Marzo 19, 2024

253 thoughts on “OMAGGIO A VINCENZO CONSOLO

  1. Come ho scritto sul post, sento il Novecento letterario italiano ancora più distante dopo la dipartita di Consolo, avvenuta ieri 21 gennaio 2012, nella sua casa di Milano, dopo una lunga malattia.

  2. Tra meno di un mese avrebbe compiuto 79 anni, Consolo. Nato in Sicilia, a Sant’Agata di Militello, il 18 febbraio 1933, è stato uno dei maggiori scrittori italiani contemporanei. Uno degli ultimi “testimoni”, appunto, del nostro Novecento letterario. Il suo approccio narrativo era senz’altro originale. I suoi, non sono veri e propri romanzi (intesi in senso tradizionale). “Non si possono scrivere romanzi”, sosteneva Consolo, “perché ingannano il lettore”. Ma il suo linguaggio fluiva, ricco, verso forme di scrittura intense e avvolgenti.
    Impossibili da “imbrigliare”.

  3. Esordì con la Mondadori nei primi anni Sessanta con “La ferita dell’aprile“. Il grande libro arriva nel 1976, con “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (di cui parleremo in dettaglio).
    Tra le sue opere, tutte tradotte in varie lingue, ricordiamo: “Retablo” (1987), “Nottetempo, casa per casa” (1992, con cui vinse il Premio Strega), “L’olivo e l’olivastro” (1994), “Lo spasimo di Palermo” (1998), “Di qua dal faro” (2001). Tra i racconti: “Le pietre di Pantalica” (1988), “Per un po’ d’erba ai limiti del feudo” (in Narratori di Sicilia a cura di L. Sciascia e S. Guglielmino, 1967), “Un giorno come gli altri” (in Racconti italiani del Novecento a cura di E. Siciliano, 1983), il racconto teatrale “Lunaria” (1985), “Catarsi” (1989). La sua ultima opera è “Il corteo di Dioniso” (2009).

  4. Come ho già scritto, dedico questo “spazio” alla memoria di Vincenzo Consolo. Come accaduto con altri artisti della scrittura che ci hanno lasciato, questo piccolo “tributo” vuole essere appunto un omaggio, ma anche un’occasione per far conoscere questo autore a chi non ha ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.

  5. Chiedo a tutti di contribuire lasciando un ricordo, un’impressione, una citazione, informazioni biografiche… ma anche link ad altri siti e quant’altro possa servire a ricordare Vincenzo Consolo e la sua produzione letteraria.

  6. Sul post ho inserito un video che ho montato ieri notte… incentrato sulla registrazione di un mio colloquio telefonico con Vincenzo Consolo datato 2 agosto 2010 (nel video ho scritto 2 febbraio, ma è un errore), dove lo scrittore racconta i suoi inizi, la sua storia: il suo arrivo a Milano, l’esordio letterario con la Mondadori, l’incontro con Vittorini, la collaborazione con la Einaudi, la frequentazione con Salvatore Quasimodo. E poi: Italo Calvino, Natalia Ginzburg. La Milano di ieri e di oggi… e altro ancora. Credo si tratti di una delle ultime testimonianze (in formato audio/video) rilasciate dall’autore de “Il sorriso dell’ignoto marinaio”.
    Ribadisco, la data della conversazione è 2 agosto 2012 (non 2 febbraio). Scusate l’errore, ma – come vi dicevo – l’ho realizzato in orario notturno…

  7. A fine post, due contributi…
    – un ricordo offerto da Antonio Di Grado (saggista e docente di Letteratura Italiana dell’Università di Catania)
    – un articolo di Domenico Calcaterra (autore tra l’altro di “Vincenzo Consolo: le parole, il tono, la cadenza” un saggio/intervista edito da Prova d’Autore) scritto in esclusiva per Letteratitudine.

    Ne approfitto subito per ringraziare Antonio e Domenico per la loro amicizia e disponibilità.

  8. Consolo era amico del prof. Burgaretta al quale ha anche dedicato belle pagine. L’ho conosciuto ad Avola, durante una sua visita e mi ha colpito molto il suo fare schietto e affabile nello stesso tempo. Ricordo con emozione l’incontro con mio padre: si capirono subito. La sua perdita è grave per il mondo della cultura, così come quella di Fruttero.

  9. Quando i grandi scrittori se ne vanno, viene voglia di riprendere in mano le loro opere migliori. Da oggi “Il sorriso dell’ignoto marinaio” torna sul mio comodino.

  10. Spero di trovare sul mio comodino anche il Meridiano Mondadori su Consolo. Ho letto che lo dovrebbero pubblicare.
    Meglio tardi, che mai.

  11. dopo Fruttero, Consolo. perdiamo due grandi della nostra letteratura nel giro di pochi giorni. il Novecento ce lo lasceremo definitivamente alle spalle. Temo che dovremo rassegnarci.

  12. Se ne vanno in punta di piedi i nostri amati scrittori, prima Fruttero, ora Consolo. Sfoglio le pagine dell’amore del frate Isidoro per Rosalia. Retablo.
    In passato avevo letto Nottetempo casa per casa. La bella scrittura poetica
    , l’amore per la sua terra, il passato mescolato alla favola narrativa. Un saluto.

  13. “In tutti i miei libri vivono personaggi che hanno subito offese, patito dolore, nutrito speranza; e sono figure di alta dignità, di grande nobiltà umana. Racconto degli ultimi, degli emarginati, delle persone sofferenti, i più vulnerabili e deboli del contesto sociale; cerco di rappresentarli nei loro momenti più forti, ma anche più delicati e umani, della loro esistenza”.
    (da “La parola poetica e teatrale”, intervista a V.C., in “Vincenzo Consolo. La parola, il tono, la cadenza”, Prova d’Autore, 2007).

  14. Sono d’accordo con Anna Maria Ercilli. Un altro grande delle nostre lettere, se ne va.
    Queste dipartite, a noi che amiamo leggere, fanno sentire un po’ piu’ soli.

  15. La singolare scrittura di Consolo, del quale ho letto tutto, mi ha fatto assaporare tanti luoghi della mitica Sicilia e mi ha sospinto a visitarne posti incredibili. E, davanti al sorriso dell’ignoto marinaio di Cefalù, sono rimasto anch’io attonito ed incantato. Grazie per le pagine narrate e per le emozioni che ci hai suscitato.

  16. Sono del tutto d’accordo con Massimo, il quale scrive: “Il Novecento letterario italiano sembra ancora più distante dopo la scomparsa di Vincenzo Consolo”. La morte del grande scrittore siciliano si unisce alle morti, negli ultimi dieci anni, di narratori e poeti come Lucentini, Meneghello, Rigoni Stern, Bonaviri, Merini, Zanzotto, Fruttero…
    Vincenzo Consolo era uno degli scrittori che più amavo. Quando dovevo fare quattro o cinque nomi di autori italiani contemporanei da leggere, il nome di Consolo era sempre presente.
    Proprio una settimana fa, in una biblioteca, mi era capitata tra le mani una vecchia copia de “Lo Spasimo di Palermo”. Ne avevo riletto alcune righe quasi con riverenza religiosa.
    Lascio qui due miei piccoli ricordi personali, legati direttamente e indirettamente a Vincenzo Consolo, e il brano finale d’un suo racconto.
    *
    Circa vent’anni fa partecipai a una conferenza tenuta da Consolo, che aveva per tema il distacco dalla propria terra d’origine in letteratura, da Omero a Verga (vado a memoria, imperfettamente dunque; non ho trovato traccia sul web di quella conferenza). L’incontro avvenne presso una grande aula dell’Università di Padova. Purtroppo, lì dentro c’erano disperse soltanto una quindicina di persone, e probabilmente gli unici esterni all’ambiente accademico – tra professori e qualche studente – eravamo io e la mia compagna. Un sintomo, forse, fra i tanti, della catastrofica stagione sociale e culturale che avrebbe colpito l’Italia nei successivi vent’anni – e Consolo fu uno dei pochissimi intellettuali che si oppose con fermezza a quella situazione – disastro in cui tuttora siamo immersi. Parlammo faccia a faccia, per pochi minuti, alla fine della interessantissima conferenza. Era una persona molto cordiale, e adesso mi torna il mente un suo sorriso dolce e nella voce la presenza ancora d’una calda cadenza siciliana. Si chiacchierò brevemente – non ricordo seguendo quale filo logico del discorso – sul perdurare dell’uso del “voi”, nei dialoghi in alcune zone del Sud Italia, un uso che denota rispetto ma non algido distacco come nel caso del “lei”, e che è segno anche della conservazione nel parlato d’un residuo della lingua letteraria dell’Ottocento e d’una parte del Novecento.
    Il secondo ricordo. Pochi anni fa visitai, guidato dall’amico scrittore Salvo Zappulla, il quale mi aveva così affettuosamente invitato e accolto nei suoi luoghi d’origine, la vastissima e suggestiva necropoli di Pantalica, in Sicilia. Era per me anche una sorta di omaggio a Consolo, a uno dei suoi libri, dal titolo “Le pietre di Pantalica”, una raccolta di bellissimi e appassionati racconti.
    Lascio infine, come dicevo prima, il brano conclusivo d’un suo racconto,“Scilla e Cariddi”, tratto dalla piccola raccolta di racconti intitolata “Nerò metallicò” (il melangolo, 1994):
    “Ora mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come un trapassato… Ma vivo nei ricordi. E vivo finché ho gli occhi nella beata contemplazione dello Stretto, di questo breve mare, di questo oceano grande come la vita, come l’esistenza.”

  17. Ringrazio tanto Massimo, al quale mando un grande abbraccio, e lascio un caro saluto a tutti, con l’augurio d’una bellissima settimana.

  18. Saranno celebrati domani nella Chiesa del Sacro Cuore della natia Sant’Agata di Militello (Messina) i funerali dello scrittore Vincenzo Consolo, morto ieri a Milano dopo una lunga malattia. Alla cerimonia, in rappresentanza del governo regionale siciliano, sarà presente l’assessore per l’Istruzione e la Formazione professionale, Mario Centorrino. Il rito, nel piccolo edificio di culto che potrà accogliere soltanto un centinaio di persone, sarà celebrato da Don Enzo Vitanza. E’ previsto un breve intervento del sindaco Bruno Mancuso, poi la sepoltura nella cappella di famiglia nel cimitero di Sant’Agata di Militello. La giunta comunale ha proclamato per domani il lutto cittadino.

  19. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, appresa la triste notizia della morte di Consolo, in un messaggio alla famiglia ha espresso il suo cordoglio per la scomparsa di una figura originale e rappresentantiva della cultura italiana contemporanea, ricordandone il forte rapporto innanzitutto con la realtà della sua Sicilia.

  20. Più nessuno mi porterà nel Sud, lamentava Quasimodo. Invece – se m’é concesso il confronto – io nel Sud ritorno sovente”. Così Vincenzo Consolo spiegava il suo ininterrotto rapporto con la terra e la cultura siciliane: “Da Milano, dove risiedo, con un volo di un’ora e mezza, atterro in Sicilia. Dalla costa d’oriente o d’occidente, ogni volta, come per ossessione, vizio, coazione a ripetere, celebrazione d’un rito, percorro l’isola da un capo all’altro, vado per città e paesi, sperduti villaggi, deserte campagne, per monti e per piane, per luoghi visti e rivisti non so quante volte”.

  21. L’ultima volta che Consolo era tornato in Sicilia è stato nell’estate di due anni fa. A Gratteri, sopra l’amata Cefalù, in una limpida serata d’estate si presentava “L’isola in me”, un film documentario di Ludovica Tortora de Falco sulla Sicilia suggestiva e straziante di Consolo. Era un ritratto dello scrittore, dell’uomo e dell’artista attraverso i luoghi, i temi, le suggestioni letterarie della sua vita. Consolo si era assegnato quello che chiamava il “destino d’ogni ulisside di oggi”: quello di “tornare sovente nell’isola del distacco e della memoria e di fuggirne ogni volta, di restarne prigioniero…”.

  22. Di questo intenso legame passionale, civile e letterario con la Sicilia Consolo ha sempre dato testimonianza. Dalle profondità del mito ha ricavato una lettura lucida della storia italiana e siciliana dal dopoguerra a oggi. Lo ha fatto attraverso alcuni temi cruciali: l’emigrazione, la vita dei minatori delle zolfare, l’industrializzazione e le devastazioni del territorio, i terremoti e le selvagge ricostruzioni, le stragi mafiose. E’ una storia che Consolo ha vissuto in prima persona, condividendola con altri scrittori, in primo luogo Leonardo Sciascia a cui era profondamente legato. E proprio Sciascia aveva segnato il suo percorso letterario cominciato nel 1963 con “La ferita dell’aprile”.

  23. Prima che nel 1976 pubblicasse il suo secondo romanzo, quello che gli diede la notorietà, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, Consolo si era lasciato tentare (lui diceva “irretire”) da Vittorio Nisticò e da Milano era approdato a Palermo nella redazione del giornale L’Ora. Ma vi era rimasto solo pochi mesi, poi era tornato a Milano da dove ha continuato a tenere un rapporto intenso, e continuamente rinnovato, con la Sicilia. Di questo legame con la storia e la cultura siciliana sono testimonianza, oltre al sodalizio con Sciascia e all’amicizia con Gesualdo Bufalino, anche la sua intensa produzione letteraria, da “Le pietre di Pantalica” a “Retablo”, da “Nottetempo casa per casa” (premio Strega 1992) a “L’olivo e l’olivastro”, da “Lo Spasimo di Palermo” a “Di qua dal faro”. A cui si aggiungono saggi di forte intonazione civile, interventi e una densa raccolta di articoli per il Messaggero e per l’Unità.

  24. Aveva scelto di vivere a Milano ma il suo cuore e la sua curiosità intellettuale erano radicati in Sicilia. “La tentazione di sottrarmi alla Sicilia c’é – diceva – ma il meccanismo memoriale della mia narrativa me lo impedisce fino in fondo, è connaturato a uno stile che ingloba la memoria attraverso il linguaggio”. E proprio al linguaggio dedicava la sua cura sperimentale in una ricerca che lo allontanava sempre più dai canoni correnti. Da qui la sua invettiva contro la deriva di un paese “telestupefatto”, cioé scivolato verso la volgarità del linguaggio che uccide il pensiero critico.

  25. Ciao, mi chiamo Serena. Secondo me il modo migliore per ricordare Consolo è dare spazio alle sue parolo.
    Così ho raccolto alcuni spezzoni di suoi scritti (materiale che circola in rete). E’ il mio modo per contribuire al “tributo”.

  26. Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.
    (da Le pietre di Pantalica, p. 179)

  27. da… Le pietre di Pantalica

    Arrivammo a Pantalica, l’antichissima Hybla, ci arrampicammo su per sentieri di capre, entrammo nelle tombe della necropoli, nelle grotte-abitazioni, nei santuari scavati nelle ripide pareti della roccia a picco sulle acque dell’Anapo. Il vecchio parlava sempre, mi raccontava la sua vita, la fanciullezza e la giovinezza passate in quel luogo. Mi diceva di erbe e di animali, dei serpenti dell’Anapo, e di un enorme serpente, la biddina, fantastico drago, che pochi hanno visto, che fàscina e ingoia uomini, asini, pecore, capre. Fermo sulla soglia, sotto l’arco d’una grotta, tra la luce e l’ombra, lo guardavo questo vecchio sopravvissuto, la faccia nera e rugosa, le grosse mani terrose, e mi sembrava che, dopo millenni, uscisse in quel momento dal fondo buio della grotta, estraneo, remoto, metafisico.

  28. da… Il barocco in Sicilia

    Tutti dovettero avere una grande superbia, un grande orgoglio, un alto senso si sé, di sé come individui e di sé come comunità, se subito dopo il terremoto vollero e seppero ricostruire miracolosamente quelle città, con quelle topografie, con quelle architetture barocche: scenografiche, ardite, abbaglianti concretizzazioni di sogni, realizzazioni di fantastiche utopie. Sembrano nei loro incredibili movimenti, nelle loro aeree, apparenti fragilità, una suprema provocazione, una sfida ad ogni futuro sommovimento della terra, ad ogni ulteriore terremoto; e sembrano insieme, le facciate di quelle chiese, di quei conventi, di quei palazzi pubblici e privati, nei loro movimenti, nel loro ondeggiare e traballare “a guisa di mare”, nel loro gonfiarsi e vibrare come vele al vento, la rappresentazione, la pietrificazione, l’immagine, apotropaica o scaramantica, del terremoto stesso: la distruzione volta in costruzione, la paura in coraggio, l’oscuro in luce, l’orrore in bellezza, l’irrazionale in fantasia creatrice, l’anarchia incontrollabile della natura nella leibniziana, illuministica anarchia creatrice; il caos in logos, infine. Che è sempre il cammino della civiltà e della storia.

  29. da… Retablo


    Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credea divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine, rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?

  30. Ho scoperto Consolo piuttosto tardi, ahimè, partendo da “Nottetempo, casa per casa”: romanzo vertiginoso, da cui sono uscito e in cui sono rientrato molte volte, a prendere fiato. Vi leggevo (vi leggo sempre) segni di una solitaria grandezza. Sono alle prese con gli altri suoi libri in questi anni, a spizzichi – Consolo non è autore da divorare in blocco, resiste alle scorpacciate, si difende dalle letture frettolose e entusiastiche. La sua lingua ricca e sorprendente (così splendidamente inattuale) richiede attenzione, circospezione anche, oltre che un infinito rispetto.

  31. Degli autori scelti da Bufalino per il suo “Cento Sicilie” ero sino all’altro ieri uno dei tre rimasti, assieme a Consolo e Vilardo. Ho più di una ragione per sentirmi più solo, ma avverto che questo senso di solitudine non è soltanto mio ed Enzo Consolo manca un po’ a tutti, come già è avvenuto quando Sciascia o Bufalino sono venuti a mancarci. L’ultima volta ci siamo incontrati ai funerali di Leonardo Sciascia, non mi parve che stesse male, ma è passato già tanto tempo e la vita, come spesso ho avuto modo di dire, finisce sempre col trattarci male. Addio, caro amico: ti cercherò ancora nei tuoi libri e con te negare la morte. Addio.

  32. Ciao, Amelia. Grazie del bentornato. Anche per me è bello leggere i tuoi contributi. Un abbraccio

  33. Colgo l’occasione per trascrivere la continuazione dell’incantevole incipit di “Retablo” inserito più sopra da Serena:

    T’ho cercata per vanelle e per cortigli, dal Capo al Borgo, dai Colli a la Marina, per piazze per chiese per mercati, son salito fino al Monte, sono entrato nella Grotta: lo sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, màndola e vaniglia, pasta martorana fatta carne.

  34. Mi sovviene un ricordo legato alle corisie, rievocate nel romanzo Lo spasimo di Palermo.
    Alla fine di un convegno, Consolo fu incuriosito dagli alberi panciuti e spinosi detti anche alberi bottiglia che costeggiano il Viale delle Scienze di Palermo e mostrò il desiderio di conoscerli meglio. Anch’io mi trovai con altri convegnisti a sentire quella richiesta. Gli promisi che avrei fatto delle ricerche in proposito e gliele avrei comunicate. Lui gradì molto e mi ringraziò. Dopo qualche tempo, in occasione della presentazione di un libro sul restauro della chiesa dello Spasimo, gli consegnai una busta con le notizie sulle chorisie speciose, richieste a mia volta al professore Giovanni Liotta della facoltà di Agraria. Quando nel 1998 uscì il romanzo Lo Spasimo di Palermo, provai piacere nel ritrovarvi le corisie o alberi del Kapoc; nella scrittura consoliana, le asettiche notizie della botanica rappresentavano soltanto un pretesto: “i tronchi rigonfi delle corisie, la minaccia d’ogni lancia o spina, la meraviglia d’ogni rivolta e attorcimento, l’espansione sinuosa delle ramaglie, il fitto cielo delle foglie, la caduta delle radici e lo strisciare gropposo delle magnolie”.

  35. Che bello potersi esprimere in un luogo così accogliente per parlare di uno scrittore amato che e’ venuto a mancare. Credo che la forza di Consolo sia proprio nella parola e nel linguaggio. E che il suo linguaggio lo ha reso unico.
    La scrittura di Consolo non e’ facile, non e’ per tutti, ma trasuda arte. E le sue pagine rinnovano la parola scritta, sempre piu’ lisa nelle pubblicazioni odierne.

