico relativo alla riproduzione e vendita delle opere. In tale contesto il legislatore sanciva nel 1545 l’obbligo per gli stampatori di presentare con la richiesta per la concessione anche un atto scritto da cui risultasse l’autorizzazione dell’autore o dei suoi congiunti alla stampa e alla vendita dell’opera.
Paradossalmente a contribuire all’ evoluzione del concetto giuridico di diritto d’autore non furono gli scrittori ma gli editori, i quali, per contrastare la concorrenza degli altri stampatori, iniziarono ad invocare il diritto dell’autore sull’opera dell’ingegno quale nuovo titolo giustificativo della loro esclusiva.
Poi le idee liberiste contrarie ai sistemi monopolistici, assieme alle nuove correnti ideologiche che riconoscevano il concetto di proprietà intellettuale, accelerarono tale processo di trasformazione nel periodo successivo alla rivoluzione francese.
Non va poi trascurato che la tutela del diritto d’autore non assolve a una mera tutela del “diritto di proprietà” dell’opera, ma si inserisce in tutta una serie di valori costituzionalmente protetti.
Quindi non è tutelato solo il singolo autore, ma l’interesse generale all’evoluzione culturale.
Facendo propria questa riflessione, la Corte Costituzionale ( sentenza n.95/108), affermando che “la produzione di opere dell’ingegno rientra negli interessi generali allo sviluppo della cultura” ha contribuito a richiamare un ulteriore principio costituzionale affermato nell’articolo 9. La Corte individua, quindi, nella tutela dell’autore, la contestuale salvaguardia di un interesse superiore della collettività e lo strumento per incentivare la produzione di nuove opere dell’ingegno.
Affermare quindi che la proliferazione della realtà artistica sul web privi di fondamento il concetto giuridico di diritto d’autore è una semplificazione eccessiva, che non tiene conto che questa tutela è approntata a salvaguardia di molteplici interessi, non solo dei singoli, ma anche collettivi e superindividuali.
Ottimo intervento, Simona. Per la verità io non mi riferivo al codice Napoleone, ma al Codice Ricordi. Giulio Ricordi regolò in modo “moderno” la questione delle percentuali da riconoscere all’autore, dunque introducendo non un unico pagamento “a saldo” per l’autore, ma oltre a un “minimo garantito” delle percentuali sulle esecuzioni e sulle stampe. Ora, a me pare che questa regolazione vada rivista sia alla luce delle problematiche aperte da Internet , come ha sottolineato Monica, e in particolare al diritto pubblico di condivisione, assai poco tutelato, ma anche in relazione al moderno mercato di massa, stabilendo (so che al momento pare Utopia) un tetto massimo al di là del quale l’autore debba considerarsi già compensato e la sua opera considerata dominio pubblico. Se infatti da pubblico, un certo autore lo abbiamo strapagato, facendolo diventare miliardario, è interesse pubblico che egli forte di questa rendita al di là di ogni ragionevole misura, non acquisisca un’indebita forza di mercato a scapito ad esempio di autori nuovi ed emergenti. Quali pari possibilità ci sono tra un autore multimiliardario e un altro che di tutele anche legali ne ha pochissime? L’autore miliardario è figura relativamente recente. Gli artisti in passato facevano la fame. Persino autori resi ricchi dal mercato, come Dumas, erano sempre indebitati. Dumas comunque aveva finanziato Garibaldi. Oggi certi autori coi loro profitti si comprano una squadra di football. Distrubire o tagliare quote diritti in modo lineare, è la stessa identica prassi della finanziaria di Tremonti. Il punto è che se si toglie il dieci per cento da un otre, da bere ne resta parecchio. Se si toglie il dieci per cento da un bicchierino, si ci deva accontentare di un sorsetto. Proprio perché a fondamento del diritto editoriale e d’autore c’è un interesse pubblico, non sarebbe ora di mettere questo interesse pubblico un poco più al centro?
Avendo fatto il cantante posso assicurarvi che la giungla dei diritti è un colossale imbroglio che tutela pochissimo gli autori. Un esempio? Negli anni 70 e 80 molte radio libere mandavano a manetta canzoni di autori alternativi , messe anche a disposizione delle registrazioni degli ascoltatori, tant’è che per favorirle, non si parlava sulle canzoni. Nessuno di noi “alternativi” protestava per questo, anche perché si riteneva fosse più importante la diffusione che non il lucrare su di essa (del resto potrei citare un lungo elenco di casi di cantanti o gruppi dell’epoca che fecero più concerti gratuiti che a pagamento). Senonché la SIAE imponeva comunque un pagamento diritti a questo circuito di radio. I diritti, nel caso, venivano saldati a forfait, cioè non considerando i singoli autori. L’ammontare ricavato, la SIAE lo ridistribuiva secondo quote corrispondenti alle ripartizioni diritti globali. In altre parole, se una radio metteva un brano mio, i quattrini andavano a Michael Jackson. Qualcosa di analogo, oltre ad avvenire ancora in campo musicale, avviene con i famosi diritti ingiustamente imposti agli utenti delle Biblioteche per le fotocopie dei testi. A chi vanno questi diritti di copia, al singolo autore o editore? No. Finiscono in un monte diritti ripartito a seconda dell’importanza delle case editrici. L’attuale gestione dei diritti d’autore premia i monopolisti e contribuisce a rafforzare rendite di posizione che immobilizzano il mercato. Il creative commons è certamente un passo avanti, ma non é sufficiente. Tra il lodevolmente generoso e l’avido arraffatutto, l’interesse pubblico dovrebbe intervenire a stabilire regole valide per tutti e che non premino invariabilmente il secondo.
Anche in campo fumettistico sono accadute e accadono cose inaudite. Gli autori del personaggio di Batman, Kane e Finger, sono morti in miseria. Il secondo non è stato neppure riconosciuto come co-autore, nonostante avesse inventato la bat-mobile, la bat-caverna e Robin. Nulla, né a loro, né agli eredi è mai andato del mostruoso ammontare dei diritti, considerando anche il solo merchandising. La figura dell’autore di fumetti in Italia, non è ancora riconosciuta dalla SIAE. Da ben tre legislature gli autori di fumetti cercano di fare approvare un riconoscimento in Parlamento, invano, perché della questione non frega nulla a nessuno.Per fortuna, il maggior editore italiano di fumetti, Sergio Bonelli è persona più che onesta e scrupolosissimo nella gestione e nel riconoscimento e pronto pagamento dei diritti, ma sapete quanti ce ne sono che pubblicano fumetti gratificando gli autori con un’amichevole pacca sulle spalle? Il campo del cosiddetto diritto d’autore, in mancanza di legislazioni aggiornate ai tempi, è in realtà territorio dell’accaparramento più selvaggio a scapito degli autori e del pubblico. Sapete chi ha avuto la spudoratezza di proporre un pagamento SIAE persino per l’ascolto della musica a casa, tra amici? Mogol. Ditemi voi se non è roba da diritto feudale!
Caro Gianfranco, un abbraccio!
… non mi riferivo a te, ma a terzo anno di lettere moderne che nel suo intervento aveva fatto riferimento al codice napoleonico ritenendo che ad esso si debba la concezione e la nascita del diritto d’autore.
D’accordissimo con te, poi, sulla valenza pubblica e sovraindividuale che la normativa sul diritto d’autore dovrebbe avere.Ma cosciente – ahimè – che ancor prima delle leggi, dovrebbe cambiare il ruolo della cultura nelle coscienze e nel nostro stato.
I mezzi giuridici non mancano. Ad esempio, un meraviglioso art 9 della Costituzione, dotato di forza immediatamente precettiva: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”, utilizzato dai tribunali come norma “viva” per dirimere le controversie.
Un affettuosissimo saluto!
@Gianfranco.A dispetto di Finger,(purtroppo realmente ignorato e dimenticato,ingiustamente) mi sembra che nei 60 sull’onda del successo del telefilm di Batman con Adam West Bob Kane riuscì a far valere legalmente i suoi diritti sul personaggio.(Anche perchè a differenza di Siegel e Shuster lui non aveva ceduto alla Dc i diritti della sua creatura)
Insomma non mi sembra che morì in miseria.(Se ricordo bene)D’altrocanto la maggior parte dei disegnatori che hanno collaborato con Stan Lee alla creazione del Marvel universe,non si videro riconoscere i loro diritti.Pensate alle cause intentate da Steve Ditko e Jack Kirby per riottenere le loro tavole originali o ad uno Steve Gerber (che però è un autore e non un disegnatore) che sulla propria collaborazione con il sorridente Stan voleva scrivere una graphic novel intitolata “Stanley the rat”.(Giusto per chiarire che Gerber al “sorridente Stan” gli avrebbe volentieri sputato in faccia)
Davvero ottimi gli interventi di Simona Lo Iacono.
Chi sostiene che Internet è solo il regno del copia e incolla dovrebbe venire qui a leggere questi post per capire che nella Rete esiste anche il regno del leggi e impara.
Belli anche i successivi interventi di Gianfranco Manfredi.
Alcune osservazioni.
Monica: certo, io dicevo che i romanzi di oggi non sono riconducibili a una sola formula perchè ce ne sono di ogni tipo, genere, forma e formula. Ma ciò accadeva anche duecento e più anni fa. Basti pensare a un autore come Ernst Theodorus Amadeus Hofmann che nella sua opera narrativa ha scritto di tutto (fiaba, racconto filosofico, horror, vampiri, satira, meta-romanzo, romanzo nel romanzo, storie erotiche, invenzioni tipografiche, polizieschi…).
Quando Shields e quelli come lui parlano della “crisi del romanzo” mi ricordano molto quelli che parlano della “crisi della cucina e dell’appetito” perchè sono inappetenti e anoressici.
@ Gianfranco Manfredi
Ho ordinato on line Tecniche di resurrezione.
Sul suo intervento delle h. 3:50 p.m.:
noi non possiamo entrare nella testa degli androidi, dunque non possiamo sapere se sognano pecore elettriche. Ma possiamo entrare nella nostra, di testa. possiamo formulare un pensiero e proporlo. E questo pensiero può essere condiviso oppure no.
Il discorso sui simposi in rete dà la stura ad un’altra possibile considerazione, che tuttavia potrebbe essere fuorviante rispetto a questa discussione. Vista nel suo insieme la Rete è già un “Autore esterno” di per sé. La Rete è paragonabile ad un organismo vivente, composto da organi divisibili in parti cellulari, con la presenza di virus e di anticorpi.
Ma non voglio divagare.
Insisto su un punto e prometto di chiuderla qui.
Non è possibile, secondo me, riferirsi al passato come elemento di paragone per leggere il presente, non tenendo conto delle possibilità INEDITE a livello mediatico e comunicativo di cui disponiamo oggi. Questo fatto secondo me esercita la sua influenza in maniera inevitabile.
Non è un caso se oggi al posto dei Socrate ci sono i Beppe Grillo.
La normativa sui diritti d’autore è stata rivista e sarà oggetto di ulteriori rivisitazioni. Ed è ovvio che chi si appropria indebitamente di un lavoro artistico altrui spacciandolo per proprio continuerà ad essere perseguito. Ma non è questo il caso di Shield. Lui dichiara aprioristicamente di utilizzare citazioni altrui. Quella di Shield, ripeto, e sono d’accordo con lettere moderne terzo anno, è una provocazione.
Una provocazione direi, a questo punto, molto efficace.
Luciano: allora anziché dire “che i romanzi di oggi non sono riconducibili a una sola formula perchè ce ne sono di ogni tipo, genere, forma e formula” avresti dovuto dire “che i romanzi in generale non sono riconducibili a una sola formula perchè ce ne sono di ogni tipo, genere, forma e formula”. Il ché è anche vero. Ma non credo che il tuo sia stato un lapsus casuale. Perché se è vero che nella storia della letteratura troviamo esempi di mescolanze, come quello da te citato, (io ho fatto l’esempio del connubio tra filosofia, saggistica e narrativa nelle principali opere di Proust e Musil) è anche vero che oggi tale mescolanze sono nettamente superiori rispetto al passato. Si pensi all’influenza che il romanzo ha subìto (o beneficiato?) dal fumetto, dal cinema, ecc, ecc.
Insomma la schema tradizionale del romanzo classico traballa.
Ma pensiamo soprattutto alla possibilità che prendano sempre più piede narrazioni-ipertesto caratterizzati dalla presenza di immagini, video e musica. E dalla possibilità di interazione con il lettore.
Potremmo ancora chiamarli romanzi (intesi in senso classico)?
Ancora per Luciano. Dici: Quando Shields e quelli come lui parlano della “crisi del romanzo” mi ricordano molto quelli che parlano della “crisi della cucina e dell’appetito” perchè sono inappetenti e anoressici.
Ci sono anche i superappetenti che mangiano di tutto, compreso i cibi stantii e avariati, e poi si beccano un avvelenamento o, se va bene, una forma di intossicazione.
Tornando alla questione della tutela dei diritti d’autore in relazione ai libri ed alla letteratura non si può non ricordare quello che sta accadendo con GOOGLE BOOKS.
Ma qui si aprirebbe un discorso infinito.
Alla cortese attenzione di tutti coloro che si sentono, legittimamente, indignati e scandalizzati dalle appropriazioni indebite di Shield.
Avete mai scaricato musica o film in Rete?
Avete mai duplicato un Cd o un Dvd per voi e per un vostro amico?
Ebbene, se l’avete fatto sappiate che avete commesso una violazione sui diritti d’autore (ma tranquilli: nessuno vi beccherà, e non vi arresteranno per questo). Tuttavia, in tal caso, sarebbe da ridimensionare il vostro scandalo e la vostra indignazione.
Lo dico per la salute del vostro fegato.
E qui torniamo a una delle intelligenti provocazioni di Shield. In un’epoca in cui tutto è riproducibile ed è facilissimo farla in barba a molti dei tentativi di tutela dei diritti d’autore, nemmeno la letteratura può tirarsene fuori.
Per sbaglio ho scritto due volte Shield, invece di Shields.
Questo a dimostrazione del fatto che non siamo né parenti né amanti.
Massimo e altri: un astuto manifesto, quello di Shield, che darà fama all’autore e agevolerà (forse) chi rinuncia a comporre romanzi che ritraggano, interpretino, raccontino le quotidiane vicende del mondo e i cosiddetti sussulti del cuore, sempre diversi, perché il mondo e i sussulti, come ciascun luogo, ciascun lasso di tempo e ogni individuo non sono né saranno mai uguali ad altri. La natura, insomma, non si ripere mai alla perfezione.
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Sì, è vero, il romanzo dei prossimi anni non potrà eludere la scienza o la saggistica, dal momento che entrambe sono e saranno di supporto alla narrazione realistica e non solo. Giustamente, secondo me, giacché la conoscenza, anzi le singole conoscenze dovranno integrarsi o arricchirsi vicendevolmente per assumere credibilità e utilità.
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Per quanto concerne il resto, l’estrapolazione – da parte di uno scrittore -di frasi o scene da opere altrui, condurrebbe dritto all’esaltazione della fine del romanzo autentico, vivido, ovvero frutto della ricerca dal vivo, o “sul campo”, ossia della creatività “primigenia”.
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Il libro di Shield sarà un viaggio affascinante ed esilarante, già esilarante!, come sostiene Coetzee, ma in fondo non sarà che un viaggio ripetuto e per certi versi “estraneo”, che potrebbe (ripeto “potrebbe”) sollecitare l’alienazione sia nell’autore che nel lettore.
Cordialmente
Si sono accavallati molti e diversi temi, tutti interessanti, il che significa che in ogni caso Shields ha davvero utilmente “provocato”. Nello specifico del diritto d’autore se ne può discutere all’infinito sul piano generale, di cosa sarebbe giusto e di cosa no. Il punto è che nella pratica, l’attuale regime, complicato da un’infinità di diversi regolamenti nazionali (il che contrasta tra l’altro con la natura globale dell’economia) è una vera selva che al di là di quanto propagandisticamente si dice, non tutela affatto gli autori, anzi li rapina. (Per inciso, ha ragione Francesco sui diritti di Batman, la vertenza è stata molto lunga e qualcuno l’ha spuntata dopo che la cosa aveva fatto scandalo e minacciava di intaccare la credibilità dell’editore, ma quante lotte bisogna fare per vedersi riconoscere diritti elementari?). Credo che compito di tutti coloro in rete o fuori dalla Rete che hanno a cuore la cultura e la comunicazione sia favorire la sempre maggiore diffusione del fruibile gratuitamente, quantomeno in una dimensione di libero scambio tra utenti. Non che oggi stiamo messi male da questo punto di vista, ma quanto durerà? Già il passaggio dal download p2p alla visione in streaming, e i nuovi televisori internet in arrivo, segnalano che sarà bene tenere sempre il portafogli a portata di mano. Per l’industria culturale e dei media, la fase del gratuito serve a garantire una nuova massa d’utenza, trovata la quale, il gratuito finisce e si comincia a fare pagare salato. Se andate a fare una vacanza negli Stati Uniti accendete la TV e guardate che fine hanno fatto i canali gratuiti e generalisti, quelli che si dicevano “pagati dalla pubblicità”: la pubblicità non fa da intermezzo ai film, ma brandelli di film fanno da pausa tra la pubblicità e le televendite. Se vuoi vedere dei programmi televisivi per bene, devi pagare. Questa logica sarà trasferita pari pari sul web. E dunque? Teniamoci stretti i pirati, che servono moltissimo, come azione di contrasto alle vere rapine che quotidianamente i grandi gruppi mediatici celebrano ai nostri danni, sapendo che comunque la Compagnia delle Indie potrà subire qualche occasionale batosta da Sandokan, ma la sconfitta no. La sconfitta potrà avvenire solo dal collasso. Ci sono molti casi in cui e molte ragioni per cui un sistema implode (vedi il caso della discografia).
Monica: ti devo due risposte e una precisazione.
La precisazione: mi riferivo ai “romanzi di OGGI” perchè tu parlavi (appunto) di essi, della narrativa di oggi.
Le risposte: “Avete mai scaricato musica o film in Rete?” No perchè i cd e i dvd che mi interessano li compro.
“Avete mai duplicato un Cd o un Dvd per voi e per un vostro amico?” In casi rarissimi e solo per uso personalissimo (ad esempio, una copia del cd da ascoltare anche in ufficio oltre che a casa oppure registrazioni di concerti non pubblicati ufficialmente).
E a proposito della fede nella tecnologia, la Storia della Tecnologia è piena di casi stravaganti: la scelta del petrolio, dopo la rivoluzione del “vapore”. Anni di sviluppo, anni di disastri, crisi delle risorse. Qualcuno che propone (si potrà? Non si potrà? E’ controverso) il ritorno all’Idrogeno. Un marziano ci chiederebbe: ma scusate, avevate già sviluppato una tecnologia sull’idrogeno, perché avete cambiato tutto per una più sporca, invece di perfezionare quella, e adesso cercate disperatamente di tornare a quella? Lo sviluppo, anche quello tecnologico, non è esente da percorsi deliranti.
@ Gianfranco Manfredi
Citazione:
Teniamoci stretti i pirati, che servono moltissimo, come azione di contrasto alle vere rapine che quotidianamente i grandi gruppi mediatici celebrano ai nostri danni.
Grande!!! 🙂
Luciano (“Avete mai scaricato musica o film in Rete?” No perchè i cd e i dvd che mi interessano li compro.
“Avete mai duplicato un Cd o un Dvd per voi e per un vostro amico?” In casi rarissimi e solo per uso personalissimo).
sei un caso raro ed hai tutta la mia stima.
Grazie a tutti. E’ stato bello stare qui, ma questo è il mio ultimo commento. Quello che pensavo l’ho già detto e non vorrei sembrare pervicace.
Ciaoooo.
Ti devo anche due aggiunte, Monica:
1) i cd preferisco comprarli direttamente sui siti dei musicisti. Un paio di esempi: di recente ho preso (per quanto riguarda gli italiani) Davide Van De Sfroos, Miami & the Groovers, Cheap Wine, Lowlands…
2) Ho scaricato SOLO ciò che gli stessi autori mettono in Rete (ad esempio alcune cose di Neil Young, di Ben Harper o di Graziano Romani). Essendo allergico e ostile alle play-list, amo gli album veri e propri e i concerti in carne/ossa/anima.
se questo libro ha suscitato tutto questo polverone è perché probabilmente ha toccato qualche nervo scoperto. non è evidentemente la solita annosa e noiosa questione sulla presunta morte del romanzo che ogni tanto torna in auge, altrimenti questo interesse nato sia all’estero che in Italia non sarebbe giustificato.
Gentile dott. Maugeri,
io dalla mia veneranda età, strabilio. Cos’è lo streaming? E il download? Mi era già sembrato tanto essere riuscito a lasciare un commentino qui, anzi a “postare” come dite voi (termine che nei primissimi tempi della mia frequentazione su Letteratitudine mi confondeva, sembrandomi legato alla posta o alle vecchie missive….ma in fondo, è come se ci scrivessimo lettere un po’ tutti).
Ora so cos’è un link, so cos’è facebook , e cosa una password e cosa una email (sebbene la mia non funzioni più: ho dimenticato la password, appunto) ma tutto il resto mi confonde alquanto e quindi non ho ben capito tutto il discorso del Dott. Manfredi, per mia carenza di cognizione dei nuovi metodi espressivi.
Scusate quindi se intervengo senza alcuna specifica preparazione, dicendo solo che un manifesto, al più, può interessare gli addetti ai lavori, i cultori della sperimentazione, o i vecchi futuristi (come io in passato sono stato).
Ma alla mia età io prendo in mano un libro solo per amore.
E quindi poco mi importa per quale strada mi emozioni, per quale mezzo, o da quale vetta. Non vado a scandagliare se è un genere ancora vivo, se è il passato, o il futuro.
Ho poco tempo, e quel poco che mi sta davanti lo voglio riempire con la lettura della vita.
A un libro chiedo quindi, forse in modo semplice, mi rendo conto, che mi emozioni. Che mi commuova. Che scuota il mio essere e lo interroghi. Che mi cambi e che rimanga dentro di me. Se il libro del signor Shields avrà questo potere, se mi farà quella compagnia che altri, in carne ed ossa, non mi donano, ecco…ben venga.
Ma se è forzato, costruito, mosso solo dal desiderio di offrire un bell’esempio di stile, un virtuosismo da acrobata della parola, o di bravo sceneggiatore senza effetto, no grazie. Non fa per me.
Ripeto, ho poco tempo.
Non mi posso permettere di sprecarlo.
Grazie infinite per la bellissima e dotta discussione.
Vostro affezionato
Professor Emilio
Torno al mio discorso di ieri (mio commento delle 3:41) al quale Monica rispondeva sinteticamente “Ma credo che il diritto di provare ad immaginare il futuro non possa essere tolto a nessuno”. E infatti nessuno ha nulla da obiettare in proposito. Per chiarire il mio discorso preciso che non ho letto il libro di Shield, e quindi parlo solo per quello che se ne leggo qui, e ancor più in generale parlo riguardo al discorso sull’opera-manifesto. Un “manifesto” implica un intento di proselitismo, indicare dei canoni per il futuro e suggerire di attenervisi per “dirigere” in qualche modo una mutazione verso determinate direzioni. Che è quello che non mi piace. In arte, in letteratura, in musica, trovo sempre più interessante l’autore che “dirige” se stesso, al di fuori di qualsiasi indirizzo programmatico, solo per esigenza incomprimibile di esprimersi. Ed è per questo che mi auguro di trovarmi, prima o poi, di fronte alle sorprese cui accennavo. Poi le analisi e le previsioni sulle tendenze sono sempre interessanti, e anche il libro di Shield probabilmente lo è. Così come lo era l’analisi sulla cultura odierna (spaziale-orizzontale e basata sui “nodi di rete”, a differenza di quella classica, tutta “verticale” in cerca di profondità) fatta da Baricco (I barbari), condivisibili o meno che siano le sue tesi. Ma pur sempre interessanti. Senza per questo voler “imporre” questi nuovi canoni.
il mio pensiero è ben espreso da questa opinione di Monica.
“Avete mai scaricato musica o film in Rete?
Avete mai duplicato un Cd o un Dvd per voi e per un vostro amico?
Ebbene, se l’avete fatto sappiate che avete commesso una violazione sui diritti d’autore (ma tranquilli: nessuno vi beccherà, e non vi arresteranno per questo).
E qui torniamo a una delle intelligenti provocazioni di Shield. In un’epoca in cui tutto è riproducibile ed è facilissimo farla in barba a molti dei tentativi di tutela dei diritti d’autore, nemmeno la letteratura può tirarsene fuori”.
e sarebbe altresì il caso di aprire una discussione sul prezzo scandaloso di alcuni ebook. in alcuni casi non si discosta molto dal prezzo del libro di carta.
ma stiamo scherzando?
qui c’è il pezzo del New York Times sul Manifesto di Shields http://www.nytimes.com/2010/03/14/books/review/Sante-t.html
@ Emilio. Il tema indicato dal professor Emilio sull’imperscrutabilità di certe svolte e momenti tecnologici e i loro riflessi sul linguaggio e sulla scrittura, è molto stimolante. Io ne so molto meno di quanto non sembri, in proposito, anzi mi muovo come un selvaggio sempre spaesato che costantemente deve orientarsi tra segnali che non comprende cosa indichino. Ogni volta devo ricorrere alle mie figlie per farmi spiegare il significato di un termine, di una pratica, i limiti e le possibilità di un software. E non sono delle esperte di elettronica, ma ottime conoscitrici sì, com’è caratteristico delle nuove generazioni fin da piccole. C’è poi un aspetto nelle attuali tecnologie, di rapidissima obsolescenza, che costituiscono un enorme scoglio . Io ho cominciato a usare il computer quando ancora c’era il Commodore 64. Ve li ricordate quegli schermi neri con i caratteri verdi? Era l’altro ieri, ma ci sembra già preistoria. E quanto lavoro si fa che poi si butta? Dato che mi occupo anche di fumetti, avevo archiviato nel tempo migliaia di immagini su dei floppy di comoda consultazione. Risultato? Li ho dovuti buttare tutti. Sono illeggibili con i nuovi sistemi. Cosa sono riuscito a conservare? Ciò che delle mie ricerche su Internet ho provveduto a stampare su carta. I siti nascono e spariscono di continuo. La documentazione cartacea è ancora fondamentale per conservarne memoria. Un problema specifico è poi quello dei software di scrittura, su cui fin dal principio Umberto Eco ha scritto pagine interessanti e anche da fine umorista. I programmi di scrittura non sono creati da scrittori e dunque contengono requisiti del tutto inutili, funzioni che non si usano mai, altre insensate e distorcenti (il correttore automatico, il traduttore automatico) e altre ancora troppo rigide rispetto a come potrebbero/dovrebbero essere. Lo stesso avviene in qualche misura anche con le tecnologie cinematografiche: se gli artisti stessi non si mettono a elaborarle, diventano una gabbia. Il regista ad esempio non può scegliere l’inquadratura, perché un certo tipo di effetto è leggibile solo con un’inquadratura stabilita a priori dal programmatore. Risultato? O si adegua oppure quell’effetto non potrà usarlo. D’altro canto anche questo problema è antico, per la scrittura. Quando la stampa quotidiana ha cominciato a dilagare, è nato il feuilleton, una forma narrativa che andava ad inserirsi in formati che la precedevano, studiati indipendentemente dalla narrativa in senso proprio e non creati da scrittori. Ciò significava: durate predeterminate di un capitolo, esigenza di riassumere gli episodi precedenti, finali aperti o sospesi che consentissero di mantenere alto l’interesse del lettore, eccetera eccetera. Gli scrittori dunque si sono abituati ai salti mortali, per corrispondere alla formattazioni “esterne” che ogni volta la tecnologia del loro tempo proponeva. In questa perpetua adattabilità, molti sono anche riusciti a trovare una paradossale libertà esplorativa. Riguardo a Internet, non basta dire: “ha cambiato tutto”. Ci troviamo in un campo in cui la tecnologia della comunicazione cambia continuamente se stessa, si ricrea e si cancella di continuo, senza raggiungere mai quella solidità e permanenza di “mezzo” che è stata ed è ancora caratteristica del libro. Il romanzo io credo sia ancora la forma di scrittura più libera che esista, perchè al contrario del fumetto e del cinema, ad esempio, non ha un formato predeterminato. In cinema la storia devo raccontarla in due ore. In fumetto la devo raccontare in un numero predeterminato di pagine, e la devo scandire per vignette, secondo un certo ritmo stabilito. In romanzo posso raccontare quello che mi pare, come mi pare e quanto a lungo mi pare. Allo stesso tempo, il romanzo è assai più interattivo. Ciascun lettore è sospinto a ricrearlo in sè, ciascun lettore “forma” il romanzo che sta leggendo. E ciascun lettore sceglie il proprio tempo di lettura. Al cinema mi siedo e me ne sto lì a guardare per due ore. Se leggo un romanzo posso leggermelo con i ritmi miei. Restarci inchiodato per giorni finché non l’ho finito, o centellinarlo. Posso tornare indietro, saltare delle parti, andare avanti ( sapete che certi lettori di gialli tradizionali, per togliersi ansia, vanno a leggersi subito chi è l’assassino, così poi possono godersi una lettura meno emotivamente orientata?) . Oggi si sta parlando della possibilità, grazie alle nuove tecnologie di intervenire sulla scrittura stessa, modificando a nostro gusto certe sezioni del romanzo che stiamo leggendo, fino ad ottenerne la NOSTRA versione. E’ questa una forma di interattività che porterà a qualcosa di buono? Non so, anche se ne dubito… di fatto, noi già costruiamo il nostro romanzo leggendolo, già lo “riscriviamo” per noi, sulla base della nostra sensibilità , del nostro livello culturale e di percezione. E a tutti sarà capitato che certi romanzi, riletti a distanza di tempo, ci sono apparsi diversi e persino nuovi rispetto a come li ricordavamo. Ha senso fermare questo libero fluire interpretativo così caratteristico del romanzo, segmentandolo in istanti di lettura/riscrittura per loro natura occasionali? Ecco, vedete che quando da una problematica di tipo generale (come quella posta da Shields) si entra nel dettaglio concreto, le cose cambiano parecchio e gli interrogativi diventano altri.
Avevo promesso di starmi zitta, ma non riesco. Gli interventi di Gianfranco Manfredi sono troppo stimolanti.
🙂
@ Manfredi
(Riguardo a Internet, non basta dire: “ha cambiato tutto”. Ci troviamo in un campo in cui la tecnologia della comunicazione cambia continuamente se stessa, si ricrea e si cancella di continuo, senza raggiungere mai quella solidità e permanenza di “mezzo” che è stata ed è ancora caratteristica del libro.)
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E’ proprio questa mutazione continua che in un modo o nell’altro ci influenza e sempre più lo farà. Abbiamo l’impressione che l’epoca del Commodore 64 sia prestoria. E nei fatti lo è. Prima non era così. Da Gutenberg in poi, prima di Internet, e per un bel po’ di tempo le possibilità di comunicazione artistica erano molto limitate dalla esiguità dei supporti. La carta rimarrà, così come rimane la possibilità di fare concerti nonostante gli mp3 (anzi, fare concerti, oggi, rimane uno dei pochi modi per guadagnare per un musicista), così come si può continuare a dipingere con i pennelli nonostante l’arte grafica al pc si stia imponendo sempre più. Anche i fumetti si potranno leggere su carta nonostante siano in crescita quelli realizzati in formato elettronico. Stessa cosa per i romanzi di carta.
Tutto questo per qualche anno ancora.
Ma poi?
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Se di Tecniche di resurrezione facessero un film, dovremmo dire che si tratta di un film tratto dal romanzo, ma non del romanzo.
Se di Tecniche di resurrezione si realizzasse un ebook che mette insieme alcune scene del romanzo ed alcune scene del film, dovremmo parlare di film o di romanzo?
Probabilmente né dell’uno, né dell’altro.
E il lettore che legge questo ibrido sarebbe ancora così libero di immaginare, oppure nella sua testa vedrebbe i personaggi con i volti degli attori?
Questo è un bene o un male?
L’evoluzione tecnologica, proprio per la sua velocità che distrugge e rigenera in continuazione, a ritmo vorticoso e senza precedenti nella storia dell’umanità, spinge alla promiscuità delle arti, alla mescolanza dei generi.
E ritengo che sarà sempre più così nel futuro.
Tornando ai libri e alle “sicurezze” della carta… sono convinta che tutti i libri più importanti della storia verranno digitalizzati (vedi progetto Google libri et similia) e nel futuro non verranno più stampati, ma fatti circolare in formato digitale.
Quei vecchi libri li conserveremo nei musei, come gloriosi cimeli.
E tutto questo, secondo me, non può non influenzare anche la produzione artistica.
(Quando la stampa quotidiana ha cominciato a dilagare, è nato il feuilleton, una forma narrativa che andava ad inserirsi in formati che la precedevano, studiati indipendentemente dalla narrativa in senso proprio e non creati da scrittori. Ciò significava: durate predeterminate di un capitolo, esigenza di riassumere gli episodi precedenti, finali aperti o sospesi che consentissero di mantenere alto l’interesse del lettore, eccetera eccetera. Gli scrittori dunque si sono abituati ai salti mortali, per corrispondere alla formattazioni “esterne” che ogni volta la tecnologia del loro tempo proponeva).
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A maggior ragione oggi e sempre più nel futuro, proprio per l’impennata dell’evoluzione tecnologica che si diceva.
(E ciascun lettore sceglie il proprio tempo di lettura. Al cinema mi siedo e me ne sto lì a guardare per due ore. Se leggo un romanzo posso leggermelo con i ritmi miei. Restarci inchiodato per giorni finché non l’ho finito, o centellinarlo. Posso tornare indietro, saltare delle parti, andare avanti).
Grazie alla tecnologia oggi abbiamo i lettori Dvd.
Il signo Rossi potrebbe decidere di visionare l’ultimo film scaricato illegalmente da internet per un quarto d’ora al giorno, e rivedere le scene che gli piacciono all’infinito.
(Il romanzo io credo sia ancora la forma di scrittura più libera che esista, perchè al contrario del fumetto e del cinema, ad esempio, non ha un formato predeterminato. In cinema la storia devo raccontarla in due ore).
Ma esistono anche i cortometraggi. Così come i racconti brevi. Nel campo dell’arte visiva si possono realizzare serie tv (i telefilm) che possono essere raccolti in dvd e ciascuna puntata potrebbe corrispondere al capitolo di un romanzo. Si potrebbe realizzare un fumetto dove ogni vignetta corrisponde a una pagina. E se il fumetto si compone in vignette e il film in sequenze, il romanzo si può scomporre in frasi.
Insomma, dipende.
Molto interessante quello che dice Gianfranco Manfredi, opportunamente stimolato dal caro Professor Emilio. Anche io pensavo che in fondo la tecnologia potesse offrire nuove opportunità al romanzo: mi immaginavo e-book con possibili link a immagini, musiche, interattività con il lettore, scelte di sviluppi diversi della storia narrata, ecc. ecc. ecc.
Ma Manfredi mi apre gli occhi: cosa c’è di più libero del romanzo così come è da secoli? In fondo tutte queste “possibilità” grazie alla tecnologia non sarebbero di fatto che delimitazioni alla mente illimitata del lettore. Che già interagisce col romanzo, in quella splendida scatola che è la nostra immaginazione.
Vediamo se riesco a farmi odiare da Carlo S. 🙂
Si potrebbe obiettare che la libertà di immaginazione del lettore rimanga comunque vincolata alla storia. E se il cinema ci impone le immagini di un racconto, il romanzo ci può persino imporre il pensiero stesso dei personaggi. Che è una forma di vincolo ancora più pressante.
A proposito di quello che dicevo prima sulla commistione tra romanzi e film in un genere ibrido
http://www.elle.it/Entertainment/Libri/Esce-Caos-Calmo-in-formato-e-book
E qui http://www.iphoneitalia.com/caos-calmo-un-fantastico-libro-multimediale-con-contenuti-video-disponibile-su-iphone-161126.html
E nella classifica dei primi dieci tra gli ebook più venduti da ibs figurano anche i cari vecchi romanzi classici http://www.ibs.it/ebook/hme/hmepge.asp
Vediamo se riesco a farmi ri-odiare io da Monica.
🙂 🙂 🙂
L’immaginazione del lettore è di per sè illimitata. Il romanzo è la forma narrativa che impone meno limitazioni di tutte nel voler raccontarmi una storia, creata da un autore. Qualsiasi altra forma (comprese quelle di tecnologia avanzata, salvo quella, forse, non ancora messa a punto di vedere catapultate in una ricostruzione virtuale delle immagini proiettate dalla mente del lettore) oggi praticabile mi può solo suggerire già solo una serie di scelte in qualche modo precostituite.
Il risultato (per ora) temo possa essere solo una forma di impigrimento della mia (in qualità di lettotre) capacità immaginativa.
Ma (ripeto) il futuro è solo nelle sfere di cristallo. Le sorprese (in tutti i sensi) sono gradite.
Caro Carlo, ti voglio bene 🙂 🙂 🙂
Capisco bene cosa intendi dire e dal tuo punto di vista non posso che darti ragione. Però è innegabile che il mondo letterario/editoriale sta cambiando molto in fretta, e dieci di questi nostri anni possono equivalere ad un secolo del millennio che ci siamo appena lasciati alle spalle.
Nessuno di noi possiede la sfera di cristallo, ma c’è una buona notizia per te e per tutti gli amanti del romanzo inteso in senso classico: se un giorno il romanzo (così inteso) dovesse morire, come è avvenuto per l’opera lirica, rimarranno comunque le migliaia di romanzi scritti in passato che nessuno potrà mai togliere dalla circolazione.
E per leggere tutti questi romanzi, comunque sia, non basterebbe una vita intera.
Cara Monica, innanzitutto scusa per gli errori di sintassi nel mio precedente commento (mi sono riletto solo una volta postato). Però vedo mi hai capito lo stesso. Mi è piaciuta molto la tua chiusa (“E per leggere tutti questi romanzi, comunque sia, non basterebbe una vita intera.”) Tuttavia (e qui spero di non regredire nella scala del tuo affetto, dopo aver conquistato un “ti voglio bene”)
🙂
non credo ci si possa accontentare di leggere solo le storie del passato. Ogni nuova forma artistica non vedo perchè debba per forza cancellare le precedenti. Il cinema non ha ucciso la letteratura: crescono entrambe in parallelo. La TV non ha ucciso il cinema (eppure lo si temeva). E neanche l’opera lirica è del tutto morta. E’ solo cambiata. Hai mai ascoltato “Einstein on the Beach” di Philip Glass? Ha poco a che fare con Verdi, o Puccini, ma così viene definita. Poi magari sarà confinata alla fruibilità di pochi, ma questo è un problema generale di tutta la musica contemporanea cosiddetta “colta”. In quella meno “colta” (diciamo “popolare”) sono state scritte poi anche opere liriche rock (“Tommy” dei Who, il caso più noto). Il problema è che ai tempi di Verdi “colto” e “popolare” coincidevano, mentre oggi c’è una netta distinzione di generi e di pubblico. Non che in letteratura sia così diverso: i best sellers appartengono ad un pubblico che difficilmente legge anche i classici. Il fruitore di letteratura contemporanea di maggior qualità è lo stesso che invece continua a comprare e leggere anche Omero, Shakespeare, Manzoni, Dostoevskji e Joyce.
Ma questo (forse ) è un altro discorso.
Sono d’accordo con molte delle cose che avete detto. Ero del resto d’accordo anche con Luciano quando invitava a parlare non del Romanzo ma dei romanzi, però il Romanzo è una forma in sé, a prescindere dal contenuto e dal livello stilistico, e io credo che il Romanzo Cartaceo sia destinato alla permanenza, pur nel nostro mondo di irrequiete e continue trasformazioni. Se così non fosse, del resto, sarebbe un vero disastro. Guardate cosa succede alle Biblioteche e alle Istituzioni Culturali: i budget per la continua ri-digitalizzazione si gonfiano al punto che è necessario reperire fondi extra e da sponsor privati (sempre più latitanti, peraltro), mentre in parallelo i fondi destinati alla Conservazione si riducono costantemente. E’ un quadro da Farenheit, non so se tutti se ne rendono conto. Conservare l’originale non è cosa da muffa museale. Quando studiavo sul serio, mi recai agli Annales Jean Jacques Rousseau a Ginevra, dopo potei consultare le carte originali di qualcuno dei suoi testi inediti, con la SUA calligrafia, con le note a margine apposte dalla sua finanziatrice M.me Dupin, con i pentimenti e le correzioni di pugno dell’autore stesso. Questi dati documentali sono assolutamente essenziali per uno studioso ed è, resterà sempre. fondamentale poter disporre di un originale ben conservato. Lo stesso si può dire del cinema: ogni modifica di formato altera l’originale, ma uno studioso l’originale restaurato deve poterselo vedere. Ora: i centri di restauro/conservazione si stanno sempre più sviluppando all’estero, mentre trovano inaudite difficoltà in Italia, nonostante che l’arte della Conservazione sia nata e abbia dato i suoi frutti migliori proprio nel nostro paese, così ricco di archivi storici. Se questi archivi andranno in rovina perché si spostano i fondi sulla digitalizzazione perpetua, semplicemente non si potrà più fare Storia della Letteratura, né del Cinema, né dell’Arte. Viceversa se un nuovo formato digitale non viene trasportato su carta, quello stesso formato tra pochissimi anni diventerà illeggibile. I problemi coinvolti sono davvero ENORMI. La fiducia nel nuovo non deve farci MAI dimenticare: 1. che non tutte le trasformazioni tecnologiche dischiudono orizzonti migliori: 2. che non tutte si stabilizzano e si codificano in modo da poter davvero passare ai posteri; 3. che tutte ci consentono di guadagnare qualcosa, ma a questo guadagno corrisponde una perdita non sempre sensata; 4. che nella Storia non accade mai, al di là delle illusioni che possiamo farci, che una forma secolare (millenaria persino) possa essere sconfitta da una forma labile, mutante ed esposta a mille incognite ( cosa succederebbe se un collasso energetico ci scollegasse, o se la Banca Digitalizzata di una biblioteca venisse azzerata per un incidente? Molti libri e molte opere d’arte del passato sono finite distrutte in un incendio, ma un incendio telematico è qualcosa di ben più devastante perché non localizzato).
La mia impressione che tutto il chiacchierare che si fa per l’E-book (strumento che non disprezzo affatto, intendiamoci) sia assai simile a quello che si faceva nel passaggio tra gli LP in vinile e i CD. Ci venivano a raccontare che la qualità del suono sarebbe stata superiore e che i supporti erano eterni. Menzogne. Oggi gli studi acustici hanno provato che la qualità sonora di riproduzione è peggiore e lo abbiamo sperimentato tutti, anche da non scienziati, che i CD si ossidano. Tutte le tecnologie delle nuove formattazioni promettono eternità, ma in realtà non abbiamo nessuno strumento per verificarla perché quel supporto decade rapidamente, sostituito da un altro. E intanto si verifica un altro fenomeno: il morto si mangia il vivo. Le grandi lotte commerciali oggi si fanno sugli archivi e sui cataloghi. Ragioniamoci da consumatori. un esempio non letterario. Ho visto Psycho di Hitchcock al cinema, due volte e sempre pagando il biglietto. L’ho visto in TV pagando il canone. L’ho comprato in VHS anche in diverse versioni (almeno tre). L’ho ricomprato in DVD (che conteneva anche trailer, bonus e vari materiali aggiuntivi). Sempre lo stesso film, rivenduto in formati diversi. Scusate lo sfogo, ma quante volte dobbiamo ripagare la stessa cosa? Possibile che non ci sia mai un momento in cui diviene stabilmente nostra? Quante collezioni dobbiamo buttare con uno spreco di risorse allucinante, ricominciando sempre da capo, perchè cambiano i formati? Non si tratta di un colossale imbroglio mercantile? E quando tutto questo crollerà (se ne vedono già segni allarmanti) non credete che si tornerà ad orientarci per forza di cose su formati stabilizzati? E poi: se il nuovo mercato è fatto di formati più che di contenuti nuovi, cosa ne sarà della produzione? Già lo vediamo. Per la produzione nuova ci si orienta verso il fruibile immediatamente e non verso un tipo di prodotto in grado di durare. Non solo agli scrittori non frega più niente dei posteri, ma non frega più niente neanche dei lettori del decennio successivo. Il professor Emilio ha ragione da vendere nel restare sconcertato di fronte a certe espressioni linguistiche come ad esempio p2p (peer to peer) che molti di noi hanno imparato a usare abitualmente, ma che nel prossimo decennio richiederanno ai lettori un apparato disumano di note esplicative, altrimenti i nostri testi risulteranno illeggibili. Per questo motivo ritengo anche pericolosissimo orientarsi in un romanzo verso una lingua Last Minute, dobbiamo tutti sforzarci di ritrovare permanenza, anche stilistica, perché solo dalla permanenza può scaturire un nuovo che sia davvero Futuro e non Occasionale e Fugace. Un editore che si orienti sul Fugace può certo assestare qualche buon colpo di mercato, ma si ritrova poi con un catalogo poverissimo costituito di esordienti precari, e collaborando così a una sovraproduzione intollerabile, tanto più insostenibile in periodi di basso consumo. Ricordo quando gli LP dei cantautori alla fine degli anni 70, conobbero le punte massime di diffusione. L’industria che aveva lavorato sempre sul pop, non ci capiva più niente. Non capendo, finì per pubblicare qualsiasi delirio cantautorale da debuttanti allo sbaraglio. Il che affossò per sovraproduzione il campo della “canzone d’autore”. E nel frattempo il pubblico aveva già fatto la sua scelta e stanco di sentirsi riversare addosso diluvi di parole insensate, aveva preferito sanamente la Disco (una musica che vorrebbe essere popolare e dimentica il ballo, è una musica che non regge). Chi ha vissuto questi sussulti (e potrei ricordarne molti altri, in vari campi) sa che alla fine il permanente premia sempre il lavoro di un artista, mentre il fugace lo dissolve. Bisogna sempre essere aperti alle trasformazioni, ma in modo critico, altrimenti noi non collaboriamo affatto al Nuovo, ma alle Truffe di Mercato che sono ben altra cosa. Le case discografiche dell’epoca del CD hanno fatto profitti ripubblicando in nuovo formato ( e spesso sfigurando) quanto avevano già prodotto nei decenni precedenti. L’investimento nella produzione nuova si è fatto da un lato caotico (perché alla ricerca del risultato immediato), dall’altro incredibilmente inaridito, perché di fatto negli stessi bilanci aziendali il Vecchio si mangiava il Nuovo (e il gratuito si mangiava entrambi). Oggi è apparsa una classifica su Repubblica, che documenta quanto segue: il n.1 è Michael Jackson che produce profitti per 257 milioni di dollari, il n.2 è Elvis Presley che ne produce per 60 milioni; il n. 3 è Schultz il creatore dei Peanuts che ne produce 33; il n. 4 è John Lennon che ne produce “soltanto” 17. A parte la bizzarra gerarchia di Valori, pare evidente che viviamo nel Regno dei Morti. Da un lato queste classifiche ci dicono che il Permanente oggi al di là di quanto si dice ha un Valore di mercato notevolissimo. Dall’altro ci dice che il Nuovo arranca: si difende ancora nell’insieme, cioè come magma, ma fatica a proporre/costruire un autentico Repertorio perché nell’instabilità continua è molto difficile poter sedimentare qualcosa. E’ un tantino ipocrita lamentare i tempi di indubbia crisi che viviamo, se poi non riusciamo a capire che le nuova tecnologie non rappresentano soltanto possibili via di uscita da questa crisi , ma sono anche strutturalmente Tecnologie della Crisi, che la crisi riproducono, enfatizzano e moltiplicano.