  36. Vincenzo Consolo
    la Sicilia come paradiso perduto

    di Salvatore Scalia

    Gli amici non si passeranno più la voce per comunicarsi che viene Vincenzo. Quello a Sant’Agata di Militello sarà l’ultimo ritorno.
    La Sicilia per Vincenzo Consolo era tutto: patria del cuore e della memoria, eterna fonte d’ispirazione e di vertiginose avventure mentali, luogo di fantastiche esplorazioni e di amaro disincanto, lingua materna a cui attingere per preservare dalla corruzione e dall’inganno passioni e sentimenti. Ci tornava sempre a trovare i parenti a Sant’Agata di Militello, dov’era nato nel 1933, per presentare i suoi libri, per presiedere la giuria del premio Vittorini, per ricevere premi come il Brancati a Zafferana, per partecipare a incontri e convegni, per parlare contro la mafia e la corruzione del potere. Era un uomo timido, pronto ad arrossire di pudore o di collera repressa. Un amore infinito per la sua terra e una incessante curiosità intellettuale facevano sì che si aprisse al prossimo, pronto ad assorbire storie, odori e sapori. Aveva scelto gli umili e i diseredati, e la Sicilia, umiliata e offesa da gattopardi di ogni risma, offriva materia incandescente alla sua scrittura, lirica e barocca.
    Tutta la produzione letteraria e saggistica di Consolo ha al centro la sua isola. Qui aveva conosciuto da giovane i suoi due maestri: Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo. Dello stile dello scrittore di Racalmuto si era invaghito dopo avere letto “Le parrocchie di Regalpetra” resoconto realistico del malessere sociale ed esistenziale di un paese della depressa Sicilia contadina. Del poeta di Capo d’Orlando, aristocratico e letterato finissimo, era divenuto amico e frequentava abitualmente la villa in contrada Vina, affascinato dai suoi versi, ispirati al crepuscolo di un mondo nobiliare, e dalla sua cultura nonché dalle sue stranezze.
    I libri di Consolo si possono collocare tra questi due poli: da un lato l’esigenza neorealista di descrizione e di denuncia di una realtà degradata, delle continue disillusioni affidate alla storia e alla politica, del riscatto mancato delle classi popolari, della violazione e della sudditanza di una Sicilia mitica terra degli dei. Dall’altro lato la pietas e la rabbia dell’intellettuale sono filtrate da un complesso lavorio linguistico che attinge a diversi campi semantici e trae vigore dal ricorso alle parole incorrotte del dialetto. In Consolo l’indignazione civile si alimenta del rimpianto del paradiso perduto e si trasforma in prosa lirica.
    Il primo romanzo, “La ferita dell’aprile”, l’aveva pubblicato nel 1963 presso l’editore Einaudi grazie all’interessamento di Basilio Reale, psicanalista originario di Capo d’Orlando, che viveva anch’egli a Milano. Al redattore della casa editrice, che gli aveva chiesto di modificare il testo e di aggiungere un glossarietto di termini dialettali, aveva risposto che piuttosto avrebbe preferito non pubblicare il libro. Questa difesa ad oltranza del proprio stile si fondava su una profonda consapevolezza della propria peculiarità letteraria e del ruolo dello scrittore.
    Il successo arrivò nel 1976 con “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, il racconto della sanguinosa rivolta contadina di Alcara Li Fusi in seguito alle speranze di riscatto suscitate dalla venuta di Garibaldi e dei Mille in Sicilia. Ancora una volta un intellettuale siciliano si misurava con il tema del Risorgimento come rivoluzione tradita, ma per restituire la voce agli umili, alla lingua tagliata degli oppressi. 
    Scrittore affermato, i romanzi successivi, da “Retablo” a “Nottetempo casa per casa”, saranno sempre avvenimenti letterari, così come il libro di racconti “Le Pietre di Pantalica”, o quello di saggi “Di qua dal faro”. E ogni volta le opere sembravano propiziare l’eterno ritorno di un ulisside nella sua Itaca. La Sicilia era sempre pronta ad accoglierlo.
    La lingua siciliana, a questo erede della contestazione letteraria del Sessantotto, aveva fornito uno strumento per sottrarsi al pericolo dell’omologazione, al linguaggio incolore e usurato della letteratura di consumo. Ogni arcaismo dialettale, ogni riscoperta di una parola siciliana desueta, era insieme un atto d’amore, di purezza letteraria e una rivolta contro il potere. 
    Consolo ha vissuto l’isola come mito letterario, a volte come Arcadia, di un felice e incorrotto tempo che fu, da contrapporre alla degradazione umana e sociale del presente. E la prima vittima di un amaro disinganno è stato lui stesso.

  37. Un grande scrittore, ma anche un grande uomo di impegno civile e umanista é uscito di scena, oggi, forse in un uno dei momenti più regressivi della società italiana. Il novecento letterario si allontana sempre di più e con esso anche una certa Italia sbiadisce per cadere nell’oblio del presente , un’Italia che ripudia il passato e non vuole futuro civile.
    Avendo , all’Università di Grenoble, preparato una tesi di laurea il cui titolo era :” Infanzia, lingua ed esilio nell’opera di V. Consolo” ho avuto modo di incontrarlo per ben quattro volte e cosi’ apprezzare in vivo l’uomo di grande cultura e di impegno civile, doloroso per la sua Sicilia che andava in frantumi e che ci lasciava intravedere gli anni bui che attendevano l’Italia al varco degli anni 90.
    Consolo ritroverà la sua Sicilia, e l’Italia perde un grande uomo !!

  38. Ciao Vincenzo Consolo… ricordandoti a capo d’orlando alle riunioni della fondazione antiracket di Tano Grasso

  39. “Il sorriso dell’ignoto marinaio” tra i romanzi piu grandi del dopoguerra come lo sguardo mite e aspro, poetico e civile di Vincenzo Consolo

  40. ANSA) – SANT’AGATA DI MILITELLO (MESSINA), 23 GEN – Nella chiesa del Sacro Cuore di Sant’Agata di Militello, troppo piccola per accogliere la folla degli amici, si sono celebrati i funerali dello scrittore Vincenzo Consolo. Lui stesso aveva chiesto di tornare al suo paese natale.

    Non poteva mancare nell’omelia di don Enzo Vitanza il richiamo alla metafora piu’ volte adoperata dallo stesso Consolo per definirsi ”moderno Ulisse che torna nella sua Itaca da cui non riesce a distaccarsi”.

  41. GIANNI RIOTTA
    Recensivo libri a cottimo, 1500 lire a pezzo, quando il mio caporedattore di allora, Anselmo Calaciura del Giornale di Sicilia, mi chiamò, «Scrivi di questo romanzo: dicono sia bellissimo». Il titolo suonava latinoamericano, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Dell’autore, si sapeva poco, Vincenzo Consolo, faceva il funzionario alla Rai e, come diceva maliziosa la critica Grazia Cherchi, «Qual è il mestiere più diffuso tra i nostri scrittori? Funzionario Rai, un sacco di tempo libero».

    Presi l’elegante volumetto Einaudi con il disincanto precoce di chi lavora sui libri per mestiere, ma le imprese del barone Mandralisca, che riceve in dono all’isola di Lipari il ritratto di ignoto poi attribuito ad Antonello da Messina e oggi custodito in un piccolo museo di Cefalù, la sua passione per la malacologia, molluschi di cui ancora si conserva l’eccezionale collezione di conchiglie, mi rapirono. Consolo metteva in campo una scrittura raziocinante, dove la passione politica dell’avvocato Interdonato, patriota contro il regno dei Borboni, diventa non l’ennesima saga siciliana della terra «senza redenzione», ma favola umana del bene e del male, della dignità, del dolore e fantasia.

    Come in Pedro Paramo, il capolavoro del messicano Juan Rulfo che nessuno più legge, la morte e la vita sono in Consolo trama del nostro divenire. Nel narrare le lamentazioni di un ribelle del paese di San Fratello, borgo siciliano popolato da coloni lombardi al tempo della normanna Contessa Adelasia, dove ancora si parla un dialetto gallo-italico, con echi di piemontese, ligure, lombardo, emiliano e provenzale, e si allevano celebrati cavalli di razza, Consolo intreccia italiano e lingue povere, anticipando lo stile che Andrea Camilleri forgerà in best seller globale.

    San Fratello era il paese del padre di Bettino Craxi, non lontano dalla Sant’Agata Militello dov’era nato Consolo. Poi, per il politico e lo scrittore, Milano era stata metropoli di vita e lavoro. Consolo non aveva né la sagacia, né la malizia del suo amico Leonardo Sciascia nel trattare con i reporter, e a ogni elezione milanese cadeva nel tranello di prendersela con le nuove maggioranze, in un gioco frustrante: «Vado via, lascio Milano», per poi restare nel luogo che amava, come Quasimodo, come Vittorini.

    Riferiva incantato i colloqui con il nipote Nino Bertoloni Mei, giornalista politico a Roma, stregato da una trama la cui intrigante crudeltà gli sfuggiva, come gli sfuggì la violenza degli anni di piombo a Milano, troppo feroci per il suo candore. Sembrava felice solo con qualche amico, in famiglia, lavorando sui libri o parlando ai ragazzi, nostalgico come l’aristocratico Mandralisca di una vita racchiusa nella madreperla di una conchiglia. Il regista Roberto Andò racconta nel suo libro Diario senza date del fallito progetto di film sul poeta siciliano Lucio Piccolo, autore dei versi di Plumelia, «pure il rovo ebbe le sue piegature di dolcezza, anche il pruno il suo candore».

    Andò e Consolo cercarono nel villaggio di Ficarra Giuseppe, il figlio abbandonato dal poeta. Sfuggiti a misteriosi posti di blocco di gabelloti, arrivano alla casa dell’appuntamento ma quando Consolo prova a dire «Sono stato amico di suo padre…» Giuseppe si rivolta con «la feroce dignità di un reietto». La «dignità feroce» del figlio di Piccolo respinto, e «il candore» dei versi del poeta padre, contengono tutto Enzo Consolo. E se lo immaginate, sorriso lampeggiante dietro gli occhiali a gustare prima del film mancato «un piatto di spaghetti… alla neonata di uvaro» avrete – solo per un flash, l’ombra dello scrittore che si voleva «ignoto» come il marinaio suo eroe.

    (Gianni Riotta per Vincenzo Consolo – La Stampa – 22/01/2012)

  42. MILANO – È morto oggi dopo una lunga malattia, nella sua casa di Milano, Vincenzo Consolo, considerato dalla critica uno dei grandi scrittori contemporanei. Nato a Sant’Agata di Militello (Messina) nel 1933, laureato in Giurisprudenza, si dedica ben presto alla scrittura. Consolo esordì nel 1963 con La ferita dell’aprile, un romanzo sulle battaglie politiche che seguirono in Sicilia alla Seconda Guerra mondiale. Vi si trovano già, filtrati dallo sguardo di un giovane ribelle, i temi che saranno trattati nei romanzi successivi: l’insensatezza della Storia e del potere, l’ottusità di certa cultura cattolica, lo scacco storico subìto dal mondo contadino, l’imbarbarimento e la violenza, l’isolamento degli intellettuali.
    ANTILEGHISTA -Il libro che lo consacra ai vertici della letteratura italiana è Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), dove si narra la rivolta contadina di Alcara Li Fusi nel passaggio dal regime borbonico a quello unitario. Con molti altri libri, da Retablo a Nottetempo casa per casa (Premio Strega 1992), da La pietre di Pantalica a Lo spasimo di Palermo, il suo impegno civile e la sua vena espressionistica si affermano definitivamente. Pur non essendo uno scrittore facile che utilizza un linguaggio sperimentale che mescola elementi dialettali e arcaismi, ha ottenuto ampi riconoscimenti non solo dalla critica ma anche dai lettori. Consolo si è trasferito nel 1968 a Milano, dove ha lavorato alla Rai. Attratto da Vittorini, da Pasolini, da Gadda, dal poeta Lucio Piccolo, legato da profonda amicizia con Leonardo Sciascia (cui si deve il suo approdo alla casa editrice Einaudi), Consolo ha vissuto il suo lungo soggiorno milanese con dichiarata insofferenza per la piega politica degli ultimi anni, specialmente in chiave antileghista.

    Paolo Di Stefano – Corriere della sera
    21 gennaio 2012

  43. Salvatore Silvano Nigro per Vincenzo Consolo

    Ho nel mio studio una fotografia scattata da Giuseppe Leone trent’anni fa. Occupa un’intera parete. C’è Vincenzo Consolo, nella foto. E con lui ci sono Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino. Ridono, contagiandosi a vicenda. Ridono fino a sgangherarsi. Si tengono spalla contro spalla, con le lacrime agli occhi. Sciascia sta in mezzo. Consolo si gira di lato. Vuole evitare di lasciarsi trascinare da Sciascia che quasi si piega sulle ginocchia. Bufalino si gratta la testa e sorregge gli occhiali. Ridono felicemente. Voglio ricordarli così, tutti e tre: i tre grandi maestri della letteratura siciliana del secolo scorso; i tre scrittori che hanno regalato alla letteratura opere indimenticabili.
    Fu Sciascia a scoprire Bufalino e a sostenere con la sua autorità il singolare liberty funerario di Diceria dell’untore. Fu Sciascia a ispirare sin dall’inizio Vincenzo Consolo, che era nato sì a Sant’Agata di Militello nel 1933, ma alla letteratura era nato all’ombra del Consiglio d’Egitto: dapprima con il felicissimo romanzo d’esordio La ferita dell’aprile (1963) fortemente voluto da Nicolò Gallo, e poi, soprattutto, con Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976). Sciascia, Consolo, Bufalino. E bisogna aggiungere Elvira Sellerio, che nella foto non compare. Ma era presente nella scena, accanto al fotografo. Fu Elvira Sellerio a cementare l’amicizia fra i tre scrittori. E fu Elvira Sellerio a costringere Consolo, con la forza della sua ostinazione, a scrivere quell’altro capolavoro che è il romanzo Retablo (1987). Consolo era lento nella scrittura. Aveva i suoi tempi, e aveva bisogno di essere incalzato.
    Consolo è stato l’erede di Sciascia. Ne ha continuato l’impegno civile. Non da epigono, però. Ma con un’autonomia letteraria sostenuta dall’invenzione di una lingua che fa capo alla Scuola poetica siciliana di Federico II, declinando Jacopo da Lentini e Cielo d’Alcamo attraverso le lezioni del barocco Daniello Bartoli, delle avanguardie novecentesche, e del conterraneo Lucio Piccolo autore dei Canti barocchi. Con Sciascia, Consolo ha condiviso l’amore per Manzoni. Ed è dai Promessi sposi e dalla Storia della Colonna infame che discende, nelle opere dei due scrittori, il senso di responsabilità morale e la diffidenza nel lavoro della penna che asservita, o malamente usata, può essere strumento di impostura. Consolo non è mai venuto meno a un’idea di letteratura come indagine sugli errori della storia e della politica. E quando si è sentito sopravanzato, quasi sopraffatto da una realtà politicamente indecorosa e violentemente prepotente, non ha esitato a deporre la penna e a interrogarsi su un silenzio attivo, inteso come dolorosa denuncia della barbarie. Consolo aveva alle spalle una solida esperienza di giornalista. Aveva percorso la Sicilia in lungo e in largo per conto del quotidiano «L’Ora» di Palermo. Aveva seguito processi su fatti tremendi e sondato gli abissi più sciagurati del malaffare. Era scivolato sul sangue di più cadaveri, lungo le strade e le trazzere. La sua penna non dimenticò mai gli scempi dell’isola: la distruzione del paesaggio, la corruzione, la violenza della mafia, le responsabilità di una classe politica abietta, lo sconvolgimento antropologico. La Sicilia divenne per lui un’Itaca presa in ostaggio dai Proci. Lui stesso indossò i panni di Odisseo. Viaggiò lontano dall’isola, con un cruccio dentro e un amore malinconico. Ma rimase fedele a Itaca. Vi tornò spesso. E usò la scrittura barocca come Ulisse usò il suo arco: per lenire un dolore e per cancellare un’offesa.
    Incontrò un poeta sulla sua strada. Un poeta antropologo. Ne parla nei racconti saggistici dell’Olivo e l’olivastro (1994). Si chiamava Antonino Uccello. Questo delicato poeta aveva messo su, a Palazzolo Acreide, una casa-museo. Vi aveva sistemato tutti gli oggetti della civiltà contadina siciliana. E aveva ottenuto che tutti i visitatori, venissero dall’Australia o dagli Stati Uniti, dalla Germania o dalla Cina, ritrovassero là dentro un loro sogno, una loro infanzia, l’illusione di una vita piena. Consolo sognò là dentro, in quella serena casa-museo, un’Itaca senza Proci. Ma si rese conto che il suo, come quello di Uccello, era un disperato volo d’Icaro. Si ricordò di Siracusa, di un quadro di Caravaggio, del Seppellimento di Santa Lucia. Al racconto su Uccello accostò un altro racconto, su Caravaggio e il ceroplasta Zummo. Immaginò di scrostare la tela di Caravaggio, alla ricerca del taglio: della ferita mortale inflitta a Santa Lucia dal carnefice. Quella ferita era stata nascosta dalla bellezza della pittura. Solo Zummo, il figlio di una schiava, s’era accorto nel Seicento dell’inganno. Aveva affondato lo sguardo fin dentro la ferita. E da quel taglio aveva estratto le essudazioni, il pus e i vermi delle sue “pesti” di cera. Dietro i colori del barocco di Zummo, e di Consolo, sanguina e impuditrisce una ferita.
    Con Consolo scompare l’ultimo rappresentante di quella grande stagione letteraria che la macchina fotografica di Leone ha fissato per sempre in un momento di gioia. Una foto storica, che sorprende i tre protagonisti uniti nella felicità di un momento magico nella spianata di fronte alla casa di campagna di Sciascia.
    Vincenzo Consolo si è spento. Ma le sue opere torneranno presto in libreria. Cesare Segre, il critico più amato da Consolo, sta lavorando, insieme a Giovanni Turchetta, al Meridiano a lui dedicato. La Mondadori ha annunciato pure un volume di racconti. E Sellerio ha in preparazione un libro che raccoglie gli articoli apparsi su «L’Ora».

    Salvatore Silvano Nigro

  44. Nelle sue opere è molto importante il rapporto con la Storia. Per uno scrittore oggi in che modo la Storia può essere una fonte ispirativa?
    Credo che sia importante il contesto storico per scrittori della mia generazione e soprattutto della mia estrazione. Io sono uno scrittore siciliano che ha alle spalle una tradizione altissima, da un punto di vista letterario. La particolarità degli scrittori siciliani, da Verga in poi, per non andare più lontani, e in genere degli scrittori meridionali, è proprio questa attenzione verso il mondo esterno, verso i contesti storico-sociali. Da noi è quasi assente il romanzo d’introspezione psicologica che appartiene ad altre aree letterarie. La Storia è importante perché permette, a me e ad altri che hanno usato nelle loro opere il contesto storico, (il nostro archetipo naturale è il Manzoni) di operare quella famosa metafora: parlare di eventi, di fatti storici per significare il presente, per cercare di capire il presente.

  45. Un altro elemento presente nella sua scrittura è la ricerca sul linguaggio. Una vera sperimentazione linguistica.
    Io appartengo proprio a questa linea sperimentale che è sempre convissuta nella letteratura italiana, insieme alla linea di tipo razionalistico illuministico. Ci sono questi due crinali che partono dalle origini della nostra letteratura, da Dante, Petrarca e giù giù sino ai giorni nostri, passando per scrittori della grandezza di Manzoni o di Verga, per arrivare fino a Gadda e a Pasolini. Ecco io appartengo proprio a questa linea sperimentale che opera sul linguaggio, sullo sconvolgimento del codice linguistico dato, per cui la scrittura non diventa più necessariamente comunicativa, ma si complica. Si complica con vari espedienti e con varie sperimentazioni, per arrivare alla polifonia di Gadda, o alla digressione pasoliniana, partendo sempre dalla grande rivoluzione stilistica che ha fatto Verga nei confronti dell’italiano. Verga è stato il primo sperimentatore della letteratura moderna ad aver irradiato di dialettalità quello che era il codice centrale, per intenderci il codice toscano che era stato ipotizzato e praticato da Manzoni. Mi muovo su questa linea sperimentale, cioè lungo la linea verghiana, gaddiana, pasoliniana.

  46. La Sicilia è una terra che ha prodotto grandi scrittori. C’è un rapporto particolare tra questa terra e la letteratura?
    La Sicilia è caratterizzata da una grande produzione letteraria che va da Verga passando per Pirandello, Vittorini, Brancati, fino a Tomasi di Lampedusa, Sciascia e sicuramente ho dimenticato molti altri nomi. Credo che questo dipenda da due fattori. Il primo è la complessa entità della Sicilia, frequentata fin dai tempi più remoti da diverse civiltà che, passando nell’isola o dominando l’isola, hanno lasciato la loro cultura, la loro lingua, oltre ai monumenti che conosciamo, dai Fenici in poi. L’altro motivo credo risieda nel fatto che la Sicilia ha sempre avuto una storia sociale non felice e questo ha portato molti a chiedersi la ragione di questa infelicità sociale e di cercarne una spiegazione attraverso la scrittura. La Sicilia non è una terra di grandi poeti, a parte la tradizione dialettale dei poeti sette-ottocenteschi, è soprattutto un’isola di narratori. Attraverso il romanzo si cerca di trovare le ragioni della complessità culturale e linguistica e anche le ragioni di questa perenne infelicità sociale.

  47. Oggi si parla di grave crisi della narrativa. Lei è d’accordo?
    Si parla spesso di crisi e in particolare di crisi del romanzo.
    Il romanzo è un genere letterario moderno nato con la nascita della borghesia. Oggi con le trasformazioni nel nostro contesto occidentale, con il postindustrialesimo, con la civiltà di massa, soprattutto con la rivoluzione dei mezzi di comunicazione di massa, questo genere letterario è stato messo in crisi e io credo che sia una crisi effettiva. La nostra è una civiltà in cui le radici profonde della memoria e le radici linguistiche si sono quasi esaurite e lo scrittore non sa più chi è il suo referente, qual è il contesto a cui si rivolge.
    Credo che voci nuove e interessanti si trovino in quelle zone del mondo in cui ancora l’industrializzazione non è passata, dove ancora si conserva una memoria e soprattutto una memoria linguistica. La crisi in poesia non si è avverata, infatti ci sono interessanti poeti, premiati anche col Nobel che provengono da zone del mondo non post-capitalistiche.

  48. Crede nell’utilità dei premi letterari? Oggi anche questo è un tema molto dibattuto.
    Si parla molto male dei premi letterari, ma credo che in questo nostro Paese siano ancora necessari. L’Italia è un paese dove la lingua è circoscritta a una zona molto ristretta, non abbiamo aree italianofone perché, grazie a Dio, non abbiamo avuto colonie, quindi non abbiamo l’estensione linguistica che ha avuto la Francia, l’Inghilterra o la Spagna: i lettori italiani sono sempre di meno, sono sempre molto pochi. I premi servono a puntare l’attenzione sulla letteratura, sugli scrittori e anche con le loro storture, con le ingerenze politiche o editoriali, tutto sommato servono a far porre attenzione alla letteratura, alla narrativa o alla poesia italiane.

  49. Un saluto a Vincenzo Consolo. Avevo letto, di lui, solo il libro vincitore dello Strega, ma mi avete fatto venir voglia di leggere il resto.
    Il privilegio di chi scrive, riuscendo a farsi ricordare, è che rimane su questa terra pur essendosene andato.

  50. Facendo un giro in rete ho visto che questo è lo spazio più completo dedicato a Consolo. Un grande serbatoio che raccoglie pensieri, ricordi, opinioni, citazioni e informazioni.
    Ciao a tutti.

  51. Voglio ricordare Consolo al liceo Carducci di Milano: era venuto per conversare coi miei studenti, che rimasero affascinati dalle sue parole, dal suo modo di essere. Voglio ricordarlo anche con queste poche righe che gli ho dedicato nel volume 10 ddi Letteratura pubblicato da Electa qualche anno fa. È la mia maniera di rendergli un umilissimo omaggio, da insegnante e da lettrice delle sue opere.

    “Il libro forse più originale e innovativo di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, trova il suo modello nel romanzo Horcynus Orca di d’Arrigo. Autore difficile e complesso per sua scelta, in quest’opera Consolo riprende il tema caro agli scrittori siciliani del Risorgimento fallito, inserendovi riflessioni e interrogativi legati alla società contemporanea e in particolare alla situazione dell’Italia negli anni Settanta. E lo fa in una lingua composita, nella quale entrano termini arcaici, vocaboli siciliani provenienti da culture diverse, in modo da evitare il rischio del ricorso a un unico registro stilistico sempre alto. Un altro romanzo insolito e ricco di fascino di questo scrittore sperimentale è Retablo, il cui titolo fa riferimento a una sequenza di rappresentazioni che narrano una storia, come nei carretti siciliani o in un polittico: il viaggio in Sicilia, nel Settecento, di un pittore milanese innamorato di donna Teresa Blasco, che avrebbe poi sposato Cesare Beccaria. La Sicilia, da cui proviene il mistero della bellezza di Teresa, rappresenta il passato, un modo di contestare lo sconforto e la disillusione generati dal presente. L’isola rimane il non luogo del desiderio di ogni libro di Consolo, che, fedele alla lezione di Sciascia, ha sempre voluto credere nella forza della ragione e della parola contro l’irrazionalità cieca degli eventi, anche se tragici come quelli descritti in quel romanzo intenso e sofferto che è Lo spasimo di Palermo”.

  52. Ciao Massimo. Grazie per questo spazio che offri a tutti noi per parlare di Consolo. Io, personalmente, pensavo di inserire dei dati biografici e sulle sue opere. Però non vorrei che i miei commenti si rivelassero duplicazioni di altri.
    Chiedo istruzioni.
    Comunque, anche a me è venuta voglia di rileggere Vincenzo Consolo. Aspetto anche che esca il Meridiano Mondadori.

  53. Cari amici, grazie di cuore per i vostri interventi. E grazie per le citazioni, per i link, per gli articoli riprodotti.
    Questa pagina si sta riempendo di contenuti grazie voi!

  54. Ne approfitto per ringraziare e salutare: Gli Avolesi Nel Mondo, Santo F., Silvie, Anna Maria Ercilli, Amelia Corsi, Edoardo, Patrizia Debicke, Emilio Sarli, Subhaga Gaetano Failla, Serena, Claudio Morandini, Carmelo Pirrera, Piero Carbone, Sandra Di Giorgio, Trunfio Demetrio, Leo, Desi…

  55. Mi ha scritto per mail l’amico poeta Sebastiano Burgaretta: “Tornato dal funerale di Vincenzo, ho letto la tua richiesta e ho pensato di mandarti queste cartelline, che scrissi qualche anno fa per una rivista. Ho piacere di mandartele. Ciao. Jano”


    Il contributo di Sebastiano Burgaretta si intitola “Alle soglie del “témenos”.
    Lo trovate sul post (con una nuova bella immagine di Vincenzo Consolo).

  56. Rilancio ribadendo che… questo piccolo “tributo” vuole essere un omaggio, ma anche un’occasione per far conoscere questo autore a chi non ha ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.
    Chiedo a tutti di contribuire lasciando un ricordo, un’impressione, una citazione, informazioni biografiche… ma anche link ad altri siti e quant’altro possa servire a ricordare Vincenzo Consolo e la sua produzione letteraria.

  57. Consolo, ultimo saluto nella sua Sicilia

    SANT’AGATA DI MILITELLO (CATANIA) – “Non si nasce in un luogo senza esserne segnati nell’animo e nella carne”. Don Enzo Vitanza cita un brano di Vincenzo Consolo per dare un senso alla scelta dello scrittore di tornare nella sua Sant’Agata di Militello da dove era andato via ancora giovane e dove sempre ritornava.

    Nella chiesa del Sacro Cuore, troppo piccola per accogliere la folla degli amici, si sono celebrati funerali semplici e sobri. Lui stesso aveva chiesto alla moglie Caterina di ritornare nell’istituto vicino casa che aveva frequentato da ragazzo. E di cui parla nella sua prima opera, “La ferita dell’aprile”, in cui descrive l’immagine dell’incedere di Cristo lungo una scalinata che ora sembra volgere lo sguardo verso la bara di Consolo.

    In prima fila la moglie, il fratello Melo, la sorella Teresa, i sindaci di Sant’Agata, dove era nato 78 anni fa, e di Cefalù e il vice sindaco di Santo Stefano di Camastra. Cefalù e Santo Stefano gli avevano dato la cittadinanza onoraria. Non poteva mancare nell’omelia di don Vitanza il richiamo alla metafora più volte adoperata dallo stesso Consolo per definirsi “moderno Ulisse che torna nella sua Itaca da cui non riesce a distaccarsi”.

    È quello che ripete, ricordando il legame intenso con la sua terra, il sindaco Bruno Mancuso. Di Consolo traccia il profilo di un uomo “probo e giusto” impegnato a suscitare l’indignazione dei giovani contro il “sistema inquinato da corruzione e malaffare”. Al termine della funzione, Consolo è stato sepolto nella cappella di famiglia insieme con altri quattro fratelli.

  58. Vincenzo Consolo (Sant’Agata di Militello, 18 febbraio 1933 – Milano, 21 gennaio 2012) è stato uno scrittore e saggista italiano. È considerato uno tra i maggiori narratori italiani contemporanei.
    dopo le scuole superiori, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano, ma si laurea, con una tesi in filosofia del diritto, all’Università di Messina, dopo aver assolto il servizio militare.
    Conclusi gli studi universitari, ritorna in Sicilia, dove si dedica all’insegnamento nelle scuole agrarie. Nel 1963 esordisce con il suo primo romanzo, La ferita dell’aprile, squarcio sulla vita di un paese siciliano movimentato dalle lotte politiche dei primi anni del dopoguerra. I suoi riferimenti umani e letterari, in quella stagione, sono lo scrittore Leonardo Sciascia e il poeta Lucio Piccolo.

  59. Nel 1968, avendo vinto un concorso alla Rai, si trasferisce a Milano, dove ha vissuto e lavorato fino alla sua morte, svolgendo un’intensa attività giornalistica, con lunghi soggiorni nel paese d’origine.
    La vera rivelazione arriva nel 1976, con Il sorriso dell’ignoto marinaio, singolare ricostruzione di alcuni eventi svoltisi nel nord della Sicilia al passaggio dal regime borbonico a quello unitario e culminati nella sanguinosa rivolta contadina diAlcara Li Fusi nel maggio 1860. Un anno dopo, nel 1977, Consolo diviene consulente editoriale della Einaudi per la narrativa italiana, insieme, tra gli altri, a Italo Calvino e Natalia Ginzburg.

  60. Tra le altre sue opere principali: Retablo (1987), Nottetempo, casa per casa (1992), L’olivo e l’olivastro (1994), Lo spasimo di Palermo (1998), Di qua dal faro (2001). Tra i racconti: Le pietre di Pantalica (1988), Per un po’ d’erba ai limiti del feudo (in Narratori di Sicilia a cura di L. Sciascia e S. Guglielmino, 1967), Un giorno come gli altri (in Racconti italiani del Novecento a cura di E. Siciliano, 1983), il racconto teatrale Lunaria (1985), Catarsi (1989).

  61. Nel 2007 ha ricevuto la laurea honoris causa in Filologia moderna dall’Università di Palermo (nella stessa giornata, insieme a Luigi Meneghello).
    La sua ultima opera è Il corteo di Dioniso (2009).
    I suoi libri sono stati tradotti in francese, inglese, tedesco, spagnolo, portoghese, olandese, rumeno, catalano.

  62. Insieme a vari premi ricevuti nel corso degli anni, ha vinto nel 1992, con Nottetempo, casa per casa, il prestigioso Premio Strega e nel 1994 il Premio Internazionale Unione Latina per l’insieme della sua opera.
    Muore il 21 gennaio 2012 a Milano, dopo una lunga malattia.

  63. La narrativa di Vincenzo Consolo presenta un originale rapporto tra memoria storica e ricerca linguistica. Egli è infatti attento alle più varie possibilità di linguaggio, e questo lo conduce a una appassionata interrogazione del passato. La ricerca di questa memoria storica riguarda il mondo della Sicilia, il suo passato e il suo presente, la sua bellezza affascinante e il suo disfacimento, i suoi odori forti, la sua natura seducente, portano questa contraddizione all’estremo, le danno una singolare capacità conoscitiva.

  64. Consolo, come tanti scrittori siciliani moderni, scrive costantemente della sua terra d’origine, traendo spunto dal materiale autobiografico relativo alla sua infanzia e giovinezza “isolana”. Ciò gli ha permesso di ricostruire nelle sue opere momenti e vissuti personali attraverso il “filtro” di un particolare tipo di memoria che si tinge di nostalgia. Questa posizione di distanza materiale e vicinanza affettiva sembra provenire insieme da un rapporto di amore e odio con la Sicilia, e da una doppia esigenza artistica e conoscitiva.

  65. Da una parte la distanza consente una messa a fuoco migliore e più oggettiva della realtà siciliana, che può essere giudicata più chiaramente anche perché posta in relazione con quanto accade nel “continente”. Da un’altra parte però, la terra dell’infanzia e di un passato ancora più remoto, ricostruita sul filo della memoria personale, diviene un luogo forse idealizzato dal ricordo e dalla nostalgia, ma anche per questo capace di diventare un termine di paragone per rilevare la violenza del tempo e le trasformazioni che devastano un mondo ingiusto ma comunque carico di valori positivi, per sostituirlo con un mondo non meno ingiusto e per di più impoverito sul piano umano.

  66. Al centro di quasi ogni opera di Consolo vi è la percezione del male di vivere. Egli rappresenta la tragedia del vivere su due livelli diversi. Innanzitutto c’è la riflessione esistenziale e trascendentale sul destino eterno dell’uomo, sulla sua sofferenza e sull’inevitabile vittoria della corrosione e della morte.
    In Filosofiana, uno dei racconti de Le pietre di Pantalica, il protagonista si chiede:
    « Ma che siamo noi, che siamo?… Formicole che s’ammazzano di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo. In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si chiama mondo, carichi di grani, paglie, pùliche, a pro’ di uno, due più fortunati. E poi? Il tempo passa, ammassa fango, terra sopra un gran frantumo d’ossa. E resta, come segno della vita scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena o figura. »

  67. Bisogna notare che questa riflessione avviene mentre il protagonista sta “masticando pane e pecorino con il pepe”, controbilanciando così il tono alto con un riferimento basso, quasi comico: una situazione tipica della narrativa di Consolo.
    Consolo tende spesso a ricordare al lettore che la sofferenza è sì di tutti, ma che non si distribuisce in parti uguali, anzi rispetta perfettamente le differenze di classe. Ecco quindi che si arriva all’altro livello della rappresentazione della tragedia del mondo, e alla violenza non più della natura sull’uomo ma dell’uomo contro il suo simile. Egli sottolinea soprattutto la recita esterna del potere, “quella di sempre, che sempre ripetono baroni, proprietari e alletterati con ognuno che viene qua a comandare, per avere grazie, giovamenti, e soprattutto per fottere i villani”.

  68. Di particolare interesse è il modello linguistico di Consolo. La sua “lingua” è una ricerca continua di originalità.
    In un’intervista curata da Marino Sinibaldi egli ha dichiarato:
    « Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati. Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia. »

  69. La caratteristica fondamentale della lingua di Consolo è la tensione verso l’affermazione di una propria identità, riconoscibile quasi in ogni frase. Egli vuole creare una distanza fra la sua lingua e la povertà d’espressione della lingua di uso corrente. Per ottenere ciò si allontana dal lessico dell’italiano comune cancellando quasi il tono medio, e ricorre a una pluralità di lessici (soprattutto l’italiano antico e il siciliano) e a una pluralità di registri e di toni, dal tragico, al lirico, al familiare, al triviale. Questa contrapposizione alto-basso, tragico-comico, ricorda lo sperimentalismo linguistico di altri autori, primo fra tutti Gadda.

  70. La compresenza contraddittoria di tragico e comico coincide anche con quel “sentimento del contrario” dell’umorismo di Pirandello. La pluralità di toni e di lingue comporta anche una pluralità di prospettive. Se in alcune opere troviamo narratori diversi che osservano la realtà dal proprio punto di vista, in generale Consolo sceglie di raccontare secondo la prospettiva soggettiva e parziale di qualcuno che è dentro la storia.

  71. Per ora mi fermo qui. I testi sono estrapolati da Wikipedia. Avrei potuto semplicemente inserire il link. Pero’ così c’è piu’ possibilità che qualcuno legga. Io sono la prima a non aprire i link, spesso per pigrizia.
    Se Massimo mi autorizza, mi piacerebbe inserire informazioni suo singoli libri di Consolo.
    Attendo istruzioni.
    Ciao a tutti.
    Margie.

  72. buongiorno a tutti. mi chiamo Gisella e ho 19 anni. faccio parte di un gruppo di lettura formato da ragazzi, per lo piu’ frequentanti la facolta’ di lettere della mia città.
    siamo stati molto affascinati e incuriositi da questo post e dalle opinioni che abbiamo letto. così abbiamo deciso di inserire i libri di Vincenzo Consolo nel nostro percorso di lettura.
    naturalmente siamo dispiaciuti per la sua scomparsa e facciamo le condoglianze ai suoi cari. pero’, come qualcuno ha già detto, anche se uno scrittore muore, le sue parole lo riportano a noi e sconfiggono la fine.
    grazie, dunque.

  73. Su Minima et Moralia Fabio Stassi ci regala un ritratto appassionato di Vincenzo Consolo. Sull’articolo linkato, gli appunti che Stassi ha conservato di un passato Salon du livre di Parigi, dove Consolo fu ospite e parlò della sua ricerca stilistica e della sua poetica.
    http://www.minimaetmoralia.it/?p=6291#more-6291

  74. La Sicilia è una Donna in perpetuo travaglio di parto.Nelle notti più cupe dal suo utero scaturiscono con dolore nascite perigliose, i Vespri di tutte le epoche, gli inganni, le partenze senza ritorno, a cuore chiuso ,gli sputi a lordare la terra e le acque, e mani e unghie a strappare l’ultimo fiore.Capita a volte però che la Donna si distenda in pienezza di luce ,nei pressi di una fonte che mormora parole lucenti e infinite, e in quel luogo generi, con alte grida di gioia, i suoi figli migliori.Hanno occhi fondi e fermi, a scrutare la Madre, e tutte le lingue per raccontarla e tutto l’amore e tutto l’ odio per fuggirla e cercarla in eterno.Sulle rive del Mediterraneo la Donna infila fiori per farsene collane e ornarsene orgogliosa, e i fiori sono volti e nomi dei suoi figli più cari. L’ultimo ha i petali vizzi , come per lunga sofferenza.Mani leggere si chiudono su di lui mentre il buio avanza.

    In memoria di Vincenzo Consolo e di tutti gli scrittori di Sicilia che hanno reso grande questa Terra e così ricca la letteratura italiana.