Sulle annotazioni di Monica avrei anche altro da dire, spero solo di non scassarvi troppo. Ho tenuto lezioni di cinema coi “vecchi VHS” che consentivano di programmare con il lettore gli stop secondo per secondo. Con i DVD questo è impossibile. Se la riproduzione si blocca, il che accade spesso, si deve tornare al punto per Sezioni, il che tra l’altro è assai più lento. Certo la qualità dell’immagine è più stabile dopo molti usi ripetuti, però il livello di funzionamento pratico è molto peggiore. Lo stesso avanzamento veloce è assai più lento. Questi difetti non pesano se si leggono i supporti con il PC , ma i riproduttori per TV in commercio hanno prestazioni decisamente più rigide e qualitativamente basse. Un altro esempio: mi comprai una Storia della letteratura Italiana in quattro DVD che contenevano anche moltissimi testi integrali, dalla Divina Commedia alle Mie Prigioni. Beh, oggi quei DVD sono inconsultabili per problemi di formato e di comandi, ma già allora erano una scassatura insopportabile per le manovre che bisognava fare per arrivare al testo scelto e al punto di lettura. Per fortuna sono stato così fortunato da ricevere in eredità la Ricciardi che occupa certo uno spazio “disumano”, ma consente grazie al formato libro un’individuazione assai più rapida e una lettura infinitamente più comoda dei testi. E chi se ne frega se è un format del passato? A me interessa solo che funzioni meglio per l’uso che ne faccio. Basta così, ho già dilagato troppo.
P.S. La classifica dei Morti di cui sopra (che Repubblica ha ripreso da Forbes) si riferisce ai profitti prodotti nel solo 2010. In questo anno, Michael Jackson ha guadagnato di più di Lady Gaga, Madonna e Jay Z messi insieme! L’unica star vivente che ha superato Jackson nel 2010 è stata Ophra Winfrey, la regina del talk show americano (uno dei più allucinanti talk show mai visti sul pianeta, e che purtroppo si occupa anche di promuovere libri. In questo caso, quando il libro esce, reca per contratto in copertina un bollino certificato che dichiara : “Raccomandato da Ophra Winfrey”, va da sé che simili raccomandazioni si pagano).
Errata corrige. Ho riportato una classifica selezionata. La classifica completa dei morti presenta anche due scrittori: Tolkien con il Signore degli Anelli è al terzo posto con 50 milioni di dollari di ricavi (ma si considera anche e soprattutto il film e le ricadute del merchandising) e Stieg Larsson con la saga di Millennium (anche qui comprensiva di film e di merchandising) è sesto con 18 milioni, cioè un milione sopra John Lennon.
Ah! Mi solleva, caro dottor Manfredi! Anche lei, allora, si barcamena a stento nel nuovo linguaggio della rete?
Non le nascondo che – in questo modo – mi consolo….
Non ho mai pensato al mio tempo come al migliore di tutti i tempi, non ho mai avuto esclamazioni nostalgiche per il passato. Il mio passato ha conosciuto la guerra e la rinascita, la borsa nera, la radio che palpitava sotto la sirena dell’allarme, e la fame, la fame che strizzava e faceva gorgogliare le budella. Altro che bei tempi! Non avevamo altro che mani nude e scorticate per rimediare ai dissesti della guerra, e file di morti da contare. Nelle famiglie si portava il lutto e si nominavano i dispersi, sfiatando preghiere e rosari a ogni crocicchio di via. Il futuro lo leggevamo solo nei libri.
E’ per questo che sono tenacemente attaccato alle pagine, al senso della vita che un romanzo disvela, alla speranza che traduce (perchè non c’è dubbio, signori miei, il romanzo è ciò che dice il dottor Manfredi: il campo della libertà e delle possibilità e se a questo aggiungiamo un click che rimanda a un’ immagine, o una visione che ci assale come un film, non possiamo che replicare il senso di una sfrenata fantasia che si imbizza e centuplica se stessa).
Quindi, ben vengano i nuovi tempi, cara Monica, che sebbene astrusi per un vecchietto come me, hanno nondimeno il pregio di farci entrare in un libro come in un mondo, accmpagnando la nostra fantasia e non sostituendola. Perchè se anche l’ebook mi proietterà addosso le immagini di un film, o se mi farà voltare pagina con un colpo di bacchetta magica (facendomi forse sentire un po’ mago e divinatore)…non supplirà alla mia commozione, non supplirà a questo fremito che ancora, a ottant’anni suonati, mi fa sentire uomo del mio tempo.Anche se ancora desiderosissimo di apprendere.
Una buona e incantata serata, amici miei. Avete mai pensato che tutte queste invenzioni hanno del prodigioso?
Un miraboloso saluto serale dal vostro affezionato
Professor Emilio
Caspita! Che belle le parole del professor Emilio.
Grazie davvero. Grazie per aver condiviso con noi una porzione dei suoi ricordi.
Poterla leggere è un vero dono.
Ne approfitto per scusarmi con tutti per l’assenza… ma – leggendo i commenti – ho visto con piacere che il dibattito si è sviluppato in modo equilibrato.
E poi… quanti spunti che sono emersi!
Impossibile ringraziarvi tutti uno per uno (come spesso faccio), ma vi sono davvero grato.
Diversi commentatori sono intervenuti qui per la prima volta. A loro un ringraziamento speciale e un saluto di benvenuto.
Ho letto con molto interesse le osservazioni di Manfredi. In particolare con quelle sull’enciclopedia della letteratura sono stradaccordissimo: la versione cartacea è superiore alle versioni dvd o a web.
Così come io (da appassionato di cinema) dico che spesso (con i dvd) diventa difficile vedere un film fotogramma per fotogramma.
Insomma, il rapidissimo sviluppo tecnologico non significa automaticamente anche miglioramento della qualità.
Il filosofo Jean Baudrillard scrisse: “Stiamo accelerando nel vuoto”.
E Zygmunt Bauman: “Adesso, la velocità conta più della durata”
Ma chi lo ha stabilito? Che la rapidità sia più importante della densità e della profondità?
Un film noi lo vediamo, gli effetti speciali del cinema ci invadono occhi e cervello.
Ma un romanzo o un racconto valgono anche perchè noi lettori diventiamo co-autori con pari dignità di chi li ha scritti. E gli effetti speciali più speciali che si possano concepire, ipotizzare e fantasticare sono quelli che nascono nei gratuiti laboratori della nostra mente.
Ecco perchè il romanzo non morirà mai: perchè l’essere umano ha fame di storie e le sue ossessioni e la sua fantasia gliele forniranno per sempre.
Però un saluto specialissimo alla new entry Monica, lo devo proprio.
Cara Monica, non vorrei averti come suocera… ma ti ringrazio per aver contribuito a bilanciare la discussione.
🙂
(Ovviamente scherzo: grazie davvero).
Grazie anche a Luciano, a Gianfranco e a tutti gli altri.
Spero che la discussione possa continuare.
Intanto vi propongo due interventi “in tema”.
Il primo (a proposito di futuro della narrativa) è il pezzo in prima pagina uscito su “La Stampa – Tuttolibri” di sabato scorso, firmato da Mirella Serri.
Eccolo di seguito…
LA CARTA NON E’ ANCORA STANCA di Mirella Serri
(da “LA STAMPA – Tuttolibri” di sabato 23 ottobre)
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I colossi dell’ebook muovono i primi passi e ci si domanda se e quando ci sarà il sorpasso. Per ora un dossier dimostra che il lettore digitale è anche quello che compra più libri
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Voltiamo pagina. Ovvero, come li sfogliamo Accabadora di Michela Murgia o La caduta dei giganti di Ken Follett? Li maneggiamo, li strapazziamo, li macchiamo con il caffè, alla maniera di sempre, oppure li sfioriamo solo fuggevolmente? In altri termini, versione virtuale o di carta? Siamo al bivio: sono circa 5 mila gli ebook che, proprio in questi giorni, vengono lanciati dalle nuove piattaforme digitali Edigita e Biblet: 1.500 i volumi (3.500 mila entro Natale) messi in rete dal gruppo a cui aderiscono Feltrinelli, Messaggerie Italiane, Gems e Rcs libri e 1.600 i titoli della mondadoriana Biblet. I colossi dell’ebook stanno muovendo i primi passi e le domande incalzano: ci sarà il sorpasso? E quando il sopravissuto in economica o con copertina cartonata sarà l’ultimo dei mohicani?
A offrir risposte sulla vita e sulla morte (eventuale) di tutti i volumi, tradizionali e new version, arriva adesso un’importante summa, un completo e aggiornatissimo dossier di Giovanni Solimine, L’Italia che legge, in uscita da Laterza (pp. 184, e 12).
Mettendo in correlazione le più recenti indagini di settore (dall’Istat al Censis all’Ipsos), lo studioso scopre gioie e dolori e tante contraddizioni di questa complicata evoluzione. E ci spiega anche che l’Indipendence day, il giorno in cui l’invasione delle nuove tecnologie segnerà il passaggio del testimone dalla stampa al lettore digitale, non è ancora giunto per niente.
Le ultime notizie dal fronte della nostra produzione libraria oggi segnano, infatti, molte novità: le aziende italiane sfornano tomi come panini e si collocano al settimo-ottavo posto nel mondo e al quarto-quinto in Europa. Il numero di titoli pubblicati per mille abitanti non è molto diverso da quello di altri paesi del vecchio continente. E le nostre case editrici si posizionano in uno spazio intermedio tra Spagna e Regno Unito (che usufruiscono, però, di ben altre loro aree di diffusione linguistica).
Insomma, l’Italia è diventata un colosso del libro. Allora, di cosa ci lamentiamo? «E’ un gigante con i piedi d’argilla. Siamo la nazione dei paradossi – osserva Solimine -. Il fenomeno editoriale, per numero di libri pubblicati e pure di libri letti, ha dimensioni ragguardevoli. Ma si regge su basi molto fragili. Pochi editori – con il gruppo leader Mondadori, seguito da Rcs, Longanesi e Feltrinelli – e pochi lettori si danno da fare per coprire gran parte del mercato italiano».
I lettori forti – quelli che divorano almeno un libro al mese – oggi si stanno avvicinando al traguardo dei 4 milioni. Sono i pilastri di un Partenone di cultura che poggia sulle loro sole spalle di consumatori della metà dei libri venduti. Questi buongustai della carta stampata, altra singolarità in un momento di fragilità economica, sono in aumento: nel corso dell’ultimo anno l’esercito dei «deboli» ha conosciuto una flessione e la pattuglia dei «forti» o mangiatori a quattro ganasce, ha fatto un balzo: dal 13,2 al 15,2 per cento.
Un colosso all’italiana, l’editoria libraria, a cui basta poco per fare un passo indietro. I tomi attualmente in commercio sono 650 mila e le più attive forchette al desco del libro, come da tempo è noto, sono le donne (legge il 51,6 per cento di signore e signorine e solo il 38,2 per cento degli uomini). Ora registrano un altro primato: sono le più determinate e solo dopo i 60 anni diminuiscono la loro quotidiana razione di lettura. Mentre per i fragili maschi il sorpasso dei non lettori avviene prestissimo, prima dei 20 anni. Cosa influenza le scelte dei consumatori? Per anni i critici, gli specialisti, i cosiddetti addetti ai lavori (o ai livori?) hanno sollevato dubbi sull’efficacia dei premi letterari. Ora è certo: molti riconoscimenti, osserva Solimine, non smuovono il mercato, il Viareggio, per esempio, fa fare il salto della quaglia. Ma lo Strega, invece, trasforma autori e libri in giraffe nella savana: come Margaret Mazzantini che, con Non ti muovere, dopo aver vinto la gara, in un battibaleno è arrivata a 400 mila copie. O come Paolo Giordano che, con La solitudine dei numeri primi, dopo l’incoronazione, era approdato a 600 mila, poi a un milione di copie (quelli che non hanno libri adatti a un ampio pubblico si devono accontentare di un incremento di 20-30 mila copie).
Qual è la regione italiana dove si legge di più? In Piemonte c’è un piccolo-grande esercito di oltre 2 milioni che si divora almeno un libro l’anno (52,3 per cento nel 2009), i lettori sono costituiti da 3 residenti su 4 e rappresentano il 75,3 per cento di tutti coloro che hanno superato i 10 anni. I degustatori di carta stampata che, nel 1985, erano il 44 per cento, hanno avuto un tasso di crescita maggiore della media nazionale.
All’origine di tanta dedizione? L’attenzione – ecco un’ altra sorpresa – viene stimolata da manifestazioni, meeting, raduni: dalla Fiera del libro di Torino a Portici di Carta a incontri come quelli di Cuneo,Verbania, Asti, Biella. Questo avviene anche in gran parte della penisola (soprattutto al centro-nord), che si connota come il paese che ha più appuntamenti culturali d’Europa.
L’identikit del lettore «forte» italiano è assai speciale: legge più libri chi pratica una «dieta» ricca di alimenti, dove proteine, carboidrati e vitamine sono costituiti da internet, film, dibattiti, conferenze, giornali. Quelli che, invece, sono inappetenti in tutti questi settori del consumo culturale e dell’informazione non si dedicano nemmeno alla pagina scritta. Anche tra i più giovani, contro tutte le aspettative, leggono maggiormente quelli che smanettano di più, sentono musica o vedono la tivù (non più di 3 ore al giorno, però).
Piatto ricco mi ci ficco: è il leit motiv del lettore nostrano e, in questo ipercalorico menù, arriva l’ebook, pronto ad affiancare, a collaborare ma non a soppiantare i volumi più tradizionali. Per il day after, per un universo di soli lettori digitali, con cimiteri di carta strappata, discariche di tomi defenestrati e stipati lacero-contusi in fila e in pila per finire al macero, ci sarà ancora parecchio da aspettare. Per il momento carta resiste, conta e canta.
MIRELLA SERRI
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 23 ottobre)
http://www3.lastampa.it/libri/sezioni/news/articolo/lstp/370541/
Il secondo contributo è firmato da Nicola Lagioia ed è stato pubblicato sull’allegato “Domenica” de “Il Sole24Ore” di domenica scorsa, con riferimento a questo libro di Shields e alle tematiche da esso trattate.
Eccolo…
LETTERATURA E NUOVE TECNOLOGIE di Nicola Lagioia
(da “Domenica de “Il Sole24Ore” di domenica 24 ottobre)
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Letteratura e nuove tecnologie I
Interrogarsi su come la rivoluzione digitale inciderà sulla letteratura è un buon punto di avvio. Ma un’altra valida domanda è: come la letteratura rivoluzionerà la rivoluzione digitale a proprio uso e consumo?
Tolstoj si è servito delle novità tecnologiche della sua epoca per far morire Anna Karenina sotto un treno. Se dai mezzi di trasporto passiamo ai mezzi di comunicazione, la musica non cambia: Thomas Pynchon usa il sistema postale per raccontare la paranoia post-moderna nell’ “Incanto del Lotto 49”; per non parlare della corrispondenza di Goethe e di Laclos.
Simulazioni di realtà, modelli di menti interconnesse: gli eredi di Philip Dick sono pregati di riscuotere alla cassa.
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Letteratura e nuove tecnologie II
Chiedersi cosa ne sarà della letteratura con il cambiamento del supporto di cui ci serviremo per leggere – dalla carta all’e-book, al web – è invece un falso problema. Si tratta di un falso problema perché non sono carta, e-book, web il vero supporto della letteratura, bensì il cervello umano. La letteratura è fatta di linguaggio e il linguaggio è la forma di comunicazione più astratta e sofisticata a disposizione perché è l’unica che per esistere non necessita di un supporto che sia fuori di noi.
Siamo in una stanza vuota, insieme a un amico. Pur essendo dei ballerini di danza classica, non riusciremo a riprodurre a beneficio del nostro spettatore un celebre “Lago dei cigni” eseguito da Nureyev con il Royal Ballet nel 1962. Potremo raccontargli “Apocalypse Now” ma non farglielo vedere. Potremo cantargli “My Way” o disegnargli (la stanza non era completamente vuota) “Le muse inquietanti” di De Chirico, ma per fargli fare effettiva esperienza di tutto questo ci sarà bisogno del supporto: cd, dvd, quadro, catalogo d’arte, Nureyev in carne e ossa. Invece, proviamo a sussurrare all’orecchio del nostro amico: “Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo” e – traduzione a parte – avremo riprodotto perfettamente l’incipit di “Anna Karenina”. Stessa cosa se, rimasti soli nella stessa stanza vuota, l’incipit in questione ci limitiamo a pensarlo: ” “.
La letteratura è da sempre al di qua e al di là della riproducibilità tecnica. Il papiro, la pietra, la carta, lo schermo… sono semplici stampelle dell’unico hardware di cui il linguaggio necessiti: un cervello di sapiens sapiens. La letteratura è l’opera d’arte nel regno della sua riproducibilità biologica.
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Sulla presunta marginalità della letteratura
I romanzi di Dickens dettavano l’agenda dell’intrattenimento pubblico. Oggi il pubblico della letteratura è minoritario rispetto a quello della tv. Ma perché lagnarsene, dal momento che la letteratura è la vera eminenza grigia celata dietro le forme più popolari di rappresentazione? Prendiamo le serie americane: hanno tutte una matrice balzachiana “sporcata” da un po’ di sano realismo tardo novecentesco (“Mad Men” deve tutto a Balzac, deve tutto a “Pastorale americana” di Roth, deve in fondo tutto anche a “Libra” di DeLillo). Il debito dei “Simpson” o di “South Park” verso scrittori come Pynchon è dichiarato, e – letteratura a parte – i reality show hanno il proprio momento di singolarità nelle performance di artisti elitari come Sophie Calle.
Allora: chi vogliamo diventare? Ci accontentiamo di adattare alle esigenze del mercato una delle tante applicazioni della meccanica quantistica o aspiriamo a essere Niels Bohr?
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Dittatura della trama
Oggi può suonare ridicolo l’uno due di agnizione e morte che tocca in “Guerra e pace” al principe Andrej. Ma l’obsolescenza di alcune trame significa l’obsolescenza della trama tout court? Non sarà che – già da tempo – la trama non è più un cavallo di Troia del pensiero, ma una sua particolare forma d’organizzazione?
Esempio: è stato detto che la “Recherche” sarebbe un’opera di saggistica letteraria sostanzialmente priva di trama. Ritengo infatti che pochi saggi indaghino i meccanismi della gelosia amorosa come fa Proust nel suo romanzo. Ma per farlo con quella profondità e quella perizia (e quell’economia: in venti pagine di Proust sono racchiusi alcuni volumi di psicologia comportamentale) non servono forse due personaggi come Charles e Odette, due personaggi come Marcel e Albertine, una città come Parigi? E non è questa una trama? Non è l’insostenibile leggerezza di questi dettagli a separare fiction da non fiction?
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Fame di realtà
I media utilizzano la realtà per produrre narrazioni a ciclo continuo. Gli episodi di cronaca nera vengono smontati e rimontati in tv con una foga che farebbe sorridere il Queneau di “Esercizi di stile”. Questa continua produzione di narrazioni è, oggi, la lingua del potere, cioè l’antitesi di quella letteraria. L’una è bidimensionale, l’altra restituisce una complessità. La lingua letteraria esercita sulla lingua del potere una funzione di verità: svela cosa c’è dietro. La guerra ai tempi di Tolstoj è diversa dalla guerra ai tempi di Beckett. L’amore ai tempi di Saffo è diverso dall’amore ai tempi di Amici di Maria De Filippi. Non tutte le storie sono state già scritte.
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Più reale del re
Non c’è realtà che non affascini un artista. Non c’è realtà che un artista non possa digerire. Chi è mimetico rispetto a chi? I fratelli Wachowski chiesero al filosofo francese Jean Baudrillard una consulenza per il seguito di “Matrix”. Baudrillard declinò l’invito: “non voglio collaborare a un film sulla matrice che la matrice stessa avrebbe potuto realizzare”.
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Nicola Lagioia
Ringrazio Nicola Lagioia e la redazione di Domenica de Il Sole24Ore per aver messo a disposizione di Letteratitudine il suddetto contributo.
Buonasera professor Emilio, vorrei ringraziarla per il suo primo bellissimo post, e anche il secondo non è da meno (l’ho letto pochi istanti fa). Vorrei ringraziarla soprattutto quando dice: “A un libro chiedo quindi, forse in modo semplice, mi rendo conto, che mi emozioni. Che mi commuova. Che scuota il mio essere e lo interroghi. Che mi cambi e che rimanga dentro di me.”
Lei dice di avere poco tempo, ma tutti abbiamo poco tempo perchè nessuno sa quando sarà il suo momento e, se ci comportassimo sempre (in questo caso se leggessimo sempre), con la consapevolezza di non sapere quanto tempo abbiamo, sono sicura che romanzi e letteratura da poco non avrebbero campo, e nemmeno lettori, ovviamente. E quindi non si discuterebbe nemmeno di quando, di quanto, di come, il romanzo sia finito, è finito, finirà.
Perchè un bel romanzo lo si riconosce per intuito, per quel senso della Qualità che nessuno può sintetizzare studiare definire ma, invece, può farlo uno spirito consapevole di ciò che è. Cioè un essere caduco.
Anche perchè un Romanzo è, per dirla con un haiku zen di Basho, in una cruda e opinabile traduzione ma è la prima che mi è capitata sotto mano: “Antico stagno. Una rana si tuffa. Suono d’acqua”, cioè un istante perfetto. Non una parola di più, non una parola di meno. Ergo: la critica può solo dire di un vero Romanzo quello che non è, perchè della qualità non se ne può parlare, ma solo sperimentarla.
Per concludere, e forse in modo estemporaneo, ma un qualche legame con quello che ho scritto prima c’è, le dico: professor Emilio, ci crede se le confesso che ho difficoltà a trovare un romanzo che mi piaccia, oggi? Alla fine, scoraggiata, furto indomita su montagne di saggi.
In molti anni, per via del lavoro che svolgo, ho avuto per le mani ogni sorta di capolavori letterari del passato, di qualunque provenienza culturale e geografica, in prima edizione, edizione economica, edizione per pochi, con commento di illustri e di meno illustri: mi accorgo di avere sviluppato una fortissima idiosincrasia per la mediocrità e non riesco più a leggere se non il meglio. Voglio la luna, mi dica, se mi piacerebbe leggere un classico, finito di scrivere un’ora fa?
E, per rispondere a questo, faccio come Shields e cito il post di Carlo S. (vedi martedì 26 ottobre, ore 3,41 p.m.), facendolo mio e ricreandolo a mia immagine e somiglianza perché, dopo quello che ho scritto prima, il post di Carlo S. non sarà mai più lo stesso. Chiedo venia, Carlo:
…“E credo che il domani ci riservi molte sorprese, oggi non prevedibili, che possono spaziare dalla morte del romanzo al suo rifiorire in forme nuove e impreviste, oppure la sua rinascita grazie a un capolavoro che segue inaspettatamente i canoni più tradizionali. In barba a tutti i manifesti programmatici. Chi può dirlo?
E questo è il bello.”
Mi chiedo: ho fatto un’appropriazione indebita o un atto creativo? 😉
Un agone oratorio a mo’ di simposio platonico o una provocazione?
Quanta qualità c’è in quello che ho scritto e recitato in prima persona usando la bocca altrui? Qualcuno se ne ha male fra i miei interpreti per essere stato usato al fine di convalidare la mia tesi?
Per quanto mi riguarda e per quello che può valere il mio parere, ho fatto solo analisi logica.
Segue una breve novella composta poco fa sull’idea di Shields, e conforme ai canoni stilistici e compositivi che si propone lo scrittore con il suo nuovo manifesto letterario, novella dal titolo: “Il fantastico mondo del professor Emilio”
IL FANTASTICO MONDO DEL PROFESSOR EMILIO, Novella contemporanea composta su citazioni proprie.
Che cosa dirò ai miei ragazzi stasera, sì, ai miei ragazzi di Letteratitudine ai quali ho promesso un ritorno un po’ più cibernetico? Non so se sia il termine giusto; d’altronde non è facile inserirsi tra questa teste imbottite di presente, solo di presente. Loro, che quando io avevo già visto i crateri deserti della Luna con Verne e cacciato tigri in Malesia con Salgari, sudato sulla traduzione di Saffo, quella un po’ meno esplicita, diciam. Loro, che quando finì la guerra e ci dissero che il caput mundi della intellighenzia culturale era A, B, C, D, E, etc., ma mai Y, Z, X, perché non facevano parte dell’alfabeto italiano ma di un altro alfabeto che non esisteva (eppure io lo leggevo e lo capivo). Insomma, loro che non erano ancora nati oppure stavano nascendo e sarebbero diventati pionieri di un mondo globale, come usano dire. Di una cultura globale, anche.
Sarà pure così, eppure, mi pare che i nostri scrittori moderni… mi sembra quasi che si siano messi d’accordo per dare a ogni parola la stessa valenza, lo stesso “significante” (ma che omologazione!). Ma scrivere non era ridare significato a una parola, alla parola? Non so, poi c’è anche questa storia che mi turba: in quarta di copertina, puntualmente, invece di una sana sommaria biografia dell’autore, ci sono sempre una sfilza di titoli accademici, masters, titoli onorifici, lauree ad honorem… posso capirlo per la biografia di un saggista, ma per quella di uno scrittore?!
E poi, che mi frega di sapere quanti milioni di copie ha venduto Tizio o Caio? Quando scende la notte e mi rifugio in un libro non voglio sapere in quanti milioni lo hanno letto, ma quale mondo scoprirò e quali sogni sognerò. Quanto imparerò sul filo dei sogni di un cantastorie?
Si stanno dibattendo sui diritti di autore. Io dico: “Sì ai diritti d’autore!”, in toto, urbis et orbis, perché stasera, per scrivere questo mio intervento che dedicherò a loro, ai miei ragazzi, ho dovuto rinunciare a fare qualcosa di mio che mi ero proposto. E uno scrittore, immagino, tanto di più.
Stanno parlando tanto di questo Shields, ultimamente. Qualcuno direbbe: “Basta che se ne parli”. A me di Shields non me ne frega niente (domani scriverò non me ne importa niente ma stasera, da-me-a-me, mi lascio un po’ andare. Un po’ di esempio. Anche se, a dirla tutta, ho parteggiato bellamente per quel ragazzo, Luciano, quando ha “mandato a cagare” – letteralmente riportato -, chi pretende di dettare i “canoni dominanti dell’arte”. Mi chiedo se questo ragazzo legga anche lui, come fan tutti, questi romanzi di denuncia che vanno tanto di moda oggi). Io ne ho letto qualcuno, poi ci ho rinunciato; più che altro li leggiucchio per dovere di informazione; ma si sa, il tempo è quello che è. Mi sembrano un po’ tutti serials televisivi: problematiche serie, certamente, ma viste con l’occhio miope dell’uomo integrato nel suo tempo, e integrato a tal punto da non distinguere più la verità – mhh… la verità, parola troppo usata e facile da riutilizzare come un coltello puntato contro se stessi ad uso del prossimo – no, forse sarebbe meglio dire: da non distinguere più il nocciolo del problema, la causa nascosta, la “vis” propulsiva da cui si dipartono e si concatenano gli eventi. Quanto al romanzo di denuncia, piuttosto preferisco scandagliarlo in libreria, senza comperarlo, mentre il cuore sta cercando altri titoli, altri amori, soprattutto altre strade, che abbiano un senso di eterno. Quello appunto che dovrebbe dare il capolavoro. Il problema è che a questi ragazzi manca un anello di congiunzione tra il prima e il dopo: lo so io che ho fatto il balilla. Ma forse questo non lo dirò, potrei esser frainteso.
Eppure, a volerla dire tutta un’altra volta, quando prendo in mano un libro scritto oggi, mi accorgo dalla bibliografia utilizzata che l’autore si è documentato solo e quasi esclusivamente sulla bibliografia canonica in materia, quella accademicamente riconosciuta. Se l’autore flirta con dei testi non “allineati” (questa è un’altra parola molto moderna, e la incontro spesso in questi ultimi anni, sui mass media), c’è come un sottile processo di discredito nei suoi confronti.
Quando leggo una lirica di Zanzotto, mi piego in due dal mal di pancia. Sono restio. Come diceva Bartleby, il potente eroe di Melville: “Avrei preferenza di no(n leggerla)”.
Ho un giovane amico che, per questi ragazzi, non sarebbe tanto giovane. E’ uno scrittore impegnato, ha pubblicato romanzi e storie per bambini, ha vinto anche dei premi. Un giorno di qualche anno fa mi disse: “C’è bisogno di un grande romanzo!”. Ogni volta che lo vedo spero sempre che mi dica che lo abbia trovato. Non il suo. Non intendeva il suo. Intendeva il grande romanzo che tutti stanno aspettando. Lo aspetto anch’io. Spero di vederlo prima di partire.
A quest’ora di notte mi stavo chiedendo che cosa avrebbe detto la mia vecchia madre, insegnante, di questa semi-conferenza con degli sconosciuti, come li avrebbe definiti lei. Se fossi ancora un bimbo, mi avrebbe già mandato a letto, ma io le avrei chiesto di leggermi un libro. E santo cielo! quanti bei libri mi ha letto d’un fiato, tanto che alla fine si faceva tardi per colpa sua, e non mia. Montagne di libri nella mia testa. E quelli che ho amato più di tutti sono quelli che hanno dato una svolta alla mia lunga vita, molte svolte perché ne incontrai molti di più di uno. L’ultimo l’ho incontrato l’estate scorsa, ma non era, ahimè, come avrei voluto, un romanzo italiano.
(Fine)
L’editore si riserva di comunicare in toto le estremità delle citazioni usate, in un tempo a venire (per mancanza di tempo e di sonno, sto per cedere sulla tastiera). Si riserva inoltre di specificare che la novella è di genere semi-serio-più-serio-che-semi.
Antonella, benvenuta nel fantastico mondo di Shields. La tua interpretazione de IL FANTASTICO MONDO DEL PROFESSOR EMILIO è da applausi. Dico sul serio, non c’è ironia nelle mie parole.
Massimo: difficilmente potrei essere tua suocera, dato che sono più giovane di te.
Tié, beccati questa. 🙂
Scherzo anch’io. Grazie a te per l’opportunità di confronto che offri a tutti noi.
Gentile Antonella Beccari, grazie per avermi dato (dopo aver letto i miei commenti) del “ragazzo”: in realtà ho 56 anni e faccio pure lo scrittore.
Oltre a leggere di tutto (dalla teologia all’horror, da Ovidio a Giorgio Bocca, da Cioran a Henry James, da Primo Levi ai fumetti, da Emily Dickinson a Julio Cortàzar, da Corto Maltese a Casanova, da Tarzan a Fantomas) senza nessunissima preclusione verso i “generi” o le “epoche”.
Chi lamenta “c’è bisogno di un grande romanzo” forse sbaglia prospettiva, apre la finestra sbagliata e dunque non vede ciò che esiste già. Perchè mai dobbiamo schiacciarci SOLO sull’oggi?
Non è un GRANDE romanzo I fratelli Karamazov di Dostoevsky?
O Le illusioni perdute di Balzac?
Una questione privata di Fenoglio?
Gli elisir del diavolo di Hoffman?
Sopra eroi e tombe di Ernesto Sabato?
La donna del tenente francese di John Fowles?
La zia Julia e lo scribacchino di Mario Vargas Llosa?
Pedro Paramo di Juan Rulfo?
Il testamento Donadieu di Georges Simenon?
Il carteggio Aspern di Henry James?
Il signore di Ballantrae di R. L. Stevenson?
Lolita di Vladimir Nabokov?
E allora perchè continuiamo a contemplare solo il nostro limitato OGGI?
Perchè mai dobbiamo fare come i miopi (IO!!!! Ho pure gli occhiali…) ) che non vedono oltre la punta del proprio naso?
Per quale motivo, nelle librerie, ci fermiamo solo ai banconi delle novità e non diamo un’occhiata ai titoli che stanno in seconda, quinta o centesima fila? O addirittura a quelli che bisogna fare uno sforzo per trovare?
“Tutti stanno aspettando il grande romanzo”….
E se ci fosse già?
Anzi. se ce ne fossero già centinaia e centinaia e centinaia?
@ Gianfranco/Luciano
Il mio lettore Dvd ha una funzione di fermo immagine con la possibilità di visionare le singole sequenze ad alta definizione. C’è anche la possibilità di selezionare una scena dentro un intervallo (per es. da A a B) e rivederla all’infinito.
Grazie a tutti. E’ un piacere discutere con voi.
Io personaggio??? Il mio mondo, il vostro mondo???
Ma…signora Antonella, lei mi ha lusingato con la più seducente delle manifestazioni dell’essere: la scrittura! Mi ha fatto entrare in una storia, e – narrandomi – mi ha restituito a me stesso!
E poi…come fa a sapere che sono stato balilla, che mia madre mi leggeva Salgari e Verne, che sono cresciuto traducendo il greco, che il mio libro preferito è “Bartleby, lo scrivano” di Melville?
Dev’essere perchè la parola è proprio ciò che dice lei, cara Antonella, quella discesa nell’anima e negli inferi, quel bisogno singhiozzante e assoluto, di un assetato di secoli.
Dev’essere forse perchè a furia di imitare, comprendiamo meglio l’altro e noi stessi, fino a che anche l’imitazione cessa di essere tale e s’inalbera felice, essendo solo se stessa, brillando di antica e densa solitudine.
Mha…ad esser protagonista della mia vita mi ci stavo appena abituando, in queste sere in cui ho scoperto lo schermo, e mi ci infrango sopra sentendomi risuonare tra le ombre.
Ma ad essere personaggio…wow …direbbero i miei vecchi allievi, l’ultima quinta C a cui ho lasciato in eredità tutto il mio insegnamento.
E cioè: scrivete e leggete per essere sempre nel mondo, figli miei, non rinunciate mai a essere uomini del vostro tempo, anche quando è cambiato, inseguitelo con i libri in mano, interrogatelo con i libri in mano, date risposte con i libri in mano. Fatevi voi stessi parola e carta, trasmettete, comunicate.
Effatà: apritevi.
Non vi rassegnate a smettere quel lavorio incessante che è dell’anima che ama l’uomo: raccontare, raccontarsi, leggere, leggersi.
Siate allora uomini nell’unico modo che Dio ci ha dato: lasciando segno e facendovi segno.
Ecco, nel suo racconto lei mi ha reso “signum”, cara Antonella.
Ed è con questa commozione che chiudo, per oggi.
Grato di essere diventato un personaggio.
Un palpitante saluto dal vostro affezionato
Professor Emilio
Sperando che non siano troppo indiscrete, vorrei farle due domande, caro Emilio:
ha qualche manoscritto nei cassetti?
E (se sì) perchè non fa un piccolo dono all’umanità contattando un editore?
Ah, il mio caro amico Luciano! Anche lei mi lusinga!
E…sì, tempo fa scrissi una lunga storia, un atto di congedo da mia moglie, messo su durante la sua malattia. Fu il nostro modo di dirci addio: scrivere insieme.
Lei dettava e io scrivevo, o io dettavo e scriveva lei. Più di settecento pagine che ripercorrevano illusorie fanfare dei primi anni quaranta, fascismo, il nostro amore consumato di fretta, l’insegnamento in Sicilia, le scuole raggiunte in biciclette cigolanti a cui dovevo di continuo cambiare la catena, e lei a cavalcioni sulla sbarra, che mi faceva ondeggiare con un peso tutto femminile. E poi, la prima auto comprata con lo stipendio. Una topolino che sbrodolava olio e sgommava lasciando l’aria appestata di catrame. Le letture notturne, io su di lei e lei su di me ad annodare gli occhi sulla pagina.
E da quella pagina…i nostri figli.
E poi il terrorismo, l’Italia che cambia, che si oscura. I ragazzi che rivoluzionano la scena, venendo in classe colorati, senza grembiule, scoscesi e provocanti di una vitalità che io non ho mai osato criticare perchè era sempre e solo feroce gioia di stare a questo mondo. Li ho amati quando mi provocavano, li ho amati sempre.
Sono stato spudoratamente, e per tutta la vita, dalla loro parte.
La nostra storia, insomma, ma a chi potrebbe interessare.
Il nostro canto d’amore rimadato da lei a me, mille volte, perchè abbiamo entrambi amato scrivendo.
Ma poi quei fogli sono andati perduti nel trambusto della perdita, del funerale, dell’oltraggiosa spartizione di resti.
Quando muore una madre i figli reclamano un ricordo, una scaglia da odorare ancora la sera, un lascito perenne di quel profumo che non respireranno più, di quello sguardo eternato da una foto, delle forme del suo corpo per sempre incise in una sottoveste, in una gonna antica, in un vechio maglione.
E anche il nostro carteggio è spirato con lei, è forse salito in cielo consegnandoci entrambi. E io non l’ho cercato perchè ho cercato lei, la sera, ho letto la sua forma nel letto, l’impronta lasciata nel cuscino.
E chissà, meglio così, caro Luciano.
D’altra parte è bello quello che scrive il bravissimo Dottor Lagioia più su, non trova?
“non sono carta, e-book, web il vero supporto della letteratura, bensì il cervello umano.”
Ecco…caro Luciano.
Un romanzo c’è.
Ma è nella mia testa.
Un affettuoso e grato saluto dal suo sempre più affezionato
Professor Emilio
Avevo deciso di rimanere in disparte. Ma leggo le parole del professor Emilio e mi commuovo. E penso: quanti romanzi perduti, quanti capolavori ci saranno in giro per il mondo, che non vedranno mai la luce?
Perché un romanzo vede la luce quando può essere letto dai lettori.
In questo momento penso non all’ipotesi di una morte del romanzo, ma a quei grandi romanzi che non sono mai nati, che si sono sviluppati in quel ventre materno che sono la testa e la mano dello scrittore (bravo Lagioia) e non sono mai venuti al mondo.
Le devo una risposta, caro (e questo “caro” è tutto meno che formale o ironico) Emilio alla sua domanda: “La nostra storia, insomma, ma a chi potrebbe interessare”.
A me senza ombra di dubbio. E se domani trovassi il suo libro di settecento pagine lo comprerei immediatamente, lo leggerei con avidità adolescenziale e poi lo sbatterei in faccia (metaforicamente) a chi, indolentemente stravaccato sul divanuccio della propria uggiosa oggitudine, si lamenta inappetente: “Ohhhhh my god…C’ho tanta FAME DI REALTA’ Ma…no good books in our days”
E alzar il culo dal divano?
Bellissima discussione. Mi ha fatto venire in mente due film, contrapposti. Il primo è 2001 Odissea nello spazio. Celebrazione della tecnologia anche nella sua sovrana bellezza, pulita, galleggiante, balletto settecentesco (illuminista) di astronavi nello spazio come artificiali corpi celesti, armonia delle sfere. Due elementi a disturbo. Il Computer vuole dettar legge, tocca disfunzionarlo o sono guai. Appare, al di là del tempo-spazio, in ogni-tempo-spazio, un misterioso monolite energetico che visto oggi somiglia alla batteria di un telefonino. E’ davvero sfuggente e imperscrutabile nella sua asettica perfezione. La celebrazione della tecnica trova un approdo mistico. Lungo il percorso della morte/rinascita, il protagonista si ritrova prigioniero in una vuota stanza settecentesca (La stanza della Ragione), prima di raggiungere il “contatto”, punto di annullamento/fusione rigenerante con il tutto. Oltre il monolito si ritrova feto. L’altro film è Alien. L’astronave sembra ricavata da un accumulo di rottami da archeologia industriale: ferri catene, cigolii infiniti, cunicoli catacombali, asprezze gotiche. A bordo c’è un gigantesco scarafaggio kafkiano, infettante. L’ospite estraneo della tecnologia è una ripugnante creatura preistorica che semina uova ovunque e prolifera contro ogni resistenza tecnologica. Il finale vede Ripley (una donna-guerriera) godersi il riposo del guerriero nel viaggio di ritorno verso la terra. Ma cosa porterà con sè, o forse IN sè? In Odissea si andava avanti, per ritrovarsi Feto, in Alien (come nel Verne del Giro del Mondo in 80 giorni) ci viene raccontato anche più chiaramente come il viaggio sia sempre circolare: andare avanti è la stessa cosa del tornare indietro, anche se in questo viaggio mutiamo noi, tanto quanto sarà mutato il punto di partenza diventato d’arrivo. Due visioni opposte del mondo, della tecnologia e del destino dell’umanità. Che senso ha schierarsi per l’una o per l’altra? Sono entrambe due meravigliose narrazioni. Ma perché lo sono? Perché vanno fino in fondo. Chi celebra la tecnologia, non è un superficiale apologeta, esplora l’inquietante legame tra razionale e mistico, svela ALTRO dietro la Macchina. Chi racconta l’apocalisse non si appaga dell’effetto “perturbante”, ci fa scoprire l’Estraneo assoluto (il Mostro) come Parte di Noi. L’astronave accozzata di residuati meccanici è un inconscio che ospita la Bestia . Al feto morbidamente galleggiante di Kubrick si contrappone il feto mostruoso che Ripley porta in sè. La Madre Universale è madre di un mostro, di una mostruosità irriducibile, da cui non riusciremo mai a sbarazzarci definitivamente. Il Male. Due film metafisici dunque, tanto opposti, quanto sono compatibili Dio e il Diavolo. Anche nella musica riecheggiano questi opposti modelli: Sex Machine di James Brown (gospel celebrativo quanto “orgasmico” e rigenerante) e Ghost in The Machine dei Police ( attenzione alle Macchine: contengono fantasmi!). Pur di andare fino in fondo. Pur di non fermarsi al vuotamente celebrativo da un lato, e al puramente orrifico dall’altro. Oltrepassare la vecchia distinzione tra Apocalittici e Integrati, significa che Narrare è più importante di Schierarsi per Partito Preso. Narrare è un viaggio del pensiero e nel procedere del viaggio , nell’esplorazione del linguaggio, è impossibile (se si va davvero fino in fondo) rimuovere la contraddizione, perché è la contraddizione, il Movimento degli Opposti, a rendere possibile il viaggio.
Caro professor Emilio, le sue narrazioni autobiografiche sono davvero belle. Le mando un saluto affettuoso,
Gaetano
Capisco che quanto postato sopra possa sembrare astratto rispetto alla toccante concretezza auto-biografica di Emilio. Ma il viaggio nello Spazio e il viaggio nel vissuto personale non sono poi così distanti. E le narrazioni “fisicamente” perdute, come manoscritti nella bottiglia abbandonati al mare, comunicano egualmente, vivono al di là di ogni supporto. Un messaggio che si sprigiona dall’esperienza, che cresce nell’amore, che conosce e riconosce il dolore, è ANCHE , è SEMPRE telepatico. Di quanto ha così meravigliosamente bene scritto Emilio, non ci arriva soltanto la “lettera”, né possiamo leggerlo come un “post” incolonnato. Il “contatto” che ci procura ha un’intimità sorprendente, al di là di ogni strumento.
Mia cara Monica, buongiorno. Mi inchino agli applausi, troppo buona, ma il tuo applauso sta a significare il completo fallimento circa l’intenzionale mia dimostrazione che il manifesto di Shields non ha quella Qualità che, nel fantastico suo mondo, il professor Emilio avrebbe voluto dimostrare. Quindi, o ci ho messo troppo del mio, o c’è stato un “misundertanding”.
La mia novella voleva essere una porcheria.
Nel “fantastico mondo di Shields”, come dici tu, c’ero già entrata all’inizio, lunedì e in seconda primissima battuta; ci avevo fatto un giretto concludendo che non sarebbe stato utile (almeno per me), alimentare oltre la questione. Non mi pareva di vedere acqua diversa sotto i ponti.
Il colpo di scena provocato dalla grande anima del professor Emilio che, con le sue parole dal tono semplice, umile ed essenziale, dava, senza vederlo, grandi lezioni, mi ha fatto decidere di ritornare in campo.
Io non credo che si possa costruire letteratura con i dettami di Shields.
Quanto all’interattività del nuovo romanzo, ho le mie riserve e mi ha preceduta il professor Emilio – al quale scriverò dopo – dando pieno assenso a La Gioia, scrivendo: “ D’altra parte è bello quello che scrive il bravissimo Dottor Lagioia più su, non trova? ‘non sono carta, e-book, web il vero supporto della letteratura, bensì il cervello umano.’ ”.
Insisto a dire: anche il fegato (n.d.r.: vedi post di lunedì). Quindi, ben venga l’interattività, ma la base, la sostanza, è un’altra.