  75. “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato,ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove”.
    Così Consolo scrive in apertura del racconto “Comiso” (Le pietre di Pantalica).
    E’ in questa nostalgia di una terra, ma ancor di più di una dimensione del tempo, della memoria e dell’anima, che Consolo si rivela poeta.
    Quando ogni parola della sua narrazione è metafora e immagine di altro, e la Sicilia più di ogni altra assurge a metafora di se stessa, ma anche di un mondo rapace e disorientante, fatto di sotterfugi e dolori, in cui gli ultimi pagano un viatico pesante, una decima insaziabile.
    Madre di lutti, e madre di questo futuro fattosi già lapide è la Sicilia, ma è anche scenario per la recita eterna del potere, che si tinge di nomi nuovi e di maschere rinnovate ma resta “quella di sempre, che sempre ripetono baroni, proprietari e alletterati con ognuno che viene qua a comandare, per avere grazie, giovamenti…”.
    In questo teatro dove il copione si ripete e ha attori consumati, giochi visti e rivisti, saltimbanchi sfrontati, gli ultimi sono i veri saccheggiati dalla storia, dalle sue intemperie e violenze.
    Consolo li restituisce reinventati da una lingua inconosciuta, fatta di scoperte e reimpasti, attinta al sublime e all’osceno, quasi ingravidata dalle mille commistioni della realtà tutta.
    Non è forma fine a se stessa, è vita, una vita ricreata e quindi quasi originaria, sorgiva, consegnata a mani nude e in qualche modo pietosamente sottratta alla precarietà e alla morte.
    Ecco perchè oggi Vincenzo Consolo non muore.
    Bravo Massi, per questi contributi meravigliosi, per la tua testimonianza appassionata di letterato e per questo tuo sforzo, ancora e ancora, di lasciare segno e traccia anche dopo la fine.
    la tua Simo

  76. Mio caro dottor Maugeri,
    che nostalgia, che “nostos” direbbe Consolo, per questa perdita e questo acquartierarsi del nostro Vincenzo tra gli spazi del cielo.
    Sempre mi prende quella rabbia che altrove le esternai, che altri mi precedano là dove io sarei già dovuto andare.
    Ma comunque…Consolo è stato foriero di troppe novità perchè io taccia, e se mi permette ne farò rassegna, indosserò quegli abiti stinti da vecchio professore di lettere che solo raramente mi concedo di reindossare.
    Per Consolo lo faccio volentieri anche se la pagherò cara, mio buon Maugeri: questa notte le ombre verranno a visitarmi. Ombre di nostalgia e rimpianto ma…si sa. E’ questo rimpianto a fare la letteratura, come dice Brenot: “Dal dolore della perdita nasce l’opera”.
    E’ questa la lezione magistrale che ci lascia Vincenzo Consolo: riportare la letteratura al cuore, al centro della sua nascita, all’origine della sua vocazione.
    E cioè raccontare il viaggio, come fece Odisseo davanti alla corte di Alcinoo, incantando i presenti, gettando la malìa di un’avventura che conquistava e commuoveva, che suscitava richiami, mancanze, somiglianze.
    E’ questa la vera matrice della narrazione e Consolo non ha mai tradito la metafora del viaggio di Odisseo. “E’, la narrazione, canto e incanto, rivelazione e occultamento, verità e menzogna, musa e sirena, memoria e oblio: ricreazione, vale a dire, di una verità altra, la verità della poesia” (Consolo a Mario Nicolao ne “IL viaggio di Odisseo”, Bompiani).
    Ecco…i romanzieri moderni spesso dimenticano, mi permetta, questa mancanza che trafigge l’anima e riporta ad altra dimensione. Hanno scordato l’erranza, la perdita di sè, la caduta dell’eroe, la riconquista di ciò che il destino ha travolto.
    Hanno scordato l’uomo spoglio e debole sotto il quale palpita un re, la vastità del mare e quel navigare – come noi, come tutti – tra streghe e sirene, tra folaghe e spruzzi, tra imprevisti naufragi e altrettanti imprevisti salvataggi.
    La scomparsa di questa origine tutta spirituale e mitologica ha mutato il racconto, il romanzo, l’ha privato della memoria, l’ha chiuso in schemi, in generi ripetuti all’infinito.
    Pensiamo al poliziesco, che con la sua semplice dinamica (omicidio, indagine, scoperta del colpevole) acquieta illusoriamente la nostra ansia, le nostre inquietudini del vivere, ma lascia scoperta la ferita, la ricerca dell’identità, del destino, della felicità.
    Ecco, caro Vincenzo Consolo, ora posso sbottonare la vecchia divisa da professore, riporre gessi e cancelletto dietro la lavagna.
    Ho detto.
    Ho detto che la letteratura è niente se non strugge di incanti, se non agisce sotto le ali della Musa.
    E le Muse sono figlie di Mnemosine, la memoria.
    Abbia i miei omaggi, dottor Maugeri.
    Il suo sempre grato,
    Professor Emilio

  77. Massimo, ho ascoltato, ieri, il video, ed è bello, schietto, sincero. Nonostante la voce dignitosa e sostenuta ho avvertito nelle parole di Consolo la nostalgia, il dispiacere, e il senso di perdita per i bei tempi andati; quando veramente esisteva una comunità letteraria e di letterati. La Milano di oggi che Consolo ci descrive, così diversa dalla Milano di un tempo, ritrovo per tutti gli intellettuali dell’epoca, ben assurge a metafora dell’inconsistenza, spesso, quando non civetteria, dell’odierno mondo letterario. I grandi letterati e intellettuali di una volta, Consolo lo dice, si concedevano a vicenda: c’era voglia di incontrarsi, di conoscere e di conoscersi, di ritrovarsi, di discutere. Voglia di scambio, di lavorare, ma anche di sodale amicizia. Quelle di oggi, mi sembrano combriccole; tante isole, nonostante i Premi, i festival e quant’altro.

  78. @ Gisella
    Grazie a te e ai tuoi amici del gruppo di lettura, cara Gisella.
    Devo dire che ho ricevuto diverse mail simili a questo tuo messaggio. Tanti giovanissimi (almeno così mi scrivono) leggeranno nei prossimi giorni i libri di Vincenzo Consolo.

  79. @ Simona
    Mia cara socia di scrittura, grazie per questo tuo splendido commento. E per le citazioni. E per quella tua frase conclusiva: “Ecco perchè oggi Vincenzo Consolo non muore”.

  80. @ Emilio
    Caro prof Emilio, i suoi commenti lasciano sempre il segno. E di questo la ringrazio di cuore.
    Evidenzio questa sua frase: “la letteratura è niente se non strugge di incanti, se non agisce sotto le ali della Musa. E le Muse sono figlie di Mnemosine, la memoria”.

  81. @ Graziella
    Grazie per aver visto il video. Mi fa piacere che tu l’abbia trovato “bello, schietto, sincero” (con riferimento alla voce e alle parole di Vincenzo Consolo).
    Ho lavorato tutta la notte di sabato per montarlo. Non sono uno specialista, ma l’ho fatto col cuore.

  82. Ho ricevuto diversi contributi via email. L’amica scrittrice Marinella Fiume me ne ha inviati un paio.
    Si tratta di un articolo di Domenico Cacopardo (pubblicato sulla “Gazzetta di Parma” di oggi 24 gennaio) e del pensiero di Ignazio Apolloni.
    Li riporto qui di seguito…

  83. "Scrittore impegnato dalla parte dei deboli" di Domenico Cacopardo (da "La Gazzetta di Parma" del 24/1/2012) ha detto:

    “Scrittore impegnato dalla parte dei deboli” di Domenico Cacopardo (da “La Gazzetta di Parma” del 24/1/2012)

    Così,in silenzio, appartato come solo un poeta sa essere, sen’è andato. Vincenzo Consolo non c’è più e riposa nel Paradiso dei giusti. Di sicuro non avrebbe gradito l’ondata di parole retoriche con le quali viene celebrata la sua figura e decantate le sue opere. In tanti non sono sfuggiti alla tentazione di raccontare la propria amicizia con Vincenzo,
    più per sottolineare il proprio ruolo che per fare comprendere chi fosse il nostro autore più importante, l’unico italiano vivente al quale la Sorbona abbia mai dedicato un convegno.
    Piccolo e asciutto, schivo, ma anche dolce e tagliente, Vincenzo Consolo era, a tutti gli effetti, un autentico siciliano. Consolo ha rappresentato
    allo stesso tempo la continuità e la discontinuità rispetto a Leonardo Sciascia, pur rimanendo nel solco della letteratura che narra ciò che vuole
    narrare all’interno di una visione etica del mondo.

    La Sicilia è il suo orizzonte illimitato: benché viva a Milano dalla fine degli
    anni ’60, trova nelle storie e nei costumi dell’isola i motivi fondamentali della sua poetica. Come solo i grandi scrittori fanno, pur raccontando vicende radicate in un territorio, riesce a essere scrittore universale, interprete dei temi fondamentali dell’animo umano, dall’avidità, all’amore, all’invidia, al dolore. E interprete dell’ingiustizia che albergava e alberga
    nelle nostre contrade, nelle nostre famiglie, nelle nostre istituzioni. Una Sicilia paradigma del mondo, di una condizione che punisce i deboli e premia il forte, che si giova di complicità sorte nelle più sordide pieghe della società.

    Una scrittura forte e immaginifica, giocata sul ritmo di vocali, sillabe e parole, talché la sua pagina di prosa è sempre il susseguirsi di suggestioni poetiche, di ritmi poetici, di versi scritti in prosa. Il romanzo
    che più amo, tra i suoi, è «Retablo », la storia delsettecentesco viaggio
    in Sicilia di Fabrizio Clerici, nobile milanese, accolto a Palermo da un’impro
    babile guida, il monaco smonacato Isidoro.

    Un viaggio che mostra i termini della Sicilia attuale, dove nulla è come
    appare e dove c’èsempre un’altra verità: la doppiezza di una società legale e illegale, capace di produrre Giovanni Falcone e Totò Riina. Un libro,«Retablo», che sarebbe meritorio porgere in lettura
    alle giovani generazioni, quelle di cui si dice che siano «senza speranza», abbandonate nelle strade di Messina o di Sant’Agata in attesa di qualcosa e qualcuno che non verrà.

    Un letterato e un uomo. Un uomo morale, un intellettuale impegnato non e non solo (anche se, alla Zola, mediante la narrativa metaforica) nel racconto a forti contenuti sociali, ma soprattutto pronto a schierarsi con tutti coloro che, nella nostra amara terra, hanno testimoniato e testimoniano della legalità, della esigenza

    di pulizia, del rifiutodi ogni compromissione.

    Questo e tanto altro era Vincenzo Consolo: come raccontare il
    suo periodare pacato ,comprensivo, la sua disposizione all’affettuosità,che andava dalla quotidiana ospitalità alla sua
    tavola di un giovane immigrato ecuadoregno, all’accoglienza di chi lo cercava, dalla Sicilia o da ovunque. Una apertura non ingenua, ma fondata sui valori del rapporto umano, che non distingue tra ciò e chi giova e ciò echi porta solo se stesso e il propriocarico di problemi.

    Addio, Vincenzo. Anzi, a rivederci

  84. Uno scrittore – Vincenzo Consolo – che haamato la Sicilia senza averla troppo osannata; un interprete attento della rivoluzione che stava subendo l’Isola ormai preda di predoni e del malcostume politico; un raffinato letterato con il Retablo; un narratore che ha guardato con sospetto e giudicato portatori di valori ormai estinti coloro che praticano e si esprimono in dialetto.

    Ecco chi non merita soltanto un Meridiano Mondadori ma altresì il riconoscimento di chi ha a cuore l’Unità d’Italia.

    Ed ancora un nostalgico senza rancore, frutto dell’illuminismo più puro conseguente alla pratica e frequenza del maestro Sciascia: insomma un vero signore delle lettere. Bene hanno fatto Salvatore Ferlita e Tano Gullo a celebrarne la figura seppure con il necessario distacco dalle emozioni che avrebbero potuto sviare dall’obiettivo di definirne la figuradi uomo di profonda cultura e altresì finissimo letterato.

    Ignazio Apolloni

  85. Caro Massimo, grazie per questo omaggio a Vincenzo Consolo! Sarà forse il destino dei figli migliori di questa terra quello di essere dimenticati o di passare in sordina , nel trambusto mediatico odierno in cui non c’è più spazio per il pensiero e le idee …sopratutto quando sono “scomode e vere” com e quelle di Consolo.
    In USA ho parlato proprio di lui, proponendo la lettura di un suo saggio (raccolta di saggi) sulla Sicilia , dal titolo emblematico: “Di qua dal faro”. Si struggeva , Consolo e si animava di una rabbia benefica scrivendo delle bellezze e dell’inferno siciliano. Dalla Milano fredda e “mutata” Consolo non smise mai di guardare con gli occhi tremuli e trasparenti di un bambino ,la propria terra rendendola mitica e nostalgica insieme . Perciò , per celebrarne le bellezze e denunciarne le piaghe scelse di intitolare provocatoriamente (contro il disprezzo dei borboni che consideravano il vero regno solo ciò che stava al di là del faro di Messina ) il suo libro “Di Qua dal Faro”, alludendo, al tesoro inesauribile di umanità e cultura che risiede proprio nella terra d Sicilia , nell’isola tutta che si estende dal faro di Messina fino alle sue estreme propaggini . Oggi , dal “Continente” Consolo è tornato : forse perchè continua a credere che una rinascita della Sicilia è possibile sotto il faro di una luce finalmente propria e mai riflessa. Mi piace ricordare alcune sue parole (Le pietre di Pantalica )

    ” Ma che siamo noi, che siamo formicole che s’ammazzano di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo. In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si chiama mondo, carichi di grani, paglia , puliche…E poi? Il tempo passa ammassa fango , terra sopra un gran frantumo d’ossa E resta come segno della vita scanalata , qualche scritta sopra ad una lastra qualche scena o figura .

  86. Ringrazio Daniela e tutti voi che avete contribuito a riempire questo spazio.
    Spero che possano arrivare altri contributi (qualcuno lo aspetto e lo condividerò con voi).
    Per il momento, ne approfitto per augurare a tutti una serena notte.

  87. CONSOLO, LA SICILIA COME MISSIONE di Corrado Stajano - Da "Il Corriere della Sera" di domenica 22 gennaio 2012 ha detto:

    CONSOLO, LA SICILIA COME MISSIONE di Corrado Stajano – Da “Il Corriere della Sera” di domenica 22 gennaio 2012

    È morto lo scrittore del «Sorriso dell`ignoto marinaio» Il sogno di Milano, la ribellione al potere, la ricerca sulle parole di CORRADO STAJANO È morto ieri a Milano, dopo una lunga malattia, lo scrittore Vincenzo Consolo. Nato nel febbraio 1933 in Sicilia, viveva dal 1968 nella metropoli lombarda. I funerali dovrebbero svolgersi domani, ma non è stato ancora confermato, a Sant`Agata di Militello.
    he dolore grande vederlo sdraiato su quel divano del soggiorno di casa, con un plaid addosso, il volto sempre più segnato, la voce sempre più flebile. Agitare il braccio smagrito e la mano, addio, addio.
    Chissà se quel gesto era l`ultimo saluto, il segno amorevole della vita che si stava allontanando.
    Il vecchio sofferente era il ragazzetto che nel suo primo libro – autobiografico – La ferita dell`aprile, sprizzava allegria beffarda, un grillo saltellante dalla marina alla montagna siciliana, tra le piazze, i vicoletti, i bagli, l`oratorio, in mezzo ai carusi, ai bastasi, ai preti, alle vocianti donne di paese, alla baronessa secca e bianca, narrazione di un vivere che non può finire mai? Vincenzo Consolo è morto in corso Plebisciti a Milano, dove abitava, dopo un travaglio di mesi.
    «Mi sto riprendendo», diceva immancabilmente, e non si capiva se in quelle parole c`era soltanto la sua antica ironia o anche un pizzico di speranza. Perché Vincenzo ha intensamente amato la vita, anche nei momenti più difficili di dramma e sofferenza. E Caterina, sua moglie, come quelle solide figure della mitologia greca che gli piaceva tanto, gli ha sempre dato la forza e il coraggio di cui aveva bisogno.
    È nato il 18 febbraio 1933 a Sant`Agata di Militello, nella piazza del paese, non lontano dal mare, nel messinese, tra San Fratello e Capo d`Orlando. Da bambino, ricorda, era piccolo e magro, «con un toracino d`uccello. Zigaga era il soprannome che mi avevano appioppato i fratelli:
    zirlo, pìspola». La sua è una famiglia di commercianti, la ditta vendeva olio, zucchero, lenticchie, fave, cereali. Suo padre, su un camion Fiat 6211, consegnava la merce ai grossisti.
    Qualche volta il piccolo Vincenzo lo accompagnava.
    Studi in paese, il liceo Valla a Barcellona Pozzo di Gotto: dopo la maturità la scelta che decide la vita. Consolo non ha esitazioni, è Milano ad attirarlo. La cultura industriale, in quegli anni Cinquanta, gli sembra tutto ciò che c`è di nuovo. Vittorini e Sereni stanno riscoprendo il rapporto tra letteratura e industria, Ottieri e Volponi lavorano in fab- brica, i nomi delle grandi aziende, la Pirelli, l`Alla Romeo, la Breda, affascinano, la città è ricca dí energie intellettuali, vi abitano Quasimodo, Montale, gli scrittori, gli scienziati, gli editori.
    Consolo studia legge all`Università Cattolica, non per ragioni religiose o ideologiche, semplicemente perché l`aveva preceduto un compaesano.
    Entra nel convitto universitario di via Necchi, vicino a Sant`Ambrogio, capisce in fretta.
    Ricorda padre Gemelli, il frate fondatore e rettore della Cattolica, giàvicino ai fascisti e avversario accanito del Modernismo e di tutto ciò che è nuovo: aveva la testa grossa e gli occhi fulminanti.
    Ricorda anche il cardinale Schuster, «etereo e magico come una figura onirica, con il suo viso gotico e diafano ricamato di venuzze».
    Ricorda soprattutto i poliziotti del suo paese, nella vicina caserma della Celere, e gli zollatari siciliani che al Centro orientamento immigrati, li vicino, venivano equipaggiati di casco, lanterna e mantelline e fatti partire per le miniere del Belgio dove molti di loro, a Marcinelle e altrove, troveranno la morte.
    Vincenzo ha deciso di diventare scrittore.
    Ma Milano non è il suo mondo, non ne possiede la lingua, per lui essenziale, non ha memoria dell`immaginato mondo industriale. Come raccontarlo? Torna in Sicilia, pensa di diventare uno scrittore di realtà viste e vissute, di tipo sociologico.
    Ma non fa i conti con la sua natura fantastica da archeologo delle parole. Si laurea all`Università di Messina, fa il professore, precario d`epoca, a Misffetta, a Caronia. Nel 1963 phbblica La ferita dell`aprile, in una bella collana, «Il Tornasole», diretta da Niccolò Gallo e da Vittorio Sereni. Con i «Gettoni» di Vittorini è l`iniziativa editoriale più coraggiosa e aperta al futuro.
    Conosce Lucio Piccolo, il barone di Calanovena, che abita in una villa a Capo d`Orlando.
    Vincenzo è affascinato dal mondo visionario del coltissimo poeta scoperto da Montale, cugino dell`autore del Gattopardo, che viveva come un uomo del Settecento. Nel salone della villa – con il cimitero dei cani accanto – nel buio più assoluto recitava urlando le sue poesie esoteriche, travasi Ming, statuette orientali, cassettoni Luigi XVI, ritratti di viceré e di capitani dell`Inquisizione.
    Ma è Leonardo Sciascia il vero maestro. È lui a far da contrappeso al fantasioso mondo dì Lucio Piccolo. Consolo ritrova con la sua razionalità e i suoi saperi storici, critici, politici, quella strada civile annusata nella pri- ma avventura milanese. La Sicilia contadina così amata si è nel frattempo disgregata, la mafia ha riconquistato ma potere assoluto, il candore dell`isola è stato macchiato dalla corruzione, dall`ossessione del denaro, più sporco che pulito, dagli assassini. Il lavoro manca.
    Consolo decide di partire di nuovo. È il `68.
    Milano è incandescente, ricca di fervori. Vincenzo vince un concorso alla Rai, ma viene subito emarginato per le sue idee progressiste, escluso.
    Dal `63 al `76 Consolo non pubblica nulla, sta rimuginando, pensando, studiando. È convinto che la letteratura deve essere nemica del potere. Vuole legare la Sicilia alle idee di progresso sociale e civile della Milano di allora. Ma il linguaggio, come trovare il linguaggio adatto che sente gorgogliare nella testa? Legge Gadda, ma il suo amore per la metafora non lo accomuna allo scrittore dell`Adalgisa. È Manzoni, piuttosto, che gli dà paternità e sostegno: «Nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della metafora. (…) L`Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile» (Fuga dall`Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli).
    Come spunta l`idea di un libro nella mente di uno scrittore? Il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina, del museo di Cefalù, fa da scintilla.
    Ma sono il fallimento del Risorgimento, la speranza tradita dei contadini di avere le terre dei feudatari, la povertà dei cavatori di pomice ammalati di silicosi storia e società – ad accumularsi informi nella testa di Vincenzo. Nel 1976, pubblicato da Einaudi, esce Il sorriso dell`ignoto marinaio, capolavoro di folgorante bellezza.
    Nasce allora, si può dire, Vincenzo Consolo, il Vicè dei compagni di giochi, uno dei più grandi scrittori del Novecento, l`unico italiano al quale la Sorbona, nel 2002, abbia dedicato un convegno, tradotto in quasi tutte le lingue del mondo, conosciuto forse più in Europa che in Italia. Vince nel 1992 il Premio Strega con Nottetempo, casa per casa e, ne11994, il Premio internazionale Unione Latina, con L`olivo e l`olivastro. Adesso usciranno, da Mondadori, un libro di racconti e un Meridiano (un po` tardi) con tutte le sue opere.
    Vincenzo non era mai in pace, inquieto, sempre. Nel 1993 disse pubblicamente che se alle elezioni di quell`anno avesse vinto a Milano la Lega Nord, come poi accadde, se ne sarebbe andato dalla città per protesta contro la bar-barie della «padania» inesistente. Non partì, fu criticato, accusato di esibizionismo, di presunzione.
    Un provocatore.
    La Sicilia nel sangue. Consolo non ha di certo avuto bisogno di quella nota di diario che Goethe scrisse nel suo Viaggio in Italia, il 13 aprile 1787: «L`Italia, senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell`anima: è qui la chiave di tutto».
    Appena poteva, eterno migrante del ritorno, partiva. Non ha mai tradito la sua isola. Andava per vedere un`altra volta quel che aveva nel cuore.
    Non lo ritrovava. Ferito tornava al Nord, a Parigi, a Madrid. E poco dopo riprendeva la strada dell`eterno viaggio, riandava in Sicilia.
    È morto nella Milano della sua giovinezza.
    Nella grande stanza foderata dai libri degli scrittori amati di laggiù. Alle pareti un dipinto con una smisurata macchia arancione, il disegno di due ragazzi di Casarsa, di Pasolini, l`Ignoto marinaio di Guttuso, incisioni secentesche, ritratti, carte geografiche dell`isola stampate all`insù e all`ingiù. Tutto qui sa di Sicilia.

  88. Torno un attimo on line per ringraziare chi ha appena inserito l’articolo di Corrado Stajano. Avevo provato a cercarlo sul sito del Corriere, ma non l’avevo trovato.
    Grazie, dunque.

  89. PER VINCENZO CONSOLO, POETA E PROFETA,
    di Maria Attanasio


    Benchè tutti i suoi libri siano traboccanti di citazioni, epigrafi e continui riferimenti a poeti d’ogni luogo e tempo –da Omero a Teocrito, ad Ariosto, a Iacopo da Lentini, a Shaekespeare, a Leopardi, a D’Annunzio, a Dante, e a tanti altri- Vincenzo Consolo non ha mai pubblicato un libro di versi, a differenza degli altri scrittori contemporanei siciliani –Sciascia, Addamo, Bufalino, Bonaviri, D’Arrigo, ad esempio- la cui narrativa è stata spesso affiancata o preceduta da un’autonoma produzione poetica.
    Eppure è poeta, il più poeta tra i narratori siciliani; non si tratta di una generica liricità che crocianamente trasborda in ogni genere, ma di una testualità che, dentro le sequenze del tempo narrativo dei romanzi, e in quelle argomentative della saggistica, fonde libertà espressiva e referenzialità compositiva, ragioni etiche e motivazioni estetiche, ideologia e parola: immaginifica interazione tra la lingua della memoria, che restituisce il passato come metafora del presente, e la memoria della lingua, che, immergendosi nella lievitante stratificazione culturale e mitica delle parole, restituisce significatività al linguaggio.
    Vincenzo Consolo ha sempre respinto la piatta orizzontalità della lingua -quella da lui definita tecnologica-aziendale che, diffusa dai mezzi di informazione, rende afasica la realtà- spingendo invece la sua prosa a contaminarsi con altri generi, soprattutto con la verticalità immaginativa e demercificata del linguaggio poetico. La poesia è infatti oggi l’unica tra le arti che non diventa merce, perchè il suo linguaggio, traboccando sempre dalla pura formulazione linguistica, non può mai totalmente identificarsi con quello della comunicazione: coscienza anticipante, rispetto ai valori del proprio tempo -per usare, sotto un’altra ottica, una felice espressione di Herman Bloch-, ma anche coscienza critica nei confronti del linguaggio del proprio tempo. La sua ricerca espressiva si muove perciò verso una scrittura che sia, insieme, esperienza di verità -non di semplice realtà- e testimonianza di libertà: verità della storia -nella storia- e libertà della parola -nella parola.
    Una vera e propria struttura-azione di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della sua narratività, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi, ed emergendo in punte espressive -disancorate dalla narrazione- con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia. Al cui malioso richiamo però non può sottrarsi.
    Poeta e profeta, Vincenzo Consolo. La sua scrittura non è mai rotonda frontalità espressiva, levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione, fino a una sorta di vertiginoso scarto tra parola e realtà- anticipando il disastro di una contemporaneità afasica e impotente –di cui la Sicilia è simbolo- che ha perduto la storia e la parola.
    Lo scarto tra parola e realtà, tra racconto e afasia, si acutizza infatti vertiginosamente ne Lo spasimo di Palermo, in cui una lingua espressionista ne disarticola l’apparenza di romanzo in gorghi di immagini, assonanze, rime, enjamblement. Sulla stasi e il silenzio della storia (-“Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fanrasime del tempo. La storia è sempre uguale.”-), si stende il requiem della poesia: rito di morte e, insieme, esorcismo contro la morte, di una scrittura che sul ciglio degli abissi “si raggela, si fa suono fermo, forma compatta, simbolo sfuggente”; barocca fascinazione tonale di un linguaggio risuonante di rime, nominazioni, fastose metafore, che simultaneamente si pone come emergenza espressiva ed estremo gesto di libertà ideologica in una condizione umana coatta dalle istituzioni di potere e dall’assertorietà definitoria, ma anch’essa ideologica, del linguaggio.
    Non resta allora che l’afasia o la poesia.
    E Vincenzo sceglie la poesia.

  90. Sottoscrivo in pieno il pezzo ispiratissimo di Maria Attanasio su Vincenzo. Dieci e lode. Proprio a proposito del suo ultimo grande romanzo-metaforico, Lo spasimo di Palermo, ebbi a scrivere che si tratta della piena realizzazione del “romanzo-tragedia”, con una verticalizzazione sempre più spinta verso una franta struttura poematica.

  91. E apprezzo, altresì, l’aver respinto la tentazione di offrire un ricordo privato: scelta che si addice sempre più ai tanti, che lo hanno conosciuto, ma che ora hanno comunque preferito parlare della sua grandezza letteraria anziché “condividere” un fermo immagine, un fotografia con autore… Grazie ancora, dunque, a Maria Attanasio.

  92. Per il professor Emilio
    lasci pure che i fantasmi del passato le tengano compagnia, anche se le notti sono un tempo lentissimo e tormentoso, a volte.Noi comunque ci nutriamo di ricordi, siamo i nostri ricordi, e un giorno noi, figli della Terra e del Cielo Stellato, berremo l’acqua del lago di Mnemosyne, e ricorderemo con gioia tutto il bene fatto. Ho apprezzato molto il suo post per i contenuti e la prosa elegante.

  93. Complimenti a tutti per i nuovi contributi e per l’andamento della discussione.
    Grazie, Massimo, per il tuo incoraggiamento.
    Veniamo ai libri….
    Margie

  94. Il sorriso dell’ignoto marinaio
    —-
    « Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. »
    Il sorriso dell’ignoto marinaio viene pubblicato nel 1976 per l’Einaudi ed è il primo vero successo di Vincenzo Consolo. È un’opera percorsa da una forte tensione civile, un romanzo storico che riporta nella Sicilia dei moti rivoluzionari del 1860 ed ha al centro una sommossa contadina che si scatena in un piccolo paese all’arrivo delle truppe di Garibaldi. Questa sommossa è l’occasione per una presa di coscienza del protagonista, il barone filantropo Mandralisca di Cefalù (che riceve in dono a Lipari il celebre ritratto che Antonello da Messina disegnò tra il 1460 e il 1470 su una tavola di piccole dimensioni). È attraverso quest’ultimo che l’autore si interroga su grandi temi come la posizione dell’intellettuale dinanzi alla storia, il valore e le possibilità della scrittura letteraria, gli eventi cruciali della storia civile italiana, del passato e del presente. Consolo, attraverso la figura di Mandralisca si fa portavoce del malessere delle genti siciliane e dello spirito popolare tradito dalle strutture politiche. Egli inserisce nel racconto documenti dell’epoca, spesso manipolati; importante è perciò, in questo romanzo, la commistione tra arte e narrativa, tra storia e attualità.
    Il tema del Risorgimento fallito, della continuazione sotto nuova veste di una secolare oppressione, molto caro a tanta narrativa siciliana, viene qui affrontato con il continuo passaggio da una rappresentazione corale a una centrata su due personaggi storici reali, Mandralisca appunto e l’avvocato Giovanni Interdonato (che rientra in Sicilia per organizzare l’opposizione ai Borboni), nel quale il barone riscontra quel sorriso beffardo del dipinto: dalle vicende di questi personaggi scaturiscono situazioni diverse, disposte su piani molteplici, che scendono sempre più in basso nella scala sociale. La lingua è tesa e carica, ricca di suggestioni barocche; sono combinate parole di varia provenienza, arcaiche, dialettali, tecniche, letterarie, straniere.
    Il libro è percorso da alcune immagini-chiave: il ritratto di Antonello da Messina, in cui la figura umana è fissata “per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia”; la “chiocciola” in cui si leggono i segni della “storia che vorticando dal profondo viene”. Anche grazie a queste immagini si scopre il tema profondo del libro, ovvero la disperata ricerca di una speranza di giustizia, in un mondo dominato dalla violenza, dall’oppressione e dall’inganno. La chiave dello sguardo che lo scrittore ha sul mondo sta nel sorriso del marinaio, descrizione del quadro di Antonello da Messina:
    « Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. »

  95. Lunaria
    —–
    Il protagonista di questo romanzo è un viceré malinconico e misantropo, afflitto dall’esuberanza della moglie così come dalla grande quantità di parenti e cortigiani, costretto a vivere in una città solare e violenta di cui è l’unico a vedere la reale decadenza, obbligato a rappresentare un potere in cui non crede.
    Questo personaggio lunatico una notte sogna la caduta della luna. E la luna cade davvero, in una contrada del vicereame, gettando scompiglio tra i contadini ma ancor più tra gli accademici chiamati a spiegare il prodigio con la loro povera scienza.

  96. Retablo
    —-
    Il titolo del romanzo, pubblicato nel 1987, è formato da un termine catalano, retablo, che indica un insieme di figure che rappresentano i diversi momenti di una storia, una narrazione pittorica costruita su tavole collegate tra loro. Il titolo allude alla struttura complessa del libro, basata su in intreccio di piani narrativi, di rapporti tra scrittura e immagine.
    Il romanzo, ambientato in pieno Settecento racconta le vicende di due personaggi. Il primo è un pittore milanese, imbevuto di cultura illuminista e amante dell’antichità classica, che viaggia per la Sicilia tenendo un diario destinato alla donna amata, Teresa Blasco (la quale però -egli lo apprende durante il viaggio- sposerà Cesare Beccaria, l’autore del famoso Dei delitti e delle pene). Il pittore si chiama Fabrizio Clerici, lo stesso nome di un importante pittore e scenografo del XX secolo, amico di Consolo, del quale sono inseriti nel libro cinque disegni. Il secondo personaggio è il frate siciliano Isidoro, tormentato dall’amore sconvolgente per una donna di nome Rosalia, che durante il viaggio farà da aiutante e cicerone al pittore.
    L’amore lontano e impossibile, tanto più profondo quanto irrealizzabile, è per i due personaggi la guida che conduce alla conoscenza della realtà, della Sicilia che essi percorrono, barocca, seducente, dai colori e profumi eccessivi, dove si scontrano e si fondono risonanze di mondi lontani e diversi. Nel gioco sottile di rimandi su cui il libro è strutturato, in una prosa ricca e capace di riflettere in sé l’accesa evidenza del reale, si afferma il bisogno di una ragione capace di rimanere presente a se stessa pur nel ribollire della materia e della violenza.

  97. Le pietre di Pantalica
    —–
    Le Pietre di Pantalica è una raccolta di racconti, scritta nel 1988. Pantalica, necropoli rupestre formata da circa 5.000 grotte scavate fra il XIII e l’VIII secolo a.C., vale come esempio di luogo da conservare intatto per la sua suggestione naturale e artistica, ma soprattutto come simbolo di una autenticità umana che sembra in via di estinzione.
    La storia ha inizio con la fine della seconda guerra mondiale, e la prima sezione del libro, Teatro, raccoglie i frammenti di un possibile romanzo sulla Sicilia all’epoca dello sbarco degli americani nel 1943. La liberazione e il dopoguerra avevano alimentato una grande speranza di riscatto, cui ha fatto seguito però una grande disillusione. Non per caso in Teatro, soprattutto nella serie “Ratumeni”, dedicata a un episodio di occupazione di terre, si ritrovano molti problemi che erano già al centro de Il sorriso dell’ignoto marinaio: anzitutto la continuità del potere economico-sociale al di là dei cambiamenti formali di governo, e l’estraneità della gente siciliana allo stato italiano.
    Il titolo di questa prima sezione sottolinea però anche un altro aspetto della concezione del mondo consoliana, ovvero l’idea che la vita umana sia sorretta da un gioco illusionistico, e assomigli a una rappresentazione teatrale. È una concezione barocca, che, per i legami profondi fra la cultura siciliana e quella spagnola, si ritrova in molti scrittori dell’isola.
    La seconda sezione, Persone, raccoglie una serie di ritratti di intellettuali: Sciascia, Buttitta, Antonino Uccello, Lucio Piccolo. A questi si aggiunge, ne I linguaggi del bosco, una rilettura di una fase dell’infanzia di Consolo stesso attraverso due fotografie del 1938, che ritraggono il padre dello scrittore accanto al suo principale strumento di lavoro, un fiammante camion. Si ripropone così esplicitamente un altro motivo caro a Consolo, dal Sorriso a Retablo, quello cioè dell’intreccio fra l’arte della parola e quella dell’immagine.
    « Con l’aiuto di una lente, cerco di leggere e descrivere queste due foto. (…) Voglio solo fare una lettura oggettiva, letterale, come di reperti archeologici o di frammenti epigrafici, da cui partire per la ricostruzione, attraverso la memoria, d’una certa realtà, d’una certa storia. »
    Con Eventi, la successiva sezione, lo scrittore si porta ad un contatto ravvicinato con la cronaca. Per esempio il “Memoriale di Basilio Archita” è una riscrittura, a pochi giorni dai fatti, di un atroce episodio di clandestini africani buttati in pasto ai pescecani da un mercantile greco[1]. Usando la prima persona grammaticale Consolo si mette nei panni di un immaginario marittimo italiano coinvolto nel delitto, ricostruendo un gioco di suspense e anticipazioni narrative. Né si deve trascurare lo sforzo di fingere un linguaggio poverissimo, carico di forme del parlato comune, lontanissimo dunque dello stile consueto dell’autore. Curiosamente però nel personaggio di Basilio, in teoria distante dalla personalità di chi lo ha inventato, c’è anche un autoritratto, e nemmeno tanto nascosto: “Io non sono buono a parlare, mi trovo meglio a scrivere”.
    In effetti Consolo dissemina e nasconde nelle sue opere autoritratti. Anche la bambina compagna di giochi dell’autore nell’unico racconto direttamente autobiografico, Amalia, che rivela a Vincenzo “il bosco più intricato e segreto” e che conosce infinite lingue, sembra, oltre che un personaggio reale, anche un alter ego del narratore. Amalia infatti “Nominava” le cose “in una lingua di sua invenzione, una lingua unica e personale, che ora a poco a poco insegnava a me e con la quale per la prima volta comunicava”.

  98. Non vorrei apparire pedante. Epperò non posso sottrarmi dal fare una rettifica. Sopra Margherita parla di “romanzo” riferito all’operetta, la favola teatrale di Lunaria (1985): ma è proprio qui che Consolo, esprime con questa scrittura ibrida e di rottura, il totale rifiuto della forma romanzesca.

  99. @ Domenico Calcaterra
    Obiezione accolta! Rettifico il termine “romanzo” con quello piu’ generico di “libro”.
    Ciao. Margie.

  100. i riconoscimenti tributati a Vincenzo Consolo
    ***
    1985, Premio Pirandello, con Lunaria.
    1988, Premio Grinzane Cavour, con Retablo.
    1992, Premio Strega, con Nottetempo, casa per casa
    1994, Premio Internazionale Unione Latina, con L’olivo e l’olivastro
    1999, Premio Brancati, con Lo spasimo di Palermo
    1999, Premio Flaiano
    2000, Premio Feronia, con Di qua dal faro

  101. CONSOLO: Mi chiamo Vincenzo Consolo. Sono uno scrittore siciliano, quindi meridionale, emigrato trent’anni fa al Nord, a Milano, quindi appartengo a quella lunga schiera di scrittori, intellettuali e artisti meridionali che hanno lasciato la propria terra e si sono trasferiti al Nord. Magari poi parleremo di questa storia dell’emigrazione intellettuale, dal Sud verso il Nord. Il tema che oggi affronteremo è appunto il tema del Meridione dal punto di vista soprattutto culturale, cioè: Meridione e cultura, che cosa significa questa grande regione d’Italia dal punto di vista culturale, oltre che dal punto di vista sociale e storico. Vediamo ora una scheda filmata.

    Esiste nelle estreme e più lucenti terre del Sud un mistero nascosto, per la difesa della natura dalla ragione, un genio materno di illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sogno in cui dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolci e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata. A questa incompatibilità di due forze ugualmente grandi e non affatto conciliabili, come pensano gli utilitaristi, a questa spaventosa quanto segreta difesa di un territorio, la vaga natura coi suoi canti, i suoi dolori, la sua assurda innocenza e non a un accanirsi della storia, che qui è più che altro regolata, sono dovute le condizioni di questa terra e la fine miseranda che vi fa, ogni volta che organizza una spedizione o invia i suoi guastatori più arditi, la ragione dell’uomo. Qui il pensiero non può essere che servo della natura, suo contemplatore in qualsiasi libro o nell’arte. Se appena accenna a qualche sviluppo critico, o manifesta qualche tendenza a correggere la celeste conformazione di queste terre, a vedere nel mare soltanto acqua, nei vulcani altri composti chimici, nell’uomo delle viscere, è ucciso. All’immobilità di queste ragioni sono attribuite altre cause, ma ciò non ha rapporti col vero. È la natura che regola la vita e organizza i dolori di queste regioni. Il disastro economico non ha altra causa. Il moltiplicarsi dei re, dei viceré, la muraglia interminabile dei preti, l’infittirsi delle chiese come dei parchi di divertimento e poi degli squallidi ospedali, delle inerti prigioni, non ha un diverso motivo. È qui, dove si rifugia l’antica natura, già madre di estasi, che la ragione dell’uomo, quanto in essa vi è di pericoloso del Regno dei rei, deve morire.

  102. CONSOLO: Ecco, abbiamo visto delle immagini della natura, nel Meridione, commentate dalle bellissime parole di una scrittrice napoletana, Anna Maria Ortese, parole tratte dal libro: “Il mare non bagna Napoli”. È l’eterno dilemma di queste zone del Meridione, fra natura e ragione, fra natura e cultura. Ma è un dilemma antichissimo, che appartiene ai primordi della nostra civiltà, già alla civiltà greca. C’è una immagine molto bella, un simbolo molto bello, nel primo nostro grande romanzo, romanzo mediterraneo e romanzo della civiltà occidentale, che è l’Odissea di Omero, quando Ulisse, dopo la tempesta, approda a Scherìa, nel Regno dei Feaci. Dopo il disastro approda nudo, martoriato dalla tempesta e “si rifugia” – dice il poeta – sotto un albero, che è un ulivo, un ulivo e, insieme, dallo stesso tronco, anche un olivastro. Gli interpreti di questo simbolo omerico hanno sempre giustamente interpretato come la dicotomia, il contrasto fra quella che è la natura selvatica e quello che è l’innesto culturale dell’uomo nella natura. La natura a volte può essere serena, può essere idilliaca e può captare e addormentare in questa sua serenità. È la natura dei poeti bucolici, dei poeti idilliaci. Ma c’è una natura anche violenta, c’è la natura che distrugge l’uomo, c’è la natura dei vulcani, la natura dei terremoti, la natura delle alluvioni. E quindi l’uomo con la sua cultura, deve intervenire per correggere questa violenza della natura, guardarsi dalla seduzione della natura da una parte e poi, correggere, attraverso la cultura, la tecnica, perché l’ulivo non è altro che il frutto di un innesto. È una invenzione agricola quella dell’innesto dell’ulivo, che è poi l’albero del nostro Meridione.

  103. STUDENTESSA: Lei ha parlato di correzione nella natura. Perché l’uomo non può proteggersi semplicemente allontanandosi da quelle che sono le zone a rischio, invece di modificare ciò che è naturale, il mondo che gli è stato dato?

    CONSOLO: Le eruzioni dei vulcani sono difficili da correggere. Quando il vulcano si sveglia, come è successo al Vesuvio con la tragedia di Pompei – va bene, allora non c’era la tecnica di adesso – vengono sepolte dalla lava e dai lapilli intere città. Molti dei villaggi dell’Etna sono stati distrutti e poi ricostruiti. È difficile correggere la natura violenta, correggere una tempesta, correggere un’alluvione. Oggi la tecnologia ha fatto dei passi avanti. L’ultima eruzione dell’Etna, per esempio, è stata corretta da una persona straordinaria, che è Barbieri della protezione civile – che oggi si trova nel Kosovo – cercando di deviare il flusso della lava, per salvare dei paesini delle falde dell’Etna, buttando con gli aeroplani dei blocchi di cemento e facendo deviare questa lava. L’uomo può intervenire, può correggere. Ma molto spesso questa natura, più che corretta, nel nostro Meridione soprattutto, è stata violentata, è stata disastrata dalle varie speculazioni.