Prendiamo, per esempio, “La solitudine dei numeri primi”, che tanto ha venduto e fatto parlare. Forse non arriverà alla seconda generazione, e questo solo grazie ai mercatini dell’usato che se lo gireranno fino a quando la brossura non sarà così usurata da non valere la carta di cui è fatto. E’ il tipico romanzo dei nostri tempi: non dà soluzioni, non le lascia nemmeno intravedere, perché le soluzioni, prima di tutto, devono essere interiorizzate dal soggetto che scrive e, evidentemente, l’autore non ha né i mezzi né l’esperienza per fornirle, o almeno proporne un bagliore. Questo perché si pubblicano abbozzi, magari lasciati a metà; pacchetti d’effetto che qualche volta lasciano all’inizio col fiato sospeso solo per risolversi in nulla di fatto. Un soufflé non riuscito. Molta forma, poca sostanza: un’idea d’effetto (la statistica aiuta), una copertina azzeccata, un titolo conturbante.
Anche perché, normalmente, gli editori sanno come vendere (a loro non interessa che cosa vendere). E che cosa vendere per un profitto di ritorno immediato se non questi libri-fantasma che, una volta letti, finiscono nel macero della carta? A proposito di carta, faccio un excursus per aspiranti architetti d’interno in cerca di successo. Se proponessimo agli editori di stampare su carta più morbida, si potrebbe inventare una nuova carta igienica di design, riutilizzandola. L’idea non è molto nuova ma, confezionata bene, venderebbe oltre misura, soprattutto con i nuovi parametri di incentivazione ecologica. Radio Life Gate la pubblicizzerebbe sicuramente. Carta igienica a impatto zero. Ma ci pensate?? Comunque non è un’idea nuova nel senso che, fino a trent’anni fa, in certa campagna, le nonne e le mamme appendevano nei cessi all’aperto foglietti di quotidiano ritagliati a misura, e poi infilzati a un gancio, pronti per l’uso.
Ah, un consiglio sulle suocere. Diffidare benignamente (sono astutamente le migliori), di quelle che, quando vi conoscono, la prima cosa che vi dicono è: “dammi del tu”. Sono quelle che, per disapprovare, ti diranno poi: “Una suocera, quando sta in silenzio, ha già detto troppo”. Scherzo, Monica, piacere di avere fatto conoscenza. E grazie.
Caro Luciano, per il professor Emilio noi siamo dei ragazzi, beninteso. Comincio dalla fine così faccio prima.
I mie abituali fornitori sono antiquari e rigattieri; vado poco in libreria e, quando ci vado, gli scaffali delle novità sono quelli che lascio per ultimo uscendo, giusto per dare un po’ di umorismo alla giornata. Oggi ho da riferirti che stamattina, sul banchetto, mi hanno trovata questi 4 libri (sei anche tu dell’idea che sono i libri che trovano il lettore, e non il contrario?): 1) Viaggio in Italia, di Montesquieu. La particolarità di questa edizione del 1971 è che è stata curata da Giovanni Macchia (e Massimo Colesanti lo ha tradotta). Un tuffo in un’Italia in cui non si parla di allineamento, Sara Scazzi, contese governative che debbano decidere che cosa è la giustizia, grande fratello, e però mi fa capire perché la tessitura oggi è in crisi (pag. 322), perché si dovrebbe fare dell’intera Italia un patrimonio Unesco a scanso di ulteriori irreversibili disastri (pag. 217) etc. etc…. 2) Gelsomino, di Gianni Rodari, illustrato d’autore (Raoul Verdini) del 1974: con il quale rinfrescherò la memoria su come deve essere condotto un romanzo moderno per l’infanzia… e poi alla fine ci sono anche i proverbi e le poesie, tutte in rilassante e musicale rima; 3) A onore dell’infanzia (sempre), un’edizione delle “Novelle di Grimm” del 1953, di una dimenticatissima casa editrice bolognese Nettuno Omnia che, però (forse per una sua onniscienza intrinseca), non ometteva di mettere in corpo, non solo le fiabe più famose ma anche quelle meno reclamizzate e, soprattutto, sapeva che più di 4 o 6, al massimo 8, illustrazioni sarebbero state controproducenti per la lettura del piccolo consumatore (in altre parole, per la sua creatività e dinamicità mentale). Senza contare che una lettura di vecchie fiabe è sempre una buona cura e fonte di grande catarsi per stress quotidiani e paure inconsce. Anche per l’adulto. E più fanno “paura”, meglio è (al genere horror non riesco a stare di fronte). Non lo sa più, invece, la maggior parte degli scrittori odierni per bambini che, livellati da una massiccia campagna di sostegno contro la violenza ai minori, scrivono blande avventure senza pathos (a questo proposito vedi, se ti interessa, a convalida di quanto dico, visto che sono nessuno: Bruno Bettelheim, Paola Santagostino, Verena Kast, Marie-Louise von Franz, tanto per fare qualche nome)……. 4) Un romanzo… di Iris Murdoch, “La sua parte di colpa” che, per i lettori in lingua originale, ha invece l’azzeccatissimo titolo, quello vero, di “The Unicorn”; in una edizione della Feltrinelli datata 1969. Ma si trova ancora oggi la Murdoch – facinorosa celtica – nelle librerie? Devo controllare.
Con questo mi sembra di aver risposto, indirettamente, a quanto hai scritto tu: sfondavi una porta aperta, anzi una porta chiusa sulla cui maniglia si doveva poggiare la mano ed esercitare una semplice pressione all’ingiù. Era aperta. Ciao. Grazie di tutto.
Dì, ma sei proprio un onnivoro di carta: se la cosa ti può interessare, in the Unicorn si fondono parabola, narrativa gotica, giallo e fiaba. Promette.
Divagazioni. In realtà, credo che “il fantastico mondo del professor Emilio” – che non è quello della pseudo-novella – ma il suo, quello reale che ha vissuto, vive, vivrà nel corso delle sue letture: sia un eccellente contro-manifesto a quello di Shields. E, siccome quello di Shields pare che qualcuno lo abbia già denominato “d’avanguardia”, io ritengo e dico che il manifesto del professor Emilio lo sia di più, perché ha scavalcato quello di Shields con quello che c’era già, fin dalla notte dei tempi alfabetici, senza ricorrere a stratagemmi “innovativi”: cioè moduli espressivi ordinari, semantica conosciuta, esperienza interiorizzata, a cui ha dato voce con un semplice – appunto, dico – “suono d’acqua”.
E adesso, finalmente, buongiorno professor Emilio. Piacere di conoscerla. C’era bisogno di un po’ di acqua fresca.
Mi chiede come faccio a sapere di balilla, Salgari e Bartleby? Li ho conosciuti sui banchetti come quello di stamattina, rovistando tra la polvere, cercando. Da sempre.
Sui banchi di scuola, all’inizio, avevo trovato una pazza che per tre anni ci ha fatto un testone così con Verga, e fu la più illuminata; nel programma scolastico sembrerebbe, con gli occhi del dopo, ci fosse stato solo lui in Italia a scrivere. Poi ne ho trovata un’altra che pretendeva che degno di menzione ci fosse solo Italo Svevo e che si scrivesse “in libertà” solo quello che aveva citato in proposito durante la lezione. Nel frattempo, di nascosto, vomitavo (mi perdoni l’espressione ma, ancora oggi, non lo posso soffrire) sugli abboccamenti amorosi dei personaggi di Moravia. Non ero ancora svezzata, si figuri. E senza guida.
E poi ancora ci si doveva spezzare le ginocchia su: Levi. Fenoglio. Todisco. Cassola. Ginzburg. Morante. Aleramo. Bassani. Castellaneta. Soavi. Pasolini… Il diario di Anna Frank… etc. etc. etc. Insomma, una bella sequenza di letteratura in voga. Lei irreggimentato in un modo. Noi “ragazzi” in un altro. E io, che non lo sapevo, mi chiedevo in silenzio: “Ma è tutto qui?”
Da allora sono cominciati veri e propri atti di lettura piratesca, incursioni lampo, scoperte di Eldorado. Credo che sia stato allora, nei primi anni di scuola, che si sia andata sviluppando quella sottile forma di ribellione che mi ha portato a scoprire dell’altro: cioè il fantastico mondo del professor Emilio. Non dico di più.
Mettermi nella sua testa è stato facile.
I motivi per cui vale la pena di mettersi nella sua testa li ha già detti lei.
Grazie e un abbraccio, professor Signum.
Ora corro a lavorare un po’ – sa’, diritti d’autore non ne ho 😉 – perché stasera mi sa che per cena, diversamente, avremo solo un bel manifesto d’avanguardia. E nulla ho contro l’avanguardia, davvero; peccato che la vera avanguardia italiana sia stata dimenticata; e da lì bisognerebbe ripartire. Sopravvive, però, nell’inconscio collettivo nazionale, come Brigite, la dea celtica del fuoco sacro che, con l’avvento del cristianesimo, si travestì da santa Brigida. Ma è sempre lei. Buona giornata 🙂
“Ohhhhh my god…C’ho tanta FAME DI REALTA’ Ma…no good books in our days”
E alzar il culo dal divano? (Postato giovedì, 28 ottobre 2010 alle 12:26 pm da luciano / idefix)
grandioso 😀
Naturalmente ringrazio sempre Massimo Maugeri per la splendida ospitalità: approvazione o no, leggere il suo blog è sempre un piacere. Grazie.
allora, finora mi ero stato zitto giusto per prendere la carica necessaria per stroncare brutalmente questo libro di Shields. prima di farlo però avevo deciso di andare in libreria per sfogliarlo un po’, anche per trovare spunti a supporto della stroncatura.
ho girato un po’ di librerie prima di trovarlo. comunque, una volta trovato ho preso a sfogliarlo ed a leggere alcuni passaggi qua e là.
non la faccio lunga. alla fine ho deciso di comprarlo per esaminarlo meglio.
per ora ne ho letto una buona metà e devo dire che ho cambiato idea. non mi sento più di stroncarlo e vi spiego il perché.
c’è del lavoro, dietro questo libro. un lavoro che a prima vista può sembrare banale, ma non è così. non è una semplice operazione di copia incolla. è un lavoro di attenta ricerca e di selezione. e poi di composizione.
devo ammettere che nel leggere le citazioni in quel modo ho avuto la sensazione di leggere un volume dotato di senso unitario, come mi pare che qualcuno abbai già detto nel forum.
non è facile realizzare qualcosa del genere e dotarla di senso. e ho capito anche cosa intendeva dire Coetzee quando diceva che ha trovato esilarante questo libro. ci sono delle parti in cui una citazione sembra fare il contrappunto all’altra e viene proprio da sorridere.
insomma, alla fine nonostante fossi prevenuto mi sono in parte ricreduto. dico ‘in parte’ perchè mi pongo a metà strada tra gli entusiasti e i disgustati.
però una cosa è certa: meglio questo libro di Shields di tanti cattivi romanzi che ci sono in giro.
@ Antonella. Ma il Raoul Verdini illustratore che citi è lo stesso che adesso fa il banchiere del PDL? Chiedo per curiosità, certe biografie sono sempre sorprendenti. L’idea di un romanzo di carta igienica temo potrebbe venire raccolta al volo. Se Kowalski pubblicasse (dopo il libro in pelo di gorilla del Crodino con introduzione di Victoria Cabello) un libro intitolato: Libro di Merda, con carta corrispondente all’uso e anche senza scritto nulla, sono certo che venderebbe una quantità spropositata di copie. Del resto in emergenza funzionerebbe meglio la carta igienica in formato libro tascabile che un avanzo di rotolo ficcato in tasca, e le emergenze ormai non sono solo da viaggio, visto che a scuola la carta igienica bisogna portarsela da casa.
Al Prof. Emilio:
Penso a tutti i ragazzi che l’hanno avuta come insegnante, e alla loro immensa fortuna. Penso a sua moglie, e alla forza del vostro amore, ancora in vita pur dopo la sua perdita, e forse per questo ancora più bruciante, molto superiore a qualsiasi sua ambizione letteraria, all’importanza di veder pubblicato il romanzo della vostra storia. Però penso anche a quelle settecento pagine, che lei non avrà perduto, perchè ancora vive nei cassetti della sua mente, ma io sì, e me ne rammarico, mi creda. Avrebbe potuto rispondere perfettamente a quello che lei stesso chiede a un libro, e che è esattamente quello che chiedo anch’io: “che mi emozioni. Che mi commuova. Che scuota il mio essere e lo interroghi. Che mi cambi e che rimanga dentro di me”. Sono certo che sarebbe stato in grado di farlo.
a Gianfranco Manfredi (ma come si fa a mettere la chiocciolina come fai tu? insomma, le mie cognizioni informatiche da parvenu ogni tanto fanno capolino)…. non credo, altrimenti avrebbe 111 anni. Credi che il Verdini banchiere si sia “liftato” per tutto questo tempo?
Eh, vedi che allora non era una brutta idea, quella del riutilizzo a impatto zero? 🙂
Ah, dimenticavo, meraviglioso… Odissea nello Spazio, Alien e quanto ci hai scritto sopra. Solo che poi non avevo il tempo di continuare e continuo a non averlo. Ne approfitto adesso. Ormai, prima ancora di vedere chi ha postato, riconosco il tuo stile (anche per l’estensione del post 😉 My compliments! Mi piace come scrivi.
ciao
Mi trovo sostanzialmente d’accordo con il discorso di Gianfranco Manfredi ed il suo affascinante parallelo 2001- Alien (se l’ho ben capito), in lode della contraddizione e (come ribadisco io) in barba a tutti manfesti programmatici.
Ma non aspetto il Grande Romanzo perchè c’è già nei classici del passato (remoto o prossimo che sia: vedi i libri citati da Luciano), ma perchè c’è già (a mio parere) anche tra libri pubblicati più di recente, senza bisogno di prendere come riferimento l’ultimo Strega o Campiello, Moccia o “Solitudini di numeri primi” (sarebbe come parlare di politica prendendo a riferimento Bondi).
Ricito invece Roberto Bolano e W.G. Sebald (libri pubblicati a cavallo tra gli ultimi ’90 e la prima metà di questo decennio: era dal banco delle novità che li ho scelti pochi anni fa), cui avevo accennato nei giorni scorsi, e che non sono da meno di Sabato, di Nabokov o di Harry James. Posso aggiungere Cecità di Saramago, potrei nominare De Lillo o Cormac McCarthy. Non sono grandi romanzi questi loro? E che dire di Horcynus Orca (anche se ormai di qualche decennio fa?). Dire che non esistono più (o peggio ancora, che non ci saranno più) i Grandi Romanzi mi pare francamente un po’ snobistico. Diciamo che sono rari (di fronte alla grande massa di libri pubblicati) e che talvolta non è facile scovarli, ma come in fondo lo era anche ieri, anche se forse saltavano più all’occhio, in un’ offerta numerica totale decisamente inferiore.
E, tra i grandi romanzi degli ultimi venti anni, io includerei anche American tabloid di James Ellroy: una mescolanza di politico, storico, hard-boiled, post-post-beat generation, epica e tante altre cose.
O I detective selvaggi di Roberto Bolano? Ilare e triste, romantico e picaresco, ironico ed errabondo, onnivoro e tanguero come sanno essere i latino-americani?
E (qualche anno più in là, 1975) la deflagrazione del monolite Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo?
O il Daniel Martin di John Fowles?
E una terra di nessuno, tra fantascienza e fantasy influenzata da Proust Borges ed Henry James, come L’ombra del torturatore (di Gene Wolfe)?
O il fumetto Maus di Art Spiegelman?
Ho citato sei titoli diversissimi l’uno dall’altro, a dimostrazione che la narrativa non si può (nè si potrà mai) inscatolare in caselle o prefissare con formule prefabbricate: deve solo poter correre libera nelle praterie del mondo, storie alla ricerca di scrittori e di lettori.
@ Antonella. A te è estranea la chiocciolina, a me lo smile, e dire che rido spesso, però inserire gli emoticon… mi incasina sempre. Ah il verdini del PDL mi sono ricordato che si chiama Denis (come Denis la minaccia) , ma ve bene dimenticarsi i nomi, in attesa di obliare anche le facce e tutto il resto. Di Manifesti non credo ci sia alcun bisogno. Anche perchè ce ne sono troppi affissi in spazi abusivi e con faccioni di politici cui chissà perché è consentito non pagare la tassa sulle affissioni e che sconciano le nostre città molto più dei writers. La ricerca del capolavoro non mi entusiasma. Mi piace leggere, tutto qui, qualsiasi cosa. Certe frasi sul muro “Sandra sei bona come er pane”, letta a Roma), ti rallegrano la giornata. La fame di realtà non so cosa sia, la realtà in genere non la mangio , perché poi faccio fatica a digerirla. Adoro i romanzi di cui non ricordo i nomi dei personaggi : leggendo I Demoni dovevo continuamente tornare indietro perché i personaggi russi di nomi ne hanno tanti, e Dostojevski li cambia di continuo. E allora? E’ esercizio mentale anche questo. Ho adorato I Figli della Mezzanotte di Rushdie anche se i nomi delle divinità indiane non capivo assolutamente a cosa si riferissero, ho cercato di immaginarmele lo stesso e se non ci ho beccato, chi se ne importa, a me piacevano lo stesso. Adoro le descrizioni letterarie: a scuola invece di far scrivere dei temi idioti sull’attualità, dovrebbero dire. Guardate fuori dalla finestra e descrivete quell’albero (se c’è) o quel muro. E’ così che si impara a scrivere. Adesso vado a cena, e non di realtà indigesta.
Digestivo. Giorgio Gaber ha cantato: “Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”. Cerco di attenermi a questa indicazione.
Qui la discussione procede a gonfie vele. E gli spunti di riflessione non mancano…
Grazie di cuore a te.
@ Antonella Beccari
Sono io che ringrazio te, Antonella cara. Grazie mille per i tuoi interventi.
Il prof. Emilio è corteggiatissimo. Beato lui! Sembra quasi che abbia (in sé) la rara qualità dell’inchiostro magnetico, dell’affabulatore, le sue pur brevi descrizioni invitano lettrici e lettori ad entrare nella camera dell’immagine, lo definirei un assaggio alla sua arte che, forse, ha avuto sviluppi da altre parti. Non è affar mio indagare, ma non lo definirei un “esordiente” desideroso di esordire.
A me interessa l’essenza del suo inchiostro sceneggiato, la capacità di essere reale, di incidere: insomma mi interessa la “fame di realtà” con la quale ha voluto catturare l’attenzione di questo salotto letterario. Riferendomi ad una “contrazione di stagioni” dove l’uomo, nonostante gli eventi della Storia universale, nonostante la tecnologia, rimane pur sempre assetato di una dimensione che oltrepassa il mondo, gli invio uno straordinario copia-incolla che, se non avessi rispolverato fra i meravigliosi volumi d’arte in biblioteca, nessuno avrebbe saputo della sua esistenza. Credetemi, è una perla di “scrittura dipinta” riportata alla luce:
Sono triste per la mia generazione, che è vuota
D’ogni sostanza umana. Che non avendo conosciuto
Altra forma di vita spirituale che il bar, la matematica e le Bugatti,
si trova oggi in un azione strettamente gregaria,
che non ha più colore …
Secolo della pubblicità, del sistema Bedeau,
dei regimi totalitari e degli eserciti senza trombe
né bandiere né messe per i morti.
Odio la mia epoca con tutte le mie forze.
L’uomo vi muore di sete …
Rendere agli uomini un significato spirituale,
inquietudini spirituali.
Far piovere su loro qualcosa che somigli a un canto gregoriano
Se avessi la fede, è certo che, passata quest’ epoca di “job necessario e ingrato”, non sopporterei più che Solesmes
Non si può più vivere di frigidaire,
di politica, di bilanci e di parole incrociate, capite!
Non si può più. Non si può più vivere senza poesia
Né colore né amore …
Ho l’impressione di andare verso i tempi più neri del mondo
Georges Rouàult
Monica mi dice: difficilmente potrei essere tua suocera, dato che sono più giovane di te.
–
Touché 🙂
@ Rossella
Grazie per la bella citazione (sono felice di vederti qui).
Ti chiedo (mi rivolgo alla Rossella pittrice): secondo te l’antica arte della pittura è in difficoltà nell’era dell’esplosione tecnologica applicata alle immagini, oppure no?
Un ringraziamento anche a Gianfranco, Luciano, Carlo, Giacomo, Gaetano, Vale e a tutti gli altri intervenuti.
Un saluto speciale al nostro caro prof. Emilio.
La cosa che più mi colpisce di lei, professore, oltre alla bellezza delle sue parole e l’indubbia capacità affabulatoria (come ha detto Carlo: beati i suoi studenti), è la trasparenza nel raccontarsi.
Spero che il suo manoscritto, prima o poi, possa essere ritrovato.
Lo spero di cuore.
Mi scuso con coloro che sono intervenuti e non ho ancora citato.
Prometto – da buon padrone di casa – di salutarvi e ringraziarvi tutti (uno per uno) prima che questa discussione si esaurisca.
Per il momento chiudo qui e vi auguro una serena notte.
Gianfranco Manfredi, in pittura disegnare e dipingere fedelmente un albero o quel muro (se c’è) si chiama realismo. Al contrario, abbozzarne il simbolo o addirittura astrane il concetto, come Lei ben sa, fa parte dell’astrattismo.
“il principio dell’Arte – scrive Benedetto Croce – non è nè la bellezza, nè il concetto, nè l’imitazione, nè il sentimento, ma la Visibilità”…
Non penso che la scrittura – parlo solo di un differente linguaggio estetico – sia diversa dalla pittura, entrambe “saziano” se, una volta soddisfatti i sensi ordinari quali tatto, udito, vista, olfatto, arrivano ai bisogni spirituali dell’uomo.
Personalmente non mi interessa se c’è riuscito Jean Michel Basquiàt morto di overdose con i suoi disegni in strada o se l’ha fatto Kandijnsky musicando il segno ed il colore, o se riusciamo a “vederci meglio” difronte alcuni quadri rinascimentali, possiamo parlare di forme di contenuti, dilungarci sull’argomento, ma temo che innanzitutto non dovremo parlare solo di diletto, bensì di una sete e di una fame che non riguarda la pancia.
La pentola gloglotta sul fuoco, miei cari, perchè mangiare spaghetti quando si approssima la mezzanotte è un piacere che regge paragone, forse, solo con la lettura di un buon libro. Stasera solo aglio e olio, pomodori secchi, origano pestato. E poi, dolci dei morti e sfinciuni, impastati freschi freschi questa mattina mentre la radio borbottava una vecchia strofa di Guccini. Gran poeta, Guccini. Memorabile – non faccio per vantarmi – come i miei spaghetti.
Che dire, amici cari? Chi poteva mai pensare che il mio carteggio suscitasse attenzione?
Vi ringrazio di vero cuore e di tanto in tanto vi racconterò – se non vi tedio troppo – qualche episodio di quel romanzo che vive tra cielo e terra, tra vita e morte, tra vecchiaia e gioventù.
I miei studenti mi chiedevano regolarmente qualcuno di quei fatti con cui li intrattenevo per spiegare la storia, per dire loro che tagliarla di traverso, sondarla, viverla, non era solo degli eroi. Anche io ne avevo fatto parte. E senza stellette al valore, nè anfibi o tute mimetiche. Così, uno fra tanti, senza altra sacca sulle spalle che l’ambizione di insegnare.
Forse per questo non mi è mai interessato, veramente, pubblicare nè esordire. Il mio esordio era la mia classe di studenti, erano le loro facce che cambiavano nel tempo, ma nel tempo si interrogavano sempre alla stessa maniera. L’amore, professore, ci parli dell’amore, dicevano, e della donna, no, dell’uomo, e….sìììììììì professore,
ci parli di entrambi.
Ecco, se posso azzardare un paragone con il signor Shields la mia fame di realtà sono stati i loro sguardi, e quel frammentarmi addosso una richiesta quotidiana di attenzione e amore.
Ogni tanto qualcuno di loro viene a trovarmi, mi porta i figli, i vecchi libri con cui li punzecchiavo, i versi di Dante impastati di esclamazioni e ribellioni, come quella volta che rivendicammo – tutti – per Paolo e Francesca un anello di Paradiso.
Che ne dice, professore, mi chiesero per provocarmi, per farmi dire che un adulterio è pur sempre un peccato mortale, che merita fiamme, dannazione e morte. Che ne pensa?
Penso quello che penso adesso, penso che l’amore non si può giudicare.
Strabiliarono di fronte a questo professore che strammava assi e paradigmi, che sovvertiva ordini secolari, ragioni e paladini del buon senso.
Se li conquistai fu solo perchè da loro apprendevo a vivere ogni giorno, e perchè i libri – visti con i loro occhi – si fecero improvvisamente veri e necessari.
L’acqua bolle. Sale e pecorino, adesso.
Una notte gustosa, amici cari, dal vostro affezionato
Professor Emilio
Egregio Massimo, a grandi linee possiamo affermare che capitalismo più elettronica hanno fornito un habitat all’interno del quale la foresta dei media e la cultura di massa hanno cospirato contro l’esperienza artistica del passato, quando niente poteva essere riprodotto.
Ciò è dovuto al cambiamento culturale che, ad un certo punto della Storia, non si è mosso più su di una scala verticale dove quadri e libri erano riferimento per la società, ma venivano sostituiti da films, Lp, tv, tutti elementi che avrebbero costituito lo stile dominante della nostra modernità.
Al di là del fatto che è sempre il cosidetto “genio” a trovare l’idea nuova per esprimersi, e che questo attraversa ogni epoca, ritengo che, se parliamo di metodo, i maestri del Rinascimento pensavano i loro quadri – siamo lontani anni luce – coniugando il sensibile con l’intellegibile. La realizzazione di un affresco o di una tela poteva andare avanti per anni: ne consegue la difficoltà di produrre un numero elevato di opere, se non altro per tutto il lavoro di preparazione che dovevano affrontare.
Oggi le tecniche sono molto più veloci e spesso, come dire, meno manuali.
Su un punto però rimango molto critica, ovvero il bombardamento delle immagini, dei suoni, il rimanere sommersi da tonnellate di parole scritte, ha rincoglionito le capacità dell’essere umano il quale, al contrario, se si trova tu per tu con l’unicità di un opera come la Gioconda di Leonardo da Vinci (porto solo un esempio), rimane in silenzio, alla ricerca del Mistero.
Capita la differenza?
@ Rossella. Non solo si è capito, ma è così denso quello che scrivi, da eguagliare, nell’astratto, la concretissima e poetica prosa di Emilio, che tutti all’unanimità credo, speriamo ci conceda nuovi bis. Su Letteratitudine sto incontrando delle straordinarie persone, e sarò sempre grato di questo, a voi tutti, e a Massimo Maugeri, in particolare.
Dice Gianfranco Manfredi: “Guardate fuori dalla finestra e descrivete quell’albero (se c’è) o quel muro. E’ così che si impara a scrivere”
Ha ragionissima.
E ricordiamolo: Manfredi non è un “calligrafo” che contempla le cuciture le proprio divanuccio, ma un solido “raccontatore di storie”, uno dei migliori in Italia, uno che nuota vigorosamente nel giallo e nel gotico, nel western e nel picaresco, nel grottesco e nella parodia.
Il punto è che la cosiddetta REALTA’ di cui teorizzano certi (tra cui lo Shields da cui siamo partiti) si trova ovunque, a cominciare dall’albero qua vicino, dal muro che abbiamo di fronte. E anche (a saperle raccontare) dalle cuciture del divanuccio di casa.
Negli incontri a scuola o in biblioteca, ai ragazzi che mi chiedono come superare il panico da foglio bianco, dico: “alzate gli occhi e descrivete la prima cosa che vedete. Intanto, quello che avete scritto ha già messo qualche parola sul foglio. Che così non è più bianco. E adesso provate ad agganciare la vostra descrizioncina a quello che è il tema che vi hanno dato. Vedrete che troverete dei passaggi sotterranei e dei collegamenti che, prima, non avreste nemmeno sospettato”
lascio una citazione di Hubert Burda, considerato il Re della stampa tedesca. credo che sia in tema.
“La rivoluzione digitale ha lo stesso effetto storico della rivoluzione di Gutenberg. Di ciò non dubita più nessuno. Certo, Gutenberg, esaltato da tutti, è stato anche, scrisse Victor Hugo, l’uomo che ha distrutto un intero mondo: i libri scritti a mano, le illustrazioni filigranate… Lutero capì subito che doveva usare questa rivoluzione per propagare le sue tesi. Ma nel Nord Europa protestante sparirono le immagini. Rimasero da voi: c’erano Michelangelo e Raffaello. La Cappella Sistina fu il pendant della Bibbia di Gutenberg: comunicazione iconica contro comunicazione semantica. La rivoluzione digitale è la disponibilità delle immagini a tariffa zero. Quando per la prima volta BUNTE introdusse otto pagine con foto a colori, ciò costò 80mila marchi a numero. Oggi, il mondo digitale è gratis, e grazie a servizi come “flickr” o “youtube” le immagini sono tutte mobili.”
questo per dire che quando Gutenberg propose la stampa a caratteri mobili fu molto criticato da tanti suoi contemporanei. veniva accusato, in soldoni, di svilire l’arte ed i libri che diventavano oggetti brutti, asettici.
Appunto. Ogni rivoluzione tecnologica crea e distrugge. E’ bene considerare entrambe le cose. Inclusi i punti di vista: la rivoluzione del treno, vista dal punto di vista degli indiani d’America assume un altro aspetto. Comunque, quanto scritto da Vittorio, mi ha ricordato “Il mio nome é rosso” di Pamuk , bellissimo romanzo che racconta del miniaturismo librario nella Turchia della fine del 500. Ora, seguendo i ragionamenti di Shields, avrei dovuto chiedermi: ma cosa diavolo me ne importa dei miniaturisti turchi di cui non so un accidenti di niente? Invece sono rimasto grato a Pamuk di avermi fatto scoprire un mondo perduto, tanto lontano dalla contemporaneità, eppure parte così rilevante della cosiddetta realtà. La realtà questa sconosciuta.
Hubert Burda dice una cazzata superficiale: “tariffa zero…il mondo digitale è gratis”.
Ma sta scherzando oppure vuol proprio prenderci per i fondelli?
Intanto, lui è il potentissimo e straricco editore di 299 periodici, 186 dei quali all’estero, con una fortissima presenza anche nell’ editoria digitale, molte stamperie, famoso soprattutto per i cartamodelli Burda.
E poi basta riflettere un nanosecondo: attorno alla presunta gratuità del Web girano i soldi (palate di soldi e di potere) della pubblicità e delle forze che essa è in grado di mobilitare.
Se poi il consumatore finale vuol vivere nell’illusione che, visto che il filmato su Youtube è aggratise e che pe’ stà su Feisbukke nun devo sgancà manco ‘na lira, lo lasciamo in questa fiaba?
Come quella di Berlusconi che fà telefona’ a la Questura de Milano pe’ fà uscì la pora marocchina nipote de Murabakke, perchè “aiuto sempre chi ha bisogno”.
allora se viviamo in un contesto in cui tutto dovrebbe essere gratis, mentre tutto nei fatti ci viene fatto pagare, ha ragione Manfredi quando dice che i “pirati”, in sostanza, compensano “il potere della pubblicità e delle forze che essa è in grado di mobilitare”.
ed è giustificata anche la provocazione (non bisogna essere delle cime per capire che si tratta di una provazione) di Shields che nel suo libro mette in pratica una specie di “legittimo furto”.
come si diceva prima tutte le rivoluzioni comportano pro e contro e chi è più attaccato alle tradizioni è portato a vedere con più attenzione gli aspetti negativi piuttosto che quelli positivi.
Davanti agli esaltatori (come Shields) in me scatta sempre la lezione appresa da un grande liberale come John Stuart Mill:
“il dissenso non va tollerato. Va fomentato”
concordo. ovviamente c’è dissenso e dissenso. e c’è resistenza e resistenza. penso che nessuno sia a favore dei bombaroli, però tornando a noi, cito ancora Manfredi: perché per vedere lo stesso film devo pagarlo una prima volta al cinema, una seconda volta in tv attraverso l’abbonamento, una terza volta in Vhs, una quarta volta in Dvd?
Caro Vittorio, io non credo che il vedere i lati negativi dello sviluppo oltre a quelli positivi, riguardi soltanto “persone legate alla tradizione”. Da decenni abbiamo tutti vissuto un tempestoso mutamento culturale. L’ottimismo progressista dell’Ottocento ha conosciuto clamorose (e ancora imbarazzanti, per tutti) sconfitte: l’Olocausto, per dirne una. Il concetto della Storia come crescita perpetua, in termini di benessere, cultura, autodeterminazione, liberazione dal peso del lavoro manuale, aumento del tempo libero, possibilità di scelte di vita diverse non più ancorate alle condizioni di nascita, insomma questo mito di cui ancora molti ottimisti si nutrono, è appartenuto trasversalmente a tutte le culture, non solo occidentali. Basta rileggere il Manifesto di Marx, con la sua fiducia nelle forze produttive, la sua appassionata apologia della dissacrazione borghese, del dominio umano sulla natura, sembrano oggi del tutto cieche su temi essenziali: lo sfruttamento delle risorse naturali, la perdita totale del senso del sacro ridotto a Valore di Scambio, la continua distruzione di competenze lavorative, di sapere popolare, di tecniche, di comunità locali… Marx risponde anche alla domanda: ma cosa si farà nel Comunismo Realizzato, nel Nuovo Mondo Liberato dal Lavoro ormai delegato alla Scienza incorporata nelle Macchine? Risposta di Marx: andremo a caccia e a pesca. Oggi mette i brividi questa Utopia, anche a chi si considera ancora tributario della tradizione marxista. Sul tema delle risorse naturali “non infinite”, Frederich Engels ne “La Dialettica della Natura” scrisse pagine ben più consapevoli, assai meno trionfali e celebrative, venate di un pessimismo cosmico quasi leopardiano. Dunque due diverse tendenze interpretative erano presenti nello stesso ambito di riflessione, persino in una coppia-marchio, come si direbbe oggi, come Marx-Engels. A livello diffuso, sociale, come ha umoristicamente e dolentemente scritto Douglas Adams in Guida Galattica per Autostoppisti, la consapevole e malinconica vergogna degli umani per come gli umani stesso hanno delapidato il mondo e massacrato i propri simili, li ha condotti alla nostalgia di qualsiasi specie precedente e scomparsa, dai dinosauri (pure profezia questa, perchè scritta molti anni prima della moda Jurassica) alle forme di vita pre-batterica o alle colonie di batteri presi a modello per la ricerca sui cloni. Adams ha scritto anche questo divertente brano in ” Ristorante al termine dell’universo”: “Una volta, una razza di esseri superintelligenti e pandimensionali costruirono un computer gigantesco chiamato Pensiero Profondo, assegnandogli il compito di calcolare la Risposta alla Domanda Fondamentale sulla Vita, l’Universo e Tutto Quanto.Per sette milioni e mezzo di anni Pensiero Profondo calcolò e computò, e alla fine annunciò che la risposta era Quarantadue, per cui si dovette costruire un altro computer ancora più grande per scoprire quale fosse la Domanda.” Ciò che voglio dire è che viviamo una lunga età di passaggio nella quale per la prima volta dopo molte generazioni, le nuova generazioni sanno che nel futuro vivranno peggio dei loro genitori. Con questo Sentimento, che in quanto tale vive anche in modo pre-critico e persino non-critico, come resa all’evidente, dobbiamo tutti fare i conti. La differenza tra Innovatori e Nostalgici , tra Tradizionalisti Conservatori e Dissacratori Rivoluzionari, non è più la stessa, e non è più così chiara. In ogni tendenza culturale e politica è affiorato un doppio binario che a volte diventa autentica schizofrenia: da un lato una certa ostilità al cambiamento, dall’altro un bisogno assoluto di cambiamento, più o meno “rimodulato”. Se invece continueremo a pensare nei vecchi termini, sposando ideologicamente un Unico Punto di vista, non caveremo un ragno dal buco. Un Punto di vista è stato: Chi se ne frega degli indiani e dei loro bisonti, noi dobbiamo unire un continente da un oceano all’altro, é una grande avventura progressiva. Quello opposto: avevano ragione gli indiani, basta vedere cosa resta del traffico ferroviario oggi negli Usa o come le Grandi Pianure del Dakota siano state abbandonate, tanto che se vuoi una casa nelle vastissime, gelide e desolate campagne intorno a Fargo, te la regalano, perché finiti gli indiani, in quei posti non ci vuole vivere (non ci SA vivere) più nessuno.
Ora, sfruttando il fatto che “tutto è già avvenuto” se non altro “a posteriori”, è utile meditare su entrambe le prospettive, perchè un minimo di bilancio sensato “costi-benefici” riguarda eccome il nostro futuro e le scelte del nostro presente.
chapeau!
Sulle Riisposte Definitive alle Grandi Domande, a me piace molto (in “Venere sulla conghiglia” che Philip Josè Farmer scrisse con lo pseudonimo di Kilgore Trout ispirato, in un gioco di scatole cinesi, allo scrittore inventato da Kurt Vonnegut in “Mattatoio n° 5”). Insomma: la lunga ricerca attraverso l’universo è per trovare una risposta alla domanda “perchè viviamo?”
Dopo lunghe e complesse peripezie, grottesche e avventurose, il protagonista giunge in un pianeta dove una razza antichissima detiene questo segreto, gelosamente custodito.
E lui pone la domanda al più vecchio più saggio degli abitanti: “Dimmi, perchè viviamo?”
“E perchè no?”
“Dimmi: perché Shields ha preso citazioni diverse, le ha messe insieme senza citare le fonti in un unico libro presentandolo come un Manifesto in risposta alla ipotetica crisi del romanzo?”
“E perché no?”
“Perchè non è Farmer”
“Ma ha farmer di realtà”.
In realtà, io nei romanzi non cerco per nulla LA REALTA’: quella la trovo nel mondo e nella vita “reali”.
Nella narrativa cerco cose ben diverse: il racconto, la rappresentazione, la metafora, la trasfigurazione, lo stravolgimento, il capovolgimento, la deformazione, la contaminazione, l’invenzione della realtà attraverso vari strumenti (tra cui la fantasia).
si’, ma….. la realta’ si trova ovunque, a cominciare dall’albero qua vicino, dal muro che abbiamo di fronte.
mi rendo conto che se dovessimo aprire un sottoforum sul concetto di realtà, non ne usciremmo più. pero’ sarebbe in tema.
Certo, Vittorio: ma nel racconto o nel romanzo, nel fumetto o nella poesia, mica ci metto “l’albero” o “il muro”. Ci metto la loro storia o metafora o raffigurazione o mappa emotiva o mistero e così avanti.
Avevo citato Adams e Luciano ha citato Farmer. In entrambi i casi, la piega è umoristica. Però mentre studiavo la documentazione per il mio romanzo Tecniche di resurrezione, mi sono imbattuto in un caso reale. Napoleone Bonaparte durante la campagna d’Egitto era entrato in possesso di un papiro oracolare che non si capiva di cosa parlasse perché la decifrazione dei geroglifici era una disciplina appena nata. Venne per fortuna rinvenuto un testo parallelo in greco. Il papiro conteneva delle risposte oracolari fornite e consegnate al possessore del papiro stesso. Il problema era che non si sapeva quali domande egli avesse posto. C’era un tabellario di domande possibili e dunque in qualche caso si poteva inferire a quale domanda corrispondesse una certa risposta, però i margini di dubbio restavano e non si poteva neppure escludere che fosse stata posta una domanda tra le tante, non inclusa nel formulario, infatti una delle risposte equivaleva a una sorta di no comment, un’altra a domanda posta in modo errato. Questo piccolo aneddoto dovrebbe dirla lunga sulle difficoltà della cosiddetta Programmazione, e più in generale sullo sviluppo stesso del Sapere. Molto spesso dopo anni e anni di studio troviamo risposte , ma dopo aver rimodulato talmente tante volte le domande alla luce delle nuove scoperte, che non veniamo più a capo della domanda giusta. In politica poi ciò accade praticamente sempre. Sono pronto a scommettere che quando si sarà completata la salerno-reggio calabria, le automobili saranno un mezzo di trasporto superato.
Mi sa anche che i programmi elettorali sarebbero un tantino più chiari se venissero distinti in tre sezioni: 1. Cosa vogliamo cambiare; 2. Cosa vogliamo mantenere e preservare; 3. Cosa vogliamo eliminare. Con annessa valutazione dei costi economici e sociali.
Al Programma Elettorale, io aggiungerei anche:
chi le fa, queste cose?
Mastella, è ovvio.
Come nei romanzi di fantascienza satirico-demenziale (se li conosci) di Ron Goulart.
è ovvio che mica ci metti “l’albero” o “il muro”. ci metti la loro storia o metafora o raffigurazione o mappa emotiva o mistero e così avanti.
questo è implicito. realtà o fantasia, qualunque cosa si relazioni con la scrittura viene necessariamente tradotta in parole.
ma c’è attinenza tra parole e realtà? se diciamo di no arriviamo alla conclusione che è impossibile tentare di relazionare realtà e parole, anche se scrivessimo un saggio.
@Gianfranco Manfredi.
Alla stessa tua stregua, anch’io leggo di tutto, pur avendo i miei amori e le mie preferenze. Mi trovo però, giornalmente, a dover prendere in mano libri di tutti i tipi e di tutte le epoche e le tasche, più o meno validi, più o meno scritti bene, più o meno più o meno più o meno.
La ricerca del capolavoro mi è diventata necessaria. E’ come essere nel paese dei balocchi e non poter andare contemporaneamente su tutte le giostre; decidi di incominciare con i cavallini ma, mentre cavalchi, già guardi il tunnel dell’orrore e, seduta a guardare spettri, ti viene in mente che, là fuori, lo zucchero filato sta aspettando.
Quanti libri riesci a leggere in un anno? A voler leggerne tre al giorno, se si potesse, farebbero 1095 libri letti; per una vita media di 70 anni diciamo, farebbero 76650, tranne gli anni bisestili in cui si decreta festa grande.
Ma nessuno riesce a leggere tre libri al giorno (o almeno così credevo) perché, poi, che cosa te ne faresti di tutto questo sapere? Che utilità avrebbe forzare le sinapsi al punto tale da far diventare il cervello uno sterile ricettore di parole? E, soprattutto, quale interazione creativa ne uscirebbe, se ti rimanesse il tempo di svilupparla?
Me lo sono chiesta per molto tempo, man mano che il tempo, come una sorta di sole dai cui raggi si dipartivano altri soli che, a loro volta, prendevano a ospitare altri soli, mi metteva di fronte nuovi mondi da scoprire. Un tempo che ventilava ipotesi suggestive ma che, allo stesso tempo, non mi dava lo spazio di affondarci. Io sono una passionale, mi ci arrabbiavo: volevo tutte le giostre, nello stesso istante, senza dover desiderare altro. Quiete nel movimento. Finalmente.
Ho negli occhi la figura di un uomo quando, ancora oggi, ogni tanto mi capita di andare in confusione perché si è aggiunta una nuova giostra. Poco male. Sono solo residuati di guerra queste angosce, me ne rendo conto, frutto di un insegnamento rivolto a incatenare la mente. E mi ci faccio una risata. Perché quest’uomo fu la scintilla di una nuova era, per me.
Ho imparato che si può leggere in tanti modi e – ora qualcuno forse si scandalizzerà – ho imparato che si può perfino parlare con cognizione di causa, comprensione e, in special modo, interazione d’argomenti, anche di un libro che non si è mai letto, almeno per come l’opinione comune pensa si debba leggere.
Che leggere non è una sequenza lineare di segni ma un organismo multiforme.
Che si può leggere in modi diversi e addirittura rifiutarsi di leggere.
Ho imparato che avere una guerra su diversi fronti è un propellente meraviglioso per trovare soluzioni e, perchè no, inventarne.
Quindi leggo tutto, tanto ora ho gli strumenti per poterlo fare; anche più di tre libri al giorno.
Però. Però quando voglio che le parole che leggo fluiscano calde e mi sfidino a trovare quel senso riposto che l’autore ha compreso e spiegato e che, all’occhio sfuggente, non sono risaltate perché l’autore è così eccelso e gentile ed elegante, e umile, da non far trasparire la sua lotta interiore e i sacrifici per dire quello che ha scritto. Quando voglio che le parole che leggo suonino come il tonfo nell’acqua di Basho. Allora cerco il capolavoro. Perché non solo di parole vive l’umanità, ma soprattutto di istanti.
E un istante non ha passato, presente, futuro. E’. Cioè leggo come se fosse l’ultimo libro che leggerò. Anzi, è, l’ultimo libro che leggerò. E voglio che sia un capolavoro.
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Quanto al muro sono convinta che ci siano muri più interessanti di altri. La moderna edilizia lo conferma. Da noi le villette a schiera di ultima generazione sono fiorite come funghi velenosi. Solo che – a differenza della natura che attrae non avendo sostanza o, in questo caso, avendo veleno, e quindi abbellisce la forma per surclassare il fungo mangereccio – queste schiere sono anche brutte. Per assonanza mentale (in verità si dovrebbe dire “concatenazione di pensieri”) mi era venuto in mente, ma non potevo usare, come similitudine il pavone maschio perché poi mi sarei attirata fischi. E poi, si dice “fiorite come pavoni maschi”? ;-D Io non l’ho mai sentito.
Tutto questo parlare (il blog di Maugeri è un po’ una droga, diciamocelo), mi ha ispirato un lavoretto… se e quando lo finirò, te lo mostrerò.
ah.. ancora. Parli di Marx ed Engels.. Andrè Glucksmann che cosa ti dice? In particolare mi interesserebbe un’opinione su “I padroni del pensiero”. Sono ancora indecisa se appropriarmene oppure no. La mia filosofia personale è quanto di più lontano ci possa essere da tutto questo, dopo Platone, e quindi vorrei sapere se ritieni il libro decisivo e chiarificante per le problematiche contemporanee, oppure no, visto che la tua analisi filosofico-storica di oggi pomeriggio mi è sembrata equa e misurata. Molto occidentale, ma con lo sguardo dello storico seduto in mezzo alla bufera politica che imperversa intorno a lui.
Naturalmente se non ti è di troppo impegno o disagio. Grazie di tutto e buona serata. E buona serata a tutti.