  104. STUDENTESSA: Abbiamo letto una citazione dal Suo libro, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, in cui Lei fa una similitudine tra il potere borbonico e una lumaca. Volevamo sapere il senso di questa similitudine.

    CONSOLO: Sì, la lumaca è un simbolo che ho preso dagli studi sulle lumache del protagonista del mio romanzo, il barone di Mandralisca. Voi sapete che il guscio della lumaca ha un andamento a spirale. Ora la spirale è un segno molto antico. Rappresenta appunto questa ascensione dal basso verso l’alto, oppure può significare anche lo sprofondare e il perdersi, perdersi all’apice di questa stessa spirale. Ed è anche il simbolo, per studiosi di etnologia e di storia delle religioni, è anche il simbolo del labirinto. Ecco, dal labirinto, con intelligenza, si può uscire, oppure si può rimanere prigionieri. Ecco, quel simbolo io l’ho preso come il simbolo della storia, per cui i popoli, le popolazioni che si trovano in una infelicità sociale, possono rimanere prigionieri dentro questo labirinto a forma di spirale, oppure, seguendo il labirinto, possono uscire verso la realtà della storia e prendere consapevolezza della loro condizione sociale. Ecco, è questo il simbolo della lumaca.

  105. STUDENTE: Quindi nel Meridione la cultura si dovrebbe staccare dalla religione?

    CONSOLO: Non credo che si debba staccare. La religione è una grande tradizione culturale. Lo vediamo nelle feste religiose e in tante altre manifestazioni della religione. Il rischio è che la religione diventi superstizione. Superstizione significa annullamento di quella che la Ortese chiama: “la ragione”. Ecco la religione dev’essere qualcosa di veramente scoperto, di veramente sentito, che non ha bisogno di orpelli, che non ha bisogno di iconografie eclatanti per essere vissuta. La religione è un fatto che si vive all’interno della nostra coscienza, della nostra mentalità. Io credo che ogni religione sia valida, non solo quella cristiano-cattolica, ma le religioni del mondo, perché le religioni sono quelle culture che insegnano ad avere rispetto dell’uomo, innanzi tutto come immagine di Dio. Almeno tutte queste religioni, tutte le religioni suggeriscono questo concetto: l’abolizione della violenza e il rispetto dell’altro individuo, dell’altro che è fuori di noi.

  106. STUDENTE: Quindi la religione nel Sud non ha frenato la cultura?

    CONSOLO: In certe forme deteriorate, quando la religione diventa inganno, quando la religione diventa “sonno della ragione”, come dicevano gli illuministi francesi, allora è stata una remora. Però la religione nel Meridione è stata anche educazione delle popolazioni. Non esistevano le scuole, le scuole erano le Parrocchie. Lì veramente l’individuo imparava che cosa era, non solo i beni materiali, questo affanno della conquista dei beni materiali, ma era anche un’educazione dello spirito, un’educazione alla fraternità e, come dicevo prima, alla consapevolezza che ogni individuo è una creatura di Dio e quindi deve essere rispettato e, come dice la religione cristiana, deve essere anche amato.

  107. STUDENTESSA: Abbiamo portato come contributo “Mastro Don Gesualdo” di Verga, perché abbiamo pensato che Verga sia una figura emblematica di intellettuale del Sud. Ora Lei cosa pensa della figura dell’intellettuale del Sud, in quanto lei stesso rappresenta oggi l’intellettuale?

    CONSOLO: Vorrei narrarVi brevemente la storia umana e letteraria di questo scrittore. Giovanni Verga è stato forse uno dei primi intellettuali meridionali che ha lasciato la propria terra ed è emigrato prima a Firenze e poi a Milano. C’è stato sempre, da Verga in poi, una sorta di assillo, da parte degli intellettuali meridionali, proprio perché si sentivano di abitare una periferia, di raggiungere il centro. Il centro, al tempo di Verga, parliamo della fine dell’Ottocento, era innanzi tutto Firenze, che era il centro della lingua, della cultura, Firenze del Rinascimento, Firenze dei grandi scrittori toscani. Il suo primo approdo è stato proprio Firenze. Poi da Firenze si è spostato a Milano, dove incominciava quella che si chiama “l’industria culturale”, cioè incominciavano ad aprirsi le prime case editrici. E quindi questo spostamento Verga lo ritenne necessario. Lui arrivò a Milano nel 1872, pensando di trovare una città immobile nei suoi riti e nei suoi gesti, con i salotti delle varie contesse, che ricevevano gli scrittori, con questi riti mondani. Verga, sino a quel momento, aveva scritto dei romanzi, che vengono connotati appunto come “romanzi mondani”. Ecco, lì si trova in una città in grande subbuglio. Milano allora aveva la Prima Rivoluzione Industriale. Quindi c’era un processo di inurbamento, dalla periferia, dalle campagne, a Milano si aprivano le prime fabbriche. Soprattutto la fabbrica della Pirelli, che lavorava la guttaperga, come si diceva, la gomma. E con questa prima industrializzazione lombarda incominciarono i primi conflitti sociali, tra il “padrone” e il lavoratore. I lavoratori chiedevano i diritti. Verga si trovò di fronte a questo mondo in subbuglio che non riusciva a capire, perché aveva una memoria contadina e quindi concepì quella sua rivoluzione stilistica, quel “salto di genio”, come lo chiamò De Benedetti, che lo portò alla sua seconda stagione letteraria, che era la stagione del verismo, da cui poi incominciarono le prime novelle: Nedda, per passare poi a I Malavoglia e quindi a Mastro Don Gesualdo. E immagina una concezione dell’uomo immutabile, dove la storia non può intervenire, perché l’uomo è condannato dal Fato, dal destino e non può fare niente per modificare questo suo destino.

  108. STUDENTESSA: Non pensa che questo rapporto di violenza e anche di simbiosi con la natura, non abbia portato qualcosa in più alla cultura dell’uomo meridionale, cultura intesa come atteggiamento culturale dell’uomo? Lei non pensa che questo abbia dato qualche cosa in più allo sviluppo dell’intellettuale meridionale?

    CONSOLO: Certo, ha portato a questa organizzazione sociale del nostro Meridione, soprattutto dei piccoli villaggi, dei paesi, a una grande comunicazione, a un grande scambio culturale, soprattutto a quella che era la cultura della tradizione, i racconti che si facevano di vicende locali. E quindi questo era un arricchimento. D’altra parte questa è una ricchezza di tipo mediterraneo: il racconto orale, che si tramanda da una generazione all’altra, di vicende, di fatti importanti, ma anche di fatti minimi e quindi un maggior accumulo di memoria nelle popolazioni meridionali, soprattutto negli intellettuali. Gli intellettuali sono quelli che memorizzando poi attingono a questo prezioso patrimonio, che è la memoria, per cercare di interpretare e di esprimere il mondo. Io credo che tutti gli scrittori – meridionali soprattutto – abbiano avuto questa grande ricchezza memoriale, da Verga, di cui parlavamo poco fa, a Pirandello, a tutti gli scrittori, ad Anna Maria Ortese, ai grandi scrittori napoletani, calabresi, pugliesi. Forse è dovuto al clima, alla nostra tradizione, alla nostra mediterraneità, c’è un maggiore scambio, perché nel Meridione esiste la piazza. Ecco, la piazza che è l’antica agorà greca, dove la gente si riuniva per raccontare, per dare giudizi sulle cose, soprattutto sulla vita pubblica, su quella che era la vita sociale. E questo significa uscire fuori dalla solitudine, uscire fuori dal monologo e arrivare al dialogo, che è quello che stiamo facendo noi oggi qui. Ecco, il dialogo è una cosa importante, confrontare i giudizi, le opinioni, il pensiero. Questa è una ricchezza enorme, che oggi nel mondo, che chiamano “globalizzato”, in questo mondo in cui la vita dell’uomo si è verticalizzata, nel senso che ormai viviamo in queste nostre case alte, ognuno chiuso nel proprio appartamento, a guardare soltanto quello che le immagini ci vogliono dare e ci restituiscono, si è perso il senso della comunicazione orizzontale, cioè il senso della piazza. Però nel Meridione tutto questo resiste ancora. E credo che sia una grande risorsa per le zone meridionali.

  109. STUDENTESSA: Quindi pensa che il Meridione sia una specie di Grecia antica ancora viva? Cioè che questo enorme patrimonio culturale che ci hanno lasciato gli antichi sia ancora vivo nel Meridione?

    CONSOLO: Sì, dobbiamo cercare di non mitizzare, ma c’è ancora questa dimensione di cui parlavo, della piazza, del dialogo, del confronto, quando non è ucciso da quelli che sono i messaggi dei media. I messaggi dei media che cercano di darci una realtà così com’è. È scelta da loro, non è scelta da noi, è una realtà appunto mediata, non originale. Però, in confronto a quelle che sono le zone nordiche, dove la possibilità di stare fuori nella piazza è minore, da noi, questo che tu chiami “retaggio greco”, forse c’è ancora, esiste, quando poi non traligna e non diventa aggressione, non diventa violenza.

  110. STUDENTE: Quanto conta, secondo Lei, la produzione culturale degli intellettuali a contribuire al risanamento di quella che è la condizione sociale ed economica del Meridione?

    CONSOLO: Potrebbe contribuire molto. Io ricordo un grande intellettuale, Gaetano Salvemini, pugliese, di Molfetta, che ha delle pagine violente nei confronti degli intellettuali meridionali. Li chiama: “piccolo-borghesi”. Soprattutto dell’Università di Napoli, lui è dell’Università di Messina, di cui aveva fatto esperienza. Ecco, dice che questi intellettuali “piccolo-borghesi”, molto spesso, sono diventati “amorali e cinici”, cioè hanno la possibilità di studiare, di diventare classe dirigente e poi tradiscono quello che è la loro matrice, la matrice popolare fanno da anello di congiunzione, da mediatori, fra quelli che detengono il potere, i padroni e quelle che sono le classi popolari. Fanno da mediatori e tradiscono le istanze storiche delle classi meridionali. Naturalmente Salvemini parlava della fine dell’Ottocento. È morto nel ’57 e quindi la sua esperienza risale a quegli anni. Però le colpe dei problemi meridionali sono da attribuire, anche alla prevalenza economica del Nord, ma sono da attribuire soprattutto al compromesso e al trasformismo degli intellettuali meridionali.

  111. STUDENTESSA: Al Sud esiste concretamente la possibilità di fare cultura senza dover emigrare altrove?

    CONSOLO: Credo che adesso non sia più necessario emigrare. Credo anzi che contrariamente al periodo in cui io sono andato via, oggi l’intellettuale nel Meridione possa riscoprire dei valori – e anche delle possibilità – che altrove non esistono. Altrove c’è la cosiddetta industria culturale, ci sono i grandi giornali, ci sono le grandi case editrici che purtroppo oggi tendono a omologare tutto, a produrre quella cultura che è soltanto all’insegna del profitto e del messaggio pubblicitario. Qui ancora, dove lo scrittore, il cantante, l’uomo di teatro non ha, diciamo, queste mete dell’assoluto profitto, perché non ci sono le grandi concentrazioni dell’industria culturale, qui l’intellettuale può ancora avere possibilità di riscoprire quella che è la cultura meridionale. Per esempio a Napoli c’è una grande rinascita del teatro e del cinema napoletano. Ecco, in campo letterario il discorso è un po’ diverso perché tutti ormai tendiamo a ubbidire a quelli che sono i messaggi che l’industria ci impone. Naturalmente ci sono ancora degli scrittori che disubbidiscono a queste leggi non scritte, ma molto impositive e molto dure. Ma ripeto, in campo cinematografico e in campo teatrale, ci sono delle nuove forze, molto vivaci, che agiscono qui, nel Meridione. Parlo di Napoli, ma potrei parlare anche di Palermo. C’è un nuovo teatro, un nuovo cinema, c’è anche una nuova letteratura, che stanno nascendo, molto vivaci e molto interessanti.

  112. STUDENTESSA: Sciascia si poneva il problema della mafia, se questa si affermava nel momento in cui lo Stato era assente e veniva meno alle sue funzioni. Secondo Lei, le organizzazioni mafiose dove si sviluppano e quando?

    CONSOLO: Si sviluppano nel “vuoto dello Stato”, come diceva appunto Sciascia. Sciascia era un grande illuminista, apparteneva veramente a quella schiera dei grandi illuministi meridionali, da Croce a Salvemini e a tantissimi altri. A un certo punto, dopo aver scritto Il Consiglio d’Egitto, che era proprio un romanzo sull’Illuminismo e sul giacobinismo meridionale, siciliano, allora capì che il problema più impellente per la Sicilia era proprio il problema della mafia. E in tutti i suoi romanzi cercò di indagare quelle che erano i rapporti della classe politica con i mafiosi, che era il male atavico della Sicilia, questo del “vuoto dello Stato” e del connubio fra quelle che erano le istituzioni dello Stato con questa piaga siciliana che si chiama “mafia”. Oggi questa mafia non ha più i confini dell’isola. Purtroppo è uscita fuori da questi confini ed è straripata da per tutto. Sappiamo che è emigrata in America e in altre parti del mondo. Oggi si parla di “mafia russa”, si parla di altri tipi di mafia.

  113. STUDENTESSA: Gli eventi che si sono susseguiti nel Mezzogiorno hanno favorito una cultura che è particolare e che è tipica proprio del Mezzogiorno. È possibile che in questo campo il Mezzogiorno sia superiore rispetto a tutte le altre culture?

    CONSOLO: Non bisogna mai parlare di superiorità e inferiorità. Bisogna, credo, parlare di diversa cultura. Anche nelle culture più arcaiche, più tribali, ci sono delle ricchezze che noi non sospettiamo. Penso alle culture del Centro-Africa, per esempio. Loro hanno una cultura rispettabilissima. Mi ricordo che tempo fa morì un grande intellettuale africano e un premio Nobel disse che quando muore uno di questi uomini è come se si bruciasse un’intera biblioteca, perché lì, naturalmente, non esistono i libri, non esistono le biblioteche o le case editrici, ma c’è questa grande cultura orale che viene trasmessa da una generazione all’altra. Quindi la morte di un uomo così significa appunto la distruzione di una cultura se non viene tramandata, se questa cultura si interrompe. Quindi noi non possiamo sentirci superiori agli abitanti dell’Uganda, per esempio, o di qualsiasi altro popolo che a noi sembra arretrato, perché la cultura e la civiltà non è lo sviluppo economico, lo sviluppo tecnologico. La cultura è qualcosa che riguarda l’individuo, non la tecnologia, quella che Pasolini chiamava, parlando dell’Italia: “lo sviluppo senza progresso”.

  114. STUDENTESSA: Il degrado economico e sociale in cui si trova il Meridione, può avere influito sulla creazione del degrado culturale? E, se sì, in che modo?

    CONSOLO: Senz’altro. Il degrado economico che ha delle ragioni, ma anche delle responsabilità ben precise. Si è puntato – parlo dal secondo dopoguerra in qua, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dalla caduta del fascismo, non parliamo dei disastri che erano avvenuti prima, dall’Unità d’Italia in poi – soltanto a una unidimensionalità. È quella unidimensionalità a cui il mondo va oggi incontro, a quella che si chiama la “globalizzazione”, dove l’unica direttiva è soltanto l’economia. Ma l’uomo non è fatto di economia. L’uomo è fatto di tanti altri valori che non sono quelli materiali. E allora noi progrediamo, cioè in questo mondo globalizzato si progredisce economicamente, ma si perde di interiorità. E quindi diventa una spirale senza fine. L’uomo cerca di consumare soltanto i beni e non pensa a riempire quella che è l’interiorità. L’interiorità – lo spirito – si riempie con la cultura, con quelli che sono i valori spirituali. Ecco, questo lo diceva un filosofo spagnolo, Fernando Savater, che si è occupato molto anche di educazione dei giovani. Diceva appunto che l’alienazione di oggi sta proprio nel consumismo, nel cercare continuamente dei beni e dei beni nuovi da consumare – la macchina nuova, la casa nuova, il frigorifero nuovo – e svuotandoci di quella che è la ricchezza interiore, cioè la cultura e i valori umani. Questa oggi è la dimensione, purtroppo, di tutto il mondo, questa dimensione soltanto economica. Dovremmo riscoprire questi valori di cui ci stiamo impoverendo a poco a poco.

  115. STUDENTESSA: Le strutture economiche, politiche e sociali sono legate all’immaginario, quindi alla cultura. Ma sono queste strutture che fanno le idee, o viceversa, sono le idee a fare queste strutture?

    CONSOLO: Dobbiamo essere noi a immaginare che cosa dobbiamo fare, che cosa dobbiamo costruire. Quindi è un’espressione della nostra cultura e del nostro spirito. Non deve essere una cosa che ci viene imposta, che ci viene proposta come un oggetto assolutamente necessario e indispensabile, se non è ideato e pensato da noi. Sono le idee che creano le cose, il che significa avere un atteggiamento attivo nei confronti dell’oggettualità, questo è il significato della libertà dell’uomo.

  116. STUDENTESSA: Quindi l’economia del Mezzogiorno non ha avuto poi una forte influenza sulla cultura del Mezzogiorno?

    CONSOLO: Sì, non ha avuto una forte influenza perché è stata un’economia bloccata, per delle ragioni precise. Per quanto riguarda il Meridione, per esempio, è stata una grande sciagura – lo dice anche Croce – la persistenza del latifondo. Vi potrei parlare del latifondo siciliano. Era un’ingiustizia sociale e storica, che è durata nei secoli, per volere di quelli che erano i poteri, prima il potere spagnolo e poi il potere borbonico, per la prepotenza di quelli che erano i baroni, i latifondisti, di questi baroni anarchici che ricattavano il potere dei re, dei viceré e che cercavano di mantenere immobili queste nostre zone e contrade. Con quello che significa il latifondo per sfruttamento dell’uomo, umiliazione dell’uomo e anche il depauperamento di quello che era il patrimonio agricolo delle nostre zone. I terreni lasciati incolti o sfruttati sino all’inverosimile sono dei problemi di cui tutti i meridionalisti si sono occupati.

  117. STUDENTE: In che modo il susseguirsi di governi stranieri, delle dominazioni, ha influito sulla cultura? Anche il governo dei Savoia si può dire che sia stato un governo straniero. In che modo poi ha influito sulla cultura del Meridione? Per esempio, ci sono anche delle testimonianze che i Savoia hanno chiuso molte scuole pubbliche nel Meridione, nei vari paesi del Sud.

    CONSOLO: Sì, anche i Savoia erano degli stranieri, come i Borboni, come i Castigliani o come gli Aragonesi e tutte le dinastie che abbiamo avute nel nostro Meridione. Croce indica un momento felice del Meridione soltanto nella monarchia angioina. Dice che è stato un momento veramente glorioso della cultura meridionale, il Regno di Napoli, nel momento in cui qui si erano varate delle leggi che, per quell’epoca, per l’Alto Medioevo, erano delle regole che ancora in Europa non esistevano, cioè il suffragio delle popolazioni, ma anche il rispetto della vita umana,. A Napoli poi c’è stata, dopo il cambio di questo potere, di questo Regno, proprio per queste leggi che erano ormai entrate nella cultura e nella mentalità del popolo, c’è stata una ribellione perché a Napoli non si voleva il Tribunale dell’Inquisizione. Croce per esempio, giudicò i Vespri Siciliani una grande iattura, quella che negli storici dell’Ottocento era considerato come una ribellione di popolo alla ricerca della libertà, soprattutto degli storici romantici dell’Ottocento. I Vespri Siciliani hanno tolto il Regno di Sicilia ai Francesi e l’hanno consegnato agli Spagnoli. Gli Spagnoli poi hanno portato tutti i mali possibili, confermando quelli che erano i privilegi dei baroni, dei feudatari, portando il Tribunale dell’Inquisizione in Sicilia, ma non solo in Sicilia, anche nelle zone meridionali, come la Puglia e la Calabria. E quindi c’è stato un momento di grande progresso in queste regioni, che poi purtroppo si è arrestato. Si è arrestato ed è durato secoli questo regresso del Meridione, per cui, poi, è nato quel problema che noi chiamiamo meridionale. Io Vi posso raccontare un aneddoto di quello che era la mentalità dei signori, dei feudatari del luogo. Questo aneddoto me lo ha raccontato un pronipote di Garibaldi. Io sono tanto vecchio, che ho fatto in tempo a conoscere un pronipote di Garibaldi. Si chiamava Canzio Garibaldi ed era Direttore del Museo del Risorgimento di Milano. Mi raccontava che lui, la madre e i suoi fratelli erano stati ospiti di una baronessa calabrese. Erano venuti in questo castello della baronessa calabrese e la madre di Canzio Garibaldi si accorse che tutti i bambini del paese soffrivano di tracoma, avevano questa malattia infettiva agli occhi, che era allora un male di cui soffriva tutto il Meridione. Questa signora incominciò a curare i bambini, a pulire gli occhi di questi bambini. E la baronessa quando si accorse di questa attività della signora Garibaldi, le fece capire che non erano più ospiti graditi nel suo castello. Quindi dovettero fare le valigie e andarsene. Per dirVi che cos’era la mentalità di questi feudatari nel nostro Meridione di allora. Cioè volevano tenere le popolazioni in quel disagio, non solo di malattia, ma anche di ignoranza. Non volevano ammettere che ci fosse la scuola d’obbligo, per esempio. Ci sono stati molti che si opponevano all’istituzione della scuola dell’obbligo. E questo è durato anche con l’Unità d’Italia e con i Savoia.

  118. STUDENTE: Solamente qualche altro governo straniero potrà migliorare le condizioni del Sud, qualche altro governo potrà aiutare a migliorare le condizioni dei tracoma negli altri bambini nel Sud?

    CONSOLO: Per fortuna non c’è più il tracoma e i governi stranieri non ci servono più. Siamo noi che dobbiamo formare i governi, siamo noi, scegliendo gli uomini e capendo chi bisogna mandare in questo Parlamento che dirige le nostre sorti, non solo i Comuni e le Regioni, quelle che sono le amministrazioni locali, ma anche le amministrazioni centrali. Dobbiamo capire noi quali sono gli intellettuali, perché i politici, come diceva Gramsci, sono degli intellettuali, sono quelli che mettono in atto le filosofie, le idee. Se sono dei “piccoli-borghesi, cinici e immoralisti”, come diceva Salvemini, o se sono delle persone probe che vogliono veramente il bene del paese.

  119. STUDENTESSA: Prima si è parlato della mercificazione dell’arte e quindi della prostituzione di molti intellettuali. Oggi l’intellettuale che non vuole obbedire alle leggi di mercato, ha la possibilità di esprimersi, o viene tagliato fuori?

    CONSOLO: Noi oggi viviamo in democrazia, non siamo più nel periodo delle dittature dei fascismi, per fortuna, qui nel nostro paese, in Italia. E quindi ognuno ha la libertà di esprimersi in qualsiasi modo, artisticamente, ideologicamente. C’era la famosa frase – una frase terribile – di Mussolini, riferita a Gramsci: “Questo cervello non deve più funzionare”. E Gramsci l’hanno fatto morire in carcere. Ecco questo, per nostra fortuna, dopo la Guerra di Liberazione, dopo la conquista della libertà, non capita più. Però vi sono delle dittature molto più sottili, invisibili, che sono le dittature economiche, i patronati, quelli che detengono in mano le leve della produzione culturale. Non sto qui a dilungarmi. Sono i proprietari dei giornali, delle Case Editrici, delle Gallerie d’Arte. Loro decidono che cosa veicolare e che cosa lasciare ai margini. Soprattutto oggi con la rivoluzione dei mezzi di comunicazione di massa, qualsiasi voce, se non è supportata da questi mezzi di comunicazione di massa, può essere seppellita e ignorata. Oggi allo scrittore, all’artista, si richiede il presenzialismo, la ribalta. E guai chi non calca queste ribalte, perché non ha esistenza, viene ignorato! A volte, poi, possono succedere delle cose straordinarie, malgrado l’essere appartato. Come è successo, per esempio, ad Anna Maria Ortese. Anna Maria Ortese era una scrittrice molto rigorosa con se stessa e con gli altri, che ha vissuto una vita appartata e, malgrado questo, era una scrittrice che ha avuto molto eco, è stata letta da molti lettori.

  120. STUDENTE: Pino Daniele è il tema della ricerca che abbiamo fatto su Internet. Pino Daniele rappresenta un po’ la figura del musicista napoletano che ha rilanciato la musica napoletana in tutta l’Italia. Come la cultura musicale, può anche il patrimonio culturale del Mezzogiorno uscire oltre i propri confini?

    CONSOLO: Credo di sì, soprattutto la musica che è un linguaggio universale e quindi ha una maggiore possibilità di diffondersi, di uscire fuori dai confini, se è una musica vera, che interpreta quelli che sono i sentimenti degli uomini. Credo che la musica sia la prima delle arti. C’è stato Kant che ha fatto una classificazione delle arti e ha detto che: “le arti sono tanto più arte, quanto meno materia hanno”. E allora partiva dalla musica, poi la poesia. Ecco la musica è puro suono, poi la poesia, che è parola e poi la pittura, la scultura. Secondo Kant, quanta più materia c’era nell’espressione artistica, tanto meno arte c’era. Ma io credo che queste classificazioni non si possono fare. È certo che la musica ha un linguaggio universale, quindi è quella che ha maggiore diffusione.

  121. Molto bella quest’intervista dell’11 maggio 1999. Grazie per averla inserita.

    Nella speranza di ricevere ulteriori contributi, auguro a tutti una serena notte.

  122. Caro Massimo lodo l’inizativa di ricordare lo scrittore Vincenzo Consolo.
    Questo è il mio breve pensiero…
    Con la scomparsa di Consolo la Sicilia diventa più povera e priva di Grandi Maestri. Il suo pensiero, la sua Scrittura rimarrà per sempre e sarà un punto di fermo di riferimento per le nuove generazioni. Ho conosciuto Consolo, l’ho intervistato alla radio, ho parlato tante volte con lui a Palermo all’Università ed è stato sempre un vero arricchimento spirituale…

  123. Abbiamo avuto il piacere di ospitare Vincenzo Consolo per una lezione nell’ambito del Laboratorio di Alice.it che organizzammo tra il 2003 e il 2004.
    A lui – come agli altri scrittori che parteciparono – chiedemmo di raccontare semplicemente la propria esperienza di autore.
    Fortunatamente abbiamo tenuto traccia di quegli interventi ed ora possiamo ricordare il grande scrittore siciliano Vincenzo Consolo, scomparso in questi giorni, con le sue stesse parole.
    Un intervento che solo chi partecipò al seminario ha avuto modo di seguire, ma che oggi proponiamo a tutti perché ci sembra necessario, anzi, doveroso.
    http://www.wuz.it/articolo-libri/6673/vincenzo-consolo-lezione-letteratura-lingua-critica-inedito.html
    (A cura di Giulia Mozzato e Manola Lattanzi)

  124. Iniziamo dicendo che non ho mai creduto all’innocenza di chi intraprende una strada d’espressione, sia essa letteraria, musicale o pittorica; certo, ci sono stati i naïf, i cosiddetti nativi, ma sono casi rarissimi di felicità innocente. Io credo che quando s’intraprende un cammino espressivo bisogna essere consapevoli di quello che ci ha preceduto nel momento in cui abbiamo deciso di muovere i primi passi e di quello che si sta volgendo intorno a noi nel momento in cui ci accingiamo a scrivere. Questo è successo a me.

    Devo ora introdurre delle note autobiografiche: come sapete io sono nato in Sicilia – i miei hanno avuto questa sventura – e ho fatto i miei studi a Milano. Ho conosciuto la Milano degli anni ‘50, una Milano con le ferite della guerra ma pure con un’anima popolare, direi “portiana”, che ancora si conservava in quegli anni. Ho frequentato l’Università Cattolica non per convinzione religiosa, ma perché sono capitato lì per caso; e in quegli anni, in piazza Sant’Ambrogio, dinanzi all’Università, la sera vedevo arrivare in tram senza numero, migranti provenienti dal meridione: lì v’era un grosso casermone, un ex-convento del Settecento, nel quale da una parte vi era la caserma della celere e dall’altra un “Centro orientamento immigrati”. Questi tram provenienti dalla stazione Centrale scaricavano gli emigranti che venivano sottoposti a visite mediche ed erano poi avviati in Belgio, nelle miniere di carbone, in Svizzera o in Francia. Quelli che dovevano andare in Germania venivano smistati a Verona. Io, da studentello privilegiato, osservavo e non capivo cosa succedeva. Mi ricordo però che gli emigranti destinati alle miniere belghe di carbone, erano già equipaggiati con la mantellina cerata, il casco e la lanterna. Spesso erano miei conterranei che avevano lasciato le miniere di zolfo perché la crisi dello zolfo ne aveva causato la chiusura, e quindi dalle miniere di zolfo passavano a quelle di carbone.
    (Vincenzo Consolo)

  125. LA VOCAZIONE ALLA SCRITTURA

    In quegli anni avevo maturato l’idea di fare lo scrittore: pur frequentando la facoltà di giurisprudenza le mie letture erano di carattere letterario. Ero venuto a Milano perché era la città dove era stato Verga, e perché all’epoca c’erano Vittorini e Quasimodo. Inoltre, avevo il desiderio di incontrare Vittorini perché Conversazioni in Sicilia era stato per me una sorta di vangelo. Ma, insieme a Conversazioni in Sicilia, c’era stato tutto un bagaglio di letture di ordine storico-sociologico che mi aveva formato in quegli anni ed era tutta la letteratura meridionalista: le letture di Gramsci o Salvemini sulla questione meridionale, sino a Carlo Doglio, Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli o con Le parole sono pietre, e Sciascia.
    Finita l’Università ho pensato di voler fare lo scrittore di tipo “testimoniale”, storico-sociologico sulla linea non di Vittorini ma di Carlo Levi, di Dolci, e del primo Sciascia. Tornato in Sicilia, dopo la laurea, mi sono rifiutato di fare professioni liberali come il notaio, l’avvocato o il magistrato, e ho insistito coi miei genitori per fare l’insegnante. Così ho insegnato diritto, educazione civica e cultura generale in scuole agrarie, nei paesi sperduti di montagna, perché era questo il mondo che volevo conoscere. In quegli anni poi continuavo, con la mia curiosità e la mia felice voracità di lettore. A quell’epoca non c’era la televisione e quindi il mondo lo si poteva conoscere solo attraverso i libri e la scrittura. Seguivo tutti i dibattiti culturali dell’epoca, quali l’esperienza vittoriniana della collana dei “Gettoni” dove poi sono usciti i maggiori scrittori dell’epoca come Bassani, lo stesso Sciascia, e tanti altri; e poi la rivista letteraria che dirigevano allora Vittorini e Calvino, “Il Menabò”. Inoltre, mi tenevo aggiornato su tutta la letteratura editoriale. Allora non v’era l’affollamento di libri che c’è oggi: i libri si potevano ancora memorizzare, si capiva l’importanza che potevano avere e si sapeva come collocarli.
    (Vincenzo Consolo)

  126. IL PRIMO LIBRO, I TEMI

    Quando mi accinsi a scrivere il mio primo libro, l’intenzione era appunto di restituire la realtà contadina in forma sociologica: l’idea iniziale era stata quella di mettermi sul coté “leviano”, di Sciascia, invece, poi, sia l’istinto, sia la consapevolezza, mi portarono in una direzione letteraria, narrativa nel senso più ampio della parola. Che tipo di narrativa ho scelto di praticare? Ho subito preso la decisione di praticare dei temi storico-sociali non assoluti, ma relativi, e questo mi permetteva di esprimere, attraverso la scrittura, quella che era la mia visione del mondo, una visione storico-sociale, non esistenziale.
    Il problema principale era scrivere del mondo che conoscevo, che avevo praticato e di cui avevo memoria, ma con quale stile, con quale linguaggio, con quale tipo di scrittura? In quegli anni si esauriva la stagione letteraria del “Neorealismo”, di tutta quella letteratura del secondo dopoguerra di tipo memorialistico, che era una scrittura mobilissima ma assolutamente referenziale, comunicativa.
    Gli scrittori che mi avevano preceduto di una generazione, scrittori autentici, grandi, come Moravia, Elsa Morante, Calvino, lo stesso Sciascia, Bassani e tanti altri, avevano vissuto il periodo del Fascismo e della guerra, e tuttavia avevano continuato a scrivere in uno stile assolutamente comunicativo, razionalista o illuminista che dir si voglia anche nel secondo dopoguerra.
    (Vincenzo Consolo)

  127. IL PRIMO LIBRO, LA SCELTA DELLO STILE

    Io però mi sono reso conto che non potevo scegliere quel registro stilistico, non potevo praticare quella lingua e cercherò di spiegarne le ragioni. Gli scrittori che mi avevano preceduto, avendo vissuto il periodo della guerra e del dopoguerra, avevano nutrito la speranza che, con l’avvento della democrazia, poteva nascere in questo paese una società più giusta, democratica, armonica, con la quale poter comunicare. Avevano come schema la Francia dell’Illuminismo e del Razionalismo, dove la società si era già formata all’epoca di Luigi XIV, e poi, con le istanze della rivoluzione, era giunta al riconoscimento di equità e giustizia nelle società civili. Ho chiamato il registro che avevano scelto quegli scrittori, il “registro della speranza”.
    Quando sono nato come scrittore (pur avendo vissuto l’esperienza della guerra da bambino mi ero però formato nel secondo dopoguerra) mi sono reso conto che la speranza che essi avevano nutrito non esisteva più: nel ’47 v’erano state le prime elezioni in Sicilia con la vittoria del blocco del popolo: la sinistra aveva avuto la maggioranza assoluta in questa prima prova elettorale ma, dopo le intimidazioni succedutesi a tali elezioni, v’era stata la strage di Portella della Ginestra; poi le elezioni del ’48 con la vittoria della DC. E io mi rendevo conto, dal mio angolo di mondo, che quella società giusta, armonica, in cui si sperava, a cui si tendeva, non si era realizzata, ed erano rimaste disparità, ingiustizie, e molti problemi ereditati dal passato. Quindi per me, la scelta di una lingua, di uno stile comunicativo, era assolutamente impensabile, non potevo praticare quel codice linguistico che era il codice linguistico centrale, quel toscano che poi, valicando le Alpi, attingeva a una specie di reticolo illuministico francese: questa è la lingua di Calvino, di Sciascia o Moravia, anzi di Moravia si diceva che scriveva con una lingua che pareva tradotta da una lingua straniera, talmente era comunicativa: a lui interessava restituire gli argomenti più che dare attenzione allo stile, un po’ come Pirandello che aveva inventato un mondo inesplorato nel quale la lingua era assolutamente funzionale a quello che voleva comunicare. Pertanto la mia scelta andò in un senso opposto, cioè in un contro-codice linguistico che non fosse quello centrale e che fosse un codice di tipo sperimentale-espressivo.
    (Vincenzo Consolo)

  128. Cerco di spiegare meglio cosa intendo con codice di tipo sperimentale-espressivo.
    Naturalmente non avevo inventato niente, ma mi collocavo in una linea stilistica che partiva da Verga, e arrivava a Gadda, Pasolini, Mastronardi o Meneghello, a quegli sperimentatori o espressivi che dir si voglia: questa linea ha sempre convissuto nella letteratura italiana con la linea del codice centrale, toscano.
    Ora, le tecniche degli sperimentatori-espressivi sono personali, variano da autore a autore, per esempio Verga s’era opposto all’utopia linguistica del Manzoni, perché Manzoni nella sua utopia riteneva che l’Italia, dopo la sua unità, dovesse avere una sua lingua unica. Così, dopo aver scritto Fermo e Lucia ha scritto I promessi sposi in questa lingua centrale toscana; in realtà, con la frase “sciacquare i panni in Arno” li aveva già portati umidi dalla Senna, essendosi formato anche lui con l’Illuminismo francese. Verga è stato dunque il primo che ha rivoluzionato l’assunto della centralità della lingua inventando una lingua che nella letteratura italiana non era mai esistita, un italiano che non era dialetto (Verga aborriva il dialetto): si trattava di una lingua appena tradotta dal siciliano all’italiano, quella che Dante, nel De vulgari eloquentia chiama “la lingua di primo grado”.
    Pasolini invece definisce la lingua di Verga “un italiano irradiato di italianità”. Verga non avrebbe mai potuto rappresentare i contadini di Vizzini, i contadini siciliani oppure i pescatori di Aci Trezza e farli parlare in toscano, sarebbe stata per lui un’incongruenza, quindi scelse una lingua monocorde come i versetti di un corano, di un vangelo o una Bibbia, una lingua sacra, come i proverbi tramandati dalla sapienza e ripetuti dai personaggi, una lingua chiusa e circolare, sacralizzata, irradiata di dialettalità.
    (Vincenzo Consolo)

  129. Dunque io mi inquadravo in questa grande ombra verghiana, che passava per gli scapigliati milanesi della prima rivoluzione industriale del 1872 e arrivava al polifonico Gadda e a Pasolini.
    La tecnica di Pasolini e di Gadda era un po’ simili: loro partivano dal codice centrale, dalla lingua toscana e poi, man mano, regredivano verso le forme dialettali, con l’immissione, l’irruzione dei dialetti nella lingua scritta, nella lingua italiana. Tuttavia, mentre in Gadda v’è una polifonia di dialetti, soprattutto in quel capolavoro che è Quel pasticciaccio brutto de via Merulana, dove sono orchestrati oltre che al romanesco gli altri dialetti italiani, in Pasolini invece v’è la digressione verso il romanesco del sottoproletariato romano, con una discesa verso il romanesco.

    Per quanto mi riguarda la tecnica che mi sono imposto è stata, scegliendo il codice espressivo-sperimentale, la tecnica dell’innesto, nel senso che mi sono trovato a disposizione un giacimento linguistico ricchissimo che era quello della mia terra, la Sicilia.
    Ora, senza mitizzare o enfatizzare, in questa mia terribile terra, v’è una stratificazione linguistica enorme: oltre ai templi greci vi sono pure giacimenti linguistici che hanno lasciato le diverse civilizzazioni, a partire dalla Grecia, l’arabo o il latino, lo spagnolo, il francese. Quindi ho pensato che bisognava rimettere nel codice centrale questo glossario, queste forme sintattiche che erano state espunte dal codice centrale, e riprendere queste parole che avevano una loro dignità filologica, una loro storia, e inserirle nella scrittura, nel mio codice, nel mio modo di scrivere. Ma questo non per esigenze di tipo estetico, quanto piuttosto di tipo etico perché, un po’ come Verga, non potevo rappresentare la realtà della mia terra in senso metaforico: i miei libri si svolgono tutti in Sicilia, sarebbe stato difficile prescindere dal luogo della memoria, non potevo raccontare la storia della mia terra in una lingua centrale, in un toscano ideale, in una lingua utopica, antica. L’unico modo era rappresentarla attraverso le radici profonde provenienti dalla storia della Sicilia, che non era di tipo orizzontale ma era di tipo verticale, scavare dal profondo di questi giacimenti, un po’ come fare l’archeologo – io poi lo facevo da dilettante poiché non ero propriamente un filologo -, però mi piaceva molto e sentivo la necessità di usare questo tipo di ricerca, di scandagliare nella profondità della storia siciliana attraverso la lingua, attraverso le forme dialettali e di immetterle nella lingua. Non era un cammino dalla corruzione dell’italiano al dialetto, ma l’opposto, era la profondità di certi vocaboli, di certi modi di dire provenienti dall’antichità che veniva immessa nel codice centrale: il vocabolo greco, il vocabolo arabo, mi davano una pregnanza maggiore del vocabolo italiano, erano portatori di una storia più autentica e ubbidivano a un’esigenza di significato e di significante, cioè di suono, come dicono i linguisti, in quanto si accordavano, nell’organizzazione della frase, con l’armonia delle altre parole.
    (Vincenzo Consolo)