Antonella: io ormai ho 56 anni e molti dei libri che inizio non li finisco. O perchè mi irritano (esempio recente: “La torre” di Tellkamp, capolavoro secondo la critica, una noia letale secondo me) o perchè sono piatti (“Gli illuminati” di Bello, thrilling complottista vivace come lo sguardo di Maurizio Gasparri) o perchè fasulli e prevedibili (un italiano di cui nemmeno ricordo il nome) o perchè mi dico “io avrei fatto meglio” o perchè mi deludono troppo rispetto alle grandi aspettative (“I mille autunni di jacob De Zoett” di David Mitchell)…
E così cosa accade?
Che TUTTI i libri (saggi di teologia o fumetti, poesie o saggi di storia, horror o romanzi “normali”, classici o filosofia…) che finisco mi piacciono molto o moltissimo.
Ecco dunque che (di riffa o di raffa), fatta la tara a ciò che non mi piace, accade che leggo solo roba che mi entusiasma.
Carissima Antonella (una delle persone rare che ho avuto la fortuna di conoscere su questo blog), sto ancora meditando su alcuni precedenti post, uno tuo, uno di Rosella, che già mi propini Glucksmann… devo mettere in fila, e ammetto che di Glucksmann so pochissimo. Approfondirò. Riguardo alla tua splendida prima parte, la Ricerca del Capolavoro, è già in qualche modo la traccia di un romanzo. Io credo che i Capolavori li decidano i posteri e dunque possiamo considerare o eleggere a Capolavori solo quelli del passato. In teoria, dico in teoria… perché quante volte ci è capitato di trovare illeggibile un codificato Capolavoro del passato? E d’altro canto, quante volte un libro raccattato su una bancherella dell’usato, magari di scrittore ignoto, di antenato non celebrato, mai passato ai posteri se non per caso (è passato il libro da una polverosa soffitta, non è passato l’autore, di cui non si trova nulla neanche su Wikipedia), quante volte ci ha fatto esclamare: questo libro è un capolavoro! Forse, ANCHE, perché lo sentivamo solo nostro, perché lo avevamo SCOPERTO. Ma se oltre a leggere si scrive, ecco che allora il paesaggio si popola di segni, e tutte le scritture fanno parte di quel paesaggio: i fiori e i rovi, le farfalle e i calabroni… e tutte queste percezioni entrano in noi e vivono e CI vivono, e allora sentiamo , a volte, l’irrefreneabile bisogno di portarle a SINTESI. E’ cosa di una difficoltà mostruosa ed esposta a rischi di totale indigeribilità: se si cucina con troppi ingredienti e spezie e “trucchi” il Ricco Piatto può risultare immangiabile… i commensali allora per disperazione, dopo essersi abboffati di Ricchissime e/o di Nouvelles Cuisines, si buttano sul sushi fai-fa-te: pesce crudo, qualsiasi, e senza condimento alcuno, pur si sentire un sapore PURO, schifoso o sublime che sia. Ma la Ricerca del Capolavoro, non credo possa essere mai separata da questa esperienza di SINTESI di letture sparse e caotiche. Perché il Capolavoro ci appare sempre unico e sorgivo come pesce crudo, eppure infinitamente ricco di sapori e incredibilmente gustoso come un Uno che esprime il Tutto. Sono esperienze rare, certo. Quanti orgasmi ci ricordiamo nella nostra vita, che siano stato davvero dei Capolavori? Pochi, e magari nel ricordo, ne abbiamo selezionati alcuni che non erano nell’insieme poi così epocali e dimenticati altri che ci forse hanno sorpreso troppo o regalato “immemorabili” sensazioni sgradite. La Ricerca e la Memoria del Raro è traditrice. I sassi sulla spiaggia, sputati lì dal mare, corrosi da secoli, scolpiti da nessuno, auto-coloratisi, non sono gioielli, non valgono niente, ma si possono perdere ore ad osservarli uno per uno, a stupire di quello bizzarro, a deliziarsi per la forma e la lucentezza e le screziature di un altro, e magari ne resti conquistato , te ne porti a casa un’imbarcata, ma scopri che fuori contesto, senza quell’acqua, perdono colore, perdono fascino, tornano ad essere ciò che erano: sassi. Il come , il dove, il quando, il noi, il modo della percezione formano la bellezza. C’è un verso sublime (quanto anti-depressivo) nel Capolavoro Hey Jude: “Take a sad song and make it better” . Prendi una canzone triste e rendila migliore (felice, si suppone). Leggere è anche un’operazione alchimistica che muta il ferro in oro. Noi possiamo contribuire anche da lettori, al Capolavoro. E non è essenziale che sia Capolavoro per tutti, Oggettivo. Quelli tanto, grosso modo li conosciamo. Questo è il NOSTRO Capolavoro. E se ne abbiamo trovato uno, sentiamo che possiamo trovarne/crearne un altro, e che la nostra continua ricerca non è più destinata ad andare costantemente delusa.
@Luciano/ideafix (sta per idea fissa?)
Come si dice a Roma per dire: “L’hai detta giusta?” Mi fai morire dal ridere con le tue inserzioni in romanesco… 😀
Dì, ma tu, per curiosità mia, scrivi anche in vernacolo?
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Sai che cosa faccio delle montagnette di libri lasciati a metà? Alcuni continuo a tenerli, mi rendo conto che sono documentazione che potrà venirmi utile; qualcun altro lo elimino dalla mia vita come un amante appiccicoso (a volte bisogna essere gentili e impietosi, per il bene della comunità); quelli di cui, appena iniziati, ho già capito come va a finir la storia, li surclasso con altri migliori se l’argomento mi preme, cioè li sostituisco ( e tieni conto che sto parlando di ogni genere di tipo di libro). E comunque documento sempre con alcune parole i libri letti, anche quelli a metà, perché ho scoperto che mi può tornare utile a distanza di tempo per riprendere le fila di un discorso lasciato a metà, da approfondire, o che verrà.
Insomma, ci vuole un po’ di quella telepatia di cui Manfredi ha accennato da qualche parte nell’arco della settimana. O no?
Ah, a me capita di leggere anche quello che non mi entusiasma. Sono convinta che occorra avere anche e, soprattutto, la disciplina necessaria per leggere anche quello che non si vorrebbe leggere. Frutti esaltanti.
Ciao Gianfranco Manfredi, buongiorno.
Un excursus che voglio breve e di prima mattina.
C’è una frase di Waldo Emerson che mi diverte sempre molto, tant’è che l’avevo usata tempo fa per uno scherzetto sulla mia rassegna che, ahimè, è lì congelata, poverina, in attesa di tempi migliori, soprattutto i tempi migliori di quando le settimane saranno fatte di 10 e non di 7 giorni.
La frase è: “Non leggete libri che non abbiano nemmeno un anno”. Questo per rispondere al tuo seguente pensiero “i Capolavori li decidano i posteri”. Che, nel contesto in cui l’ho inserito, sembra che tu voglia asserire di lavartene le mani e rimandare le decisioni a chi verrà perché così deve essere, quando, invece, nel contesto originale il significato e ben più articolato. Questo per assolutamente condividere il fatto che bisogna mettere delle distanze prima di ritenere un libro un capolavoro, personale o pubblico che sia, di autore acclamato o dimenticato. E questo anche per arrivare al prossimo mio interrogativo che sto per esporti.
Excursus nell’excursus: ma ti rendi conto che Shields non ha fatto altro che prendere un blog e metterlo insieme? A proposito, pensavo ieri sera. Ma se Massimo Maugeri decidesse, un bel giorno, di pubblicare le sequenze giornaliere di un suo post-proposta come fa regolarmente, con tanto di editore che si prende la briga di pubblicizzarlo e venderlo in libreria: a chi andrebbero i diritti di autore? Solo a lui o anche a chi ha partecipato nella misura in cui ha vergato parole. Un tanto a parola, insomma? 🙂
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Scusa, ma il guaio di questi post è che non si può fare formattazione e io credo che l’incisività della parola sia fatta soprattutto di spazi. Ma qui gli spazi dove sono? Così mi arrangio come posso. Per esempio, prima – tra il prima e il dopo (che rappresenta il momento che verrà tra poco, questo è solo un inciso), avrebbero dovuto esserci perlomeno TRE righe di spazio; e dove le metto se scrivo su word e poi copio e incollo, perché non ho voglia di rompermi gli occhi sul tipo di carattere misura 12, forse, nello spazietto dedicato a noi?
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D’accordissimo sulla cena a base di sushi dopo le abbuffate, era quello che, infatti, e in modo più elementare, andavo sostenendo. Ma qualcosa, a un certo punto, mi è risuonato come un’incrinatura: quel suono che fa un bicchiere di cristallo, ma anche di vetro seppure un suono meno nobile, quando non è più integro. In poche parole, è sberciato.
Tu dici: “”””””””Quanti orgasmi ci ricordiamo nella nostra vita, che siano stato davvero dei Capolavori? Pochi, e magari nel ricordo, ne abbiamo selezionati alcuni che non erano nell’insieme poi così epocali e dimenticati altri che ci forse hanno sorpreso troppo o regalato “immemorabili” sensazioni sgradite. La Ricerca e la Memoria del Raro è traditrice. I sassi sulla spiaggia, sputati lì dal mare, corrosi da secoli, scolpiti da nessuno, auto-coloratisi, non sono gioielli, non valgono niente, ma si possono perdere ore ad osservarli uno per uno, a stupire di quello bizzarro, a deliziarsi per la forma e la lucentezza e le screziature di un altro, e magari ne resti conquistato , te ne porti a casa un’imbarcata, ma scopri che fuori contesto, senza quell’acqua, perdono colore, perdono fascino, tornano ad essere ciò che erano: sassi. Il come , il dove, il quando, il noi, il modo della percezione formano la bellezza. “””””””””””””
Io i miei orgasmi me li ricordo tutti, sono quelli che mi hanno fatto crescere e cambiare. E’ come dire che non ti ricordi i nomi di tutti i tuoi figli. E’ vero, non tutti sono stati dei capolavori. Ma dipendeva da me, dalle mie paure. E, se fuori contesto, diventano solo sassi, allora non sono veri capolavori. Oppure, se fuori contesto ti sembrano ora, con gli occhi del dopo, solo sassi e non gioielli è perché sono cambiati il come, dove, quando, e la percezione che forma la bellezza. Ma se in qualche modo ti hanno cambiato e hanno dato una svolta, avevano la scintilla dei capolavori. Il gusto si affina, cambia, si evolve in forme a volte perfino inaspettate; la scrittura personale cambia perché i capolavori si sommano in quell’enorme e mostruoso Enoch che è il nostro cervello e diventano l’armoniosa sintesi, rielaborazione e, se hai la fortuna del genio, il nuovo capolavoro.
Fermo restando Emerson 🙂
Antonella: in dialetto (triestino però) ho scritto (e rappresentato) solo una commedia.
Qui, su questo post, sta accadendo una di quelle cose splendide che ogni tanto succedono: alcune persone si mettono a parlare, dicono ciò che pensano, si ascoltano, le reciproche parole volano dagli uni agli altri e MODIFICANO i pensieri di partenza, perchè li arricchiscono. Come ha ricordato Manfredi qualche mese fa, gli indiani (terribili selvaggi che noi, civilissimi portatori di superiori valori, facemmo bene a sterminare) avevano una bellissima usanza: durante una discussione, quando uno aveva finito di parlare, prima della replica successiva doveva passare qualche minuto di silenzio. La stessa cosa (detta in altro modo) è anche all’inizio (1,14) del Vangelo di Giovanni: “e la Parola è diventata carne”.
Ciò che esce dalla nostra bocca (o dalla nostra penna o dai nostri pc) o è vocabolo o è parola. Il vocabolo è vacuo e (costruito sul nulla) vale poco o niente. La parola invece nasce dal silenzio e dal profondo, dai nostri abissi e dalle nostre terrazze, ha maturato e germogliato a lungo e (forse anche a nostra insaputa) ha avuto bisogno per diventare “carne”, capace di arivare per davvero agli altri.
Ecco allora che le parole che circolano su questo blog non sono chiacchiericcio da studiolo televisivo da senticchiare con mezza orecchia mentre si sta cagando ma (se si vuole “mangiarle”) da accoglierle con la stessa gioia e lo stesso rispetto con cui sono state scritte.
Così, diventano cibo piacevole e nutriente, scambio comunitario.
Nel commento precedente, nella fretta, ho dimenticato una parola (o un vocabolo?).
Riscrivo il penultimo paragrafo compresa l’ultima (fondamentale) parola:
Ciò che esce dalla nostra bocca (o dalla nostra penna o dai nostri pc) o è vocabolo o è parola. Il vocabolo è vacuo e (costruito sul nulla) vale poco o niente. La parola invece nasce dal silenzio e dal profondo, dai nostri abissi e dalle nostre terrazze, ha maturato e germogliato a lungo e (forse anche a nostra insaputa) ha avuto bisogno per diventare “carne”, capace di arrivare per davvero agli altri, di tempo.
Sollevo gli occhi dall’ultimo post (il primo mattutino) e vedo allineati in disordine su uno scaffale della mia libreria una ventina di sassi raccattati un po’ dappertutto (qualcuno anche nel deserto). Ce n’è uno doppio. Chissà quanti secoli ci sono voluti perché i due distinti sassi si siano incastrati in uno solo. Quello sotto è leggermente rosato e somiglia a uno di quei dolcetti un po’ spugnosi e fatti a spunzoni. Sopra ce n’è incastonato un altro perfettamente levigato , marroncino, che sembra l’uovo di Alien. I due sassi separati sarebbero da buttare. Così fusi insieme sono una bellissima scultura. Penso che forse ho usato una metafora sbagliata. Gli OGGETTI hanno un’evidenza e una fissità che alla letteratura sono sconosciute. Io non sottolineo mai i libri, ne ho un rispetto eccessivo, sacrale. Però ne ho ereditati alcuni tutti segnati o annotati ai margini. Di fronte a queste annotazioni non riesco mai a capire perché quel lettore precedente, diverso da me, ha trovato così significative quelle tre parole o quel rigo. Perché non altre? Anche peggio quando trovo un saggio con il testo tutto evidenziato a colori diversi, come se la persona che lo ha studiato, avesse voluto distinguere a sua attuale/futura memoria la parte fondamentale da quelle accessorie, secondo una sua personale e per me sfuggente classificazione. A volte poi accade che in un vecchio libro io stesso abbia infilato un foglietto con delle annotazioni, proprio come ha accennato Antonella, che riprendono e commentano un certo passo, a MIA futura memoria. Le rileggo e non le capisco più. Non per la calligrafia, ma proprio per il contenuto “di mio pugno”, che ritrovo assolutamente enigmatico. Così mi chiedo: quante letture diverse possono essere fatte di un libro? Non soltanto degli altri, anche mie. I Capolavori, in particolare quelli che per noi sono capolavori cui torniamo diverse volte nel corso della vita, credo siano quelli che ad ogni lettura non ci fanno provare la stessa sensazione, non ci destano gli stessi interrogativi e gli stessi entusiasmi, ma sono davvero “prodigiosamente” cangianti. Con altri libri, e non sai nemmeno spiegarti bene il perché, questa cosa non capita. Li rileggi e sono più o meno sempre quella cosa lì che ricordavi. Adesso che conosci la storia non hai più tanta voglia di rileggerli. In qualche modo li hai già incorporati. Non che non ti piacciano, ma “li sai” punto e basta. Un po’ sono come sassi che hanno perso colore. Qualcuno poi non sai proprio cosa l’hai raccattato a fare. D’altro canto, non sono mai stato capace di compilare quegli elenchi giocosi del tipo: “I dieci capolavori della mia vita”, i Libri dell’Isola Deserta eccetera. Perché dieci? E perché non portarsi dietro anche qualche capolavoro di bruttezza, così tanto per confronto. Come scrive (appunto) André Glucksmann in “La Stupidità”: “Ai mortali che non ignorano di essere mortali gli esempi negativi insegnano più dei positivi.” E riporta anche una citazione da Foucault : “Vi sono momenti nella vita in cui porsi il problema di sapere se si può pensare in modo diverso da quello in cui si pensa e percepire in modo diverso da come effettivamente si vede è indispensabile per continuare a guardare o a riflettere.” Sì, Antonella qualcosina di Glucksmann la so. Ho conservato nella memoria certe brillantezze di stile, certe sue definizioni “scolpite” (“La destra approfitta della stupidità della sinistra per bearsi della propria stupidità”), mi sono in passato riferito a certi suoi scritti, ad esempio a “La cuoca e il mangia-uomini” per un capitolo di un mio mini saggio sulla musica di Battisti e i testi di Mogol, però stento a ricordare la coerenza del suo ragionamento, forse per la sua eccessiva vivacità di stile, per il citazionismo sempre troppo esemplare, perché non lascia vuoti, per il suo gusto della provocazione ostentata, perché giudica sempre tutto scordandosi quasi sempre di descriverlo. Però ecco, Antonella mi ha fatto venire voglia di riprendere qualche suo scritto e rileggerlo per bene… mi fossi sbagliato… è sempre possibile un’altra lettura, a distanza.
Scusate. Sono sparita da commentarium sol perché ieri ho ricevuto la brutta notizia che l’azienda per cui lavoro sta fallendo.
Sto cercando di riprendermi.
Mi sa che più che con “La fame di realtà” dovrò fare i conti con “La realtà della fame”.
Comunque sto leggendo Shields con gusto.
Saluti a tutti.
Beh, Luciano, spero di essere stata sushi, me lo auguro.
Quanto agli indiani, il medicine-man con il quale avevo parlato, mi ha posto di fronte una delle più grandi sfide di questa mia vita. Ci sto ancora lavorando.
Gianfranco, ma sai che anch’io ho due sassi del deserto simili ai tuoi? Mi hanno sempre affascinato. La base è rotonda e quasi piatta, la parte superiore è affilata e incastrata verticalmente nella cavità della base: l’ho sempre ritenuta una splendida rappresentazione di yin e yang, un amplesso tantrico della materia.
Io invece alcuni libri li sottolineo leggermente e quando ne trovo di letti magari dieci anni prima con mie vecchie annotazioni, torno a rileggerle con interesse perché mi accorgo del processo che ho seguito negli anni che sono seguiti, e che mi ha fatto tornare a prenderlo in mano, per invitarmi a riscoprire le mille alternative che avrei potuto dare allora alle mie azioni del di poi. E da lì propormene di nuove. Con la differenza che, la prima volta il libro mi si ri-vela e, la seconda volta, mi si s-vela. Nudo, finalmente.
Perciò sottolineo, paragrafo, lascio il segnalibro che ho usato per leggerlo perché anche il segnalibro ha una sua funzione basilare (le orecchie non le posso soffrire, quelle mi disturbano, eppure ci sono stati libri a cui le ho fatte). E, se proprio, appunto, non posso farne a meno e il libro è anche di un certo costo, compro l’edizione economica da scribacchiare: “ideafix” da alienati (come l’alienato di Gluckmann che, nell’idiozia, trova il divino. Sì, credo che li leggerò, questi padroni del pensiero; mi hai quasi convinta).
Monica, grazie per i saluti che mi prendo anch’io.
Per quanto io possa essere dispiaciuta per la brutta nuova, non è certo con il compatimento che ti risolleverei il morale, ma caso mai con la compassione. Perciò, in situazioni simili, in cui mi sono spesso trovata anch’io, la mia compassione è di dirti che, se la Pacha Mama, o come vuoi chiamarla, ti ha messo di fronte a una condizione del genere, significa che è giunto il momento di attingere alle tue più Originali Risorse e ri-scoprire la tua Strada del Cuore. Che cosa ti vuole dire? Quali sono i sogni che avevi e a cui rinunciato? Le strade traverse si pagano care se sono state fatte per un capriccio.
I migliori amici sono i nemici, io li ringrazio sempre. I migliorissimi sono i grandi tiranni e la tirannia della fame è quanto di meglio si possa incontrare per sbaragliare il destino. Che è solo una forma mentale. C’è solo una cosa sicura, ma per quella anche i più grandi sciamani ci stanno ancora lavorando.
Ah… Shields continua a non piacermi 🙂
ah.. Monica.. dimenticavo… comunque non ti sei persa niente, a meno che tu non sia una buongustaia… eddai, Luciano… stavo scherzando!
No, invece, Monica, sarebbe opportuno che tu andassi indietro a rileggere perché sarebbe opportuno, a questo punto, l’intervento de Il Silenzio della Suocera. Ho già strabordato con i pavoni maschi e mi sono salvata in corner. Sai,a rugby non sono una cima. Tu invece mi pare di sì.
Ti seguo.
Ciao Massimo caro, grazie di cuore della citazione. Sono appena rientrato da alcuni dei miei laboratori in giro per l’Italia. Ora leggerò con calma questo post. Un saluto affettuoso a tutti, a prestissimo…
Accidenti: rischiar di perdere il lavoro è un guaio sì. Altro che arzigogolarsi sul “zenzo de la realtà ne li romanzi contimporagnei”.
I capolavori sono cangianti (cito Manfredi) perchè sono vivi, ed è grazie alla loro vita che continuano a parlarci, a discorrere con noi. I libri che risultano sempre inesorabilmente uguali a se stessi, ad ogni rilettura, sono morti. La vita è la realtà. Fame di realtà è fame di vita, non di tecnologia, o di progresso.
Progresso, tecnologia, mutamenti e mutazioni sono solo mezzi per poter accedere più facilmente ai discorsi, i quali se restano vuoti sono morti, e pertanto inutili. Se ci parlano, se ci fanno pensare, se ci cambiano in qualche modo, se ci arricchiscono, sono la vita, il tesoro che andiamo cercando. Ma è solo nel contenuto che la possiamo trovare. Non nel mezzo di comunicazione (tecnologicamente avanzato o desueto che sia).
Gli indiani che richiama Luciano, che tacciono per un minuto in ogni discorso prima della replica successiva, mi fanno subito pensare ai nostri talk-show, e a quanto mi piacerebbe vedere confinati in qualche riserva indiana i loro protagonisti.
”La destra approfitta della stupidità della sinistra per bearsi della propria stupidità” (Glucksmann, citato da Manfredi) è una delle frasi lapidarie più vere (e più vive) che mi sia capitato leggere in questi tempi. Una sintesi ineguagliabile. Chapeau.
Quanto al momento difficile di Monica, non posso che condividere quello che le dice Antonella Beccari. Il rischio di realtà della fame può spingere a realizzare per forza di cose quelle fantasie che sembravano per sempre escluse dalla nostra realtà. La realtà non è solo il qui ed ora, ma comprende tutto ciò che vive, e che è vitale nella nostra mente.
Eccomi di nuovo qui. Grazie a tutti per i nuovi interventi.
@ Rossella
Cara Rossella,
grazie per la risposta alla mia domanda.
(Tuo commento di giovedì, 28 ottobre 2010 alle 11:30 pm).
@ Gianfranco Manfredi
Caro Gianfranco,
Hai scritto: ” Su Letteratitudine sto incontrando delle straordinarie persone, e sarò sempre grato di questo, a voi tutti, e a Massimo Maugeri, in particolare”.
(Tuo commento di venerdì, 29 ottobre 2010 alle 2:02 am).
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Sono io che ringrazio te e gli altri intervenuti. Siete voi che riempite questo spazio di contenuti.
A volte penso che questo blog sia una specie di miracolo.
E mi piace molto la definizione coniata tempo fa dalla cara Simona Lo Iacono: “Letteratitudine è un libro umano che parla e si scrive da solo”.
@ Monica
Mi dispiace molto per la tua situazione lavorativa. Spero che la situazione di disagio possa ridimensionarsi (oppure che tu possa trovare un lavoro migliore).
“La realtà della fame” è un Manifesto che bisogna assolutamente evitare.
@ Antonella Beccari
Cara Antonella,
hai scritto: “A proposito, pensavo ieri sera. Ma se Massimo Maugeri decidesse, un bel giorno, di pubblicare le sequenze giornaliere di un suo post-proposta come fa regolarmente, con tanto di editore che si prende la briga di pubblicizzarlo e venderlo in libreria: a chi andrebbero i diritti di autore? Solo a lui o anche a chi ha partecipato nella misura in cui ha vergato parole. Un tanto a parola, insomma?”
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In verità, l’ho già fatto.
Nel dicembre 2008 ho pubblicato “Letteratitudine, il libro – vol. I – 2006-2008”:
http://www.ibs.it/code/9788860030931/letteratitudine-libro.html
Tutti i ricavati (diritti del curatore, ma anche i guadagni dell’editore) sono devoluti a scopo benefico.
A gennaio 2011 uscirà “Letteratitudine, il libro – vol. II – 2008-2010”. Ci sarà una prima parte(del tutto inedita) dedicata all’ebook.
Anche in questo caso i ricavati andranno in beneficienza.
@ Luigi La Rosa
Caro Luigi, bentrovato!!!
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Sul post avevo scritto che – a livello di “suggestione” – il libro di Shields mi ricordava le “pillole Bu”r curate da Luigi: un insieme di citazioni estrapolate dai contesti originari e sistematizzate – sulla base di un tema prescelto – in capitoli “sotto-tematici”. Qui su Letteratitudine abbiamo avuto modo di discutere de “L’alfabeto dell’amore”, ma ricordo anche “Pensieri erotici” e “Pensieri di Natale”.
In questo caso, però, a differenza di Shields (e il discrimine vero è proprio qui) alla fine di ogni citazione venivano riportati il nome dell’autore e il titolo dell’opera da cui il testo era stato estrapolato.
Niente di più vero di quanto dice la signora Antonella, cara Monica.
Dopo la guerra era difficile orientarsi, ricordare la vita prima, attingere alla normalità. Ma la nostra forza fu quel riemergere a mani nude, talmente vuote da non poter fare altro che riempirle. Di sogni. Di fatica. Di speranze.
Eravamo vivi, dopotutto, e ci guardavamo perplessi, straniti ci contavamo. Qualcuno saltava l’appello, due miei cugini giovanissimi non tornarono più, i cappotti venivano rivoltati di continuo per farli sembrare nuovi, e le scarpe si rammendavano suola su suola.
Ma eravamo ancora a questo mondo, ci incolonnavamo al referendum per votare la repubblica, vedevamo gli americani lasciare l’isola dopo averci insegnato a masticare cewingum e a bere cocacola. La prima estate dopo la pace andammo a ballare su una rotonda rimediata con quattro assi, cigolante di una musica squinternata, rubata alla radio. Ballavamo senza niente intorno, tra macerie e muri pericolanti, su pianori intrezzuti di mine e radar ancora accesi che gracchiavano al buio le loro intermittenze. Ma ci stringevamo pensando solo che la sirena non avrebbe più tagliato la notte e che, senza la sirena, noi pure eravamo finalmente liberi non solo di vivere.
Ma di immaginare.
Pregherò per lei, stanotte, cara Monica.
Non dubiti mai della rinascita.
Il suo affezionato
Professor Emilio
Mi piacerebbe molto conoscere l’opinione di Luigi sul libro di Shield, per due motivi fondamentali:
a) Luigi è uno dei più grandi amanti del romanzo che io conosca;
b) ricordo che quando presentammo le sue “pillole Bur” venne fuori il discorso che quelle citazioni (così combinate) era come se acquisissero una sorta di vita narrativa tutta loro (quasi come fossero gli elementi di un romanzo).
Ti ricordi, Luigi?
Accipicchia, ho incrociato il caro Dottor Maugeri.
Colgo l’occasione per salutarla, amico caro, augurarle una serena notte e ringraziarla della compagnia che ogni giorno mi fa.
Un grato abbraccio della buona notte dal suo affezionato
Professor Emilio
Professor Emilio,
grazie di cuore (come sempre) per le sue parole.
Credo che – in fondo – il suo libro lei lo stia già scrivendo qui… su questo blog… del resto questo dibattito è già un libro (uno dei tanti libri che si scrivono da soli, in questo “blog umano”).
E’ probabile che una selezione degli scambi di questo dibattito possa confluire su “Letteratitudine, il libro – vol. III” (il volume secondo è ormai chiuso).
Ancora grazie a lei mio caro professore. Un affettuoso saluto… e non ci faccia mai mancare le sue parole e i suoi ricordi (che ci fanno rivivere tempi ormai lontani, ma di cui è bene conservare memoria).
E ora… torniamo a David Shields e al suo libro.
Su Fahrenheith potete ascoltare lo scambio (radiofonico) tra Stefano Salis e Alfonso Berardinelli: http://www.radio.rai.it/RADIO3/FAHRENHEIT/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=320870
Su Tuttolibri de “La Stampa” di oggi (oramai di ieri, sabato 30 ottobre) è uscito un articolo di Massimo Onofri dedicato a “La fame di realtà” di Shields.
Lo riporto di seguito…
“Copia e incolla, l’avanguardia è un déjà-vu”
(da Tuttolibri de “La Stampa” del 30.10.2010)
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Fame di realtà Non basta un collage di 618 frammenti per fare una teoria
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di MASSIMO ONOFRI
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Me lo chiedo incredulo: possibile che in America siano messi così male? Possibile che abbiano scoperto l’avanguardia cento anni dopo e ce la rivendono cotta male e peggio servita, gridando all’evento epocale? E’ accaduto col libro di David Shields Fame di realtà. Sentite qua.
Coetzee: «Fame di realtà è un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo». Lethem: «Un libro urgente, oltraggioso, e anche un’opera che si compone leggendola». Zadie Smith: «Intrigante da leggere, anche se disapprovo la maggior parte di quello che dice». Che libro è questo di Shields? Siamo di fronte, come scrive Stefano Salis nella sua partecipe e intelligente prefazione, a «una delle opere più importanti di teoria letteraria pubblicate negli ultimi anni»?
Si tratta di 618 frammenti, qualche volta appena articolati, più spesso brevi, se non fulminanti, organizzati secondo un lemmario di 26 capitoli, che vanno da Mimesi e Realtà a Memoria e Confusione, da Hip hop e Reality TV a Contraddizione, da Autobio e Personaggio a Soli, per citarne solo alcuni.
Ma il dato più importante – e che si vorrebbe chissà quanto trasgressivo – sta nel fatto che Shields accompagna asserzioni probabilmente di suo pugno (poche) a citazioni ricavate dalle più diverse fonti – si tratti d’un classico come Emerson o un d’un oscuro giornalista contemporaneo – di cui Shields s’appropria in dispregio di qualsiasi proprietà intellettuale (e del concetto tradizionale di autore) o accusa di plagio. Se non fosse, però, per l’Appendice in cui, come ci racconta, è stato costretto a riportare, su invito della sua casa editrice (la Random House), l’elenco delle fonti che si ricordava.
L’orizzonte entro cui questo libro si staglia è quello d’una realissima irrealtà quotidiana: ovviamente ai tempi – i nostri – del remix, del copia e incolla, di google e dell’enciclopedismo anonimo di Wikipedia, del post-romanzo e, forse, della post-vita. Ma a me, devo essere sincero, è venuta la nostalgia, sull’irrealtà del reale, dei vecchi libri – quelli sì davvero originali e tempestivi – del nostro Ottiero Ottieri, come, per esempio, Il campo di concentrazione (1972). Il famoso saggio di Roland Barthes intitolato La morte dell’autore è del 1968: e che altro fa, Shields, se non riproporre quell’invecchiatissima idea (ora archiviata nei magazzini della Storia) dei testi che si scrivono da soli, aggiornandola, quell’idea, ai livelli tecnologici e informatici del nostro oggi?
Nessuno si sognerebbe, qui, di ritornare a quella dicotomia tra «io che vive» e «io che scrive » che ha infuocato, tra Sainte-Beuve e Proust, il dibattito del secolo appena trascorso. Ma tutti sanno, oggi, che è proprio la misteriosa e sempre diversa interferenza tra i due «io» a fondare l’autorialità letteraria: come sapeva Cesare Garboli, in ogni suo libro spiazzante, e quasi sempre dedicato, non per caso, ad un autore frequentato in carne ed ossa.
Più interessanti sono le idee di Shields sulla fine del romanzo: nella convinzione condivisibile – e di assoluto buon senso – che se qualcosa finisce, ciò accade per qualche ottimo motivo.
Così come ha ragioni da vendere quando spara sulla prevedibilità dei romanzi tradizionali e sulla loro debolezza nel restituirci l’attuale condizione umana.
Mentre non può non risultare davvero ingenua – per chi conosce la storia della prosa italiana novecentesca, tanto vituperata dai fanatici del romanzo – la sua perorazione per il «personal essai», il «saggio lirico», l’autobiografismo.
Ci si chiede che cosa potrebbe mai pensare, Shields, di fronte a un libro enigmatico come Riviera (Einaudi) di Giorgio Ficara che accampa molte delle qualità che egli insegue nei libri che ama: ma scritto con un’eleganza che l’americano si sogna.
Salis scrive che non si tratta del «trito dibattito su “il romanzo è morto?”», ma «su quale forma di letteratura ci dovremo aspettare per il futuro». Come se quei «triti» dibattiti degli anni ’60 non fossero anche un tentativo di disegnare forme nuove per un futuro diverso.
Ecco: più che un’importante opera di teoria letteraria, Fame di realtà resta una testimonianza di quanto sia debole la teoria ai tempi della sua latitanza.
Nonostante la sconfortante banalità di certi aforismi (anche se ricavati da Melville: «La verità, raccontata nuda e cruda, ha le sue asperità »), questo libro si fa apprezzare proprio per i singoli pronunciamenti.
Per certe idiosincrasie e predilezioni. Come l’ammirazione per un saggista
bizzarro e umoroso poco noto quale Philip Lopate (in Italia pubblicato da Gaffi). Epperò, mi chiedo, a costo di sembrare arciitaliano: che cos’ha in più,
Lopate, di tanti nostri saggisti autobiografici? Credo niente.
Anzi: forse qualcosa in meno.
–
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 30 ottobre, pag. VII)
http://www3.lastampa.it/fileadmin/media/settimanali/tuttolibri/PDF/7.pdf
Anche l’articolo di Onofri mi sembra piuttosto severo nei confronti di Shields…
Chiudo qui e vi auguro una buona domenica (con un pensiero affettuso per tutti i nostri cari defunti).
Mi prendo un paio di giorni di vacanza (ma voi continuate pure a discutere).
Pubblicherò il prossimo post martedì sera (credo).
A presto!
La causticità della penna di Massimo Onofri fa di nuovo, impietosamente, centro. Uscito dalla lettura del libro, anch’io ne ricavo una simile impressione: un libro tarocco col belletto (e la reclame) di “nuovo”. Circa poi i concetti di imitazione/plagio/riuso e sul personal essay ho già espresso la mia opinione in un mio commento dei giorni scorsi. Io sto con Berardinelli e Onofri. E non per partito preso: il libro di Shilds è paragonabile alla scoperta dell’acqua calda. Con ciò non voglio dire che non meriti d’essere letto, ma sono i commenti iperentusiastici dei recensori italiani e non a lasciare davvero di sasso.
Ogni anno in Italia escono circa 35.000 libri, ciò significa che nell’ultimo decennio ne sono apparsi 350.000, nel precedente quarto di secolo altri 890.000.
Mi sa che (anche solo stando a queste cifre) sono molto in ritardo con le mie letture e dunque Shields, col suo “A la ricerca der tempo scialato pe’ scoprì l’acquetta tepida”, si metterà in coda.
Anzitutto un caldo augurio a Monica a riprendere entusiasmo, cosa che accade spesso dopo le scoppole ( vedi Juve e scusate la citazione non letteraria). Sull’articolo di Onofri, ci sarebbe da aggiungere qualcosa sui percorsi ricorrenti della “filosofia dell’aforisma”, tipicissima filosofia da copia e incolla. La frase brillante, l’aforisma che pare illuminarci sinteticamente di verità, non è spesso altro che verità sintetica, specie nella nostra epoca. Di questa verità da pamphlet ridotto a slogan efficace, Glucksmann è assai più ben nutrito di Shields. Ma l’autore/personaggio che di certo negli ultimi decenni l’ha resa popolare è Woody Allen , il quale però nei momenti di maggiore consapevolezza ha avuto l’onesta e il coraggio di avvertire il consumatore: “il sottoscritto è un intellettuale superficiale”. Amesso questo, ci si può anche divertire. Però prima o poi bisognerebbe cominciare a narrare e a non bearsi di esporre il se Stesso Brillante delle migliori occasioni e se proprio si vuole intestardirsi sull’autobiografico senza biografia, ci si conceda almeno qualche momento di pensieri cupi, di frasi imbrogliate, di demenziale opacità, di inconcludenza delirante e di indecifrabilità assoluta.
Però è un’altra la cosa che ho notato su questo e altri blog diciamo così “di un certo livello”, come nelle conversazioni e nelle lettere di molti appassionati di letteratura che vanno come età dai venticinque ai quaranta. Quando li leggo o li incontro spesso li sento esprimere desolati giudizi su autori della loro generazione, premiatissimi dalle classifiche, dopodiché mi chiedono: ma a te sembra che questi sappiano scrivere? Ora: un conto è che persone della mia età, sicuramente drogate, tossiche senza speranza di letture di ben altro livello , sia altissimo che infimo, ma in ogni caso espressive, esprimano giudizi negativi su certi best-seller pseudo autoriali… può anche trattarsi di fastidi snob da trinariciuti… ben altro conto è che questi giudizi vengano da persone della stessa generazione degli autori “premiati dal mercato”. Ciò segnala un fenomeno di cui varrebbe la pena DAVVERO occuparsi. Ci sono moltissimi giovani, anche giovanissimi, che scrivono davvero bene, che esprimono giudizi più che interessanti, che manifestano letture ampie e ricchezza/sensibilità interiore … perché allora si pubblicano quelli che invece NON SONO AL LIVELLO DEI LORO LETTORI? E perché tanta gente che scrive molto meglio di quelli che vengono pubblicati, non si mette a scrivere al posto loro? A volte l’ho chiesto: una ragazza mi ha risposto ad esempio che sì, lei legge molto e forse sì, ha una certa disposizione per la scrittura, però preferisce cucinare ed è quello il lavoro che la appassiona. Al che viene davvero da dire: chapeau. Un altro giovane, in altro campo, espone sculture fatte con materiali di recupero. E’ bravo, indubbiamente, però poi sono stato a casa sua e ho visto dei mobili che fabbrica con materiali di recupero: vagamente pop, ma davvero belli e con uno stile proprio. Non oggetti da esporre in galleria, ma oggetti altamente estetici, quanto fatti di materiali “poveri”, su cui si ci può sedere senza commettere sacrilegio al design. Questo giovane mi ha anche raccontato la storia della fabbrichetta artigiana di mobilio in cui lavora. Oggi che sono in crisi anche i grossi mobilifici, il suo padrone prima di fallire, ha deciso di chiudere e cedere. Gli operai hanno acquisito la fabbrica/negozio , mettendoci del loro, in termini di lavoro e di quattrini. Il mio amico , ormai posso chiamarlo così, in un primo momento era entusiasta: finalmente possiamo fare i mobili che vogliamo, staccarci dai modelli medi e obbligati, metterci un po’ di inventiva in più e distinguerci dai grossi mobilifici standardizzati, contro i quali tra l’altro non abbiamo speranza. Al che i suoi stessi compagni e colleghi hanno detto no, nel timore di perdersi il mitico “cliente medio” i cui gusti tutti (grandi e piccoli) sembrano voler accontentare (al ribasso). Per cui il mio amico, a quel punto sì, si è licenziato. Dove voglio andare a parare? Se si continuano a premiare le scelte mediocri, quelli davvero bravi (e ce ne sono tanti) si ritrovano isolati e abbandonati a se stessi. Al che si può concludere : Sono sempre i migliori che se ne vanno. Aforisma, non a caso, ripetuto ai funerali.
« Chi scrive aforismi non vuole essere letto ma imparato a memoria. »
(Friedrich Nietzsche)
Il guaio di ogni aforisma, di ogni affermazione, è che può facilmente diventare una mezza verità, una fregnaccia, una bugia o un appassito luogo comune.
(Charles Bukowski)
Quando non si sa scrivere, un romanzo riesce più facile di un aforisma.
(Karl Kraus)
Gran bella discussione.
Saluti a tutti.
Piccolo comma. Bastano tre ricordi del professor Emilio, a mandare al macero volumi e volumi di autobiografie senza biografia, narcisismo en travesti, copia-incolla-di-esperienze-riflessioni-altrui con le quali ci si ammanta come Lady GaGa. A chiunque voglia di scrivere un’autobiografia andrebbe consigliato prima: 1. di fare la fame; 2. di aver sperimentato di persona almeno una guerra o una crisi economica devastante: 3. di aver avuto almeno un amore di quelli che ti segnano oltre i confini del letto; 4. di aver ballato, bevuto, fatto tardi , essere stato benissimo o malissimo in compagnia; 5. di aver conosciuto ambienti sociali (e possibilmente paesi) diversi dal proprio; 6. di aver sperimentato l’isolamento e il silenzio; 7. Di essersi nutriti di tutto, anche di dolore; 8. Di aver letto DOPO e DURANTE, perché senza vita vissuta non si è capaci di leggere davvero , tanto meno di scrivere un’autobiografia.
Come consiglio ulteriore darei personalmente quello di leggersi “Le Confessioni” di Rousseau. Di fronte a quella AUTOBIOGRAFIA, si riscoprono dei sani pudori e un prezioso senso di umiltà. Ma nemmeno questo non basta se quando incontriamo uno che ci racconta la sua vita e tutto quello che ha passato, ci giriamo da un’altra parte e pensiamo: dio, che palle, questo!
Ci ho messo un bel po’ di tempo a leggere il post e poi tutti i commenti. Non ho molto da dire, se non esprimere al titolare del blog ed a tutti i partecipanti la mia gratitudine. Quello che ho notato è che ogni intervento, ogni opinione, diventava trampolino di lancio per quella successiva.
E tutto questo partendo da un libro che ha scatenato tante discussioni.
Una strana impressione. E’ stao come assistere a qualcosa di….. vivo, che cresceva.
Io ne esco arricchita.
Insomma volevo solo ringraziarvi.
@Massimo Maugeri
Ciao 🙂 … Sì, sai, era una facezia tanto per indorare ancora un po’ di più la questione dei diritti d’autore…. Bellissima faccenda, invece, questa di Letteratitudine, il libro – vol. I – 2006-2008 e Letteratitudine, il libro – vol. II – 2008-2010.
Mi chiedevo anche: se volessi segnalare un libro che mi sia particolarmente piaciuto di leggere, e non necessariamente di letteratura, dove vado?
@ Carlo S. e Luciano/ideafix (rispettivamente Postato giovedì, 28 ottobre 2010 alle 8:06 / Postato giovedì, 28 ottobre 2010 alle 8:26 pm ) e a buona parte delle questioni a cui non mi son data per inteso.
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Buongiorno carissimi, anzi ormai buonasera. Riprendo le fila di un discorso lasciato a metà. Quando quel mio amico scrittore (che nella realtà del contro-manifesto del mondo fantastico del professor Emilio era, invece, il suo), diceva: “C’è bisogno di un grande romanzo”, intendeva dire un grande romanzo italiano; l’avevo dato per sottinteso. Voi non avete citato un solo italiano.
Ieri ho fatto un esperimento. Sono andata in una grossissima libreria qui vicino e mi son fatta qualcosa come decine di metri quadrati di banchi, cercando le novità editoriali italiane. Ogni tanto ci provo. Ho trovato qualche esordiente, qualcuno che ha anche pubblicato per la seconda, terza, quarta volta, e magari qualche premio se l’è beccato. Peccato non essermi segnata i loro nomi perché sarebbe stato interessante valutare quello che le librerie mettono in esposizione; ma si può sempre fare, se l’esperimento interessa. Magari lo si potrebbe fare in più di uno: dico, andare nelle librerie col taccuino a mo’ di promemoria, vedere che cosa i librai espongono e poi tornare qui a fare una relazione.
Me li sono guardati tutti, gli italiani, uno per uno, davvero con la voglia di comperare, presa da un’enfasi determinata a scoprire la perla rara. Lo giuro. A parte i romanzetti noir che vanno tanto di moda (nulla contro il Noir, Lovecraft insegna e però, poi non ci dormo sopra; a questa stregua preferisco Asimov giallista, con quel pizzico di sadismo fantascientifico che mi fa sempre rimanere a bocca aperta), ho trovato una sequenza indeterminata di opere letterarie di poco spessore che, al massimo livello, scadono nel più bieco intimismo. Anche qui: nulla contro l’intimismo, per carità ma, a questo punto, perché non si mettono a scrivere poesie ché sono un terreno migliore per sfoderare angosce e drammi? E forse riuscirebbero meglio?
Mi chiedo, invece, dove siano le grandi rappresentazioni letterarie che riescono a valicare un tipo di scrittura individualista, egocentrica, ristretta al proprio mondo, ripiegata su stessa quel tanto che basta per arrivare a un numero minimo di pagine – qualcuno/a meno – per diventare invece una vera rappresentazione del sentire collettivo, che non sia il fatto di cronaca politica, la storia d’amore, lo stupro fuori regola entrati nell’immaginario nazionale; quando va bene.
Il deserto dei tartari? Il solito Calvino? Ma loro, e i giganti come loro, hanno già dato, e alla grande.
Insomma, sono scontenta; e, per non tornare con le pive nel sacco, mi son comprata Addio all’Estate di Bradbury che, in qualche modo, mi consola sempre. Sarà perché lo associo sempre a Fahrenheit 451, uno dei racconti di fantascienza che preferisco (ma guarda che caso!). E poi, giusto per aggiungerci un dolcetto, ho trovato un libro di Antonietta Pastore, “Leggero il passo sui tatami”, che mi ha attratto subito (titolo a parte) perché mi dà l’impressione che, dopo averlo passato allo scandaglio, sappia raccontare un po’ di Giappone, cosa tutt’altro che facile; e ci riesce partendo, e lo dichiara, con lo specificare i termini della sua iniziale incomprensione per quel mondo così diverso, dando così una sorta di imboccamento che permette al lettore di misurarsi insieme a lei. Insomma, è sincera; e poi non è giornalismo, ma letteratura (anche qui, nulla contro il “giornalismo geografico” – Kapuscinski insegna e dirige una grande orchestra – ma un occidentale che si cimenta in/con letteratura giapponese non è da poco). Dopo che lo avrò letto, avrò conferme.
Ho taciuto il fatto che, all’entrata, cercavo però libri di un certo Luciano Comida e di un tal altro Gianfranco Manfredi. Negativo su tutti i fronti; perciò mi rivolgerò a mamma internet, lo so. So come fare.
* * * * * *
Tutto questo per dire l’ultima, e la cosa che più mi preme: si richiedono vivamente consigli di lettura circa possenti scrittori italiani, ancora viventi, che riescano a darmi quel “quid pro quo” che fa la differenza, cioè lo scambio che ogni scrittore dovrebbe esigere dal suo lettore, e viceversa.
E che, magari, scrivendo in italiano, siano stati tradotti in più di una lingua e sbandierati in giro per il globo (forse l’ultimo è stato “Il nome della rosa”; la produzione ulteriore mi sembra si sia risolta nel nazionale), varcando, dicevo, la frontiera e viaggiando verso ampi lidi.
In estemporanea, una notizia che nulla ha a che vedere con questo processo verbale: lo sapevate che una prima edizione autografata da Eco con annessi ulteriori scritti autografi (lo ammetto, postille di Weaver che gli faceva la traduzione inglese e telegramma di Eco al suo poliglotta assistente, e ci sono anche le Postille di Eco annesse, anche quelle in prima edizione), ha raggiunto un prezzo di vendita di oltre quattromilacinquecento euro e che, ex equo, però, una semplice prima edizione ma marchiata SIAE 0062153 “solo” gli oltre duemila? Questo, naturalmente, negli Stati Uniti e per i fuori di testa, chi ha un po’ più di equilibrio configura il prezzo sui trecento e rotti. Da noi, qui in Italia, che per certe cose siamo veramente più equi, soprattutto per le cose nostrane, una sua prima edizione del Nome della Rosa la compriamo per un massimo di quaranta euro. Ma ragazzi: esportiamo, esportiamo! E ora continuo.
Si richiedono vivamente consigli di lettura circa scrittori che siano riusciti a rappresentare un computer all’interno di una storia, con valenze simboliche, e non un mero assemblaggio di stressate locuzioni informatiche.
Signori, l’altra notte, tanto per spiegare, ho fatto un incubo, ma che poteva anche essere un sogno. Nel mio caso, per mie storie personali, era un incubo.
Ero davanti allo schermo del computer e, all’improvviso, spuntava una di quelle finestre pubblicitarie assassine che, ultimamente, imperversano sempre di più. Addirittura, nelle due ultime settimane mi è capitato che mi si aprissero finestre – io le chiamo “a tutta banda” (nel senso proprio di banda, banda Bassotti) -, nascondendomi addirittura la barra delle applicazioni, con il risultato che, non potendola più chiudere in nessun modo, ho dovuto spegnere il computer per ripristinarne l’uso. Neanche Esc e assistenti funzionavano. Se mi capita ancora, protesto al portale che ospita questa gentaglia o lo elimino dai miei preferiti.
Ma stavo raccontando il sogno e dicevo di questa finestra assassina: d’un tratto mi spunta addosso il faccione di un cinese, di quelli con la faccia grassa, da dirigente, stile Mao, ben pasciuto, che mi sbraita contro qualcosa. Faccio per chiudere tutto e mi capita di non riuscirci. Ci ritento. Il faccione continua a urlare. Faccio quello che mi era capitato di fare nella cosiddetta realtà circadiana e, cioè, spengo il computer e poi – forse c’è qualcuno vicino a me – lo riaccendo un po’ agitata, più che altro contrariata. Il sistema rientra in funzione e quel faccione non è sparito, è ancora lì urlante; mi copre tutto lo schermo rendendo il computer inservibile. Mi sveglio, imperlata. Con ancora addosso quella brutta visione.
La mia domanda è: ma il professor Emilio, alla mia età, li poteva fare questi sogni? Non mi risulta.
Questo vuol dire che bisogna realizzare soluzioni altamente creative dal punto di vista letterario, per inglobare le innovazioni tecnologiche escogitando “tecniche di resurrezione” che vadano a spiegare il nuovo inconscio collettivo, quello attuale. Scusate la spudoratezza con cui l’ho detto, ma non riuscivo a trovare un insieme di termini migliori di quelli usati da Jung per dare un nome al dinamico sommerso umano.
Per esempio, Buzzati, il suo computer dovrebbe l’avrebbe messo nel suo deserto? perché di metterlo come l’han messo finora i signori che ho incontrato in libreria ieri, no, non funziona. Mi sa che non se lo sono ancora integrato; come direbbe Luciano, non se lo sono ancora mangiato. Fagocitato, sputato in una nuova forma, dico io. E dove, per inciso, il computer è solo simbolo, e un esempio di questa bufera tecnologica che ci sta intorno. Non ancora umanamente, completamente filtrata.
Si richiedono, cioè, e vivamente, consigli di lettura circa scrittori che abbiano creato parole, insiemi di parole, romanzi, con soluzioni interiorizzate.
Quanto ai finali aperti, bisogna saperli fare e, per saperli fare, cioè per dare tutto il ventaglio delle possibilità al lettore, prima di tutto, appunto, lo scrittore deve partire con la domanda giusta. A domanda giusta, risposta esatta o, perlomeno, risposta possibile.
Viceversa, continuo a leggere la Fondazione di Asimov che di soluzioni ne ha date tante, fino alla nausea, sul mondo contemporaneo. Ma non è italiano.
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Fine del comizio di economia letteraria italiana contemporanea, in cui, fra le altre cose, si evidenziano in modo sottile, ma tangibile, spunti per una nuova politica editoriale (e di distribuzione, anche e soprattutto, perché un povere utente lettore come me, se non è un addetto ai lavori, non sa dove andare a pescare; la quale, dovrebbe essere più “equa e solidale” per le maggiori parti in causa, lo scrittore e il lettore, e non uso a caso questi due aggettivi che non sanno solo di politica editoriale, ma anche economica); una politica editoriale e distributiva, dico, volta alla riconquista di un patrimonio letterario incisivo e nostrano; e infine: comizio che, ancora, vuole essere una personale risposta alle domande iniziali di Massimo Maugeri (tanto per restare in tema).
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Aggiungo e postillo: fine del mio teatrino dell’assurdo che, per assurdo, si sostituisce al vero.
Come il manifesto, o il presupposto-presupponente manifesto di Shields che, per assurdo, coglie la debolezza del presente e si sostituisce alla realtà, spacciandola per trauma da fame quando, invece, è stomaco già pieno, e di cibo altrui. Il suo. Di stomaco, intendo.
Dimenticavo: si sostituisce alla realtà, invece di interpretarla. D’altronde Shields cavalca l’onda (non la doma), e a me non interessano i suoi motivi, belli o brutti che siano. Soprattutto lampanti. Posso solo evitare di comprare il suo libro.
Credo che, sul banco dei rigattieri, tra qualche tempo, il suo libro sarà alla stregua di quelli di Susanna Tamaro, e consimili; sempre esposti, come il prezzemolo, direttamente dal produttore all’ultimo anello prima del macero, perché il consumatore non si è nemmeno dato la pena di scartarlo. E sempre esposti, tra l’altro, perché nessuno li compera; ma questo non vuol dir niente. Favore del pubblico e dell’editore non fanno l’opera d’arte: Morselli ha dovuto suicidarsi per essere riconosciuto. Insomma, merce a impatto zero il nuovo manifesto letterario statunitense, tanto per riprendere il discorso di design d’interni fatto qualche giorno fa; e tempi lontani quelli di Huxley e Miller, per dire i primi che mi vengono in mente. Ma non sarà che il nuovo mondo, sia un po’ invecchiato?
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Oppure, in modo più poetico, credo che il libro di Shields sia: “Come quegli amori che scoppiano all’improvvido e, come sono nati, svaniscono: meteore contro l’atmosfera. Briciole.”
Niente di fatto, insomma
(tratto da: autocitazione estrapolata da contesto narrativo mai reso pubblico).
Buon Halloween:-)
Ps.: la mia richiesta di consigli non è retorica. Mi appello alla bontà di chi sa e istruisce.
Mi scuso poi di avere infierito con la lunghezza del post, ma avevo bisogno di farmi una sintesi personale.
Inoltre continuo a pensare che il blog di Massimo Maugeri non sia un miracolo, ma una piattaforma di prova per tastare gli effetti di apparecchiature allucinogene di ultima generazione, attraverso la rete. E individuarne, di contro, le possibilità di manovra sull’utente. Qualcuno la pensa come me? Se sì, urge un antidoto. Secondo me, e l’avevo capito fin dall’inizio, molti mesi fa, il segreto sta nell’evitare di fare il primo post. Diversamente sei perduto. 😉
Scherzo Massimo, grazie per la pazienza. Coraggio che, finita la buriana, il cielo si fa più azzurro. Che dovrebbe essere il suo colore naturale.
Ops!, nella foga (nel fervore, direbbe Monica, che è un termine che esprime assai di più), mi sono dimenticata di leggere l’articolo di Massimo Onofri! Giuro…………… e anche i posts dell’ultima ora……. ci si risente………………….
Gli aforismi. L’altro ieri ne ho sentito citare uno in una commediola americana. Nientemeno che di Schiller. Più che un aforisma, un invito : “Resta sempre fedele ai sogni della tua giovinezza”. Lì per lì mi sono commosso anche perché mi ero appena fatto una canna, ma certo per me quella frasetta significava tanto. E avendola detta Schiller, non potevo non pensare ai sogni dei Romantici che tra tante rivoluzioni sociali e di costume erano passati in gioventù (finite bene o male non importa, è tutta vita). Poi però il giorno dopo ho letto le franche parole di Berlusconi: “Alla mia età non si cambia stile di vita” e allora mi è venuto in mente che la stessa frase può significare cose diverse: ad esempio che è triste per un anziano restare ostinatamente legato ai sogni della giovinezza, è una specie di rincoglionimento senile (sia detto senza offesa, è una nota sindrome). La cosa è anche più triste se i sogni di cui quel tipo si è nutrito nella sua giovinezza , risalgono all’epoca del boom: edilizia sfrenata, soldi guadagnati non si sa come, “figa” a portata di mano, nutrita di nostalgie per i casini in senso proprio ormai purtroppo chiusi, e soldi e case a dismisura, e potere da arraffare con tutti i mezzi, spregiudicatezza assoluta nel coltivare l’Ego e le proprie manie di grandezza. Di quei sogni, anche se li avessimo avuti da giovani, sarebbe maturo sbarazzarsi, tanto più da anziani quando ormai per vivere è sufficiente assai poco, quanto basta per poter mantenere un minimo di dignità e acquisire con la riflessione sulle tante esperienze vissute, un minimo di capacità autocritica, merci che non si acquistano al mercato. A proposito, oggi in treno ho letto che Ruby ha già cominciato a scrivere un libro autobiografico. Ci mancava davvero.
Scrivevo contemporaneamente ad Antonella. Per cui l’ho letta dopo. Di recente mi è piaciuto molto il romanzo di Laura Pausiani “Milano è una selva oscura” biografia di un barbone milanese nell’anno (stagione per stagione) che precedette Piazza Fontana. Un libro scritto con grande amore e dedizione, giunto anche tra i finalisti di qualche prestigioso premio, ma di cui (anche se edito da Einaudi) non ho letto una sola recensione, e del quale non ho più trovato copia in libreria quando mi è capitato (un paio di mesi dopo) di pensare di comprarne copia per regalarla a un amico. “E’ esaurito” mi è stato detto. “Se vuole glielo ordiniamo ce l’ha tra quindici giorni”. ma perché se on-line posso ordinarlo e averlo tra tre? Chiudetele ‘ste cazzo di mega-librerie se non avete neanche la decenza di riordinare un romanzo esaurito!
Ops! L’autrice di “Milano è una selva oscura” è Laura Pariani. Perchè ho scritto Pausiani? Il mio immaginario è rimasto infettato da Laura Pausini? Ripulirsi bisogna. Qualcuno può inventare una doccia per la mente, please?
Antonella, un grande romanzo italiano? Secondo me è appena uscito http://www.ibs.it/code/9788845266225/eco-umberto/cimitero-praga.html
@gli aforismi
Scusate, ma una volta non c’era la poesia, per esprimere le verità lampanti? la percezione dell’istante? l’illuminazione?
Scusate se mi intrometto, ma la storia degli aforismi è piuttosto antica.
Non so se può interessare, comunque…
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La più antica raccolta di aforismi è quella, dall’omonimo titolo, attribuita al noto medico greco Ippocrate di Cos (460-377 a.e.v.), che ebbe grande notorietà per diversi secoli. Gli aforismi di Ippocrate, a parte la concisione, hanno però ben poco a che vedere con la concezione odierna del termine. In realtà si tratta di semplici precetti di natura medica, frutto dell’esperienza e della conoscenza del loro autore in tale campo. Ecco alcuni esempi:
“La vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione è fugace, l’esperienza è fallace, il giudizio è difficile. Bisogna che non solo il medico sia pronto a fare da sé le cose che debbono essere fatte, ma anche il malato, gli astanti, le cose esterne”.
“Per le malattie estreme i trattamenti estremi sono i più efficaci”.
“Quando due dolori si verificano insieme, ma non nello stesso posto, il più violento oscura l’altro”.
Il primo testo aforistico nel senso moderno del termine, può essere considerato, invece, i Ricordi (166/179 ca., noto anche col titolo di Pensieri o Colloqui con se stesso) di Marco Aurelio.
In quest’opera, che riscontrò notevole successo a partire dalla prima edizione a stampa avvenuta nel 1559, l’imperatore e filosofo romano trascrisse le sue riflessioni ed osservazioni su svariati argomenti per lo più di natura etica: la condotta dell’uomo con sé stesso e gli altri, il suo atteggiamento nei confronti della vita e della morte, del destino e della sofferenza, ecc. Questi alcuni esempi:
“Spesso compie un’ingiustizia non solo chi fa, ma anche chi non fa qualche cosa”.
“Non discutere più di come debba essere l’uomo per bene, ma siilo”.
“A leggere e a scrivere non sarai mai maestro se non sei stato prima allievo. E tanto meno a vivere”.
Nel corso dei secoli successivi, la scrittura aforistica andò lentamente diffondendosi, anche se il termine “aforismi” continuò ad essere usato per molto tempo (almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento) esclusivamente in ambito tecnico-scientifico. Si vedano a tal proposito gli Aforismi politici (1659) del politologo inglese James Harrington; gli Aforismi dell’arte bellica (1670) del condottiero italiano Raimondo Montecuccoli; gli Aphorismi de cognoscendis et curandis morbis (1709) del medico olandese Hermannus Boerhaave.
errata corrige:
“Per esempio, Buzzati, il suo computer dovrebbe l’avrebbe messo nel suo deserto?” sta per “Per esempio, Buzzati, il suo computer dove l’avrebbe messo nel suo deserto?”
@ Lorenzo Gaggia e ai fans di aforismi.
Aggiungo: le mitiche “Note Azzurre” di Carlo Dossi /
“Scrittori italiani di aforismi”, Einaudi 1994 (I Meridiani) /
“Il libro dei mille savi”, di Palazzi e Spaventa Filippi
@ Gianfranco Manfredi e Luca
Sto prendendo appunti
anche se per Eco mi costa, il farlo…. dopo il Nome della Rosa, ho cominciato a usare i suoi libri come mattoni di sostegno, anche nel senso più ristretto di supporto architettonico. Vedrò con questo. Qui mi riferivo, per esempio, nei giorni scorsi, a quando dicevo che, in quarta di copertina, per uno scrittore basterebbero luogo e data di nascita, opere pubblicate, tralasciando docenze, masters e bachelor. Credo che la letteratura non si scriva con una laurea o una docenza. Lo dico perchè, se dovessi considerare l’opera d’arte in base alla documentazione bibliografica fatta da uno scrittore, lui sarebbe certamente un gigante della letteratura; invece credo che il meglio di sé l’abbia dato nella saggistica. Per chi riesce a leggerla.
Lo avete mai visto a una sua prima? Gli manca l’abito lungo di Ginger Roger. Io, che sono schiva, e donna per di più, non riuscirei a tenergli dietro. E l’abito lungo mi è sempre stato bene.
Giusto. E aggiungo all’aggiunta: “Configurazioni dell’aforisma. Ricerca sulla scrittura aforistica” diretta da C. Rosso, vol. 2, a cura di Gino Ruozzi, Bologna, Clueb, 2000
Qualche libro italiano degli ultimi decenni che amo?
I primii che mi vengono in mente:
La taverna del doge Loredan (Alberto Ongaro)
Tu sanguinosa infanzia (Michele Mari)
Magia rossa (Gianfranco Manfredi)
Horcynus Orca (Stefano D’Arrigo)
un qualsiasi romanzo della serie Sarti Antonio (Loriano Machiavelli)
Città oscura (Alan Altieri)
Cento poesie d’amore per lady Hawke (Michele Mari)
La strategie del caso (Alberto Ongaro)
Canti del caos (Antonio Moresco)
Ho freddo (Gianfranco Manfredi)
Patria (Enrico Deaglio)
Il ritorno del Principe (Roberto Scarpinato)
Un qualsiasi antologico di Altan
Un qualsiasi libro a fumetti di Gipi
Il canto dell’orco (Furio Bordon)
A perdifiato (Mauro Covacich)
Non fare il furbo, Michele Crismani (Luciano Comida….sarei ipocrita se non mi piacessero i miei libri)
@ Luciano
Grazie 🙂
Agggiungo, per tuo esclusivo consumo, JUAN SOLO l’integrale di di Alejandro Jodorowsky e Georges Bess, oltre che Il Lama Bianco, sempre loro.
Gentile Antonella,
no, non facevo quei sogni, ma ogni epoca ha i suoi mostri e le sue macchine.
Sognavo il mio compagno di classe Orengo che saliva su un convoglio spintonato da un vetturino, con la madre che gli urlava dietro e tra le mani un fagotto di pane e olive.Destinazione: campo di Dachau, Baviera.
Sognavo i libri che lasciò a suo padre (l’unico ad essersi salvato, non essendo ebreo), e, tra le pagine, volute di fumo che avevano la forma della sua giacca.Strana giacca quella di Orengo. A maglie irregolari, con tasche deformate dalle penne e dai fogli.
Scriveva poesie.
E poi sognavo il caffè vero, il pane bianco, la farina, lo zucchero. Sognavo di studiare e di lavarmi con una saponetta alla rosa, senza scaglie da bucato. E di radermi con schiuma e borotalco.
Sognavo anche di sposarmi, ma sentivo che dovevo farlo in tempo di pace, anche se la pace, poi, chi può dire se sia davvero quest’assenza di guerra artefatta e irreale, e quest’abbondanza, queste famiglie angariate dal di dentro che non sanno dove guardare, questo eccesso di sapori e cose.
Sognavo anche di essere felice.
E questo, in un modo misterioso e ultimo, mi è stato dato.
Una serata di pace, allora.
Dal vostro affezionato
Professor Emilio
Uso una citazione (di Gianfranco Manfredi):
“Bastano tre ricordi del professor Emilio, a mandare al macero volumi e volumi di autobiografie senza biografia, narcisismo en travesti, copia-incolla-di-esperienze-riflessioni-altrui con le quali ci si ammanta come Lady GaGa”
Sì, lo so, professor Emilio.
La vita mi ha fatto un dono: per uno strano caso – ma alle coincidenze e ai segni io do una straordinaria importanza – ha fatto in modo che quella che dovrebbe essere la mia nonna materna, è invece un’affinità elettiva. Ha novantasei anni già passati da un pezzo e, quando mi vede, le brillano gli occhi, vivi di una luce chiara che la circonda tutta. Non c’è un istante che non sia nuovo, con lei, irripetibile. Attraverso di lei ho rivissuto tutto il Novecento e la prima guerra, anche, quest’ultima con le apprensioni di una bambina perché finiva quando incominciavano i suoi ricordi. E il mondo era sfatto. Ma sono ricordi precisi, lucidi, mi permetto di dire: guariti. Attraverso il suo insegnamento che mai si è fatto invasivo, né pressante, e soprattutto attraverso la sua volontà di trasmettermi una lucidità di giudizio che stia al di sopra delle cose, tanto ha fatto che, per motivi che non sto a dire, mi ha salvato la vita.
Al bellissimo “ottalogo” di Gianfranco Manfredi – se mi permette, professor Emilio – aggiungerei: 9) di essere impazziti almeno una volta, almeno un pochino; 10) di aver visto in faccia la morte almeno una volta; anche qui, almeno un pochino.
Dell’altra nonna, invece, gli epigoni sono stati un po’ più strazianti, perché la loro famiglia era antifascista durante il fascismo.
Per questo motivo, ho cominciato a ridere in faccia fin da ragazzina, a chi faceva l’antifascista dopo la guerra, e non sono mai stata antifascista. E per questo ero piccata sui banchi di scuola perché, dall’altra parte, dalla nonna materna, imparavo il Giudizio al disopra delle parti. E invece, sui banchi di scuola, vedevo ripetersi un’altra volta lo stesso dramma. Dunque: lei balilla, e noi, piccoli antifascisti.
Quanto ai nostri figli, la loro guerra, qui in Europa, è diversa. Io sono mamma. Lo vedo. E mi rendo conto che non è nemmeno più una guerra circoscritta all’Europa, ma un qualcosa di molto più macchinoso, più sotterraneo. Con un nemico senza volto, difficile da individuare. E non mi riferisco ad Al Qa’ida. Ma di questo ci si potrebbe scrivere un romanzo.
Piuttosto, mi dica: ma gli sfinciuni, li ha fatti proprio lei?
Le ritorno una buona serata e grazie per le belle parole. Qui da noi, al nord, piove e tira vento all’impazzata, stanotte.
@ prof. Emilio.
Ogni periodo della storia ha una forma, custodita sia dalla memoria individuale che dalla memoria collettiva. “La coscienza umana tende sempre ad un linguaggio, anzi ad uno stile – scrisse Henri Focìllon – prendere coscienza è prendere forma”. Se le è possibile, ci scriva di forme attuali. Voglio ascoltarne la loro realtà. Grazie.
Ma sì Antonella, in effetti di “grandi romanzi” italiani negli ultimi decenni non ho trovati neanche io. Eco dopo il Nome della rosa non si è più ripetuto agli stessi livelli (vediamo questo di adesso, lo leggerò con calma), Calvino e la Ortese (che grandissimo romanzo fu per me il Cardillo addolorato!) sono scomparsi da tempo. Qualche buon libro ci sarà pure stato (Luciano ne cita alcuni, io segnalerei anche qualcosa di Tabucchi, o Nico Orengo o Bufalino, pure scomparsi – ma il primo solo di recente-), e molti non mi è capitato di leggerli, ma in effetti nessun “grande romanzo”, di quei libri che restano vivi e cui ho già accennato. Ma non vedo perchè non si possa avere pazienza, restando in attesa. Comunque il divertimento è anche cercarli, non quello di rinunciarvi a priori.
Ho visto stasera da Fazio l’intervista con Eco. Avevo scritto qui che è miope dire che Eco è troppo preoccupato di fare sfoggio di erudizione. Mi correggo. Nei suoi romanzi non sempre è così. Nelle sue interviste è infallibilmente così. La storia del romanzo come la racconta lui pare un puro pretesto per intrecciare note erudite. Però magari questo nuovo romanzo è davvero bello, non un’altra mattonata come Baudolino. Leggeremo, di sicuro. Tanto un mattone in più, da qualche parte lo si può sempre sistemare. E’ anche più certo però, che è difficile saper rispondere alle interviste. Non per le domande che sono sempre quelle, ma per le opzioni di risposta. Butto là al volo un decalogo delle più diffuse (sicuro che Antonella ne scoverà molte altre): 1. Dichiarare tutto e il contrario di tutto a seconda delle circostanze, tanto nessuno si accorgerà delle contraddizioni; 2. Rispondere sempre le stesse cose e con le stesse esatte parole, quelle che hanno funzionato una volta e si è pure stufi di ripetere, però nessuno se ne ricorda comunque; 3. Divagare perché non si ha voglia di rispondere a quella domanda lì, ma si è troppo educati per dire che era una stronzata; 4. Divagare perché non si è capita la domanda; 5. Citare, per cavarsela brillantemente, aforismi di altri autori purché morti; 6. Polemizzare con altri autori viventi e poi dire di “essere stati tirati per i capelli”; 7. Non polemizzare per non farsi dei nemici; 8. Non parlare di altri, per poter parlare unicamente di se stessi; 9. Raccontare il proprio romanzo in modo tale da non farlo capire; 10. Raccontarlo così chiaramente che passa la voglia di leggerlo a chiunque.
Ma dite… sono curioso di saperlo… voi avete mai comprato un romanzo perché incuriositi da un’intervista? A me non pare. Posso essere stato attratto da una recensione e a volta magari perché di quel romanzo se ne parlava male, però dalle interviste mai. Mi interessano solo le interviste di autori che ho già letto. Ma allora, mi chiedo, se anche gli altri ragionano così, a cosa serve rilasciare interviste, se si spera di far leggere il proprio romanzo?
Sì, cara Antonella, lo sfinciuni lo preparo io con farina e levito sciolto in acqua calda lasciato fermentare tre ore. A parte faccio saltare la cipolla con pomodoro, cipolla e alici. Poi stendo la pasta sulla teglia, oliata e vecchia (deve conservare i sapori passati) e inforno. Lo sfinciuni dev’essere caldissimo e deve ballare sulla lingua.
…In fondo la cucina è un po’ quello che fa il signor Shields che attinge a diversi ingredienti e li amalgama, non trova, carissima e gentilissima signora?
***
Cara signora Rossella, è giusto avere fame della realtà di oggi. Ce lo insegna il signor Shields.
E allora le narrerò una realtà attuale dicendole di Maria, down, anni 25, occhi tagliati di traverso, sorriso a denti ballerini, jeans e occhiali da sole – l’intrepida Maria che non rinuncia a vivere nel suo tempo.
E’ figlia di uno dei miei ex allievi più affettuosi. Mi viene a trovare quasi ogni giorno, e Maria è cresciuta anche qui, in parte, a suo agio tra le discussioni letterarie e le traduzioni di Euripide.
Fatto sta. Maria si è diplomata con la tenacia di una sopravvissuta e se n’è venuta un mese fa con l’idea del volontariato.
Tu, proprio tu? Le ha detto suo padre chiedendosi stupito a chi potesse servire un aiuto così fragile, già tanto bisognoso di soccorso.
Io, proprio io, ha risposto Maria a entrambi, elargendoci un’occhiata normalissima, che ci ha fatto sentire impreparati. E anzi, ha aggiunto: chi meglio di me.
In effetti.
E così Maria presta il suo servizio regolarmente in un doposcuola della periferia della città. Insegna ai bambini quel poco che sa, ma in compenso li fa giocare.Sembra un orso in mezzo ai cuccioli, li solletica, li mette in fila, li diverte e li ama. Ieri l’ho disegnata malamente (un vezzo che ho dai tempi del liceo) e l’ho rappresentata come un’aquilone che abbia finalmente sperimentato che il vento spirava dalla sua parte.
Maria ha sovvertito ogni idea di diversità. E’ talmente simile ai bambini che non fa fatica a capirli, a precederli, a stimolarli.
Ecco…se c’è una definizione di realtà che mi permetterei di offrire vedendo Maria, è che il reale si scandaglia nella differenza senza colmarla, lasciando anzi che urli al cielo la sua originalità e il suo essere necessaria. Ed è anche che quella diversità ci somiglia più di quanto siamo disposti ad ammettere, perchè ci mette a contatto con la parte più misteriosa di noi stessi.
***
E adesso una felice giornata, amici cari.
Parto per qualche tempo e vado a trovare il mio amico Elio, grecista, ottuagenario, mezzo cieco e ostinato più di Maria. Formiamo una coppia inimitabile. Più sbalestrati di un colabrodo, con due occhi buoni se ci mettiamo a leggere insieme (uno per uno) e una memoria che fa affidamento solo sull’altro. Gli porto in dono il libro che ho appreso ad amare qui, di Ernesto Sabato, Sopra eroi e tombe. Gli piacerà.
Mi viene a prendere alla stazione domattina, ma io gli ho detto, Elio, non per sfiducia, amico mio, ma senti.
E’ meglio se viene tuo figlio.
***
Saluti cari, allora.
Dal vostro affezionato
Professor Emilio
@ Manfredi
prova a rilasciare un’intervista nella trasmissione di Fazio e ti assicuro che qualunque cosa tu dica entrerai in classifica dei più venduti.
Spettacolare, prof Emilio.
@ Manfredi
Tu dici:
“Ops! L’autrice di “Milano è una selva oscura” è Laura Pariani. Perchè ho scritto Pausiani? Il mio immaginario è rimasto infettato da Laura Pausini? Ripulirsi bisogna. Qualcuno può inventare una doccia per la mente, please?”
A questo proposito, consiglio:
1) evitare l’uso di cannabis quando si scrive (Allen Ginsberg ha già dimostrato tutto. Personalmente preferisco la ricerca di Huxley in campo ipnotico).
2) evitare di ascoltare mass media senza veramente ascoltare, piuttosto spegnere o togliere l’audio, se proprio deve andare uno schermo. Se siamo in un ambiente costrittivo e non possiamo farne a meno, applicare l’intera attenzione sul movimento di disturbo e analizzarlo privi di emotività, come si guarda un fiore da non cogliere.
3) scegliere il sistema di meditazione che ci è più consone, e applicarlo. Un ottimo sistema è dare l’intera attenzione al sistema percettivo contrario a quello normalmente e per la maggior parte utilizzato. Cioè: se sono una persona prevalentemente visiva, cambierò il mio sistema di percezione in auditivo o cinestesico. Viceversa, se sono un auditivo, mi darò al visivo o al cinestesico. Se sono un cinestesico, personalmente consiglio i restanti entrambi, in egual misura, ma è soggettivo.
4) una buona doccia non fa mai male. Ma anche una passeggiata.
5) Ridere.
Quanto all’analisi psicologica del tuo lapsus scripturae, non sono una psicologa e quindi non do verdetti, ma tutto verte intorno alle seguenti parole chiave: pausa – paura – oscura – ani – ant a cui dai una soluzione nella pulizia. Aggiungo che Laura potrebbe appartenere alla tua esperienza e quindi c’è anche questa variabile.
Per caso, hai bisogno di dare una svolta in qualche settore della tua vita?
Sinceramente Antonella, per quanto io ritenga che la Storia, anche quella personale, proceda a spirale, a furia di svolte è un periodo che cerco di andare diritto. I lapsus sui nomi sono temo consueti perché di nomi siamo letteralmente bombardati. Invidio i moltissimi lettori (la maggior parte, credo) che si ricordano i romanzi o i personaggi dei romanzi (e dei fumetti) , ma ignorano i nomi dei loro autori. Come ho detto, il massimo per un autore è diventare anonimo. Una delle soddisfazioni della mia vita è stata quella rappresentata da una mia canzone che avevo scritto in auto su un ginocchio durante un viaggio. Il titolo di quella canzone “Ma chi ha detto che non c’é”, è stato scritto sui muri, sugli striscioni, da persone di generazioni diverse e successive che ne ignoravano assolutamente l’autore. Era diventata loro. Una volta mi è persino capitato di udirne in un centro sociale un’esecuzione punk-metal, tutta storpiata, e un ragazzo si è fatto sotto il palco, mi è avvicinato senza neanche guardarmi, forse ha solo notato i capelli bianchi e mi ha detto con gli occhi che luccicavano: ” Ma l’hai mai sentita questa canzone?” Così no, avrei voluto rispondergli, e invece ho fatto un mezzo cenno affermativo col capo e sono stato zitto. Era così bello per me, che quel ragazzo non sapesse che l’autore ero stato io. Oggi siamo bombardati da nomi di scrittori/personaggio e con i personaggi succede così da sempre nello star system: quando facevo concerti con Ricky Gianco, alcuni pensavano che fossimo Rick e Gian, molti amici comici prima di Drive In poi di Zelig mi hanno testimoniato che alle serate le persone gli chiedono di interpretare personaggi di altri pensando che siano i loro, semplicemente perché confondono non solo i nomi , ma anche le persone. Ho visto personalmente, persone per strada abbordare Zuzzurro e Gaspare scambiando Gaspare per Vecchioni. Il primo autografo che mi è stato chiesto di firmare è stato da parte di uno che mi ha salutato come Maurizio, al che ho autografato Maurizio, chissà chi era ‘sto Maurizio… C’è qualcosa di sano in questa confusione di nomi, in fondo. Ci ricorda che con il personalismo si finisce che lo vogliamo o no nella società dello spettacolo che è “la notte in cui tutte le vacche sono nere”. Riguardo alla Marijuana ho sempre partecipato fin da ragazzo alle battaglie per la legalizzazione e sono arci-contento di come stanno andando le cose in California. E’ il proibizionismo che fa male. La Marijuana, almeno quella, fa benissimo, quanto un bicchiere di vino a patto di non diventare alcolistici, ovviamente, con un uso sobrio, piacevole es e possibile non depressivo. So che, al di là di quanto asseriscono alcuni studi medici e cioè che per una faccenda di sinapsi mette in comunicazione aree diverse del cervello con indubbio giovamento, so dicevo, che il suo effetto sulla scrittura non esiste, se sei un vero scrittore. Io, per sperimentare, ho provato a scrivere in tutte le condizioni, e cioè a tutti gli orari del giorno e della notte, generalmente da sobrio, ma in certi periodi anche continuando a sorseggiare dei cuba libre, o dopo aver fumato, (mai droghe pesanti , manco la cocaina, per il semplice fatto che non mi piacciono), a digiuno e saltando i pasti oppure dopo mangiate luculliane. Ho sempre riletto a mente fredda. Ho trovato in tute le circostanze che la mia scrittura non ne veniva affatto influenzata. Se capita (e capita) di scrivere cose brutte o che non stanno in piedi, lo si fa anche da sobri. Poi posso dire di saperne qualcosa delle persone che in California coltivano la Maria… persone totalmente diverse da come le immagina la propaganda, un po’ hippy certo, nel senso migliore del termine, ma lontane mille miglia dalla figura losca dello spacciatore. Quando reclutano per la vendemmia, non usano mano d’opera a basso costo, né allontanano chi lavora poco perchè fuma troppo, semplicemente pagano a numero di cime, e in questo modo pur non scacciando nessuno riescono a ricondurre il lavoro al lavoro. Un giovane precario in California, partecipando a un mese di vendemmia o pulizia, può mettersi in tasca cinquemila dollari e scusa se è poco. Il costo all’utente è bassissimo: non la si paga a peso d’oro. elle botteghe trovvi se vuoi anche consulenza medica che ti orienta sulla qualità di Maria giusta per te, e non ti becchi quello che capita, impari a riconoscerla come le diverse qualità di vino. Negli ultimi due o tre anni, grazie alla nuova legislazione più permissiva, il fatturato della Maria in California ha superato quello dei vini della Napa Valley, non so se mi spiego. Non vedi più sbullonati per strada, a San Francisco: soltanto da alcol , non da Maria, perché si è imparato a farne un uso consapevole e sociale che ha il merito di mantenere le persone più aperte e più miti. San Francisco non è più la città dell’Ispettore Callaghan, se esci di casa puoi tranquillamente lasciare la porta aperta , i furti in appartamento sono cosa quasi sconosciuta. A uno come me, ciò dà la sensazione, che una parte di ciò in cui si è generazionalmente creduto, è diventata realtà e non si potrà più tornare indietro: è diritto sociale acquisito. E’ anche mia convinzione che ciò arriverà presto anche in Italia, se non altro per il fatto che molte piantagioni californiane sono gestite da italiani , esattamente come i vigneti della Napa Valley. Noi siamo bravissimi con la terra e con le piante. E c’è molto amore nello stare più vicini alla terra, amore non mieloso, perché bisogna saper lavorare bene e il lavoro è anche (giustamente) faticoso. Quando di ritrova questo equilibrio, il profitto fine a se stesso, il guadagnare oltre misura, i traffici più o meno criminali, non ti passano manco per la testa, per il semplice fatto che stai bene. E’ nei paesi moralisti e che reprimono (ma solo in superficie, perché in realtà aiutano la criminalità) che succedono cose tipo Ciudad Juarez. Lo so: da noi neppure Vendola può permettersi di lanciare come programma politico la libera coltura della Maria come parte di un programma di risanamento economico e insieme morale, ma il mondo cambia comunque, ed è la forza delle cose a cambiarlo. Cerchiamo piuttosto di scorgere i cambiamenti positivi, visto la quantità di cambiamenti allucinanti cui la Storia ci costringe ad adattarci. In genere, credo si possa dire che i cambiamenti positivi li facciamo noi , quelli negativi ci vengono imposti.
Un altro piccolo aneddoto su San Francisco. Un giorno sul giornale di quartiere vedo un articolo a cinque colonne su uno stupro. Mia figlia mi dice: l’hanno pubblicato a cinque colonne perché qui gli stupri sono rarissimi, un evento eccezionale. Questo, di sicuro, non è merito soltanto della Maria: a San Francisco di legge molto, è una delle città più intellettuali e colte degli Stati Uniti, la comunità gay ha un’importanza essenziale e sono gay molto diversi dal modello Dolce e Gabbana. Altra cosa importantissima è la cultura diffusa. I quartieri a turno organizzano manifestazioni culturali (musicali, teatrali) gratuite per strada. Il mese scorso è stato il Mese del teatro. Si poteva andare gratis a teatro (ma in ordine andando a ritirare prima in certi posti i biglietti gratuiti) in tutta la città e a qualsiasi rappresentazione. Cosa così in Italia ce le sogniamo. Se qualcuno le fa, diventano una sfilata per assessori. Gli assessori a San Francisco lavorano, non stanno in giro o in TV a farsi vedere o a chiedere voti. E comunque la società si auto-organizza non sta ad aspettare le iniziative dell’assessore. Dopodichè, bisogna riflettere anche che è dalla California (e dagli ex-hippies) che sono nati i PC e la forma comunitaria della condivisione, del web e della rete. Nessun mito agricolo-pastorale-bucolico, dunque: pieno sviluppo di modernità, ma anche attivando i giusti anticorpi sociali della “cultura dal vivo”.
E si passeggia molto a San Francisco. A Los Angeles se ti vedono camminare a piedi ti ferma la polizia, perché sembri uno strano o sospetto. E’ accaduto , in un’altra città non californiana, persino a Bob Dylan di essere arrestato perchè era uscito dall’albergo per farsi una passeggiata sotto una lieve pioggerellina rinfrescante. Quando ha dichiarato di essere Bob Dylan, la poliziotta che lo aveva fermato ha risposto: “Sì, e io sono Madonna” e l’ha portato al comando. A San Francisco le strade e i parchi sono pieni di gente che passeggia e non esiste che un poliziotto ti venga a chiedere “dove stai andando”.
Il che non significa però che ciascuno può fare quello che gli pare. Se ti metti a fare una tag su un manifesto pubblicitario, sbuca la polizia dal nulla e ti portano in galera facendoti pagare una cauzione salatissima. Questo per puro rispetto del diritto degli altri: se uno paga per affiggere un manifesto ha diritto di non vederselo sporcato. e quanto a quelli che vanno fuori… una volta andavo a un ristorante italiano e vedo un’ambulanza più una macchina della polzia che si fermano di fronte al palazzo di fianco. Portano fuori in barella uno che proclama di essere Gesù cristo. Il tutto si esaurtisce in due o tre minuti, senza alcuna violenza, nè strepito. Sulla porta del ristorante il gestore (italiano) ride e mi dice: “Queste cose in Italia non succedono”. Io equivoco e gli faccio: “Forse se distante dell’Italia da troppo tempo, perchè in Italia di gente che sclera ce n’è parecchia”. Lui mi risponde: “No, volevo dire che non esiste che uno sclera e in cinque minuti arrivi un’ambulanza a prenderlo.”
Appunto. Se ci sono delle regole da rispettare, com’è sacrosanto, bisogna anche avere strutture che funzionino per farle funzionare. A Milano mi sono ritrovato con una signora messicana che mi si è fiondata in casa perchè al piano di sotto suo marito ubriaco minacciava col coltello in mano di uccidere la suocera e il bambino in culla. Ho chiamato i carabinieri. Ho dovuto aspettare venti minuti sulle scale, con quello che sclerava, coltello in mano, e tutti gli altri abitanti del condominio serrati nella loro spaventata privacy. Dopodichè i carabinieri sono stati bravissimi. Ma in quei venti minuti d’attesa… cosa sarebbe potuto accadere? E quel matto cosa poteva fare sapendo che sua moglie (che non conoscevo minimamente) si era rifugiata in casa mia?
Avevo promesso che avrei ringraziato uno per uno i partecipanti a questo interessante dibattito.
Ma – abbiate pietà! – dopo oltre 300 commenti si tratterebbe di un lavoro piuttosto improbo.
Vi prego, dunque, di accettare i più sentiti ringraziamenti per la partecipazione (e mi scuso con coloro che, nel corso della discussione, non ho avuto modo di salutare… come faccio in genere).
Sul post avevo scritto che questo libro di Shields, a caldo, mi aveva evocato tra l’altro un vecchio racconto di Roald Dahl, pubblicato la prima volta – se non erro – nel 1953, intitolato “Lo Scrittore automatico” (titolo originale: “The Great Automatic Grammatisator”).
È la storia di un giovane aspirante scrittore che inventa una strana macchina in grado di produrre romanzi in quantità industriale rimescolando e ricomponendo un’accozzaglia di racconti, frasi, testi, attraverso una combinazione artificiale (basta premere leve e pulsanti) di trama, stile, linguaggio e genere.
Questo racconto lo trovate in questa raccolta: http://www.ibs.it/code/9788830426849/dahl-roald/tutti-racconti.html
Enigmatiche e illuminanti, le storie di Dahl sono spesso attraversate da una vena di humour macabro tanto più efficace quanto più ispirata da situazioni del tutto normali, che il gusto raffinato e implacabile dell’autore conduce a esiti imprevedibili e non di rado addirittura cinici (ma di un cinismo sobrio, impeccabile). “I suoi racconti” ha osservato Corrado Augias “sono perfette macchine narrative: la situazione di partenza sembra comune, addirittura banale, ma nel corso della vicenda subentra un piccolo incidente che rovescia in modo sinistro o grottesco i fatti… Dahl ha l’abilità di far diventare la cattiveria una qualità rivelatrice della natura umana.”
Mi sento di consigliarvela: Dahl, a mio avviso, è un autore che merita di essere letto (e conosciuto).
Per il resto, e chiudo per oggi perché ho molto lavoro da sbrigare prima di partire per il Festival della letteratura di Istanbul, da quando ho cominciato a scrivere fumetti (anni 90), oltre che romanzi, ho pubblicato da mille a tremila pagine dell’anno, e tutte di lavori che hanno richiesto grande impegno e studio. Non esattamente cosa da fricchettone. Comunque colgo l’occasione per salutarvi ed esprimervi di nuovo la mia gratitudine personale, sicuro che al mio ritorno troverò da leggere su questo blog altri numerosi e stimolanti post su cui riflettere.
“All’anno”, non “dall’anno”, naturalmente.
Mi pareva che ci fosse qualcos’altro dietro quel breve accenno alle canne. Ora, ti sei spiegato.
Prima quell’accenno era sembrato, all’occhio disattento, l’azione di un garibaldino sfrattato da Garibaldi. Che cosa potevo fare se non provocare?
Scusa, lo so che Machiavelli è un po’ discutibile ma, interpretato con i dovuti modi, dà spunti per buone strategie. Grazie per le notizie di prima mano.
E… buon festival 🙂
Buona Istanbul, Gianfranco.
Grazie di tutto e raccontaci come è andata, al tuo ritorno…
Onestamente credo che il libro in questione non meritasse tutti questi post così dotti, uno sforzo letterario, questo sì AUTENTICO, prodotto dalle speculazioni di persone che amano la lettura e la letteratura. Da parte mia basterebbe fare solo un copia e incolla delle opinioni espresse da Antonella, soprattutto nei primi post. Solo una furba operazione editoriale, brava la casa editrice, in grado di mascherare, ma solo in piccola parte, l’ assenza di idee proprie di chi ha scritto il “libro”. Da parte mia non contribuirò neanche con un centesimo di Euro a questa furbata. Da oggi forse, dovremo riconsiderare Ernesto Bignami, persona realmente dotta, come uno scienzato, letterato, matematico,di grandezza almeno leonardesca, avendo egli riportato e sintetizzato l’ opera omnia di tanti grandi della storia. Non erano idee sue? Non aveva calcolato lui? Che importa, lui ha raccolto le idee, le ha copiate su un libricino, al diavolo gli Archimede e i Dante Alighieri, capaci solo di produrre opere originali, da oggi si cambia, si copiano le idee degli altri, spacciandole per letteratura e magari si fanno anche i soldi…….che tristezza!
Sto leggendo “Il cimitero di Praga”.
Con tutta la stima/gratitudine/ammirazione che ho per Eco, con tutto l’interesse che nutro per alcuni dei temi (il feuilleton, il rapporto tra verità e falso, il pastiche, la costruzione a freddo di alcuni complotti, le criminali demenze dell’antisemitismo),
dopo un centinaio di pagine,
il mio timore preventivo (e cioè che la struttura narrativa fosse la carta con cui impacchettare l’erudizione) si sta purtroppo rivelando fondato.
Il romanzo è noiosissimo e si trascina a fatica, a fatica, a fatica.
Mi scuso, ma rientro dopo aver subito una disconessione…a tutti i livelli! La relatività, è questo il problema, niente è assoluto, io rubo una tua idea? La sto facendo rivivere! Copio quello che hai scritto estrapolando una frase dal contesto? Le do nuova vita e animo la discussione!Ma per favore, abbiamo o no il coraggio di dire che almeno chi fa questo genere di operazione dovrebbe dire onestamente a chi appartengono le idee originali, per dovere morale, oltre che di legge. Sareste contenti se dopo aver inviato una vostra opera ad una casa editrice, questa non pubblicasse la vostra originale, ma ne pubblicasse una identica a nome di un altro e magari dopo qualcuno dicesse che è un modo per far vivere le vostre idee? Io no….ciao
Ummmm… Ennore, non credo sia così semplice. Alla fine del libro, checché ne dica Shields i nomi degli autori delle citazioni sono stati riportati.
Questa sì, che è stata una furbata! Dichiarare un intento e fare poi il suo opposto…
Ulteriore riflessione.
Come dicevo, non è così semplice.
Se bastasse fare copia e incolla per diventare ricchi e famosi, lo saremmo tutti.
Invece questo Shields è riuscito a coinvolgere Premi Nobel per la Letteratura, scrittori americani noti. Ha creato un caso internazionale (non da neoavanguardia condominiale, come da noi), coinvolgendo la stampa americana e quella estera.
No, signori. Shields non è un furbo. Shields è un genio!
Mentre scrivevo qualcuno mi ha preceduto circa un’anteprima che volevo dare, e con mia grande soddisfazione.
Per quanto posso aver capito, mi sembra che ci sia abbastanza materiale, e risposte, al fine di dare un significato senz’altro plausibile alle domande iniziali – io dico, necessarie – di Massimo Maugeri.
Torno al mio eremo dal quale ero uscita perché sono convinta che, ogni tanto, sia doveroso rientrare nei parametri sociali. Ma ci ritorno perché – giustamente come diceva Luciano – un minuto di silenzio è quanto mai necessario per ascoltare, e dopo rispondere. A me occorrono giorni, settimane, mesi. A volte.
Lascio però un’eredità di contributo nella figura di un mio carissimo amico di nome Ennore – che spero vorrà intervenire in merito alla questione del romanzo, e magari firmandosi per esteso-. L’ho chiamato oggi, l’avrei fatto prima; ma mi sembrava opportunista, come gli ho detto poco fa, farlo solo per questa questione, dal momento che ultimamente sono stata così presa dalle incombenze quotidiane, da averlo trascurato un po’. Eppure lui, quasi rispondendo a un mio richiamo silenzioso, oggi mi ha scritto una bellissima e-mail, letta poco fa tornando a casa; e ci ho visto un segno su quel mio desiderio iniziale di sua compagnia all’interno di questo blog.
Ora sta leggendo, mi ha appena mandato un sms per dirmelo. E per me, mi sta facendo un regalo.
E’ una persona gentile e misurata che, al momento di prendere decisioni, sa essere molto coraggioso.
Spero che questa bellissima settimana di bellissime persone e di bellissimi interventi (a parte i miei, naturalmente), siano fonte di quella gioia che io ho sentito, visitandoli tutti.
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@ Carlo S.
quando dice “Comunque il divertimento è anche cercarli, non quello di rinunciarvi a priori.”, rispondo che non c’è niente di più vero.
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@ professor Emilio
La ringrazio per la ricetta e credo proprio che mi proverò di farla. La prego, nel caso ci sia qualche altro segreto sulla buona riuscita, di comunicarmelo.
Dimenticavo: crede che al suo amico grecista farebbe piacere di fare un giretto qui ogni tanto?
Mi piacerebbe sapere come la pensa.
Le auguro buona continuazione e mille di queste settimane.
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@ Rossella
Rossella è lo spazio tra le note, su uno spartito musicale. Il vuoto che origina la forma e, senza il quale, non esisterebbe la materia. Quella lontana sottile linea che, non divide, ma abbraccia l’orizzonte del mare e il cielo. E sulla quale, quando lo sguardo si posa, il pensiero si schianta.
Leo: sul sillogismo “Shields fa parlare di se, dunque Shiedls non è solo un furbo ma un genio” io ho molti molti molti dubbi. (Aggiungiamoci per sicurezza ancora 1.001 dubbi).
Ennore: completamente d’accordo con te. Rivitalizzare il lavoro artistico altrui facendolo proprio per trasformarlo in un qualcosa di nuovo è un conto (è la circolazione delle suggestioni e delle idee), prenderlo pari pari o dispari dispari è un’altra questione (a casa mia e a casa tua, chiamasi “furto”).
Si chiama “furto” anche a casa di Shields, Luciano.
Ha compiuto un’operazione perfettamente legale, spacciandola per “furto”: Coetzee lo chiama viaggio intellettuale affascinante ed elisarante.
Confesso che a me viene molto da ridere, per via della furbata genialoide di Mr David.
E’ da qualche giorno, forse anche grazie a questo post su Letteratitudine, che diretta mi arriva in mente la risposta su come occuparsi di realtà. Molto più difficile e complicata , invece, rimane la risposta su “essere reali”, che affido ai mistici di GRANDI LIVELLI.
Occuparsi di realtà significa innanzitutto aver fatto l’”esperienza”, aver avuto a che fare con il mondo, non si possono altresì dare risposte di senso se si è rimasti ovattati nel proprio ambiente, lontani dai lupi, con la testa appoggiata su morbidi guanciali di conti personali che conteggiano otto milioni di euro. Non sono otto milioni di italiani in povertà. Non è la paura di Monica e del suo posto di lavoro in un azienda che dichiara fallimento.
La forma della nostra attuale società la conosco abbastanza bene, oggi non esistono più le immagini neorealiste del dopoguerra dove poter rinascere dalle macerie, né il Vietnam con le povertà di conquista americana, esiste ancora un terzo mondo che non è riuscito a stare al passo con le tecnologie occidentali più avanzate, che è finito con il diventare un problema irrisolvibile di cui l’Occidente oggi, e soltanto oggi, è chiamato a responsabilizzarsi, viste le pressanti immigrazioni.
La forma dell’attuale società, dicevo, la conosco bene poiché vivo a contatto con le nuove generazioni, difficile riconoscerli da dietro, solo sederi fasciati dai jeans, i capelli non sono più un indicazione, età e sesso indecifrabile, giovani, meno giovani, uomo, donna, chissà, poi cerco di guardarli di fronte e mi accorgo di persone alla costante ricerca di una vera identità, sessuale, professionale, relazionale. Avanzano numerosi. Vittime, senza saperlo, di utopisti stanchi della storia che, ignorando cause effetti della loro logica artificiosa applicata attraverso i media ed il potere, dopo aver fatto violenza alla realtà, spariscono nel vuoto di tempi e spazi immaginari. . .
Piccola incursione rinnovata (scusate se esagero, ma poi lascerò il campo per una settimana per cui… ). A proposito di Eco. Nell’intervista da Fazio mi ha molto messo in sospetto la sua “passione” nel sottolineare cose di cui francamente non fregava niente a nessuno, ad esempio che appena finito il libro ha scovato altri sei volumi di non-so-chi che aggiungevano altra documentazione al fuoco. Aneddoti non narrativi su Garibaldi e Mazzini che ancora un po’ e ci raccontava della corrispondenza segreta tra le loro zie, senza che su capisse cosa c’entrava questo con il suo romanzo. E poi sembrava davvero pensare ai personaggi in funzione del suo discorso di ricostruzione storico-letteraria. Nelle Postille al Nome della rosa ha scritto che (cito a memoria) l’idea secondo cui i personaggi prendono la mano all’autore e acquisiscono una loro autonomia è una “fola da liceali”. Ricordo che ne rimasi assai stupito. Un semiologo e uno studioso come Eco dovrebbe sapere che questa sorta di “presa del potere” da parte dei personaggi, specie quelli riusciti, è cosa oltre che testimoniata e ripetuta alla nausea dagli autori stessi ( e non da liceali sbarbati) è cosa, dicevo, più che dimostrata nella storia della letteratura ed è stato proprio il feuilleton che tanto ama a renderla evidente. Il problema è che lui non ne vuole proprio sapere di arrendersi ai personaggi e alla narrazione. E’ come se il romanzo gli servisse semplicemente come mezzo per popolarizzare certe idee e diffondere la conoscenza di certi studi . Viene il dubbio che si metta a erudire il partner anche a letto, sui precedenti storico-letterari di una certa posizione sessuale. Dovrebbe anche credo interrogarsi con più attenzione su un punto. Come mai all’uscita del suo libro dichiaratamente, programmaticamente contro i pregiudizi anti-semiti, sono stati proprio gli ebrei i primi ad incazzarsi? Ora : un saggista espone ed è giusto che ripeschi qualsiasi materiale del passato per uno studio esauriente se non esaustivo. Ma un narratore dovrebbe saper selezionare dalla documentazione e dai testi del passato quelli davvero esemplari di un atteggiamento perdurante nella modernità. Se uno non è capace di sintesi narrativa e simbolica e invece mi fa, in romanzo, l’elenco minuto di tutte le cose dette nel corso dei secoli contro gli ebrei, persino di quelle di cui PER FORTUNA ci siamo dimenticati e che NESSUNO più ripete, beh un piccolo sospetto di poter fare un danno dovrebbe venire. O no? Un saggio peraltro si rivolge a un pubblico selezionato di specialisti o appassionati del tema, attrezzati a leggerlo e a valutarlo, mentre un romanzo si rivolge a chiunque. Agatha Christie (anche se gli assassini nei suoi romanzi li puniva) diceva che avendo lei milioni di lettori e soprattutto lettrici nel mondo, escogitava delitti complicatissimi, perché se avesse messo in pagina ciò che sapeva e in particolare come sia facile uccidere un marito semplicemente mescolando certi ingredienti disponibili in tutte le cucine, e farla franca, avrebbe fornito preziose informazioni omicide ai lettori. Insomma: il livello di responsabilità per un romanziere, soprattutto per un romanziere che ha moltissimo pubblico, dev’essere sempre molto alto.
Nella stessa puntata di Fazio è andata in onda l’intervista completamente diversa di Niccolò Ammaniti, scrittore che trovo sempre molto stimolante e vivace, e di una generazione diversa da quella di Eco. Ammaniti era, nell’intervista, molto più attento ai percorsi interiori oltre che a quelli romanzeschi in senso proprio, e agli elementi simbolici: ad esempio ha sottolineato che il suo nuovo romanzo, ambientato tutto in una cantina, insiste sul tema dell’isolamento nel buco che aveva già proposto in Io non ho paura, dunque suo tema ricorrente. E ha spiegato bene, con poche parole, il perché. Su questo niente da dire. Il suo approccio mi è sembrato più da romanziere di quello di Eco. Però anche qui ho trovato un elemento di “distanza” che mi ha fatto pensare a quanto il cinema possa influenzare oggi la narrazione letteraria. Non so se e quanto Shields consideri questa evidenza assoluta in molta della narrativa più recente, né come la giudichi. Si legge a volte un romanzo e si pensa: “sembra un film”. In cinema l’idea di ambientare un intero film dentro una cantina, è il classico esercizio di stile. Ho visto un film (Penny Dreadful) ambientato per 3/4 all’interno di un’automobile. Un altro recente, che non ho ancora visto, ma molto celebrato nei Festival, è tutto girato “sottoterra” dentro la bara di un sepolto vivo. Il cinema che è per natura movimento, spesso (e anche per esigenze di natura economica, cioè in molti film autoprodotti da filmaker giovani) si auto-costringe alla fissità, ma in modo esplorativo, cioè per capire come la si possa raccontare senza annoiare moltiplicando punti di vista, alzando la tensione narrativa, trovando soluzioni estetiche nuove eccetera. Tutto bene. In un romanzo però… non è un po’ poco? Edgar Allan Poe in Gordon Pym ci ha raccontato da maestro come ci si può sentire a viaggiare da clandestini dentro una stiva. Lo ha fatto in poche pagine. Dumas ci ha raccontato la carcerazione e la fuga (entrambe altamente simboliche) di Edmond Dantès dalla sua cella. Per poco spazio, non aveva bisogno di dilatarlo, perché poi nel romanzo accade di tutto. In un romanzo, nella stessa pagina, si può saltare di ambiente, di località geografica, di anni ed anni, perché togliersi questa suprema libertà, perché rinchiudersi nella teatrale unità di tempo luogo e azione? Eppure si leggono oggi romanzi, scritti così:
Faceva freddo.
Molto freddo.
Dannatamente freddo.
Abbiamo capito che faceva freddo, che senso ha insistere? E’ brutto.
Si spezzettano anche le azioni allo stesso modo. In un giallo recente di un bravo autore italiano, c’è un tizio che scende in cantina. Venti righe di gesti descritti uno per uno, soltanto per fargli aprire la porta e accendere la luce. Poi magari c’è una scena in cui avvengono cose e azioni furenti e complicatissime. Siccome è difficile descriverle, le si riassumono, lasciando i dettagli all’immaginazione del lettore. Non è un po’ troppo comodo? In altri romanzi tipicamente d’esordio, basati sulle cronache di vita quotidiana, seguiamo i personaggi dal risveglio mattutino fino a tarda notte, compresi i passaggi al cesso, tutti i pasti uno per uno, dialoghi debordanti in “tempo reale” … e avanti così giorno dopo giorno anche se non succede una mazza. Questa sarebbe fame di realtà? No, questa è una noia bestiale, per cui un bel racconto viene sbrodolato a dismisura in seicento pagine di cose inutili e inespressive. Allora dico: un romanziere deve trovare i tempi giusti della narrazione e questi tempi sono interni alla narrazione stessa, non devono essere importati brutalmente dal cinema o dalla realtà quotidiana. Se facciamo così, in modo poco consapevole e non per raggiungere un effetto stilistico particolare, scivoliamo in una forma di romanzo suddita di altri media, una forma che perde se stessa. Poi magari dal nostro romanzo si girerà un film , ma allora scusate… non valeva la pena scrivere direttamente il film?
@ Antonella,
ti sono grata per la bella risposta che hai dato sulla forma generata dal vuoto.
Inoltre, spiacente, non concordo con questa moderna negazione del pensiero e ritengo che l’istinto collettivizzato sia un risultato nefasto, prodotto da svariate componenti socio culturali…
Credo nella Ragione e nell’Intelletto, nell’immagine di RA, nocchiero egizio che oltrepassa mari e cieli sul suo cocchio dorato.
Condivido in parte Rossella, se non altro perché il viaggio di Ra comincia sottoterra, soltanto oltre la dodicesima porta si ricongiunge al Sole.
@ Rossella
Felice di conoscerti. Quello che intendevo, era questo:
Quando il pensiero si “schianta”, cioè non è più, acquisisco quel senso di realtà che, appunto, mi permette di vivere istantaneamente e di prima mano questa realtà, senza intermediazione di ragione o di intelletto.
Quando tiro l’arco, non sono il braccio che tira la freccia, ma sono la freccia. E centro il bersaglio. Questo è assenza di pensiero.
Quella che chiami moderna negazione del pensiero esisteva già prima del cristianesimo.
Credo anche che la contemporaneità debba interrogarsi sui guasti della Ragione, che ne ha combinati davvero tanti. Per gli illuministi la ragione era strumento tecnico/artigiano del pensiero critico. Non era la Dea Ragione, in nome della quale Robespierre elevò ghigliottine. Il pensiero del resto vive nel contrasto, il pensiero che tenda a considerarsi puro e in costante elevazione, fa la fine di Icaro, percorso ben diverso da quello di Ra. Tu stessa del resto lo hai scritto… cos’è il pensiero se non si nutre di esperienza, cos’è un viaggio di conoscenza se non sa sporcarsi al contatto con la ben poca celeste materia del vivere? E in questo viaggio l’abbandono consapevole che è quanto ricorda se non ho capito male Antonella con la sua metafora dell’arco, è altrettanto fondamentale del controllo che spesso è anzi soltanto supponenza di controllo. Come diceva Carmelo Bene, non si può essere davvero attori se non si è agiti (cosa, tra l’altro, che Umberto Eco non capirà mai).
Vero, Leo! I nomi sono stati obbligati a metterli, sia pure alla fine, perchè altrimenti si sarebbe chiamato PLAGIO e sarebbero incorsi in problemi legali. Non ti pare che questo chiarisca il tutto?
Che poi il copia e incolla sia fatto ad arte, è un altro conto. Ci sono falsi di opere d’ arte, che tecnicamente sono magnifici e pochi in grado di farli bene, ma ci sarà un motivo per cui la Gioconda, bellissima copia a olio, che ha in casa un mio caro amico, vale qualche centinaio di Euro e la Gioconda esposta al Louvre, un pochino di più? Pensi poi davvero che far parlare di sè di questi tempi. sia un opera da genii? A mio parere basta avere la faccia come…. o pochi scrupoli e andare ad esempio al Grande fratello, spogliarsi il primo giorno o fare altro e parleranno di te!
E’ più facile far parlare di sè, se si è furbi, che non se si è un genio. (intendiamoci non sono così nichilista, qualcuno fà parlare di sè anche per la sua genialità). Questo ci offre oggi il nostro mondo.
Grazie Antonella, sei sempre troppo…..troppo, con me!
Grazie a tutti per il vostro contributo ….ORIGINALE.
Bravissimo, Gianfranco.
Ieri non ho visto l’intervista con Eco ma le impressioni tue (che nemmeno hai iniziato il libro) combaciano con le mie (che dopo cento pagine) l’ho chiuso e messo via perchè mi sono stufato: un po’ scrive di cose che già so, un po’ di cose di cui non mi frega nulla.
Mi irrita che molti degli attacchi a Eco arrivano/arriveranno da destra, dal Vaticano, dal Giornale. Però non vedo per quale motivo dovrei mettermi a difendere (a parte che a me non mi calcola nessuno, a parte mia moglie e i miei amici e amiche) un romanzo fallito solo perchè lo criticano persone che detesto e che (politicamente e cristianamente) sono lontanissime da me.
Affronterei senza esitazione un dibattito pubblico con Professoroni Imparruccati per perorare la causa di…che so…E. C. Tubb (autore di fantascienza inglese morto due mesi fa a novantun anni) o del fumetto manfrediano Magico Vento o di alcuni romanzi di John Grisham o della serie televisiva Cold Case o di Fantomas o di mille e mille esempi di letteratura/cinema che “gioca” (e benissimo) in serie B o C.
Ma non spenderei una goccia di energia per sostenere un libro/film/disco eccetera che non mi piace per nulla.
Nel “Cimitero di Praga”, Eco fa il citazionista: mette insieme pezzi e pezzi di roba senza anima, senza passione che non sia per l’erudizione, senza mai abbandonarsi con sensualità a uno dei segreti della narrazione (farsi possedere dal Demone bisessuale del Romanzo…sia esso il Demone del Personaggio, della Trama o del Tema).
Sarebbe anche interessante esaminare gli spostamenti della metafora della luce in secoli di letteratura e non solo: da piccola fiammella per orientarsi nelle tenebre, o nel bosco, alla luce accecante della Rivelazione, Volto Insostenibile di Dio, alla “fredda Luce della Ragione” (come si suol dire). Il climax della paura, in Poe non viene raggiunto nel buio, Gordon Pym trova la sua fine (?) tra i ghiacci accecanti e alla presenza di un indefinibile Mostro di Luce, La Creatura di Frankenstein si perde nel bianco dissolutore dei ghiacci eterni che non è propriamente il Sole. La nostra epoca io credo abbia molta più paura della luce che del buio. Rispetto alle cupissime celle medievali, la nostra disciplina razionale della carcerazione e della tortura, prevede celle illuminate giorno e notte. Rispetto al suono (minaccioso) del Silenzio, è il fracasso del Metal a manetta che si piazza nelle orecchie dei detenuti.
Non faccio in tempo a postare, che siete già volati altissimi con altri argomenti. Credo sia necessario per me, rileggere attentamente e meditare
@Antonella
“Quella lontana sottile linea che, non divide, ma abbraccia l’orizzonte del mare e il cielo”
Eh sì, marzo è troppo lontano……..
Ben detto, Gianfranco Manfredi; ti sei fatto freccia e anche bersaglio perchè, detto ancora meglio di come lo avevo detto prima, dovevo soprattutto aggiungere: che l’unico e vero bersaglio, per poterlo centrare, sono me stessa. Se mi faccio bersaglio (il bersaglio che sta là fuori), la freccia arriva dove deve arrivare.
Mera filosofia a dirla, grande illuminazione ad applicarla. Io la chiamo filosofia empirica, cioè: che non si autolimita al regno dell’astrazione, ma dà termini fattivi di collegamento con la realtà in modo da poterla sperimentare.
Se invece penso di poter trovare termini di applicazione empirica, ma dico proprio empirica, come guadagnarsi la pagnotta, e volessi applicare il sistema di Kant, mi verrebbe già il mal di testa, prima ancora di cominciare. E poi, da dove cominciare? Dalla sua estetica?
Quando mi sento “agita” mi sento proprio bene.
Antonella, una citazione (non ricordo di chi sia): “il miglio modo per centrare un bersaglio è scagliare la freccia e poi disegnarci intorno il bersaglio”
Guardate che Ennore e io non siamo ne amici ne amanti… lui è affettuoso, certo sì, ma abita in Liguria e io in Lombardia. Ci si vede forse una volta all’anno.
scusate, questo è il più grande lapsus della settimana: volevo dire: ne marito e moglie, ne amanti…
Eh sì, forse ho qualche problema di convivenza sentimentale, , ma è roba mia… ahahahhahaah… scusa Ennore 😀 😀 😀
Mi piace molto, quel tuo “Quando mi sento agita mi sento proprio bene”.
Forse un altro trucco (sia per la scrittura che per la vita) é: riuscire a venir agiti da se stessi, godersi il viaggio (o la scrittura o la vita)viaggiando col pilota automatico guidato da un’altra parte di noi stessi.
@ Luciano
Dici : “Antonella, una citazione (non ricordo di chi sia): “il miglio modo per centrare un bersaglio è scagliare la freccia e poi disegnarci intorno il bersaglio” ”
Dimmelo in romano, per favore, che me lo appendo davanti al computer 😉
Riguardo all’altro tema, finché si parla del “copia e incolla” più o meno siamo tutti d’accordo, però ricordo Totò: “A inventare sono capaci tutti, è copiare che è difficile”, lo ha ricordato anche Bonito Oliva, tra l’altro, perché la battuta era in un film dove Totò faceva il pittore. Diciamolo chiaro: tutti gli scrittori copiano, e hanno sempre copiato, forse è per questo che a tanti scrittori, anche in disaccordo, è comunque piaciuto il libro di Shields. Toglie di mezzo un’ipocrisia. Nel Ritratto di Dorian Gray, andatevi a rileggere il momento in cui il protagonista viene ritrovato cadavere nella sala del ritratto. Oscar Wilde ha ricopiato pari pari un intero brano di Stevenson, dove Jekill viene trovato cadavere nel laboratorio. Resta il fatto che il romanzo di Wilde è cosa totalmente diversa da quello di Stevenson. Si copiano le parole, non gli autori, si cita dicendolo o no, ma comunque incorporando e trasformando in un’latra narrazione. Eco, tra l’altro, nella citata intervista, ha dichiarato che l’ispirazione e non solo quella , per il suo romanzo, l’ha tratta da un fumetto di Will Eisner (vedi, Luciano? A Eco comunque la dignità culturale va riconosciuta, lui non fa questioni di Serie A e serie B, se non altro, o quantomeno non considera la serie A del fumetto come la serie B della narrativa, il che è già qualcosa). I singoli scrittori lavorano comunque tutti con una materia comune che è essenzialmente Lingua. Non si contano i richiami linguistici tra un’opera e l’altra, anche a distanza di secoli. Il punto è che bisogna saper copiare, il che al fondo, vuol dire che bisogna anzitutto saper leggere, disposti, sempre disposti, ad accogliere in sé l’Altro da Sè. Altra cosa è invece (e questa sì è una “fola liceale”), presumere che la scrittura non nasca dalla lingua, bensì da un atto creativo e sorgivo individuale, artistico solo in quanto originale, e del quale si possa rivendicare la Paternità (e il Diritto d’Autore, cioè la Proprietà Intellettuale). Questa è la prigionia, la schiavitù della scrittura dentro una Gabbia Proprietaria tipicamente contemporanea e da età della Crisi in particolare. Non stiamo scrivendo per litigarci le ultime briciole della torta, stiamo facendo torte per distribuirle a chi ha voglia di mangiarle e perché non accogliere le ricette di Emilio? Ben vengano. Poi però bisogna sapere cucinare e un cuoco all’altezza non cucina su ricetta, ci mette del proprio, inventa. L’altro non è un cuoco, è un poveraccio che lavora da MacDonald a servire hamburger. C’è una bella differenza. Se poi la catena di McDonald fa più profitti di migliaia di piccoli ristoranti messi insieme , a me cosa me ne ne importa? I soldi non si mangiano.
Poi , certo, “non tutte le ciambelle escono col buco”, ma questo non è mica male… è quando le ciambelle escono tutte uguali che dobbiamo cominciare a preoccuparci davvero.
Leonardo diceva che la proprietà non sta nell’opera, ma nella firma.
Ma non negava certo che il vero riconoscimento d’autore lo si ottiene, quando non si ha alcun bisogno di leggere la firma per distinguere l’autore. Queste cose le sentivo ripetere spesso a Roma da alcuni grandi vecchi e anche meno vecchi maestri del cinema: devono bastare pochi secondi per poter riconoscere vedendo il film chi ne è autore. E’ una questione di stile espressivo oltre che di materia meramente contenutistica del narrare. Ma a questi insegnamenti io accostavo un commento letto di Fellini, nel quale diceva che alla prima proiezione completa de La Dolce Vita, aveva avuto la stordente sensazione che quel film “si era fatto da solo”. Vaglielo a dire a Eco che Junghiano non è stato mai, dall’alto del suo laicismo programmatico gli sarà sembrata una fesseria neo-romantica. Eppure… uno stile personale bisogna averlo, ma la cosa più straordinaria che possa capitare all’autore è scoprirsi talmente sparito in ciò che ha narrato, che quella narrazione sembra essersi fatta da sola.
@ Gianfranco
Copiare, ispirarsi o richiamare? C’è differenza, ispirarsi è quasi inevitabile, richiamarsi a qualcuno è legittimo e professione di umiltà, copiare sarebbe secondo me da evitare a meno che non si dichiari chiaramente, i remake esistono e sono omaggi all’ originale. Completamente d’ accordo sul saper leggere, ma davvero non può esistere un “atto creativo e sorgivo individuale” ? Io spero di sì. Artistico, poi è un’ altra questione, ma qui si cade nel soggettivo….mi avete quasi convinto, finisce che lo compro, così potrò parlare con più cognizione (ahi….la coerenza!)
Grazie per l’ attenzione
@ che quella narrazione sembra essersi fatta da sola
molto, molto bello
E nei film di Fellini quante immagini e suggestioni ci sono rubate dagli altri? Dalle altalene de Lo Sceicco Bianco e di Giulietta degli Spiriti riprese pari pari da Rapsodia satanica di Nino Oxilia, film del 1915 (bellissimo e da poco ricomparso in edizione restaurata dal laboratorio Immagine Ritrovata della Cineteca di Bologna) e poi la bambina-diavolo di Toby Dammit rubata a Mario Bava. Gli artisti rubano, si comportano come puttane, non hanno il minimo senso della proprietà altrui, fagocitano tutto, persino i discorsi che sentono per strada, i ricordi di un amico, le immagini dei cartelloni, un cane che piscia all’angolo… figuriamoci le letture fatte, le musiche udite, i film visti tutta roba ormai iscritta nella biografia personale tanto quanto in quella collettiva. Alla faccia della Proprietà Privata. Dopodiché un ladro davvero bravo, conosce tutti i trucchi possibili per non farsi beccare. Ma per un artista rubare non è reato, è anzi una prova di abilità e di coraggio, come per le tribù dei “pellerossa”. E chi ruba è sempre pronto ad essere derubato a sua volta.
Quindi si dovrà de-copiaincollare Shields?
Caro Ennore quello che volevo dire è che le sintesi sono individuali , ma la materia è collettiva. Nessuno di noi ha inventato la terra, il cielo, e tutto quant’altro di artificiale e di umano ci siamo ritrovati intorno alla nascita. Di tutto ciò ci nutriamo e ci siamo nutriti e lo riportiamo in scrittura attraverso sintesi , frammentarie o compiute, e (si spera) originali, ma da qui a supporre che il Mondo (anche quello dell’Immaginazione) sia nostro, ce ne corre. Il Mondo se ne fotte della proprietà intellettuale come di qualsiasi altra proprietà.
@Gianfranco
scusa il mio post precedente che sembra sfasato rispetto ai tuoi ultimi, ma hai una tale velocità di pensiero, che brucia le mie risposte.
Ti cito:
“uno stile personale bisogna averlo, ma la cosa più straordinaria che possa capitare all’autore è scoprirsi talmente sparito in ciò che ha narrato, che quella narrazione sembra essersi fatta da sola”
Bellissima e assolutamente condivisibile questa tua considerazione, come molte altre, quando capita, è quasi uno stato di grazia e deve essere di ispirazione,mi pare di capire che tu lo conosca bene.
Grazie per il tuo illuminante contributo
No, Antonella, ovviamente non volevo dire che un testo vada per forza destrutturato per scovarne i minuti debiti e soprattutto quelli non dichiarati, questo certo i critici letterari spesso lo fanno e può anche essere utile a mostrare gli intrecci che percorrono un’epoca al di là delle singole opere. Un testo va preso per come è, almeno quando lo leggiamo la prima volta, e nutrito/arricchito anche dalla NOSTRA lettura che ha essa stessa qualcosa di unico e di originale. Però insomma, quello che mi avete fatto capire di Shields (che non ho letto), le citazioni che sono state riportate in apertura, a me non sono sembrate svianti una per una (anche se molte non le condivido affatto) casomai nell’insieme del ragionamento di Shields che se si presenta come Manifesto, allora non è più di stimolo, ma è roba da chiodi, rispetto alla quale è comprensibile che lettori criticamente meglio attrezzati commentino come superficiale e ignorante rispetto al dibattito letterario che si è fatto in questi anni. Estrapolare ad esempio con il copia-incolla, una frase brillante dal suo contesto, può essere terribilmente distorsivo. Diventa come le letture dei Libri Sacri: si pesca quello che si vuole , lo si interpreta a seconda della convenienza , lo si usa per ammantarsi di Autorità. Copiare, nel senso di Totò, significa interpretare. Altrimenti è una fetenzia, una ciofeca, un’antologia di pinzillacchere e quisquiglie.
La prova di abilità e di coraggio dell’Artista che “ruba” sta nel districare e discernere il meglio della biografia collettiva. A prendere tutto: 1) ci sono dei costi giacenza inutili, 2) il mediocre, che solitamente è sempre di più, abbassa il valore globale della merce, visto che si tratta di una vendita all’ingrosso.
Qualità o quantità?
Scusa, il contesto da cui partivo era questa tua frase:
“Ma per un artista rubare non è reato, è anzi una prova di abilità e di coraggio, come per le tribù dei “pellerossa”
@Gianfranco
ancora una volta mi hai bruciato sul tempo, ma noto con piacere che non sono solo nell’ apprezzare in modo particolare la tua considerazione sulla narrazione.
Hai ragione, il mondo se ne fotte, ma non ti piace pensare che sia anche solo un pò nostro e che magari a volte dovremmo ambire ad una proprietà intellettuale intesa come unicità di pensiero? Ti sembro idealista o peggio presuntuoso? Idealista sì, presuntuoso spero di no, ma il mio modo di pensare a volte mi fa sentire fuori tempo e sotto sotto ne sono orgoglioso.
Ho usato “interpretare” due volte e in collisione. Uff… quando si scrive al ritmo del pensiero… interpretare è del resto parola ambigua: può significare decifrare quel testo nella sua separatezza da noi, per il suo significato intrinseco, e può significare anche “interpretarlo” nel senso di farlo nostro. Il bilanciamento tra le due cose non è mica roba facile. Vediamo se mi viene riusando la metafora del ladro: un ladro professionista anzitutto sa esaminare l’oggetto in sé, i diamanti-pezzi vetro col cavolo che li preleva. Quelli che invece ruba può decidere di venderli così come sono al ricettatore , ricavandone una quota, o a un collezionista privato (furto su commissione… più o meno come quando un editore ti dice : scrivimi un romanzo alla Meyer, per dire… per lui è oro, non si rende manco conto che è vetro che sberluccica). Oppure può , rispettando il valore di quella pietra, incastonarla in un’altra creazione, persino impreziosirla , se ce la fa. Ora, siccome nella Storia una quantità impressionante di gioielli sono stati creati da altri gioielli, uno che trovasse un magnifico diadema frutto di chissà quante rapine esibite e insieme dissimulate in un lavoro artigiano originale, cosa fa? Si mette a smontare il diadema per restituirne i pezzi? Non esiste proprio. Ecco , adesso infognandomi nella metafora, mi sa che ho incasinato tutto. Saggio andare a cena, lo stomaco reclama.
@ Antonella. Ovviamente si rubano i cavalli migliori. Uno che ruba un ronzino o una bestia malata è il pirla della tribù.
beh.. l’ovvio a volte non è poi così ovvio… Shields ha rubato anche dei ronzini e li ha traformati in purosangue…
Antonella, ci provo:
“Er mejio sistema pe’ ccentrà er bersajio ar core suo è de tirà a’ freccia andò và và e solo appresso ar tiro je famo er cerchio”
Se fa troppo schifo, dimmi che sintetizzo.
Gianfranco: la citazione felliniana della bambina-diavolo è tratta da “Operazione paura” (di Mario Bava).
Io ammiro moltissimo Eco (lo leggo, quasi, sempre con piacere) E so che apprezza la serie B e C (e pure le categorie non-professionisti), il problema è che ciò in lui vi è spesso un eccesso di teorizzazioni che incolla le ali al narratore, una certa ritrosia a lasciarsi andare. Il suo amato Dumas non gli ha (purtroppo) insegnato il piacere del racconto: è come se Eco dovesse sempre far vedere che è più intelligente del suo romanzo. Cosa che un vero narratore non solo non esibirebbe ma addirittura negherebbe con sincerità: in un’intervista, Philip Dick disse che lo stupiva immensamente un fatto, che tanti suoi personaggi, soprattutto femminili, erano molto più intelligenti di lui.
Un’ultima cosa. Il Pensiero Unico è proprio il falso mito da cui con grande fatica stiamo tutti cercando di liberarci. Nemmeno Kant può essere letto come un Unicum Originale (io la Critica della Ragion Pura ho DOVUTO studiarmela all’Università ed è sicuramente il testo più difficile che mi sia mai capitato di leggere, anche per la sua estrema chiarezza di scrittura, o forse di traduzione, chissà, mentre la Fenomenologia dello Spirito di Hegel ti manda talmente al manicomio che continui a leggere presumendo d’aver capito tutto e non ci hai capito un tubo, ti pare dopo un po’ di essere in chiesa a recitare delle giaculatorie che credi di sapere anche se non hai la minima idea di cosa stai dicendo). I vecchi maestri insegnavano che ogni Unico è una Sintesi-Tassello incomprensibile nel suo isolamento, cioè al di fuori dell’insieme storico e teorico cui appartiene. Questo non è ridurlo, sminuirne l’importanza, è anzi vederlo più ampio e più creativo, costruito da influenze e influenzante di altri, insomma un oggetto espanso e vivo, l’esatto contrario della Lettera Morta. Nelle separatezza si muore. E abbiamo un bel dirci individui quando il corpo torna alla terra (e lo spirito al cielo , RA al sole). Ma individui de che?
@ Luciano
🙂 me lo stampo: bravo!
Credo che lo userò anche come biglietto di auguri per natale… ti devo diritti?
Dai, scherzo, mi sa che sei un permaloso!
Grazie!
@ Luciano
Secondo me Eco soffre di un’inconscia sindrome da senso di colpa per aver esercitato per troppo tempo una sorta di potere dispotico sulla gente che gli sta intorno, allontanandola da un amore sincero e così, trovandosi sempre tra i piedi lecchini e marionette, ha perso di vista l’essenziale.
Voler fare la prima donna a tutti i costi ha i suoi costi.
Forse per questo alcuni dei suoi personaggi, come riferisci tu, sono più intelligenti di lui. Sembrerebbero essere l’essenza di quegli spiriti che lui ha parassitato nella vita quotidiana; personaggi che, come i greci conquistati, i latini conquistatori hanno conquistato.
Questo si riflette anche nella sua opera narrativa. A volte mi sono perfino chiesta se i suoi libri non fossero scritti a quattro o sei mani. Sto bestemmiando?
Ma alla fine, che me ne frega delle motivazioni? Mi basta confessarmi che alla pagina 23 mi ha già scionfato.
@ Gianfranco: “E abbiamo un bel dirci individui quando il corpo torna alla terra (e lo spirito al cielo , RA al sole). Ma individui de che?”
******
Righ! Questa è la sfida più grande.
Ci hanno detto che saremo “individui de che”. Ci hanno abituato a pensarlo. Come ci hanno insegnato a distinguere una sedia da un bicchiere.
Tu ci credi?
Antonella: ripeto ancora che a me Eco interessa tantissimo. Quando è al suo meglio (e anche al suo “decente”) lo trovo pieno di suggestioni (stavo per dire di “echi”), divertente, enciclopedico, aperto, in grado di passare dall’alto al basso non dimenticando i piani intermedi, spiritosissimo, bravo a spiegare con chiarezza cose difficili senza banalizzarle, brillante, capace di mettere in collegamento A con 57 e tu dici “accidenti! Non ci avevo pensato…adesso capisco meglio”
Però (tolti certi sparsi raccontini brevi, “Il Nome della rosa”, “Il pendolo di Foucault” che a me piacque però dovrei rileggerlo perchè ne ho un ricordo vago e qualche squarcio della “Misteriosa fiamma”) il narratore Eco non è all’altezza del saggista Eco.
Ok, volevo solo dire la mia. L’avevo capito che ti piace, in qualche modo. Avevo già osservato il minuto di silenzio, prima di scriverla. Il fatto che non abbia 56 anni non vuol dire che non mi dia la pena di leggere tuutto il post. Insomma, mi sembrate un po’ permalosi, tu e Manfredi,a volte.
Bello il tuo aforisma in romanesco.
Ciao. Ho la febbre. Vado a letto.
Buonanotte.
Aggiungo che la grafica di Altan non l’ho mai potuta soffrire. Fin dai tempi della scuola.
Ri-ciao
Piuttosto mi do a Disney ai tempi dell’apprendista stregone
NON SONO PERMALOSO! Anzi adoro chi mi dà torto, al punto che spesso mi dò torto da solo. I lecchini mi fanno senso. Chi si circonda di gente che sbava a tutte le cazzate che dice non rispetta né gli altri, né se stesso. A volte , e mi scuso con Antonella, è il piacere per la dialettica che mi spinge ad essere polemico, non certo volontà di offendere. Una discussione, specie se sul web , è tanto una condivisione quanto un combattimento simulato, per fortuna e per scelta, incruento. Ma succedono anche cose strane e assai filosofiche. Socrate non si oppone mai agli altri, ad esempio, anzi li asseconda fino ad aiutarli a raggiungere le conclusioni delle loro stesse premesse. Il più delle volte, quelle conclusioni sono l’esatto contrario di quanto si era premesso. Non sto facendo l’apologia della contraddizione, tra l’altro io riesco così poco ad essere socratico ahimé, ma del movimento del pensiero che si apre a considerare l’opposto e a fronteggiarlo. Non vorrei essere iù noioso di Eco, a citare di nuovo i Sioux, però ecco… ci si disponeva in cerchio, assumendo le posizioni dettate dal proprio segno di nascita, cioè come individui ORIGINALI e UNICI , e però poi anzitutto si fronteggiava l’altro che stava dalla parte esattamente, diametralmente opposta della circonferenza: il tuo contrario. Stabilita l’opposizione dei punti di vista, la tribù in cerchio cominciava a muoversi lungo la circonferenza… ecco che a un certo punto l’individuo X si ritrova nella posizione dell’individuo Y che gli si opponeva e che ancora gli si oppone, ma dal punto di vista opposto: lui ora ha il mio e io ho il suo. Si riprende a muoversi e questo cammino circolare ci insegna sempre di più ad essere gli altri continuando a restare se stessi. Giro vizioso, direbbero certi laicisti-razionalisti, ma anche dei rozzi materialisti, oppure certi religiosi fondamentalisti per cui l’Unico è statico e si tratta solo di Imitarlo, tutti fermi e fissi a lui, e ciascuno in sè. La comunità esiste lo stesso, ma é un anello immobile che ci imprigiona tutti nelle stesse posizioni date, nei ruoli prefissati. Ben venga quel movimento che ci spinge gli uni verso gli altri , ripercorrendo il cammino degli uni e degli altri. Basta veh, che dalle metafore si può restare inghiottiti e risputati su tutt’altra strada…. come prima, quando ho fatto l’esempio dei gioielli e dei migliori puledri, però è verissimo (e Rossella può spiegarlo meglio di me) che i cubisti potevano raccattare un avanzo di giornale, un insignificanti e antiestetico rifiuto da cestino, incollarlo sulla tela, incorporarlo in un’altra narrazione, ed ecco che quella misera cosa diventava “estetica”. Concludo solo chiarendo quanto avevo osservato sulle argomentazioni generali di Shields dopo tanto “copia e incolla” dichiarato e ribadito. Al di là di questioni di diritto d’autore, diritto alla citazione, onestà intellettuale e chi più ne ha più ne metta, chi prende un pensiero altrui, lo estrapola dal contesto perchè se ne frega del contesto: 1. Non rispetta il pensiero che ha prelevato ; 2. Non lo ha neanche capito; 3. Non essendo abituato a valutare la coerenza tra quel pensiero e il suo contesto, non riesce neanche da tanti frammenti a costruire un ragionamento coerente suo. Questo non è più camminare in cerchio, ma saltare al centro del cerchio per fare uno spettacolo di imitazioni di tutti, che ci diverte molto magari… però … adesso hai finito? Applausi, ma riprendiamo la marcia, grazie.
Mi diverte questa cosa del “permaloso”.
E’ già la seconda o terza volta (anche in un’altra discussione) che qualcuno/a la dice, a Manfredi e a me.
E la replica (indipendente perchè non siamo certo Lennon-Mc Cartney Wilder-Diamond) è ogni volta la stessa:
– è sempre interessantissimo e stimolante venir contraddetti perchè ci costringe e riflettere su ciò che si è detto e sul modo in cui lo si è detto,
– le repliche (talvolta puntigliose) non sono dovute a permalosità ma al gusto della precisione. Io sono molto arruffato (basta veder la mia barba) e in molti aspetti della mia vita confusionario e improvvisatore, però in altre cose cerco di essere preciso.
Tre esempi:
se uno scrive che il bassista dei Crazy Horse (la band di Neil Young) è l’inglese Jack Talbot, segnalerò la svista (è l’americano Billy Talbot),
se uno sostiene che in Italia er popolo è sovrano e dunque er governo de Sirvio po’ ffa quer cazzo che je pare e pppiasce, gli replico: “nelle democrazie parlamentari) contano (certo) i risultati elettorali (e ci mancherebbe altro). Ma la Costituzione italiana (articolo 1, comma 2) dice “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”,
se uno estrapola dalla Bibbia il versetto 12,5 del Levitico per sostenere che le donne che hanno partorito una figlia femmina sono impure per due settimane mentre (12, 2) quelle che hanno partorito un maschio sono impure per una settimana E DUNQUE ne deriva che SIA le partorienti sono impure, SIA le neonate femmine sono ancor più zozze dei neonati maschi, interverrò per dire che questo modo shieldsiano di leggere la Bibbia è “fondamentalismo”, che quella citazione va contestualizzata all’epoca e alla cultura in cui venne scritto quel testo (se no diventa arbitraria, non si capisce niente e anzi rischia di venir usata come oggetto contundente contro le donne). Per leggere e vivere la Bibbia districandosi nella sua complessa biblioteca, bisogna avere una bussola (lo sappiamo benissimo noi protestanti): e questa bussola è (lo accenno soltanto) l’amore di Dio e l’amore verso il prossimo, la libertà e la giustizia. Tutto ciò che (nella Bibbia) viaggia in questa direzione va accolto e vissuto perchè è Parola viva, tutto ciò che se ne allontana va contestualizzato. Se non rischia di venir shieldizzato dagli ahyatollah-vescovi-fanatici di turno.
Per unicità di pensiero, intendevo, pensiero individuale e giammai Pensiero Unico..mi sono spiegato male .
Ciao
Provate a leggere questa roba e poi (se vi interessa) ne discutiamo: http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/11/02/news/passaparola_2_novembre-8657279/?ref=HREC2-7
Di cosa tratta?
“Ve stamo a presentà er primo sirial tivvù su ccarta”.
Come se io vi vendessi una bottiglia di acqua di rubinetto pubblicizzandola come “acqua a temperatura ambiente da riscaldare per farla diventare una rivoluzionaria ACQUA CALDA”
Grazie per i messaggi di solidarietà. Ce la farò, come ho sempre fatto. Sono un osso duro e sono brava a reinventarmi.
Grazie comunque.
@ Antonella
Il tuo testo ispirato alle parole del prof Emilio, continua a piacermi.
De gustibus non est disputandum.
Stessa cosa dicasi per il libro di Shields, che continuo ad apprezzare a lettura quasi ultimata.
A me Luciano idefix e Gianfranco Manfredi non sono apparsi permalosi, anche se hanno espresso opinioni opposte alla mia. Anzi li ringrazio per gli stimoli che mi hanno fornito.
Ciao.
W Shields e il suo antiromanzo!
Vorrei introdurre una specifica a proposito del “copia-incolla”. Non so se qualcuno ricorda il romanzo “La violenza illustrata” di Nanni Balestrini (Einaudi, 1976). In “Vogliamo tutto” (1969) Balestrini aveva raccontato la storia di un operaio che dal sud emigra al nord e si trova coinvolto nelle lotte. Nel testo, scritto come fosse scrittura operaia, dello stesso protagonista, si susseguivano descrizioni, riflessioni, brandelli biografici, mimando una lingua piena di influssi dialettali. Invece ne la “Violenza illustrata” Balestrini usò la tecnica del collage, che va al di là del “linguaggio mimico” perchè copia e incolla, appunto (ma prima che il copia-incolla esistesse) materiali scritti di origine diversa : deposizioni ai processi, citazioni da giornali femminili, cronache giornalistiche, frammenti di autobiografie di gente comune, brandelli di hard quasi “porno” eccetera. Il tutto diviso per capitoli “tematici” ciascuno dei quali diviso in paragrafi spaziati. I singoli paragrafi non ospitano un unico brandello “copiato”, ma senza soluzione di continuità, si possono leggere quattro righe di epistolario rosa che sfociano nella cronaca di una manifestazione. Si discusse molto all’epoca, quanto ci fosse di casuale in questo assemblaggio e quanto di manieristico, se e quanto lo scrittore Balestrini fosse intervenuto di suo pugno o se avesse invece dato vita a un testo usando esclusivamente scritti altrui. Ma al di là di questo, che richiama come vedete un argomento considerato da Shields, il punto da considerare è il quadro d’insieme che ne viene fuori. Gli accostamenti impropri di materiali scritti “decontestualizzati” in questo caso operano una contestualizzazione d’epoca tanto “oggettiva” quanto “rappresentata” , e l’urto tra gli elementi del collage, proprio in quanto evidente e rimarcato, illumina un Senso e un Intento, perfettamente espressi dal titolo La Violenza Illustrata.
C’è un’abissale distanza, nel merito, tra questo tipo di “copia-incolla” e quello di cui parla Shields. Non perché non ci sia in entrambi un pensiero di costruzione-ricostruzione nella scomposizione, pensiero in qualche modo unitario (come dice Ennore), ma proprio per la scelta dei materiali. In Balestrini c’è materiale grezzo utilizzato non solo come viaggio del pensiero, ma anche per esprimere un’idea estetica. In Shields (ma se sbaglio, ditelo) c’è materiale lavorato ri-utilizzato a propri fini, del tipo… questa “battuta” è forte, la uso. Siamo davvero in questo caso giustamente al di là del diritto proprietario o invece lo stiamo rivendicando questo diritto attraverso un’espropriazione a nostro vantaggio? E dunque: si può tracciare una differenza tra Composizione e Appropriazione indebita? Questo, mi pare, è il problema.
D’accordo con te. Ma chi è che deve essere autorizzato a tracciare la linea di demarcazione tra Composizione e Appropriazione indebita?
(A parte i Tribunali, se è del caso, s’intende).
E comunque la storia degli aforismi e delle citazioni è antichissima, come dimostrato da altri in questo thread. E’ ovvio che ogni citazione viene decontestualizzata e perde senso (anche questo è stato detto). Ma questo non impedisce a noi stessi di fare citazioni. Anche Luciani/idefix che si lamenta della perdita di senso delle frasi estrapolate dal testo, nel corso della discussione, ha riportato le sue belle citazioni.
Quello della perdita di senso derivante dalla decontestualizzazione, dunque, è un falso problema.
Anzi, la decontestualizzazione e la conseguente perdita di senso originario, nei fatti, consente il superamento dell’appropriazione indebita, proprio per via della nuova acquisizione di senso della frase in nuovo contesto.
Passiamo dunque da una de-contestualizzazione a una ri-contestualizzazione.
Il processo che genera questo passaggio è un atto creativo (che come ogni atti creativo, può piacere o no).
Monica: intanto io dico sempre (a parte i casi in cui non me lo ricordo) chi è l’autore delle citazioni che riporto.
Poi: un conto è riportare un aforisma (citazione che può venir decosntestualizzata perchè autoreggente per definizione) e tutt’altro conto è estrarre con le pinze un pezzetto del discorso/scritto di Tizio, magari per fargli dire il contrario di ciò che Tizio intendeva dire.
In più: come già notava Manfredi, una cosa è il collage (per esempio Blob, che usa un montaggio del tutto creativo perchè dà ai singoli pezzi originali un senso del tutto nuovo. Ma Ghezzi & C usano questa tecnica in modo volutamente provocatorio, anche se dopo un po’ stufa perchè diventa ripetitiva e prevedibile), tutt’altra cosa è citare a cazzo come fa Shields.
Faccio un esempio (lo stesso usato da Berardinelli per criticare Shields, che nel suo libercolo riporta la frase: “Mi ritrovo a dire, succintamente e prosaicamente, che è molto più importante essere se stessi che chiunque altro”.
Cosa significa questa frase? E’ una fesseria o no? E’ una banalità o un’osservazione geniale? La risposta può essere solo: DIPENDE.
Come diceva Karl Kraus (oh sì che le citazioni possono aiutare a capire!!): “Non contano solo le cose dette ma anche chi le ha dette”.
E allora non posso capir niente o molto poco, o addirittura travisarla, quella frase se non la inserisco nel suo contesto.
L’idea che la conoscenza siano pillolette da prendere in piccole dosi lontano dai pasti è fuorviante, sbagliata, ir/responsabile, roba che poteva venir in mente solo agli amerikeni (categoria dello spirito ben diversa dagli americani, come racconta benissimo Alberto Ongaro nel suo “Un romanzo d’avventura”).
A parte che anche nel libro di Shields, al di là delle dichiarazioni provocatorie, sono riportati i nomi degli autori delle citazioni…
Tu dici… “tutt’altra cosa è citare a cazzo come fa Shields”.
Guarda che non è affatto così. Ma tu l’hai letto il libro? Ripeto, quelle citazioni sono inserite in contesto ordinato che nel suo insieme acquista senso. Il senso è simile a quello di Ghezzi & C con Blob (almeno, secondo me).
Mi sembra che sei prevenuto perké Shield è amerikano (altrimenti non avresti non avresti mai scritto una frase che stigmatizza un intero popolo del tipo “roba che poteva venir in mente solo agli amerikani”).
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P.s. nel tuo precedente post c’è un’altra citazione. Ora le raccolgo e ci faccio un libro.
Dicendo semplicemente DIPENDE , Luciano ha centrato il nocciolo del problema. E’ dunque sviante discutere del copia-incolla in sé (anche se E’ un problema, vedi la musica campionata) se non si distingue tra diverse tecniche di “collage” , in campi e prodotti culturali diversi e a diverso livello di consapevolezza stilistica. Riporto un piccolo aneddoto personale: ricevo una mail da uno sconosciuto il quale mi dice : 1. ha ricopiato pari pari un’intera pagina da un mio romanzo e l’ha infilata nel suo senza citarmi; 2. Non mi cita neanche il SUO romanzo; 3. Dice che “per farsi perdonare” ha pensato di inaugurare un nuovo sito cui sta lavorando sul Noir italiano con un’intervista a me (cioè il ragionamento è: dato che ho già abusato di te, per farmi perdonare ti faccio l’onore di abusare ancora, ma citandoti, anzi lasciando scrivere direttamente a te); 4. Conclude: tu l’hai mai scritto un Noir? Ecco. Ora: cosa si risponde a un tipo così? Io mi sono sforzato di introdurre qualche piccolissimo germe critico nella sua zucca. Nessuna intervista, naturalmente. Riguardo al noir italiano, gli ho segnalato un capitolo da un libro di critica letteraria di Ferroni il cui giudizio condivido. Dice in sostanza che all’apparenza il cosiddetto Noir italiano usa il Giallo per raccontarci la realtà della provincia e delle metropoli italiane qui ed ora, ma in realtà non è così. A giudizio di Ferroni si usa la realtà espressa nel modo più generico e indeterminato per sovrapporvi una fiction vagamente americana, che più standardizzata non si può, quella cioè dei telefilm polizieschi. Dato che dubito che il tipo che mi ha scritto vada mai a leggersi Ferroni gli sintetizzo questo giudizio da persona a persona, specificando che non mi interessa apparire sul suo sito, in quanti attualmente interessato a tutt’altre cose che al Noir. Lui mi risponde: Grazie. Sai che a queste cose che dici non ci avevo pensato? E aggiunge: Puoi consigliarmi qualche autore di Noir italiano? Non rispondo più perché mi sono rotto. Qui non siamo neanche al copia e incolla, qui siamo al parassitismo più totale, del tipo e del genere che si ritrova a piene mani in Rete. gente che si improvvisa gestore e amministratore unico di siti letterari, di blog di genere, di social-network. Scopro di recente che su FaceBook, cui non voglio partecipare, il sottoscritto o i miei personaggi (come MV) hanno quattro amministratori. Nessuno di questi quattro si è peritato di contattarmi, né di chiedere se poteva. Il dominio pubblico è ormai di fatto dato per scontato. Ora Shields indubbiamente rappresenta un caso di ben altra levatura, ma siamo sicuri che questo caotico parassitismo sia luminoso e progressivo? Non finirà per travolgere anche chi usa tecnicamente e consapevolmente i lavori o le parole altrui mirando però a una costruzione propria? Con il parassitismo puro non si costruisce niente: é la logica del tritarifiuti senza neanche la raccolta differenziata.
Riprendo la frase-aforisma citata da Luciano: “E’ molto più importante essere se stessi che chiunque altro”. Sembra brillante. Ora capovolgiamola: “E’ più importante essere chiunque altro che se stessi.” Potrebbe averla detta un cosplayer o Lady GaGa in persona. Pare altrettanto brillante nella sua provocatoria unilateralità. Se però così si pensa di favorire la discussione si sbaglia, una discussione fertile non può nascere da una questione mal posta. Le discussioni fertili nascono dal DIPENDE.
Attenzione!
State estrapolando una frase/citazione dal libro di Shields facendone un uso improprio!
Una frase tolta da un contesto e buttata lì così, non vuol dire nulla.
Il “chi l’ha detto, quando, come e perché” non è cosa irrilevante, se non si specifica questo, non si capisce proprio niente. Dicevo che anche Lady GaGa avrebbe potuto dire “E’ più importante essere chiunque altro che se stessi”. Ma ricordate cosa rispose Gesù a chi gli chiese: dici di amare il nostro prossimo, ma chi è il mio prossimo? Risposta: Vai e sii il prossimo suo. I detti di Gesù sono pieni di questi geniali ribaltamenti (“porgi l’altra guancia” è un altro), il punto è che fa una bella differenza chi ha pronunciato quella frase e come e quando e in quali circostanze e dentro quale filosofia di vita, di più: dentro quale destino e dentro quale promessa di liberazione quella frase può essere intesa. Il “mi piace e la metto” è un rimestare nella più assoluta superficialità di giudizio QUALUNQUE cosa si dica.
Quello che dici è assolutamente vero in riferimento al tizio che ti ha fregato la pagina di romanzo (incredibile!).
Però attenzione a non generalizzare, sì da rimestare il tutto più assoluta superficialità di giudizio.
Leggo nella minibio di David Shields: autore di opere narrative e saggistiche di successo, tra cui “Black Planet” (finalista al National Book Critics Circle Award), tradotte in dodici lingue, e di racconti e saggi brevi su varie testate (come, ad esempio, «New York Times Magazine», «Harper’s Magazine», «The Village Voice», «McSweeney’s» e «The Believer»).
Non mi pare sia un anonimo imbecille internettaro che non sa nemmeno di cosa stiamo parlando.
sì da rimestare il tutto nella più assoluta superficialità di giudizio.
(Dannato copia/incolla!)
Nel caso di Shields il contesto credo di averlo capito, Monica, se non altro perchè è stato ampiamente spiegato da molti che sono intervenuti in questa discussione. A volte qualcuno ci ha richiamato, cosa altrettanto importante del contesto, al senso delle parole stesse. Cosa si intende per realtà? Ha giustamente chiesto Gaetano Failla. Io potrei chiedere: cosa si intende per “se stesso”? Il nostro DNA è fatto al 90% per cento di DNA altrui. L’Ego può venire identificato con il 10% esclusivamente nostro? E noi, come individui, sappiamo distinguere quel 10% dal restante 90%? Deleuze diceva: non c’è termine più vuoto di IO, perché (al contrario di TU, parola che storicamente nasce prima) non designa nulla. Pare dagli studi linguistici che i primitivi usassero la terza persona per parlare di sé (sì, proprio come Maradona). Se oggettivizzo “me stesso” parlandone, io sono un Lui. Ora: di queste cose i filosofi hanno scritto e scrivono da secoli. A me, sinceramente, cascano… di fronte a chi crede di essersi genialmente inventato le Domande , senza neppure peritarsi di conoscere la Storia del Pensiero. Una delle prime lezioni universitarie cui ho assistito alla Statale di Milano era tenuta da Enzo Paci (grandissimo filosofo teoretico). Prese la parola PERSONA e ce ne illustrò i cambiamenti di significato nello sviluppo della Storia del Linguaggio. Per i greci, è noto, PERSONA significava MASCHERA/PERSONAGGIO. Noi tendiamo a considerare PERSONA la nostra intimità che, in genere, nessuno o pochi capiscono. Pirandello su questa distonia scrisse i suoi capolavori. Mi chiedo: è mai possibile che all’alba del 2011 ci si metta a maneggiare queste questioni come se fossimo i primi a cui sono venute in mente? Dando per scontati termini che scontati non sono affatto? E’ possibile continuare a leggere, in saggistica e in romanzo, scritti di scrittori che IGNORANO la Storia delle Parole, cioè della stessa materia che usano per scrivere? Questa crediamo davvero che sia comunicazione trasparente? O è un universale obnubilamento nel quale però ci si schiera da una parte o dall’altra, senza manco sapere di cosa si sta parlando?
Del resto, avevo già detto che Shields è altra cosa dall’Anonimo Internettaro. Mi chiedevo solo se gli Anonimi Internettari non siano già oltre, non travolgano di fatto lo stesso Shields.
Mi pare che stiamo girando intorno a ribadire sempre le stesse cose.
Poi, per stanchezza, esaurite le argomentazioni può venire la tentazione di “demolire” l’avversario inserendolo (senza nemmeno conoscerlo, senza averlo letto e senza sapere nulla della sua storia) nel folto elenco di “scrittori che IGNORANO la Storia delle Parole, cioè della stessa materia che usano per scrivere”.
Folto elenco, il suddetto. Segno inequivocabile che il romanzo è in crisi.
Ovviamente sto rilasciando le mie opinioni in maniera giocosa (ma sincera). Mi diverte molto questo batti e ribatti.
Adesso vado. Alle 18 ho un colloquio di lavoro.
Non è invece indicativo il curriculum né la quantità di copie vendute da Shields, in quanto basta farsi oggi un giro in libreria per vedere decine e decine di libri di autori che hanno venduto milioni di copie e che oltre ad essere dei perfetti sconosciuti per noi, non hanno avuto incidenza alcuna.
Vi ho probabilmente annoiato con il mio vizio di citare spesso e volentieri la cultura lakota. Ricordo solo che è stata l’ultima grande cultura ANALFABETA sopravvissuta fin dentro la modernità, in quanto gli indiani d’America NON SCRIVEVANO. In altra sezione, si discute di Pasolini, che di omaggi alla cultura degli analfabeti ne fece molti. L’Analfabetismo di ritorno invece è fenomeno tutto contemporaneo: scrittori/massa e lettori/massa usano e scambiano parole (o immagini) senza alcuna consapevolezza del senso di quelle parole e supponendo (a torto) che l’uso comune sia condivisione partecipata di un significato univoco, mentre così non è, quando ciascuno intende a modo suo. E dunque: è troppo chiedere un tantino di chiarezza e di consapevolezza a chi pubblica un libro di critica/proposta letteraria? E’ evidente che a Shields, o a chi per lui, si richiede molto di più che all’Anonimo Internauta.
non ci vuole molto per conoscere meglio Shields.
sperando di fare cosa gradita, http://www.youtube.com/results?search_query=david+shields&aq=f
Monica: vedi come le citazioni decontestualizzate tradiscono il pensiero della persona citata? Nel tuo commento delle 3.20 mi accusi di aver “scritto una frase che stigmatizza un intero popolo del tipo “roba che poteva venir in mente solo agli amerikani”.
Ma IO NON AVEVO SCRITTO QUESTO. Non l’avevo scritto perchè (citando) hai omesso un pezzo fondamentale. Questo: “amerikeni…categoria dello spirito ben diversa dagli americani, come racconta benissimo Alberto Ongaro nel suo “Un romanzo d’avventura”).
questo contiene una lezione di Shields del 25 marzo http://www.youtube.com/watch?v=2bKSf4d6S_s
Massimo ci chiedeva all’inizio: È possibile paragonare tale operazione (di Shields) a quelle che compiva Andy Warhol (penso alle note icone di Marilyn Monroe, Mao, Che Guevara)? Con il libro di Balestrini “La violenza illustrata” è certo possibile fare il parallelo, con Shields mi pare di no. Shields non documenta, bensì propone. Indica una tendenza. In soldoni: basta coi romanzi ormai ridotti a ripetizione di moduli stereotipati e via libera a una sorta di autobiografismo collettivo (perché costruito per assimilazione di “altro” dopo vaglio) che usa l’aforisma come forma Principe dell’espressione del Pensiero. Ora: si può dire che per un qualsiasi storico della filosofia , o della scienza, questa è una solenne cazzata?
Peraltro direi DIPENDE anche rispetto alla nausea per i moduli ripetitivi di certi romanzi. La critica cinematografica in questo senso mi pare assai più avanti di quella letteraria. Proviamo a pensare alla famosa sequenza della doccia di Psycho, ripresa da migliaia e migliaia di cineasti di tutti i livelli, e in certi periodi così obbligata che non si riusciva a vedere un thriller senza scena della doccia. Ora, a parte il fatto che quella scena era stata codificata prima di Hitchcock da Val Newton (La settima Vittima, film degli anni 40), a parte questo che può essere una nota erudita a margine di nessun interesse, beh… se consideriamo il cinema come un narrare collettivo, a voi pare una cosa da poco che la stessa identica situazione venga esplorata in tutte le varianti stilistiche possibili? Non è anche questa Ricerca Estetica? Non vi siete mai appassionati leggendo un romanzo nel vedere come una situazione standard, quasi obbligata, che avete già conosciuto in molti altri romanzi, venga da quel certo autore sviluppata in modo quantomeno insolito? Dunque, se si parla dei pregi della de-contestualizzazione e del ri-uso , perchè mai la scrittura aforistica dovrebbe essere diversa da quella romanzesca? Non è evidente che l’assunto teorico di Shields si smentisce da solo?
Per quanti secoli i pittori hanno dipinto crocefissioni e Madonne col bambino? Vogliamo forse negare la profonda, radicale diversità tra quelle opere che pure ci ripresentavano all’apparenza o per obbligo di mercato la stessa situazione? Ha senso sentirsi paraculi sbottando: che palle ‘ste crocefissioni? Lì per lì può essere liberatorio come esclamare “per me la Corazzata Potiemkin è una cagata pazzesca”, ma la vogliamo fare scrivere a Fantozzi la Storia del Cinema?
Nella storia dell’umanità quante persone si sono baciate?
Provate a dire “che noia, sempre quello” a due ragazzini che stanno avvicinando i propri volti per darsi il primo bacio, col cuore che scoppia e il sangue che scavalca le barricate.
La stessa cosa per un romanzo.
Quando apro un libro e alla prima riga di pagina 5 leggo “Era una notte buia e tempestosa”, accetto che sia la prima notte buia e tempestosa della storia dell’Universo.
Poi (se continuerò a stare alle regole di quel gioco) dipenderà dalle righe e dalle pagine seguenti.
Così come quei due ragazzini: forse il primo contatto delle loro labbra e lingue non funzionerà. E cercheranno altri ragazzini e altre ragazzine.
O forse invece toccheranno insieme fili elettrici scoperti e troveranno una porta per entrare nel mondo.
Intanto ho accolto grato l’invito di piero v. e mi sono visto su YouTube la conferenza di Shields. Per certi versi la conferenza mi ha chiarito delle cose. Ad esempio che Shields muove da una distinzione tutta americana tra Fiction e Non-Fiction, che non è esportabile pari pari in Europa. Shields assume questa distinzione come data e oggettiva, mentre ci sarebbe da interrogarsi se lo sia davvero o quantomeno come/quando sia nata e quanto possa durare (il che non è problema da poco). Ammette, nella conferenza, che ci sono forme narrative che non sono collocabili rispetto a questa classificazione, ma le giudica come un Limbo in cui le due opzioni coesistono nel senso che l’una (la non-fiction) tende progressivamente a liberarsi dalla sudditanza all’altra. Cita ad esempio Le confessioni di un oppiomane di De Quincey giudicandole come un “fictional account” sulla dipendenza da oppio. Già qui, ho cominciato a incazzarmi, ma lasciamo andare. Distingue, Shields, anche tra l’idea di Non-Fiction dei suoi genitori, legata al Giornalismo (una prosa che pone i fatti al centro del Reale) e la Non-Fiction sua (o delle “nuove” generazioni) intesa come “arte più sofisticata” del Pensiero e come lingua perennemente in trasformazione (anzitutto perché pensata) come un fiume dove l’acqua non è mai la stessa. Questa è “la lingua trasparente che conduce al reale”. Che Shields si esprima in modo affascinante non c’è dubbio, non si capisce molto bene dove voglia andare a parare, ma non importa. Tra l’altro per noi europei che tendiamo a pensare alla Non-Fiction come Saggistica, ben diversa sia dalla riflessione vissuta che dall’indagine giornalistica, risulta ancor più “weird” di quanto Shields non sospetti. Se tenesse una conferenza alla Sorbona sarebbero cazzi… Ma i guai veri è quando parla della Fiction presentata come un’accozzaglia di storie, personaggi, visioni, perpetua esternalizzazione che dalla realtà ci allontana. Ora che la Fiction possa apparire così non lo si può negare. Il problema è che tutto ciò non può essere svilito a Non-Pensiero. La rappresentazione simbolica è da sempre manifestazione del pensiero in atto. Il Mito della caverna di Platone rappresenta simbolicamente un’idea attraverso una situazione, (che tra l’altro pare al lettore moderno annunciare profeticamente il cinema). Quando Platone ci invita a dubitare dell’apparenza perché le ombre che vediamo proiettate sul muro sono prodotte alle nostre spalle, e dunque quella che crediamo essere realtà, è la realtà di un artificio, è realtà ri-prodotta di una Diversa Realtà che ci è occulta… ci fa capire un concetto, ci parla del problema del Reale, illustrandolo con una metafora, che non occulta, bensì rivela il Pensiero e ce lo rende davvero comprensibile, ben più di un’astratta enunciazione. La creazione/invenzione di un Mito non è MAI separabile dal Pensiero. E’ ben vero che la nostra contemporaneità ci ha messo di fronte a un problema: i segni fictionali da cui siamo costantemente bombardati , moltiplicandosi e negandosi gli uni gli altri, infinitamente superiori per quantità alle nostre stesse capacità di percezione, ci paiono risultare alla fine illeggibili, o comunque sentiamo di doverci difendere da essi, per ritrovare una (presunta) autenticità interiore e un senso della realtà che parli di più al nostro intimo. Tutto ciò noi lo sentiamo VERO nella nostra esperienza quotidiana. D’altro canto, scopo di qualunque semiologo, insegnante, critico, educatore, chiamatelo come vi pare, è fornire strumenti di lettura dei segni ai nuovi Analfabeti di Ritorno che tutti siamo, chi più chi meno, diventati. Se la Società delle Immagini, bombardandoci di Immagini le ha rese simbolicamente illeggibili, non sarebbe bene favorire un minimo di pensiero critico che quelle Immagini sappia smontarle? Baudrillard lo fa questo lavoro, che è lavoro sporco, e difficile, ma contribuisce costantemente ad aprire le menti e a ritrovare percezione. Ma Baudrillard non è un autore di Non-Fiction nel senso in cui usa il termine Shields… cioè: Shields parla di filosofia senza considerare la filosofia. Comunque, andiamo avanti. Se proclamiamo il Romanzo (o il Cinema, cui si potrebbe applicare anche più coerentemente il discorso di Shields) come Cosa Morta, a favore di un’altra cosa presunta Viva che sarebbe la Non-Fiction (quella così definita da Shields) entriamo diritti, con le trombe, proprio sul terreno della Falsa Coscienza da cui si presumeva di poterci/doverci liberare. Per chiunque abbia studiato un minimo di filosofia, questo è un tipico argomentare sofistico, basato sulla capacità di persuasione e sul fascino dell’eloquio, e del tutto antitetico alla difficile, aspra ricerca critica della verità e della realtà. Non c’è strada alcuna fuori dalla lettura critica dei segni. Può esserci una sorta di autoconsolazione, un’illusione di Profondità, ma che fine fa il Pensiero Critico?
Quello sopra era, mi rendo conto, il post più difficile che ho scritto finora, però spero possa essere lo stesso un contributo. Ora davvero devo schiodare. Mi attende la Turchia. E poi potrò magari dirvi se la classificazione Fiction Non-Fiction abbia qualche valore laggiù.
Buon viaggio.
In questi mesi, in cui ti ho conosciuto, mi sono arricchito.
Davvero.
Ragazzi, grazie a tutti per gli auguri di pronta guarigione. Si fa per dire. Manco uno ne ho visto. Sto malissimo. 🙁
ma Gianfranco non doveva essere partito? sta ancora dialetticando?
E’ vero, Antonella: auguri.
E se la febbre non è nulla di serio ma solo una di quelle febbri che ci beccavano da bambini, beh, se puoi goditela: leggi, fatti coccolare, riposati, dormicchia, sogna a occhi aperti, ascolta musica, poltrisci. Ogni tanto fa bene.
Be’… e chi se lo immaginava che questo post avrebbe dato esito a un confronto così entusiasmante?
Immagino che ne sarebbe lieto lo stesso Shields, nonostante le legittime e motivate critiche (sono tentato di scrivergli per renderlo partecipe).
Grazie a Piero V., che ci ha indicato un interessante video/lezione dello stesso Shields su YouTube (che inserirò in aggiornamento del post). E grazie a Gianfranco Manfredi per aver visto il video (era piuttosto lunghetto) e per averci offerto questo interessantissimo e dotto commento delle 6:40 pm.
@ Gianfranco Manfredi
Caro Gianfranco, raccontaci come è andata al ritorno dalla Turchia… magari sul post dedicato a “Tecniche di resurrezione” (così lo rianimiamo… lo ri-galvanizziamo).
Grazie ancora a tutti gli altri partecipanti: a Luciano, a Ennore (benvenuto a Letteratitudine!).
E un augurio speciale a Monica (in bocca al lupo per la salute) e ad Antonella (riprenditi in fretta dall’influenza).
Naturalmente la discussione rimane aperta per nuovi eventuali contributi.
@ Luciano
Grazie, me la sto godendo a sprazzi, intanto scrivo un po’ del prossimo post. Che non è questo.
Ho finito di leggere tutto il postato di ieri e oggi poco fa. Dico solo una cosa: una delle più belle finzioni letterarie che ricordo circa il concetto di cerchio indiano, il mettersi di fronte e il cambiare di posto, e la simbologia di quel gesto collettivo, per me è il tè del cappellaio matto, di Carroll.
Tra il romanzo concettuoso di Eco (che più che un romanzo sembra un sofisma, un trattato filosofico-semantico) e la parabola letteraria di Carroll, c’è quel quid di differenza che segna la sapienza e la fortuna dello scrittore. Un romanzo deve essere una storia comprensibile a chiunque sappia leggere. Raccontare verità fondamentali senza far venire il mal di testa. E fare un romanzo che chiunque sappia leggere, anche chi non ha una laurea o un diploma o comunque non è interessato direttamente a problematiche filosofiche o scientifiche o psicologiche, etc.; e allo stesso tempo invece offrirgli la possibilità (non nell’intento dello scrittore, non sto parlando di romanzo pedagogico, beninteso) attraverso lo svolgersi della storia di un apprendimento di queste tematiche o punti di vista, certamente è un dato di fatto che Eco non riesce fare. Tutto il suo sapere non sposta di un’acca il lettore che legge. Il tè del cappellaio, invece, introduce il lettore in un mondo di opposti che si guardano, andando dritto in fondo al cuore, risvegliando – ripeto risvegliando – un sapere che il lettore o non si ricordava nemmeno di avere già acquisito in precedenza, se mai faceva parte del suo patrimonio d’esperienza; e se non vi faceva parte assume la funzione di illuminazione su un argomento molto più profondo di quanto una semplice storia sembri voglia dare, imparando – sì ho detto imparando – il lettore.
Ma di toccare le corde del lettore, corde nel senso latino di cuore, solo uno scrittore che si propone umilmente – sottolineo umilmente – di narrare, può raggiungere lo scopo. La letteratura italiana è tanto scaduta perché si dà troppo spazio alla gente come Eco che crede di poter attrarre con la dialettica e l’erudizione.
Se ho bisogno di leggere un romanzo “difficile”, difficile nel senso di iper-congegnato e su diversi livelli, certamente non sceglierò Eco ma piuttosto mi rivolgerò a Borges, perchè lui sì ha dimostrato che con l’erudizione si può fare prosa letteraria, ma questo può farlo solo un matematico e non un umanista. In quanto Borges vede la parola come un segno matematico, e così diventa essenziale, naturale al punto che il lettore non si accorge della manipolazione erudita, anzi si lascia trascinare perché si accorge che Borges non è in malafede ma parte da concetti base molto terra a terra, uno-due-tre; questo gli dà la facoltà di raccontare quello che qualcuno ha definito una “storia che si fa”.
E’ questo che intendevo, ieri.
Ciao… ora vado a rilassarmi un po’ . Buona serata.
@ Massimo
Ciao, grazie.
Buona serata anche a te. Fatto vacanze rilassanti?
Ancora a Luciano.
Aggiungo che mi basta sapere quello che ne hai detto tu per depennare Il Cimitero di Praga, (è questo il titolo?, la febbre mi è salita), dalla mia lista d’attesa.
Niente di nuovo sotto il sole.
Ri-ciao
Cara Antonella, in verità intendevo “vacanza dal blog” (ogni tanto ne ho bisogno).
Rimettiti presto!
Ieri sera avevo voglia di un libro che mi facesse volare alto e basso (come i grandi libri). E così…
Lo dedico ad Antonella.
me so’ pijato ‘da la libbreria sta storia famosa der padre ricco (chiamato Li’) che se ne vole annà ‘n pensione. E l’impero suo lo vole lassà a le tre fije che c’hanno de li nomi azzurdi che manco le fije d’Arbano e de Brijatore.
Alora le fa’ venì e je domanna: “ma quanto ve volete bbene”.
“Un casino” risponne la prima. “Ne la vita mia mai, mai amerò nessuno come ar papà mmio, nimmeno ar marito mio”
“Brava” je dice Lì. E je sgancia un terzo de l’impero.
Po’ la stessa dimanna la fà a la siconna fija.
Che risponne: idem co’ le patatine fritte, ma c’aggiunge puro el checiap.
“Brava ache tu” je fà papà Lì. E je dà er seconno terzo de ‘st’impero.
Invece la terza fija vo’ fa’ la sincera e je dice: “Papà, te vojio bene come ‘na normale fijia vo’ bene a ‘n normale padre. Punto e basta. Senza tante manfrine. Anzi t’avverto: quanno me sposo, ar marito mio je vorrò bene un casino e una cifra”
“Li mortacci tui!” je grida Lì: “svergognata. Te ripudio e la parte tua la dò a le tu’ sorelle che me vojiono bene. Vattènne!”
E qua finisce la prima scena de’ sta traggedia scritta da Uilli Scespi, dar titolo Re Lì.
Vedemo come che và a finì ma se ce stà scritto “traggedia” me sa che finirà ìn traggedia.
grazie
ma cos’è .. l’avvertimento di un fratello?
Antonella: no, dedicavo a te il riassunto simil-romanesco.
ah, pensavo che mi avessi sostituito alla terza sorella.
Ti lascio a pensare che cosa ho pensato.
Comunque, a questo punto gradirei conoscere anche il resto della storia. Dove va la terza sorella, una volta cacciata?
@ Monica
Ciao Monica, grazie.
Alla luce degli ultimi giorni ho messo a punto qualcos’altro, approfittando della forzata immobilità.
Caro Luciano / Idefix, Grazie!
Leggendo il tuo bellissimo romanesco,mi hai fatto ricordare un carissimo amico di Roma che non vedo da tempo e che mi aveva regalato un bellissimo libro di poesie scritte da lui in vernacolo. Mi sono messo a cercare il libricino disperatamente e prima di scovarlo fra una montagna di altri libri più voluminosi, mi sono trovato in mano un altro libro di poesie in spagnolo,che avevo assolutamente scordato, con splendida dedica, di un altro amico sempre di Roma che non vedevo e non sentivo da ancora più tempo, tanto che mi ero pure scordato il cognome, da stasera mi dedicherò a ricercarlo.
Così ho pensato di dedicarti una poesiola, breve solo per la difficoltà di trascrizione:
CHI SE CONTENTA GODE
seduto sur barcone guardo fora
le rondini che strillen’e che fanno
dumila giri, un’ appress’a ‘n antra,
e penzo:quanto se diverteranno.
Me piacerebbe de volà co’ loro
ner celo ch’ar tramont’ è tutto d’oro
e libramme per aria, vedè tutto,
che dall’art’ è più bello pur’ er brutto.
Ma poi ‘n penziero ‘n testa me s’avanza:
‘nzai che botto farei, cò questa panza.
E’ mejo sta seduti qu’ a guardare,
vedo l’ucelli e me diverto uguale.
Ciao
Grazie, Ennore.
Il romanesco non lo conosco: ce l’ho solo un pochettino (ma proprio poco poco) nelle orecchie e nel cuore perchè mio nonno materno si chiamava Ferruccio Proietti, era di Trastevere e (finchè morì nel 1977) abitò con noi. Così io (fin da bambino) fui abituato a quella cadenza, a certe espressioni, alla lettura di Trilussa e Pascarella (assai meno Belli che a nonno non piaceva).
Antonella: la storia de ‘sto re Lì (che Uilli Scespi lo scrive addiverso: King Lear) la sto a legge’ drentro ar libbrone che raccojie tutte quanne le traggedie de Uilli. Poi a casa ce n’ho altri due, uno co’ tutte le commedie (che dev’esse’ da ride’) e uno co’ le traggedie storighe e le poezie (che ha da esse’ ‘na palla cozmica). Però ‘sta storia de’ re Lì nun è male anche se intanto, dopo ‘na decinaia de paggine, n’è morto manco uno. Ahò! Dateve da fà: se invece de uilli Scespi era ‘n telefirm tipo Dester o Si Es Ai, a ‘sto punto er sangue grondava fora dar televizore mio e me ‘nzozzava er tappeto de l’Ikea.
Luciano, fossi in te, la scriverei io una Traggedia in romanesco. Giuro che te la compro.
Comunque voglio sapere la fine: datti da fare a finire di leggere la storia di Re Li e finisci di raccontare! Non puoi dare un incipit e poi lasciare così!
Non è catartico!
Antonè…me stai a gasà de drenalina.
L’hai detto tu che, siccome sono ammalata, mi devo far coccolare
quindi… vedi un po’ di salvare Cordelia alla fine.
Altrimenti ci arrabbiamo.
stavo cucinando qualcosa e mi è venuto un dubbio atroce: non è che ti avrò fatto spoiler?
Che è ‘sto spoiler? Er fratello der boiler?
Spoiler is slang for any element of any summary or description of any piece of fiction that reveals any plot element which will give away the outcome of a dramatic episode within the work of fiction, or the conclusion of the entire work.
ciao
In poche parole, chi è il colpevole? Il maggiordomo
Buona notte a tutti.
Quando ho letto il tema-manifesto di Shields sono andata dal mio libraio ad ordinare il testo, ma siccome ancora non arriva mi sono letta alcuni post che ho trovato tutti interessanti anche se alcuni, non avendo gli autori letto il libro sono, come è logico, fuori argomento.
Mi sono soffermata su quelli di Gianfranco Manfredi di cui ho estimato la cultura e con cui condivido molte riflessioni.
Anche io mi sono subito chiesta cosa vuol dire “realtà” per l’autore di questa trovata.
Realtà sono i fatti spogliati dalla percezione degli stessi?
Realtà è la Bellezza?
Sono i desideri?
Realtà è soggettività o oggettività, razionalità, emozione , empatia?
E’ la storia?
E’ il Presente o il Futuro?
E’ il patrimonio culturale che posso utilizzare e copiare, canalizzare verso una nuova ricerca di senso?
In che cosa cambia l’esperimento letterario di Shields rispetto a Cervantes o rispetto al manifesto manzoniano o alla concezione di realtà di Pirandello o di Pasolini o di Eco?….
Aspetto che il libraio mi consegni l’Opera di Shields per parlarne con cognizione di causa e non rischiare di fare della chiacchera la “realtà” del novello manifesto letterario.
Siccome parliamo, credo, di romanzo con la lettera maiuscola penso che un romanzo debba avere il fascino innocente di un bambino, ma che guardandolo vediamo in lui l’uomo di domani.
Leggere non è un passa- tempo ma un impegno per crescere, per ritrovarsi quindi alla fine cambiati in meglio.
Un romanzo quindi deve almeno sturare un canalino della mente che prima era chiuso. E per far questo un romanzo non è soltanto contenuto “realtà” fattuale, ma è soprattutto “Scrittura”,ossia modo di comunicare idee e visioni.
Mela: potrei dire che la realtà è tutto ciò che ti fa piangere sanguinare ridere godere sperare incazzare scendereinpiazza lavorare crepare pregare odiare amare.
E scrivere.
Sebbene questo post parta da premesse lunghissime e probabilmente noiose e, in special modo antipatiche, ma necessarie (i tempi sono antipatici); sebbene contenga numerose divagazioni su argomenti che però sono stati toccati all’interno del thread e mi sembrava che riscuotessero un minimo di interesse; sebbene lo svolgimento del discorso a volte assuma un vago sapore di complicato (i tempi sono complicati); il discorso naturalmente, e finalmente, verterà su Shields e la sua Fame di Realtà.
Preciso che le persone citate assumono una funzione puramente indicativa per significare una simbologia di operato, cioè un ruolo di attore dove la parola persona ha la valenza greca di maschera.
Ho dovuto anche generalizzare e semplificare fino all’assurdo perché lo spazio è quello che è, e anche perché le tematiche toccate sono tali e tante, e di così vario genere, che un libro non basterebbe a svolgerle tutte. Dieci libri non basterebbero.
D’altronde, per arrivare nuovamente al libro di Shields dopo la bellezza di quasi dieci giorni, mi occorreva di analizzare, seppure brevemente, le dinamiche che presuppongo siano all’origine della realizzazione del suo libro: e che, ora e probabilmente, reputo la punta di un iceberg. Se mi sono sbagliata, vorrete certamente farmelo notare; e di tutto quello che ho dimenticato di aggiungere e/o valutare e/o inserire vorrete perdonare ma, per ovvi motivi, non potevo scrivere dieci libri.
Dedico questo mezzo-pamphlet (mezzo perché l’altra metà la scriverò se un giorno leggerò il libro), al prof Emilio che, pur essendo futurista, scommetto che fascista non è; e glielo dedico perché è l’insegnante che avrei voluto, che non ho mai avuto.
Lo dedico anche a Monica che, “pur essendo donna”, possiede una logica così lucida et limpida et chiara, da obbligarmi a pensare a Sora Aqua, una delle protagoniste del più antico testo della letteratura italiana.
Lo dedico a Luciano e Gianfranco per i quali mi rendo conto sia molto difficile. Ho comunque in programma di leggere buona parte dei loro libri.
A tutte le bellissime persone che sono intervenute e che interverranno e che mi hanno permesso di crearmi una visione davanti, dietro, sopra, sotto e dentro la cinepresa.
E infine a Massimo la cui ospitalità è così lungimirante da essere degna di quegli anfitrioni che si peritano di ospitare anche Freaks di quella strana “malattia” comunemente denominata la lettura.
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IL MEZZO-PAMPHLET
Notate come i giganti della letteratura italiana del dopoguerra, per raccontare la realtà quotidiana, si siano spesso accostati al lettore creando grandi metafore fantastiche (il deserto di Buzzati, per esempio? o i visconti e i baroni di Calvino? ); e lo abbiano fatto trasfigurandola in saghe umane di altissimo livello, valide sempre. Per questo vengono chiamati classici. L’uso della metafora ha permesso loro di sopravvivere all’interno di difficili politiche quotidiane, mantenendosi a quella certa distanza che gli poteva dare la possibilità di parlare liberamente (Buzzati addirittura di politiche difficili fece in tempo ad attraversarne due; Calvino cominciò a pubblicare nel 1947).
Se vi dicessi che io, oggi, mi sento confinata in un processo storico molto ben più sottile e velenoso di un confino di un Carlo Levi (sono esagerata?) che, invece, è ben sistematizzato e rientra in una logica che, pur non ritenuta giusta dal soggetto che la subisce, una logica pur tuttavia ce l’ha, e perfettamente chiara; ci credereste?
Un processo, l’odierno, da cui è difficile uscirne perché l’intellighenzia che l’ha alimentata, ha ammorbato tutto.
Dovunque trovo muri di gomma fatti di gente ben allineata che ha preferito dimenticare. – Si ha bisogno delle giornate della memoria per ricordare. – Che ha preferito dimenticare un’eredità culturale di cui si vergognava. E, se se ne ricordava, ha preferito nascondersela o giocarsela entro termini da contro-manifesto al manifesto subentrato, che voleva proporsi come il contro-manifesto. Dunque il contro manifesto, che rilevava la contraddizione del manifesto che si voleva proporre come contro-manifesto, sputava nel piatto dove mangiava?
Gianfranco (la persona), fammi da interlocutore, per favore, chè la “traggedia dar titolo Re Li” (almeno quella del primo atto) ha da essere superata: ma questi indiani di cui si parla sempre, sono veramente conosciuti? Ma, soprattutto, questa gente che ne parla è mai entrata, non simbolicamente (per poterne parlare), ma realmente (per poterne sperimentare le verità), nel loro dramma?
L’illuminismo ha insegnato a parlare, a far dialettica, ma mi sembra che l’unico risvolto empirico che ne sia stato tratto siano: tecnologia e bomba H.
E tu dirai: “Alla faccia! Dici poco?” Sì, dico poco, perché le Ferrari in mano ai bambini capricciosi, mi sembrano uno spreco e per di più pericoloso.
Dietro ogni tecnologia, ci deve essere un sostrato spirituale avanzato, non un’ideologia da illuminismo, da cui nascono dei piccoli geni marxisti che, applicando a loro uso e consumo una teoria filosofica che in verità non voleva dare soluzioni pratiche ma restare nel limbo dell’astrazione, si arrogano il diritto di decidere che cosa è giusto. Peggio: di soggiogare.
Filosofia fatta da un filosofo che, tra l’altro, non aveva mai detto di essere un santo né un capo spirituale, nè tantomeno un Avatara.
Perché, poi, Moloch sputa gli Hitler. E gli Stalin. M-i-ao suggerisce la mia gatta stamattina.
Il processo di Norimberga non ha potuto dare vera soddisfazione alle vittime perché, tra i vincitori alleati, c’era una Russia che non era esattamente quello che si suole chiamare un modello di democrazia, dal momento che si arrogava diritti su popoli liberi e che, la storia ce lo ha raccontato, spesso ha condotto una politica molto vicina alle pratiche naziste.
I giudici di Norimberga non poterono veramente essere liberi di giudicare. I giudici di Norimberga non deliberarono liberamente.
E’ per questo che si continuano a fare giornate della memoria all’olocausto; perché le vittime, in verità, non hanno mai avuto veramente e pienamente soddisfazione. Così, quando c’è stata da spartire la torta e da rimediare al marcio, per togliersi di torno la colpa della questione ebraica non si è potuto trovare una soluzione ma ci si è limitati a spostare il problema. Dove? Ma in una terra che ospitava già un popolo e che non poteva fregargliene molto se l’illuminismo si era sbagliato. Oltretutto andando ad alimentare ulteriormente, con questo insediamento estemporaneo, un’antichissima altra questione, che risaliva a prima delle “sante “crociate.
Per questo dico che, dietro una tecnologia, ci deve essere un sostrato etico di un certo rilievo che lavori per la pace non contro la guerra; non una mera astrazione filosofica, quindi, altrimenti si è obbligati a fare un pastiche/pasticcio, come il libro di Shields.
Oggi si parla tanto di Shoah, di mondo globale e, certo, bisogna pur avere uno sguardo aperto e internazionale, ma allora perché gli olocausti di cui si parla sono sempre gli stessi? Perché non si fa il minuto di silenzio, per esempio, anche per il popolo tibetano che, mi pare, di ragioni ne abbia anche di più dei palestinesi; e che, soprattutto, hanno subìto un’invasione annunciata (cronaca di una morte annunciata?), senza aver alzato un braccio a ferire? Perché nel 1959 l’Onu ha risposto picche alla gentile richiesta del Dalai Lama, anzi fischi e fiaschi? Il Dalai Lama ride spesso, sorride almeno. E ci credo!
Dunque, vedi, fa comodo parlare dei pellerossa perché, “tanto”, li si considera un caso di archeologia (che ingenuità pensarlo; essi sono ancora vivi ma, eruditi delle manie dei bianchi, hanno ben pensato di continuare in segreto) e si son fatti più furbi; edotti ormai, loro malgrado. E non sto a spiegare il come, perché non ho la patente del traditore.
A chi interessa può intraprendere una ricerca.
E, per inciso, ritornando al discorso precedente: che diversità questi monaci tibetani dai missionari europei del nuovo mondo… Ma tu, hai mai visto un buddista voler convertire qualcuno? Io no.
Oceani in mezzo, appunto. Di saggezza.
Preferirei-di-non essere un’europea in mezzo a europei dalla lingua biforcuta che, ancora oggi, mentre a parole sono Equo-Solidali, nei fatti continuano ad alimentare il braccio del mostro che ha colpito i nativi americani, i tibetani, gli aborigeni, i misteriosi Dogon africani, …
E’ anche quello di vedermi attorno gente che dà del razzista ad altra gente che si permette di dire che non vuole musulmani qui in Italia. Ed è anche il dramma di vedere una società accogliere, senza il dovuto discernimento, della gente che, quando la loro figliolina è intorno ai sei anni, le tagliano la patata e gliela cuciono come quei salamini che a Ferrara chiamano bòndole. E il cui esito futuro e quasi immediato, logico, sarà dargli il voto. Il voto a questa gente qui in Italia?
E adesso cito io, visto che piace tanto la letteratura gialla: andatevi a leggere “Francesca è scomparsa”, di Pierfrancesco Prosperi. E’ un impressionante esempio di letteratura nostrana che, più che gialla (ma l’editore probabilmente ha voluto così), chiamerei di genere fantascientifico. Se è vero che la letteratura è la testimonianza del tempo che si vive (sigh!), questo racconto mostra esattamente qual è la paura del sommerso nazionale! Altro che voto ai musulmani, andiamoci piano; certi diritti devono venire assimilati nel sangue prima, mica sono beneficenza… Gli svizzeri importano lavoro a termine, e pagano (a differenza di noi) molto bene. Finito il termine, se hanno ancora bisogno di te, ti rinnovano il contratto; diversamente te ne torni a casa. Che, rispetto a quando sei partito, sei un ricco. Quid pro quo, insomma… e son contenti tutti. Insomma, se decidiamo di fare del consumismo, facciamolo davvero.
Avete mai provato a vivere in un paese musulmano? Non a farci la crociera o il safarino per smorzare la noia dell’all inclusive. E a viverci da donna? Mai provato? E l’avete mai vista la patata cucita? E una mamma che piange perché la sua figliolina ha sei anni e dice che se non la porta a tagliare, un marito non lo troverà? E mi chiede che cosa deve fare? Una donna senza marito e senza figli e senza soldi, lì, non è mica una vita facile, credetemi. Diventate la pezza da piedi di tutti, perfino dell’asino di famiglia costretta a tenervi in casa, e che conta di più; questo è sicuro.
Io, che un giorno di qualche tempo fa ero a fare una normale visita ginecologica in un normale dispensario italiano e che aspettavo il mio turno, successivo a quello di una musulmana importata, incinta, imbragata, e naturalmente col marito che non la mollava un attimo nemmeno quando è entrata dalla ginecologa perché è l’uomo che interloquisce con l’esterno in quanto la donna non sa parlare figuriamoci del suo corpo; ho visto come è uscita la ginecologa dopo la visita alla patata di Allah. Di corsa, stravolta e incazzata. Dove andava? In bagno?
A me: – che venivo dopo e che avevo silenziosamente compreso pur essendo la ginecologa un fior fiore di professionalità; alla quale avevo tentato di strappare un sorriso perché la giornata non le fosse così ostile; e che invece stornava lo sguardo da me e nel frattempo guardava da una finestra mentre aspettava che sul lettino mostrassi una patata (scusate la crudezza) normale; – la sua assistente ostetrica, che di anni ne aveva tanti di più e che la vita, lo si vedeva, aveva indurito, diceva ridendo: “Ah… queste nuove generazioni di giovani dottori. Si vede che si devono fare ancora le ossa”, e intanto la sogguardava preoccupata, fingendo di essere impegnata con me, perché provocarle la risata era l’urgenza più urgente e l’antidoto a uno shock.
E noi vogliamo dare il voto – e sarà presto così – a della gente che taglia in nome di Allah? A della gente che vediamo sempre in televisione a fare folla per motivi divini e politici che per loro è la stessa cosa, ma sempre una folla maschile? Mai un volto di donna in quelle folle. Le vediamo solo quando lanciano le loro urla meridionali al figliolo, al fratello, al marito morto. Mai provato a parlare con un’islamica non emigrata, cioè nel posto in cui vive? Impossibile. Guardata a vista, tenuta lontana non solo dagli uomini, e potremmo pensare che sia una gelosia levantina, ma anche dalle donne che non siano islamiche. (A proposito, la mamma che piangeva per la figliolina che doveva portare a essere tagliata, era islamica, sì, ma somala, cioè messa al giogo; e quindi non aveva riserve a piangermi addosso. Al giogo due volte, anzi tre: perché donna, perché somala, e perché islamica, suo malgrado).
Qualcuno ha mai visto lavorare native islamiche negli hotel di prima, seconda, terza categoria, dove ci si va a rilassare e dimenticare le fatiche dell’anno passato?
O li assorbiamo, non assorbiti. O è meglio lasciar perdere. Ma se abbiamo ancora a problemi a considerarci un’unità nazionale, come potremo inglobare dell’altro?
Insomma, glielo vogliamo dare questo diritto di voto, per cui i nostri padri hanno versato sangue, oppure no? Cosa facevano i loro padri nel frattempo? Per quali ideali lavoravano nei loro paesi? Forse i pavoni maschi nostrani glielo darebbero per gentilezza, sì. Perché i pavoni maschi nostrani queste problematiche sessuali le avevano già risolte con la “rivoluzione sessuale” del 1968 quando, affondando simbolicamente e anche meno simbolicamente a piene mani, affermavano un’autonomia di libertà. Qualcuno un po’ in malafede, lo so, perché mi è stato candidamente confessato: “Ah, che paese dei balocchi, allora! Bei tempi!”
Mentre le ingenue, anche loro, credevano di liberarsi dandola di qua e di là, e non si rendevano conto che, invece di nutrirne uno solo – come le nostre mamme più o meno hanno sempre fatto, perlomeno in pubblico – ne nutrivano a frotte, e finivano col ritrovarsi stranamente stanche, esaurite, sfatte. D’altronde la donna si affermava anche lei, non è vero? Un prezzo da pagare, quello della “rivoluzione sessuale”?
Chi è salita in alto lo ha fatto dimenticando la propria identità femminile, costruendo la sua affermazione in adeguamento a un modello maschile che, però, mi sembra che non abbia funzionato; quello stesso modello maschile che i rivoluzionari sessuali di ambo i sessi stavano credendo di mandare al falò.
E, ancora una volta, la donna ha rinunciato a se stessa. Colpevole due volte, perché non è stata solo aggiogata, ma è tornata a tradire la sua specie.
Tutto questo il musulmano medio odierno – che, più che intelligente è molto astuto – lo ha capito bene. Questa debolezza fondamentale nel rapporto tra uomo e donna in Europa (e dico Europa per dire un certo punto di vista che è quello che può vivere un italiano, uno statunitense, un australiano bianco), lui la sa cogliere molto bene e la sfrutta a suo uso e consumo, in nome di Allah, facendo leva sulla contraddizione collettiva del paese che lo ospita. E pretendendo, sulla base della contraddizione ospitante, un riconoscimento alla sua, di contraddizione.
Faccio un esempio: quando il ministro cinese, non mi ricordo il nome, è andato negli Stati Uniti e ha parlato in un’università (anche di questa non ricordo il nome, ma a chi interessa è roba di poco tempo fa e su internet si trova; vedi mandato Obama), agli studenti che manifestavano e gli contestavano quello che effettivamente non si può dire un programma politico democratico (si riferivano alla questione del Tibet), lui ha risposto: “Signori, voi venite tanto a predicarmi della nostra politica di annessione cinese, ma che cosa avete fatto fino a poco tempo fa? Qui esiste un popolo nativo sterminato, e un altro letteralmente importato”.
Ha chiuso la bocca a tutti.
Allah o’Akbar. Nel nome di una contraddizione.
D’altronde, ancora oggi mi capita di parlare con cattolici molto istruiti, convinti che il cattolicesimo sia l’unica vera grande religione e che le grandi religioni non monoteiste, non parliamo dello sciamanesimo! (da farci una risata), siano solo surrogati, se non addirittura estemporanee postille alla manifestazione di Cristo.
Quanto alle donne in arrampicata: quando la Fallaci ripeteva impunemente alla giornalista Lucia Annunziata “Tu sarai sempre una perdente!” (l’ha raccontato lei, l’Annunziata, mica io), non glielo diceva perché pensava che fosse stupida, tutt’altro. Piuttosto perché la vedeva vendere (ormai ha venduto tutto) un buon cervello (sottolineo cervello), a una causa non chiara (teniamoci in questi termini) che però l’avrebbe fatta salire in alto. Infatti adesso viaggia per l’etere e si perita di fare prefazioni ai morti, fortemente indispettita tra l’altro perchè di questi morti non aveva l’esclusività dell’amicizia: “Oriana, che stupida a pensare di essere stata l’unica!” Ultimamente è stata anche a Tahiti ma non sono più i bei tempi del Vietnam.
L’Annunziata mi fa tornare in mente quel film… Zorba il greco. Ve la ricordate la scena in cui la vecchia muore e, non appena esala l’ultimo respiro, tutto il paese ci si butta dentro, a rovistarle in casa? A chi ciapa, ciapa. Non aveva eredi… Nella Grecia rurale funziona/va così. A chi ciapa, ciapa; se non lasci eredi.
Io (proprio io, non la mia persona) ballo maldestra come Basil, insieme ad Anthony Queen, sulle note del sirtaki; e mi torna in mente che Zorba un’eredità, invece, l’ha lasciata: e che bisogna impararla, prima. E poi danzarla.
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Per inciso, dedico simbolicamente questo mezzo-pamphlet anche alla mia amica G. che, quando ha dato la tesi in una delle nostre grandi accademie dell’arte e che è uscita con 110 e lode (perché è brava); dal docente che avrebbe dovuto seguirla nel dopo e che però le aveva fatto esplicite richieste sessuali in cambio (non un bacetto); al quale lei aveva risposto picche (perché non è zoccola); di rimbalzo è stato detto: “Tu, grazie a me, non farai mai carriera!”
E così è stato. Amen.
Fortunatamente G., di quella carriera, non ne aveva bisogno perché la sua è una famiglia benestante.
E se fosse stata nullatenente, che genere di pittura avremmo avuto: esistenzialista (esiste?), concettuale o nichilista, tanto per inventar dei nomi?
…….. vero… non sempre è stato così, ma è più stato così che cosà. Per gli uomini in un modo diverso, tessera alla mano.
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@ i vari interventi del giorno 1 novembre
Per ritornare finalmente a Shields e al futuro del romanzo, ripeto: com’è che, nel grande amalgama delle citazioni, da qualche ronzino lui è riuscito a trarne dei purosangue?
Leggi come: estrapolazione originaria/contesto di minimo valore = ronzino; risultato finale ottenuto da Shields all’interno del suo contesto/ manipolazione con superbo esito di contenuto = purosangue.
(Naturalmente Shields ha eseguito anche il processo inverso, – correggimi Monica, se sbaglio, visto che sei una delle poche persone che il libro lo sta leggendo -, ma adesso stiamo esaminando il primo caso che è quello che spuntava dagli interventi segnalati sopra).
Se Monica – che si è dimostrata una ragazza intelligentissima, in grado di sferrare superbe sintesi logiche, e soprattutto congruenti, dal momento che riesce a capirne le premesse e il loro svolgersi e a trarne conclusioni – è rimasta conquistata dal fantastico mondo del professor Emilio (e me lo ha ripetuto due volte, in diversi momenti). E ha però creduto che io fossi partigiana di Shields a lettura conclusa, quando io, invece, costruendo quella storia avevo nel mio intento originario la volontà di dimostrare che i dettami di Shields non funzionano per creare il Romanzo; tant’è che l’ho ringraziata per l’entusiasmo ma ho declinato la cosa risolvendola in un “o ci ho messo troppo del mio, o c’è stato un misundartending”. Mi chiedo: non è che invece il manifesto di Shields funzioni? Che tutt’al più deve essere messo a punto?
Non è che Shields ha sbaragliato un ordine costituito, usandone gli stessi strumenti? Che in mancanza di substrato (non del suo, ma della produzione corrente), cioè, ha utilizzato quello che c’era e ha detto: “Signori, attenti, guardate che avanti di questo passo, si arriva che da un ronzino ne tiriamo fuori un purosangue. E poi son c…. amari”. Qui non c’è nemmeno più una distinzione tra fiction e non-fiction, romanzo statunitense o europeo, ma la volontà di affermare per indiretta dimostrazione che, se non c’è la sostanza, non c’è nemmeno il romanzo, o il saggio. Se non si ha niente da dire, cioè, andiamo a zappare la terra, che è molto più onorevole et utile et fortificante.
Ma sarebbe stato la delizia di Marinetti, questo “manifesto” di Shields! dove per Marinetti si intende un’avanguardia – tanto per distinguerla dall’ (avanguardia???) del dopoguerra -; un’avanguardia mutilata sul nascere da avverse condizioni storico-militari, segregata come anomalia dalle mutate condizioni kultural-storiche immediatamente susseguenti, nostalgicamente rievocata (non attualizzata, per carità!, sono bambinate) dalle attuali condizioni politico-nazionali; ma mai, dico mai, volutamente sperimentata. E perché no?
Vi piace la bottiglietta del Campari? E’ futurista!
Che cosa facciamo: siccome la bottiglietta proviene da un determinato periodo storico che all’italiano è vietato in verità di ricordare nella sua complessità e che, suo malgrado o no, investe anche e naturalmente l’immaginario culturale di un intero popolo – ma non si può dire – appendiamo anche lei al cappio dell’impiccagione? (ma qui si sta parlando di un capolavoro di design, signori! che una volta veniva chiamato arti decorative).
O preferiamo continuare a darci pugnalate sulla tela piangendo una Fontana di lacrime?
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Lo sapeva ben lui, quel mio amico scrittore perché diceva, due o tre anni fa: “C’è bisogno di un grande romanzo”; lui, che ha cavalcato l’onda, come tutti, dell’intellighenzia imperante; e riconosceva, implicitamente o no, consapevolmente o no, in quella frase – fate voi, a me non interessa -, la sconfitta più bieca, riconoscendo che la sua letteratura non era quella che occorreva.
Gianfranco, ti stupisci che la tua amica abbia preferito cucinare piuttosto che scrivere? Io no. Trovo che la sua scelta sia stata altamente etica; certo una scelta di sacrificio e di rinuncia, ma eroica e nobile. Socratica. “Piuttosto che essere fagocitata – avrà pensato, – meglio fagocitare tortelli, e attendere tempi migliori”. Come Bartleby, che continuava a ripetere “Avrei preferenza di no / I would prefer not to”.
Forse meglio praticare il qualunquismo (non si diceva così?) che diventa invece la più squisita militanza (anche qui, non era questo il termine che si usava?). Sono parole che conosciamo tutti, le abbiamo sentite tante volte.
La chicca finale, oggi, ci arriva investita nella figura di un tale Berlusconi che – alla luce della voluta amnesia storico-nazionale di cui ha voluto fregiarsi l’intellighenzia del dopo guerra -, è il frutto di quella volontà di mantenere un passato non guarito e non assimilato, per ritrovarselo davanti (il passato, non Mussolini); e credendo che con il giochetto del chiodo-scaccia-chiodo, si potesse rimandare all’infinito una decisione fondamentale: governare senza litigare. Governare.
E lui, Berlusconi, naturalmente, ci marcia sopra. Ricordiamoci che Mussolini salì al potere come un male necessario, frequentando un parlamento in cui non c’era più niente, nemmeno un’opposizione. Fu quasi legale. E a Berlusconi, in apparenti mutate condizioni, sono stati fatti ponti d’oro: e ci si lamenta, ora? Si fa dell’ironia? A chi: a Berlusconi o a chi lo ha messo su manovrato/manovrante la storia dicendola/non dicendola? Con questo, non credo proprio che Berlusconi farà un colpo di stato, anche perché lo vedo stanco ma, volevo sottolineare: i meccanismi di oggi sono stati innescati parecchio tempo fa, mica due o tre quattro legislature fa.
Subito dopo la guerra ci fu qualcuno che avrebbe potuto dare un grande contributo per una critica spassionata del regime fascista e una visione prospettica e propositiva degli obiettivi che dovrebbe avere una nazione (questa era la sua proposta in parlamento).
Abbiamo mai sentito parlare del “manifesto politico, nonché lista politica, dell’Uomo Qualunque”? Nooo? Ci credo! Hanno ben pensato di farlo sparire in quattro e quattr’otto. Spariti i libri, anche, e i pamphlets. Ma, come dice Carlo S. riferendosi alla ricerca di nuovi romanzi, che qui sta per i documenti dell’Uomo Qualunque: “il piacere sta anche nel cercarli”.
Fronte dell’Uomo Qualunque era una lista presentata in parlamento subito dopo la guerra, e che aveva anche avuto un considerevole appoggio popolare; L’Uomo Qualunque era la testata su cui si appoggiava, fondata da Guglielmo Giannini, ex-futurista (dove per futurista non si intende fascista) e interventista alla prima guerra(!), forse anche ardito (non è che sia stato un suo amico, per caso, professor Emilio?); e diretta da Giuseppe Russo. Che grande occasione hanno perso! (non i qualunquisti, gli altri).
Mi viene in mente ora che questo termine – qualunquista -, che durante il ’68 aveva assunto connotazioni negative, provenga proprio da lì. Ma quante cose provengono dai futuristi, e manco lo sappiamo!
Sono arrivata alla conclusione che: nel passato ci sono le risposte al presente, se vogliamo capire il futuro (del romanzo).
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Penso a quei sederi fasciati di jeans cui accennava Rossella, poveretti, visti da dietro, alla ricerca di un’identità, in tutti i sensi. E mi accorgo che è ora di fare un po’ di chiarezza, e di considerare perché quei sederi pratichino in modo così ossessivo/ossessionato solo ed esclusivamente il “carpe diem”.
Mentre io che sono della generazione del boom, in negativo ma a dei parametri ho potuto riferirmi, loro, invece, di parametri non ne hanno mai avuti, perché la gente che poteva darli – direttamente o indirettamente – è stata messa a tacere, e quindi non fa testo, e quindi il senso comune la definisce perdente. E chi vuole essere un perdente, in questa società che, nel momento in cui nasci, ti abitua a pensare che l’umanità è “individui de che”; cioè nuvole, un niente destinato a morire, irrimediabilmente? Nuvole che al primo apparire del sole, perdono la loro identità e si dissolvono, come se non fossero mai esistite?
Certo questo è vero per la maggior parte degli individui, ma ci sono anche delle possibilità di eternità; e non parlo di quell’eternità che, dopo la morte, tutto confluisce e ritorna da dove è venuto, perdendo la sua individualità nel momento in cui rende il corpo, arricchendo con la sua esperienza, in un estremo contributo e sacrificio.
E’ giusto che si sappia che c’è un’altra possibilità, ma per saperlo bisogna destrutturarsi e di farlo, perché fa paura, pochi lo fanno.
E’ giusto che si sappia che i nativi americani non sono archeologia, ma una verità palpitante, pronta a insegnare. A volerla accogliere col cuore, non con l’intelletto.
E’ giusto che si sappia che gli aborigeni (non quelli aggiogati), si stanno consapevolmente “suicidando” evitando di procreare, perché si stanno spostando in massa a un livello di consapevolezza che noi, in questo momento in cui leggiamo, manco ce lo sogniamo.
O vogliamo prendere dai nativi americani e dagli aborigeni solo quello che ci fa comodo, e quello che non capiamo marchiarlo a fuoco come baggianate, sulla base di un opinabile non-sperimentabile-scientificamente?
Insomma, questi sederi fasciati che sono un po’ come piccole fratture nel tessuto sociale; come quei suicidi, qualche stupro, un omicidio in famiglia, una scazzottata finita male, che vengono definiti esempi di malessere sociale. Queste fratture che, prontamente e vivamente rinsaldate a forza dalle strutture comunitarie, vengono immediatamente rimosse. Un po’ fastidiose quando cambia il tempo ma, dopo tutto, accettabili. D’altronde il tempo passa e nessuno resta giovane e sano. E’ giusto avere l’alzheimer quando si è vecchi. Fa parte della vita, ci hanno detto. Peccato che la mia nonna materna non ne voglia sapere di stare male e che sia ancora totalmente indipendente e fedifraga ad ogni interferenza in casa sua.
Ma non sarà che la mia nonna sia anche lei una frattura, nel contesto sociale?
Mi sorride.
Come il Dalai Lama che, quando sorride, il primo ministro cinese s’incazza e grida che bisogna rinchiuderlo, quel delinquente sovversivo! O come Gandhi che non si pronunciava contro la guerra ma per la pace, lui sì: dove pace non è il pacifismo molle delle bandiere appese alle finestre che abbiamo potuto vedere da noi fino a poco tempo fa, ma l’essenza di un grande guerriero.
Si dice: per chi vuole intendere, intenda.
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La gente che si riempie la bocca di archeologia nativo-americana (sì, perché inserita nei contesti come viene inserita, diventa archeologia, e a proprio uso e consumo), vorrei vederla dentro una Capanna del Sudore, non a fare sauna ma le cose come devono essere fatte! Non gli basta tutto il peyote che cresce intorno a Oaxaca per rientrare a dei minimi termini accettabili. E’ facile parlare, dissertare, filosofeggiare, parlare, bla bla bla… parlare, bla…nel contesto in cui…bla… decontestualizziamo bla bla… siamo contestualizzati … bla bla bla … all’interno di un processo di ricontestualizzazione…bla…
La mi’ nonna dice che “a chi sa sempre tutto, nessuno più dice niente”. Cioè: la gente che ascolta la propria eco (eco co o oooo….), prima parla e poi si guarda indietro per vedere quanta propria eco rimbalza sui presenti. E’ ossessionata dalla metafora dello specchio e va a farsi psicanalizzare un complesso di Narciso che mai guarirà, perché paga per far assumere anche allo psicologo la funzione di un pubblico su cui fare eco. E si sa, non tutti mettono l’etica alla base del loro comportamento: a pagare, qualche medico compiacente lo trovi sempre.
Per questo dico che nella Capanna del Sudore (che per me ha valenza di approccio iniziatico, non quelle stronzate da radical chic esperite da gente che ho conosciuto), impazzirà; perché lì dentro sei solo e non c’è più eco.
Tanta della nostra cultura, non parliamo poi della cultura politica, di questi ultimi decenni (più di tre o quattro), si basa appunto sul principio dell’eco. Lascio a chi legge fare le sue conclusioni; per me, detto più chiaro di così!
Aggiungo e tra virgolette: una cultura che dice di accettare il dialogo – mi raccomando, costruttivo e di arricchimento – ma che, prima che tu abbia aperto la bocca per cominciare, ti ha già sommerso in un modo tale che l’unico modo che hai di continuare a fare un dialogo, è accettare a priori i termini di dialogo che ti ha imposto; e se non li accetti, allora non sei un democratico.
Ma io, povero cristo operaio, modesto impiegato metropolitano, contadino felice e abbronzato: perché devo conoscere la storia della filosofia per poter avere un minimo di possibilità di parlare? Ultimamente certa branca di antropologia (che è una scienza tutt’altro che marginale ai fini del dialogo), ha scoperto (incredibile!) che non puoi interpretare un popolo partendo dagli assiomi della tua cultura, ma piuttosto comprendendo prima gli assiomi della cultura che stai interpretando; e per fare questo ti ci devi buttare dentro fino al collo. Altrimenti sembrerebbe che non funzioni.
Ma questa è politica e a noi non interessa, perché qui si sta discutendo del romanzo. O No?
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A questo punto potrei anche finirla con questa postil-minchiata (mi scusi, prof Emilio) che sto scrivendo: non ho lettori né pubblico da convincere.
Quello che vorrei è solo un capolavoro. Se non altro, quello scrittore che scriverà il primo di tanti capolavori di letteratura italiana contemporanea, se un giorno dovesse leggere questo post, saprà che esiste almeno una lettrice che leggerà i suoi capolavori. Manzoni si accontentò di tre o quattro (quattro o cinque?) lettori. E guarda che successo ha avuto!
D’altronde, in tanti mi hanno detto che sono un’idealista, ma ho notato che il mondo va avanti in virtù di utopie, non certo grazie a certezze sostenute dall’opinione e il senso comuni, altrimenti staremmo ancora pensando che la Terra sia il fulcro intorno a cui giri tutto.
Se non avessimo letto Verne, sulla Luna non ci saremmo andati. Non così, comunque, come lo abbiamo fatto.
Se l’ipotesi del viaggio sulla Luna l’avesse fatta prima Marx, per esempio, sono convinta che ora saremmo nel pieno di guerre stellari, e non spedendo Sms Sos nello spazio (sms sos © ); ma non per colpa di Marx, poveretto, quanto per l’interpretazione che è stata data alla sua opera filosofica.
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E invece continuo.
Questo libro di Shields – che sono delle linee programmatiche – non è un romanzo, ma piuttosto mi pare il romanzo che deve venire.
Lui ha fatto in modo di dare delle linee programmatiche che in realtà le escludono perchè, si sa: se il pensiero-dominante-Coca-Cola furbamente si avvale e congloba la sua antitesi filosofica che avrebbe il potenziale distruttivo di destabilizzarla, e riesce a farlo addirittura all’interno di uno spot pubblicitario; allora Shields, evitando di dare linee, scavalca la possibilità certa di venire integrato all’interno di una sistemologia: cioè, se evita di dare canoni al romanzo che verrà, nemmeno il nemico sa che faccia avrà il nuovo romanzo e, quindi, il romanzo avrà tutto il tempo di comparire. Una volta comparso, sarà ingoiato dalla Coca Cola, questo è certo, ma ormai sarà stato letto. Sono i “Tempi Moderni” di Fahrenheit 451.
Troppo machiavellico? Ma qui si sta parlando di forze che muovono collettività, non individui, e se la collettività decide di uccidere, non hai scampo: Cristo insegna. E’ una lotta senza quartiere, signori. Letterale.
Cristo c’è già stato e il messaggio l’ha portato: c’è morto pure. Se è stato crocifisso non vuol dire che lui abbia detto che anche noi dovremo farci crocifiggere. Lui ha mostrato altre vie ma si è preferito, dopo, utilizzare il culto dell’antropofagia. Il rito viene celebrato tutti i giorni, più volte al giorno. Io evito di mangiare carne, se non altro perché non l’ho cacciata.
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A titolo di esperimento, costruiamo un prototipo di nuovo romanzo, creando una versione letteraria alla Matrix (un film del 1999 scritto e diretto dai fratelli Andy e Larry Wachowski).
In questo caso, il cinema ha preceduto e spiantato letteralmente la versione letteraria che per altro non è mai esistita: cioè, Matrix non proviene veramente da un libro. Ma è il libro stesso, però è cinema. Il non avere mai avuto un supporto letterario (di cui qualcuno parlava nei giorni scorsi), ha provocato una strana anomalia nel pubblico: di tutti coloro che lo avevano visto e ai quali avevo chiesto che cosa ne pensassero, una stragrande maggioranza rispondeva che non lo aveva capito. Pur essendo piaciuto. Ma come: ti piace e dici che non lo hai capito? Il supporto letterario, in un caso come questo, pur non essendo di solito letto dal mero utente cinematografico, aiuta però l’immaginario mediatico a fornirgli una spiegazione.
Matrix è un film molto semplice ma, allo stesso tempo, è veramente un film difficile, per un pubblico abituato a pensare in termini di dualità: o bianco o nero, o buono o cattivo, o santo o demone.
Occorre intendere il concetto di abbraccio degli estremi opposti per capirlo; abbraccio che, allo stesso tempo, è una fusione che però li lascia distinguibili. Bello eh?
A questo proposito, sono sicura che il Dalai lama si sia divertito moltissimo al vederlo. E’ nota la sua predilezione per il cinema.
Ma torniamo all’esperimento letterario: il romanzo che costruiremo, in realtà, non sarà la versione letteraria di Matrix ma, attenzione, un prodotto a più chiavi di lettura, che poi è quello che vuole essere Matrix.
Ecco perché a certo pubblico adulto in qualche modo piaceva, anche se non veniva capito. Perché la storia di Matrix si snoda attraverso il processo drammatico tipico della fiaba, la quale può essere compresa anche e soprattutto da un bambino. Perchè i bambini – che non hanno bisogno di essere destrutturati (ahimè, i più fortunati) – riconoscono immediatamente la qualità della potenza del dramma, i buoni e i cattivi, la crisi centrale, la conclusione risolutiva. Riconoscono nella fiaba le loro paure inconsce, che sono poi le grandi paure dell’umanità; e grazie ad essa ritrovano una nuova fonte di equilibrio. Aggiungerei che la fiaba ha la facoltà di essere sempre la stessa e, allo stesso tempo sempre diversa, perchè il suo retaggio è orale e, di giorno in giorno di anno in anno di secolo in secolo, si arricchisce del nuovo contributo esperienziale dell’umanità che la racconta. Ma questo è solo una curiosità e non è inerente al filo del discorso.
Dicevo e concludo al riguardo: la prerogativa di possedere più chiavi di lettura, permette di raggiungere un pubblico più vasto, anche quello più colto e raffinato e difficile di gusto, e molto strutturato; cosa che invece i bambini appunto non sono.
Quanto al romanzo che ci costruirò sopra, non dirò a priori come dovrà essere perché, come dovrà esserlo, l’ha già detto Shields: non dicendolo. Cioè: dello Zen – (dove per zen si intende Colui, Tao, Dio, Allah, bla bla bla; insomma quello per cui si è ammazzata mezza umanità), ma che nel nostro piccolo stiamo intendendo come il Romanzo -, si può solo dire: quello non è.
Nel momento in cui vuoi descrivere che cosa è il Romanzo, hai già perso lo zen (dove zen sta per la storia-che-si-fa). Anzi, ti arriva una mazzata in testa (così insegnavano una volta i maestri zen; oggi si sono addolciti e, man mano che si addolciscono, diventano sempre più impietosi).
Chi ha detto che Shields era un genio, Monica? Facile che lo sia, un genio non consapevole, cioè l’Idiota; perchè ogni tanto capita che il sommerso collettivo sputi fuori anomalie (Neo di Matrix).
Gli idioti, in India, vengono rispettati e alimentati perché sono una voce di verità inconsapevole, non-agita. Il Dalai Lama, per esempio, è l’immagine terrena dell’Idiota per Eccellenza, per questo viene chiamato Oceano di Saggezza. Perché, oltre all’Inconsapevolezza, abbraccia anche la Consapevolezza; cioè sa di esserlo. E’ un Non-Agito per Eccellenza perché muore in se stesso, nel momento in cui si fa bersaglio, pur non morendo.
In termini pratici: lui sa che il male non è soltanto pernicioso per il bene, ma finisce, nelle sue ultime conseguenze, anche con l’annientare se stesso; perché il male, dovendo la sua esistenza solo alla negazione, non può sussistere di per se stesso.
Questo è Tao, giusto per non rubare diritti d’autore.
Quando il primo ministro cinese (il male) urla che il Dalai Lama (il bene) è un sovversivo e che bisogna rinchiuderlo, il primo ministro sta urlando, cioè, che ha dimenticato di essere l’ultimo figlio (kulturale) di una cultura millenaria; e il Dalai Lama è molto afflitto per lui, più ancora che per il suo popolo, perché sa che il suo popolo è fedele a se stesso.
Ma se il primo ministro pretende che il Dalai Lama si suicidi (magari presentandosi sui gradini di casa sua), allora il Dalai Lama sorride perché, fra tutte le cose, questa proprio non è in suo potere di farla. (Non agito per eccellenza, ricordi?… bersaglio, pur non morendo). E il funzionario cinese, il cui excursus storico è un po’ più breve della magnifica cultura che ha spazzato via e magari un pochino meno ampio di vedute, non riesce proprio a capirlo questo; avvicinandosi in tal modo, passetto dopo passetto, verso la negazione di se stesso.
Non è proprio così, ma è più di quanto riesca a dire, per il momento.
In ogni caso, alla luce di quanto detto, e con le premesse che più strettamente riguardano l’ambito italiano-europeo (nel caso in cui qualcuno dovesse pensare che l’introduzione di Shields valga solo per gli statunitensi), ci sono buone probabilità che possa comparire da un momento all’altro il primo di una serie di capolavori letterari italiani. Perché ho la strana percezione che la militanza del qualunquista abbia forgiato, tra i sederi fasciati di jeans alla ricerca di un’identità, anche alcune esplosioni. Per dirla alla Matrix: odierni Neo.
Mezza-Fine.
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Eventuali note di revisione, aggiornamenti, note critiche e fonti bibliografiche, nonché autodafé, saranno trattati solo in futuro e con i dovuti tempi (i miei).
Anche perché, finita l’influenza, mi sa che dovrò recuperare il tempo e il lavoro perduti (non sono a stipendio): la Realtà della Fame, oltre ad allenarti ad agire con la consapevolezza di non avere più niente da perdere, oltre ad essere sempre una grande fonte di ispirazione per l’azione, è anche il Mastro Orologio per eccellenza. Perché quando non hai più tempo, vai per esclusione, cioè, sei obbligato a fare il meglio (anche nella lettura).
Ciao 🙂
Mi sa che questo post era un po’ troppo lungo… lo spezzetto.
Sebbene questo post parta da premesse lunghissime e probabilmente noiose e, in special modo antipatiche, ma necessarie (i tempi sono antipatici); sebbene contenga numerose divagazioni su argomenti che però sono stati toccati all’interno del thread e mi sembrava che riscuotessero un minimo di interesse; sebbene lo svolgimento del discorso a volte assuma un vago sapore di complicato (i tempi sono complicati); il discorso naturalmente, e finalmente, verterà su Shields e la sua Fame di Realtà.
Preciso che le persone citate assumono una funzione puramente indicativa per significare una simbologia di operato, cioè un ruolo di attore dove la parola persona ha la valenza greca di maschera.
Ho dovuto anche generalizzare e semplificare fino all’assurdo perché lo spazio è quello che è, e anche perché le tematiche toccate sono tali e tante, e di così vario genere, che un libro non basterebbe a svolgerle tutte. Dieci libri non basterebbero.
D’altronde, per arrivare nuovamente al libro di Shields dopo la bellezza di quasi dieci giorni, mi occorreva di analizzare, seppure brevemente, le dinamiche che presuppongo siano all’origine della realizzazione del suo libro: e che, ora e probabilmente, reputo la punta di un iceberg. Se mi sono sbagliata, vorrete certamente farmelo notare; e di tutto quello che ho dimenticato di aggiungere e/o valutare e/o inserire vorrete perdonare ma, per ovvi motivi, non potevo scrivere dieci libri.
Dedico questo mezzo-pamphlet (mezzo perché l’altra metà la scriverò se un giorno leggerò il libro), al prof Emilio che, pur essendo futurista, scommetto che fascista non è; e glielo dedico perché è l’insegnante che avrei voluto, che non ho mai avuto.
Lo dedico anche a Monica che, “pur essendo donna”, possiede una logica così lucida et limpida et chiara, da obbligarmi a pensare a Sora Aqua, una delle protagoniste del più antico testo della letteratura italiana.
Lo dedico a Luciano e Gianfranco per i quali mi rendo conto sia molto difficile. Ho comunque in programma di leggere buona parte dei loro libri.
A tutte le bellissime persone che sono intervenute e che interverranno e che mi hanno permesso di crearmi una visione davanti, dietro, sopra, sotto e dentro la cinepresa.
E infine a Massimo la cui ospitalità è così lungimirante da essere degna di quegli anfitrioni che si peritano di ospitare anche Freaks di quella strana “malattia” comunemente denominata la lettura.
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Luciano/idefix salute e buona giornata!
sono d’accordo,la realtà è anche questo, ma per Shields cos’è?
Credo che il punto sia qui per capire tutto il resto.
Per me la realtà è Verità ma so che mi costringono a vivere nell’ambiguità, tra menzogna e sconoscenza, tra coscienza ed incoscienza…..
La constatazione mi fa pensare a tanti filosofi che sopra ci hanno sbattuto la testa ma soprattutto penso alla Arendit ed alla sua “banalità del male”.
Ciao e buona ricerca a tutti.
Soltanto un cervellone come quello di Maugeri poteva calarsi nella nebulosa della realtà e da pifferaio trascinarci dietro.
IL MEZZO-PAMPHLET
Notate come i giganti della letteratura italiana del dopoguerra, per raccontare la realtà quotidiana, si siano spesso accostati al lettore creando grandi metafore fantastiche (il deserto di Buzzati, per esempio? o i visconti e i baroni di Calvino? ); e lo abbiano fatto trasfigurandola in saghe umane di altissimo livello, valide sempre. Per questo vengono chiamati classici. L’uso della metafora ha permesso loro di sopravvivere all’interno di difficili politiche quotidiane, mantenendosi a quella certa distanza che gli poteva dare la possibilità di parlare liberamente (Buzzati addirittura di politiche difficili fece in tempo ad attraversarne due; Calvino cominciò a pubblicare nel 1947).
Se vi dicessi che io, oggi, mi sento confinata in un processo storico molto ben più sottile e velenoso di un confino di un Carlo Levi (sono esagerata?) che, invece, è ben sistematizzato e rientra in una logica che, pur non ritenuta giusta dal soggetto che la subisce, una logica pur tuttavia ce l’ha, e perfettamente chiara; ci credereste?
Un processo, l’odierno, da cui è difficile uscirne perché l’intellighenzia che l’ha alimentata, ha ammorbato tutto.
Dovunque trovo muri di gomma fatti di gente ben allineata che ha preferito dimenticare. – Si ha bisogno delle giornate della memoria per ricordare. – Che ha preferito dimenticare un’eredità culturale di cui si vergognava. E, se se ne ricordava, ha preferito nascondersela o giocarsela entro termini da contro-manifesto al manifesto subentrato, che voleva proporsi come il contro-manifesto. Dunque il contro manifesto, che rilevava la contraddizione del manifesto che si voleva proporre come contro-manifesto, sputava nel piatto dove mangiava?
Gianfranco (la persona), fammi da interlocutore, per favore, chè la “traggedia dar titolo Re Li” (almeno quella del primo atto) ha da essere superata: ma questi indiani di cui si parla sempre, sono veramente conosciuti? Ma, soprattutto, questa gente che ne parla è mai entrata, non simbolicamente (per poterne parlare), ma realmente (per poterne sperimentare le verità), nel loro dramma?
L’illuminismo ha insegnato a parlare, a far dialettica, ma mi sembra che l’unico risvolto empirico che ne sia stato tratto siano: tecnologia e bomba H.
E tu dirai: “Alla faccia! Dici poco?” Sì, dico poco, perché le Ferrari in mano ai bambini capricciosi, mi sembrano uno spreco e per di più pericoloso.
Dietro ogni tecnologia, ci deve essere un sostrato spirituale avanzato, non un’ideologia da illuminismo, da cui nascono dei piccoli geni marxisti che, applicando a loro uso e consumo una teoria filosofica che in verità non voleva dare soluzioni pratiche ma restare nel limbo dell’astrazione, si arrogano il diritto di decidere che cosa è giusto. Peggio: di soggiogare.
Filosofia fatta da un filosofo che, tra l’altro, non aveva mai detto di essere un santo né un capo spirituale, nè tantomeno un Avatara.
Perché, poi, Moloch sputa gli Hitler. E gli Stalin. M-i-ao suggerisce la mia gatta stamattina.
Il processo di Norimberga non ha potuto dare vera soddisfazione alle vittime perché, tra i vincitori alleati, c’era una Russia che non era esattamente quello che si suole chiamare un modello di democrazia, dal momento che si arrogava diritti su popoli liberi e che, la storia ce lo ha raccontato, spesso ha condotto una politica molto vicina alle pratiche naziste.
I giudici di Norimberga non poterono veramente essere liberi di giudicare. I giudici di Norimberga non deliberarono liberamente.
E’ per questo che si continuano a fare giornate della memoria all’olocausto; perché le vittime, in verità, non hanno mai avuto veramente e pienamente soddisfazione. Così, quando c’è stata da spartire la torta e da rimediare al marcio, per togliersi di torno la colpa della questione ebraica non si è potuto trovare una soluzione ma ci si è limitati a spostare il problema. Dove? Ma in una terra che ospitava già un popolo e che non poteva fregargliene molto se l’illuminismo si era sbagliato. Oltretutto andando ad alimentare ulteriormente, con questo insediamento estemporaneo, un’antichissima altra questione, che risaliva a prima delle “sante “crociate.
Per questo dico che, dietro una tecnologia, ci deve essere un sostrato etico di un certo rilievo che lavori per la pace non contro la guerra; non una mera astrazione filosofica, quindi, altrimenti si è obbligati a fare un pastiche/pasticcio, come il libro di Shields.
Oggi si parla tanto di Shoah, di mondo globale e, certo, bisogna pur avere uno sguardo aperto e internazionale, ma allora perché gli olocausti di cui si parla sono sempre gli stessi? Perché non si fa il minuto di silenzio, per esempio, anche per il popolo tibetano che, mi pare, di ragioni ne abbia anche di più dei palestinesi; e che, soprattutto, hanno subìto un’invasione annunciata (cronaca di una morte annunciata?), senza aver alzato un braccio a ferire? Perché nel 1959 l’Onu ha risposto picche alla gentile richiesta del Dalai Lama, anzi fischi e fiaschi? Il Dalai Lama ride spesso, sorride almeno. E ci credo!
Dunque, vedi, fa comodo parlare dei pellerossa perché, “tanto”, li si considera un caso di archeologia (che ingenuità pensarlo; essi sono ancora vivi ma, eruditi delle manie dei bianchi, hanno ben pensato di continuare in segreto) e si son fatti più furbi; edotti ormai, loro malgrado. E non sto a spiegare il come, perché non ho la patente del traditore.
A chi interessa può intraprendere una ricerca.
E, per inciso, ritornando al discorso precedente: che diversità questi monaci tibetani dai missionari europei del nuovo mondo… Ma tu, hai mai visto un buddista voler convertire qualcuno? Io no.
Oceani in mezzo, appunto. Di saggezza.
Preferirei-di-non essere un’europea in mezzo a europei dalla lingua biforcuta che, ancora oggi, mentre a parole sono Equo-Solidali, nei fatti continuano ad alimentare il braccio del mostro che ha colpito i nativi americani, i tibetani, gli aborigeni, i misteriosi Dogon africani, …
E’ anche quello di vedermi attorno gente che dà del razzista ad altra gente che si permette di dire che non vuole musulmani qui in Italia. Ed è anche il dramma di vedere una società accogliere, senza il dovuto discernimento, della gente che, quando la loro figliolina è intorno ai sei anni, le tagliano la patata e gliela cuciono come quei salamini che a Ferrara chiamano bòndole. E il cui esito futuro e quasi immediato, logico, sarà dargli il voto. Il voto a questa gente qui in Italia?
E adesso cito io, visto che piace tanto la letteratura gialla: andatevi a leggere “Francesca è scomparsa”, di Pierfrancesco Prosperi. E’ un impressionante esempio di letteratura nostrana che, più che gialla (ma l’editore probabilmente ha voluto così), chiamerei di genere fantascientifico. Se è vero che la letteratura è la testimonianza del tempo che si vive (sigh!), questo racconto mostra esattamente qual è la paura del sommerso nazionale! Altro che voto ai musulmani, andiamoci piano; certi diritti devono venire assimilati nel sangue prima, mica sono beneficenza… Gli svizzeri importano lavoro a termine, e pagano (a differenza di noi) molto bene. Finito il termine, se hanno ancora bisogno di te, ti rinnovano il contratto; diversamente te ne torni a casa. Che, rispetto a quando sei partito, sei un ricco. Quid pro quo, insomma… e son contenti tutti. Insomma, se decidiamo di fare del consumismo, facciamolo davvero.
Avete mai provato a vivere in un paese musulmano? Non a farci la crociera o il safarino per smorzare la noia dell’all inclusive. E a viverci da donna? Mai provato? E l’avete mai vista la patata cucita? E una mamma che piange perché la sua figliolina ha sei anni e dice che se non la porta a tagliare, un marito non lo troverà? E mi chiede che cosa deve fare? Una donna senza marito e senza figli e senza soldi, lì, non è mica una vita facile, credetemi. Diventate la pezza da piedi di tutti, perfino dell’asino di famiglia costretta a tenervi in casa, e che conta di più; questo è sicuro.
Io, che un giorno di qualche tempo fa ero a fare una normale visita ginecologica in un normale dispensario italiano e che aspettavo il mio turno, successivo a quello di una musulmana importata, incinta, imbragata, e naturalmente col marito che non la mollava un attimo nemmeno quando è entrata dalla ginecologa perché è l’uomo che interloquisce con l’esterno in quanto la donna non sa parlare figuriamoci del suo corpo; ho visto come è uscita la ginecologa dopo la visita alla patata di Allah. Di corsa, stravolta e incazzata. Dove andava? In bagno?
A me: – che venivo dopo e che avevo silenziosamente compreso pur essendo la ginecologa un fior fiore di professionalità; alla quale avevo tentato di strappare un sorriso perché la giornata non le fosse così ostile; e che invece stornava lo sguardo da me e nel frattempo guardava da una finestra mentre aspettava che sul lettino mostrassi una patata (scusate la crudezza) normale; – la sua assistente ostetrica, che di anni ne aveva tanti di più e che la vita, lo si vedeva, aveva indurito, diceva ridendo: “Ah… queste nuove generazioni di giovani dottori. Si vede che si devono fare ancora le ossa”, e intanto la sogguardava preoccupata, fingendo di essere impegnata con me, perché provocarle la risata era l’urgenza più urgente e l’antidoto a uno shock.
E noi vogliamo dare il voto – e sarà presto così – a della gente che taglia in nome di Allah? A della gente che vediamo sempre in televisione a fare folla per motivi divini e politici che per loro è la stessa cosa, ma sempre una folla maschile? Mai un volto di donna in quelle folle. Le vediamo solo quando lanciano le loro urla meridionali al figliolo, al fratello, al marito morto. Mai provato a parlare con un’islamica non emigrata, cioè nel posto in cui vive? Impossibile. Guardata a vista, tenuta lontana non solo dagli uomini, e potremmo pensare che sia una gelosia levantina, ma anche dalle donne che non siano islamiche. (A proposito, la mamma che piangeva per la figliolina che doveva portare a essere tagliata, era islamica, sì, ma somala, cioè messa al giogo; e quindi non aveva riserve a piangermi addosso. Al giogo due volte, anzi tre: perché donna, perché somala, e perché islamica, suo malgrado).
Qualcuno ha mai visto lavorare native islamiche negli hotel di prima, seconda, terza categoria, dove ci si va a rilassare e dimenticare le fatiche dell’anno passato?
O li assorbiamo, non assorbiti. O è meglio lasciar perdere. Ma se abbiamo ancora a problemi a considerarci un’unità nazionale, come potremo inglobare dell’altro?
Insomma, glielo vogliamo dare questo diritto di voto, per cui i nostri padri hanno versato sangue, oppure no? Cosa facevano i loro padri nel frattempo? Per quali ideali lavoravano nei loro paesi? Forse i pavoni maschi nostrani glielo darebbero per gentilezza, sì. Perché i pavoni maschi nostrani queste problematiche sessuali le avevano già risolte con la “rivoluzione sessuale” del 1968 quando, affondando simbolicamente e anche meno simbolicamente a piene mani, affermavano un’autonomia di libertà. Qualcuno un po’ in malafede, lo so, perché mi è stato candidamente confessato: “Ah, che paese dei balocchi, allora! Bei tempi!”
Mentre le ingenue, anche loro, credevano di