  130. IL RITMO E LA FORMA

    Ecco, la ricerca procedeva proprio in questo senso, mentre l’organizzazione della frase e della prosa, avanzava in senso ritmico, in senso prosodico.
    Questo è un altro problema che cerco ora di spiegare. A partire dal primo libro, La ferita dell’Aprile, ho cercato di dare una scansione ritmica alla frase, cercando di accostare la prosa illuministica, la prosa comunicativa, in cui l’autore autorevole, tipo Manzoni, interrompe di tempo in tempo la narrazione, e poi riflette sulla storia che sta raccontando per dialogare con il lettore, per introdurre una riflessione e un ragionamento di tipo filosofico nella narrazione.
    Nella Nascita della tragedia Nietzsche descrive il passaggio dalla tragedia antica di Eschilo e Sofocle alla tragedia moderna di Euripide in cui v’è l’irruzione dello spirito socratico: i personaggi iniziano a riflettere, a ragionare e non più a cantare come avveniva nella tragedia antica, in cui l’anghelos, il messaggero, narrava l’antefatto al pubblico con un linguaggio comunicativo. Da quel momento iniziava la tragedia, i personaggi iniziavano ad agire, a parlare; seguiva la parte del coro che commentava la tragedia che si stava svolgendo. Nietzsche sostiene che nella tragedia antica v’è lo spirito dionisiaco, prevale lo spirito musicale, poetico, mentre nella tragedia moderna è lo spirito socratico ad avere la meglio, la filosofia e la riflessione. Ora, prendendo spunto dal discorso nietzschiano ho pensato che in questo nostro tempo, nella nostra civiltà di massa vittima dominata dalla rivoluzione tecnologica, l’anghelos non può più apparire sulla scena: il messaggero non può più usare il linguaggio della comunicazione con cui far iniziare la tragedia perché, mentre prima l’autore sapeva di parlare alla borghesia colta perché gli strati popolari erano ignoranti, ora non sa più a chi si rivolge. Pertanto ho creduto che bisognasse spostare la prosa verso la forma del coro e della poesia, dando alla prosa un ritmo di tipo poetico: ho eliminato la parte autorevole dell’autore e della riflessione, per cui la prosa si presenta come un poema narrativo, come quello che praticavano gli aedi omerici, i quali, quando narravano, dovevano eliminare tutte le scorie non musicali, non ritmiche, per ragioni mnemoniche. Ho spostato dunque la mia ricerca verso la forma poetica perché penso che la scrittura comunicativa non sia più praticabile, poiché credo che, in questo nostro contesto, in questo nostro mondo attuale, sia venuto meno il rapporto tra il testo letterario e il conteso “situazionale.
    (Vincenzo Consolo)

  131. LA QUESTIONE LINGUISTICA

    A questo punto vorrei fare un discorso sulla lingua italiana.
    Nel De vulgari eloquentia Dante sostiene che esiste una lingua di primo grado che apprendiamo da bambini dalle persone a noi più vicine, genitori e parenti, e una lingua colta, quella che lui chiama la lingua grammaticale.
    Ora, la ricchezza della lingua italiana è dovuta proprio alla confluenza di questi due livelli linguistici, lingua colta e lingua popolare. Il discorso sulla lingua ha impegnato molti scrittori italiani, da Dante a Castelvetro, a tantissimi altri sino a Leopardi che nello Zibaldone si sofferma moltissimo sulla questione della lingua istituendo un paragone tra francese e italiano: la lingua francese, al contrario di quella italiana, ha “perso l’infinito che aveva in sé”, è una lingua che per ragioni storiche e politiche si è “geometrizzata” o anche orizzontalizzata, perdendo quella profondità e quegli echi, quelle infinità che Leopardi riscontrava nella nostra lingua.
    Dopo Leopardi e Manzoni, molti altri hanno riflettuto sulla questione linguistica, ma dobbiamo arrivare sino a Pasolini, il quale, scrive proprio nel momento della grande trasformazione italiana, della fine del mondo contadino e della nascita dell’Italia neocapitalistica: con l’inurbamento delle masse meridionali nel triangolo industriale e l’irruzione dei mezzi di comunicazione di massa il Paese subì un mutamento profondo sia dal punto di vista sociale che linguistico. Pasolini colse questa grande trasformazione e, nel 1964, pubblicò un saggio, intitolato Nuove questioni linguistiche in cui svolge un’attenta analisi della situazione linguistica dell’Italia degli anni Sessanta e parla di “sviluppo senza progresso”, di un peggioramento seguito al miracolo economico.
    (Vincenzo Consolo)

  132. Pasolini sostiene inoltre che l’asse linguistico dal centro-meridione si era spostato verso il settentrione e la lingua italiana era diventata una lingua aziendale e tecnologica: tutti gli italiani parlavano finalmente la stessa lingua, quella dei mezzi di comunicazione di massa. Era la fine della lingua di primo grado di cui aveva parlato Dante a favore della lingua media.
    Per la prima volta si era formata una lingua nazionale; se prima, come diceva Leopardi vi erano molte lingue, poi, col neocapitalismo e coll’esplosione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, si era formata una lingua italiana unica, orizzontale, che non era affatto la lingua geometrica e civile francese di cui aveva parlato Leopardi, ma era una lingua assolutamente irrigidita, orizzontalizzata, e impoverita in quanto priva di memoria, di qualsiasi retaggio culturale, sia di cultura alta, sia di cultura bassa.
    Questa lingua aveva inorgoglito e fatto gioire scrittori come Umberto Eco e linguisti come Tullio De Mauro, però io credo che avesse ragione Pasolini nel sottolineare la grande perdita subita dal punto di vista linguistico. Dal saggio di Pasolini sono passati 40 anni ma pensate a cosa è avvenuto nella nostra lingua: leggendo i giornali o ascoltando gli speakers della televisione sentiamo che questa nostra lingua è divenuta una koinè fragile, indifesa, continuamente violentata, colonizzata dai gerghi tecnologici e invasa dall’americanismo. La nostra lingua italiana ha una matrice latina e non può diventare una lingua monosillabica perché noi abbiamo un’articolazione sintattica ricchissima che viene proprio dallo sviluppo della civiltà latina. Tuttavia, sebbene la nostra lingua sia fragile e parlata solo in Italia. assistiamo a un fenomeno curioso e molto incoraggiante: nelle Università americane v’è una richiesta di studio dell’italiano da parte degli studenti americani che cresce di anno in anno. Mentre la nostra lingua si impoverisce ed è invasa dall’americanismo, in America v’è un nemico interno, gli studenti che vogliono studiare l’italiano. Io credo queste società sviluppate, tecnologiche e mercantili sentano l’esigenza di praticare un mondo di umanità, di cultura, che loro forse hanno perso e, quindi, scelgono l’italiano come lingua di cultura.
    (Vincenzo Consolo)

  133. I ROMANZI


    Lasciando questo lungo discorso sulla lingua, torno alla mia ricerca, sempre più accentuata negli anni in direzione della frase metrica, ritmica. Invece di fermare la narrazione e fare delle riflessioni di tipo filosofico, come ha teorizzato Kundera, io interrompo la narrazione per alzare il tono della scrittura in una forma ancora più alta, tra virgolette, e se possibile ancora più poetica, come se fosse il coro della tragedia greca a parlare: vi sono delle parti corali che fanno non da riflessione, ma da commento all’azione che sto raccontando, alle vicende che sto narrando.
    Nel mio primo libro, “La ferita dell’aprile” (1973), in cui un io narrante-adolescente parla del secondo dopoguerra in Sicilia, della riorganizzazione della vita politica, della vita sociale, delle prime elezioni in Sicilia, del ’48 e altro, ho adottato questo stile, usando spesso, anche nell’organizzazione della frase, le rime e le assonanze in senso comico-sarcastico, in senso di parodia della società degli adulti.
    Nel secondo romanzo, “Il sorriso di un ignoto marinaio” (1976) la situazione è quella di un rivoltoso che è costretto a scappare e a nascondersi perché inseguito dalle forze della repressione: “Si, bisogna scappare e nascondersi, bisogna attendere, attendere fermi….. è caduto su punte di cristallo”. Naturalmente c’è la memoria della storia di Pinelli, caduto o fatto suicidare… Il mio secondo libro è uscito a tredici anni di distanza dal primo: questo lasso di tempo ha coinciso con la mia seconda venuta a Milano, nel 1968. Mi ero reso conto che la mia attività di insegnante era assolutamente inutile e che il mio stare in Sicilia era divenuto insostenibile, invece Milano era una città interessante – anche se stentavo a riconoscerla – perché qui si svolgeva la storia più accesa, quella del ’68, con un grande dibattito culturale, politico, e sul piano pratico coi grandi conflitti tra il mondo del lavoro e quello del capitale, tra gli imprenditori e gli operai. All’epoca fui sollecitato anche dalla lettura dei “Menabò” di Vittorini e di Calvino che invitavano, in questo momento storico importante e acuto, i giovani autori ad inurbarsi, a studiare la grande trasformazione italiana e la realtà urbana perché il mondo contadino era finito: vi era un nuovo paese da narrare, da rappresentare.
    (Vincenzo Consolo)

  134. Così io mi trovavo a Milano nel ’68, e mi sono sentito spaesato e spiazzato di fronte ad una realtà urbana e industriale che non conoscevo, di cui non avevo memoria e per cui mi mancava il linguaggio. La stessa sorte era toccata a Verga, approdato a Milano nel 1872 al momento della prima rivoluzione industriale. Egli fece una grande rivoluzione stilistica, ma in direzione del capitalismo rurale e medievale del latifondo siciliano, rifiutando cioè il capitalismo progressivo della prima rivoluzione industriale. Anch’io rimasi spiazzato ma agii diversamente da Verga: per mia fortuna ho sempre creduto che la storia è fatta di momenti regressivi e di momenti progressivi, e che l’uomo, stando insieme – come dice Leopardi – “confederato con gli altri uomini” può correggere i mali dell’esistenza: siamo degli esseri finiti, fragili, e forse la letteratura come pure la religione nasce da questo senso di fragilità e di finitezza che avvertiamo, per questo abbiamo bisogno di scrivere, di pregare, di istanze spirituali. Io credo nella storia e credo che l’uomo possa intervenire nella storia, perciò non ho avuto il ripiegamento ideologico che ha avuto Verga, ho pensato che per rappresentare l’Italia e soprattutto la Milano di quegli anni, le grandi istanze, le richieste di mutamento di questa nostra società, dovessi assolutamente ripartire dalla mia terra, dalla Sicilia. Così ho scelto un topos storico, il 1860, poiché mi pareva un momento storico somigliante a quello del 1968: ho scritto un romanzo storico, Il sorriso dell’ignoto marinaio, ambientato al momento della venuta di Garibaldi in Sicilia e delle speranze che si erano accese negli strati contadini e popolari siciliani di un mutamento anche politico e sociale. C’era stata l’unità ma le condizioni degli strati popolari erano rimaste le stesse. Da qui la grande delusione e tutta quella letteratura di tipo sociale, la questione meridionalista trattata da Salvemini e Gramsci, ma pure la letteratura narrativa di riflessione sull’unità d’Italia, come ad esempio I Malavoglia e il Mastro don Gesualdo di Verga, I Viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello, fino ad arrivare al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
    (Vincenzo Consolo)

  135. Il primo libro che ho scritto, in prima persona, era una sorta di libro di formazione, di iniziazione, di educazione sentimentale. Tuttavia credo che dopo il primo libro non si possa più praticare la prima persona, bisogna occuparsi del proprio progetto letterario, cercare la propria identità. Per questo, dopo Il sorriso dell’ignoto marinaio, ho concepito un ciclo di romanzi a sfondo storico, una trilogia: Notte tempo, casa per casa (1992) parla di un momento cruciale della storia italiana, gli anni Venti e la nascita del Fascismo, raccontato dall’angolazione di un piccolo paese della Sicilia, Cefalù: qui mi occupo della crisi delle ideologie che sono succedute al primo dopoguerra, dell’insorgere di nuove metafisiche, di istanze di tipo settario, delle sette religiose di segno bianco e nero; ultimo della trilogia, Lo spasimo di Palermo (1998), affronto la contemporaneità, gli anni Novanta in Sicilia, anche se con flashback che partono dal secondo dopoguerra e arrivano al 1992 con la strage di via D’Amelio e la morte del giudice Borsellino.
    Sono seguiti altri libri collaterali, per esempio Retablo (1994) oppure L’olivo e l’olivastro (1994), in cui ho cercato sempre di praticare riflessioni sulla realtà. L’olivo e l’olivastro è un libro ambientato in Sicilia in cui non v’è finzione letteraria, si narra di un viaggio nella Sicilia degli anni ’80 e ’90 sullo schema del viaggio di ritorno di Ulisse che non ritrova più la sua Itaca, o meglio, la ritrova ma non la riconosce perché è degradata, è devastata, soggiogata e dominata dai proci, gli uomini del potere politico mafioso, con tutti i disastri che ne sono susseguiti.
    (Vincenzo Consolo)

  136. LETTERATURA COME MEMORIA

    La letteratura è memoria.
    Per opporsi alla cancellazione della memoria, che è il segno più eclatante della nostra epoca, è necessario praticare una scrittura che io chiamo “palinsestica”, a dire che noi scriviamo su altre scritture. Bisogna cercare di memorare, attraverso la nostra scrittura, quelle che sono le scritture precedenti, non attravreso citazioni banali ma facendo sentire l’eco del patrimoni memoriali che portiamo in noi, altrimenti rischiamo di diventare dei comunicatori televisivi.
    (Vincenzo Consolo)

  137. A chi ha scritto che alle esequie funebri c’era tanta gente…
    C’era sì tanta gente, ma non quanto era giusto ce ne fosse.
    Mancavano i santagatesi. Il resto: amici, tanti, e altrettanti curiosi.
    Questa città con la sua indifferenza non riuscirà mai ad estinguere
    il debito con il suo figlio più illustre.

  138. Ieri in un mercatino ho trovato una copia di Lo spasimo di Palermo. L’ho acquistata pensando a questo dibattito. Sara’ la prima volta che leggero’ Consolo.

  139. Ho appena ricevuto un contrubuto da parte di Maria Rosa Cutrufelli (si tratta di un articolo uscito su “Il Manifesto”).
    Lo inserisco qui di seguito tra i commenti e sul post.

  140. Un mite guerriero
    di Maria Rosa Cutrufelli

    Nel mucchio disordinato di carte che in maniera alquanto azzardata chiamo ‘il mio archivio’, c’è una cartelletta gialla su cui sta scritto: Vincenzo Consolo.
    In questa cartelletta ho raccolto, per anni e con una diligenza che non appartiene al mio carattere, quei suoi interventi che ogni tanto compaiono su quotidiani o riviste e che parlano di sud e di scrittura, di storia e di utopia sociale, di potere, di connivenze, di linguaggio e di responsabilità… Parole fatte di “pietra dura”, perché Vincenzo Consolo è un guerriero (mite, e pur tuttavia guerriero), oltre che un incantatore.
    Un incanto che nasce, almeno per me, non soltanto dalla sua ricerca formale, cioè dalle meraviglie stilistiche delle sue opere, dal suo linguaggio e dalla sua espressività, ma anche dalla forza del suo pensiero. Che è pensiero ‘etico’.
    Lo scrittore, ha detto una volta Consolo e lo ha ribadito in diverse occasioni, “quando si rivolge a una società ha il dovere dell’etica, perché altrimenti diventa asociale, immorale. E lo diventa perché non scrive in difesa dell’uomo ma contro l’uomo”. E’ da questa concezione etica della letteratura che gli deriva l’idea di una “supremazia della scrittura nei confronti della storia”, di una scrittura intesa come “compenso e costruzione armoniosa contro il disordine della storia”, che pure è il territorio privilegiato, il ‘luogo’ centrale delle sue narrazioni: la sua, si potrebbe dire, ‘ossessione’ tematica.
    Non a caso, credo, lo stesso Consolo ha voluto dare più volte (e cito per tutte una lunga intervista comparsa nel 2000 sul bimestrale ‘Tuttestorie’) una scansione temporale a questa sua ricerca storico-politica, e lo ha fatto dividendo il suo percorso letterario in tre grandi tappe, in questo modo ordinando storicamente anche la sua personale storia di scrittore.
    La prima tappa muove da una lettura della radicale trasformazione dell’Italia al momento dell’unità, quando alla fine trova compimento l’idea risorgimentale dello Stato unitario. Ed è segnata, questa tappa, dalla composizione di un testo magico e complesso come ‘Il sorriso dell’ignoto marinaio’. La seconda, con ‘Nottetempo casa per casa’, racconta invece quella disgregazione sociale che prelude all’avvento del fascismo e la terza, con ‘Lo Spasimo di Palermo’, entra nell’oggi per confrontarsi con la speranza fallita di un cambiamento sociale e culturale prima ancora che politico. L’unica speranza che resta, dice Consolo, è appunto la speranza nella scrittura, nella sua capacità di mettere ordine nelle coscienze e di portare armonia, cioè fiducia, là dove c’è soltanto caos e quindi impossibilità di comunicare. Ma questa capacità ‘armonica’ della scrittura non è affatto scontata.
    In una conversazione con Silvio Perrella, pubblicata sulla rivista Mesogea, Consolo si domanda (o meglio torna a domandarsi) perché gli scrittori che hanno vissuto il fascismo e la guerra, in particolare Moravia, Calvino e Sciascia, abbiano poi optato per un codice razionalistico di scrittura e una concezione illuministica del mondo. Perché, si risponde, “la loro era, appunto, una scrittura di speranza. Speravano che finalmente in questo paese si formasse, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, una società civile con la quale comunicare.” E invece questa società non è ancora nata e la scrittura di tipo comunicativo, cioè “fiduciosa nel sociale”, non ha ragione di essere. In questo contesto, in questo fallimento della storia, si può ‘scrivere sperando’ solo se si abbandona il codice razionalistico e si opta per un codice di tipo espressivo, se si lascia la Francia, in sintesi, e si va verso la Spagna. Verso la “dolce follia, simbolica e metaforica” di don Quijote.
    La scrittura espressiva, dunque. Le narrazioni. Non il romanzo. “Ho cercato di non scrivere mai romanzi”, afferma Consolo argomentando, spiegando puntigliosamente la sua insofferenza per questa forma letteraria ottocentesca, di “intrattenimento puro”. La narrazione offre invece a chi scrive una maggiore libertà, un respiro più ampio. E’ un genere letterario con una doppia anima, per così dire, perché precede il romanzo ed è quindi preborghese pur essendo, nello stesso tempo, postmoderno.
    In questa sua dichiarazione di poetica, a me sembra che Consolo si riveli straordinariamente vicino a certe correnti originali e innovative della letteratura mondiale, a quelle voci che vengono da paesi dove scrivere non è mai stato un ‘atto neutro’, perché la lingua stessa – lingua importata, lingua nemica – grondava sangue e aveva bisogno di essere reinventata e ricreata per poter diventare strumento di autorappresentazione e di speranza. Il suo mistilinguismo, ad esempio, mi ricorda molto da vicino l’operazione culturale tentata dalla scrittrice algerina Assja Djebar, che soltanto dopo aver studiato a fondo l’arabo, dopo un’immersione totale nella lingua madre, riconquista un francese arricchito dai suoni, dalle cadenze e dalle voci di quel mondo colonizzato e strappato a se stesso che è il suo mondo, e così, con questa ricchezza, può tornare a scrivere, dopo un lungo silenzio di anni.
    Nel vuoto chiacchiericcio della società letteraria italiana, fa un effetto davvero straniante questa ricerca ostinata di un ‘senso’ oltre che di una ‘forma’, questo desiderio di ‘speranza’, sempre frustrato ma sempre attuale e mai dismesso, che diventa messaggio letterario.
    In un intervento sull’Unità del 1994 Vincenzo Consolo scriveva: “oggi il Sud è l’azzeramento, è il deserto da cui si sta cominciando a ripartire”. Ripartire: che, nel contesto di quell’articolo, non stava a indicare solo il movimento negativo dell’andar via, la necessità dell’abbandono che genera un’incurabile nostalgia.
    E qui voglio aprire un inciso. Perché su questa nostalgia, che è il malessere profondo e sensibile di ogni uomo e di ogni donna che ha conosciuto l’emigrazione, Consolo ha scritto alcune righe che non posso non riportare per esteso, perché il loro sapore è esattamente il sapore di quel tipo di nostalgia.
    “Io”, scrive Consolo nel penultimo racconto delle “Pietre di pantalica”, “io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.”
    Il movimento delle parole ha qui la cadenza precisa del sentimento, lo insegue e lo incarna con un’immediatezza morbida e sgomenta. Ma nostalgia, qui, non è semplicemente ‘sofferenza del ritorno’, è qualcosa di più vasto. E’ sofferenza di un desiderio costretto in un limite – il limite umano, che soltanto il movimento delle parole, forse, può spostare un poco più in là.
    E allora, tornando all’articolo del 1994, quel ‘ripartire’ a me sembra che non avesse solo un’accezione negativa, non descrivesse soltanto una realtà di fuga dal ‘deserto’ della Sicilia, ma, sottotraccia, indicasse anche un’altra possibilità: quella di ripensare, di tornare a pensare e a dire il Sud, “questo eterno e sempre vivo scandalo”, cominciando di nuovo a raccontarne la storia e a prendersene cura nelle narrazioni come nella politica. Anche se “i tempi della letteratura sono lunghi, lungo il processo di sedimentazione della memoria e della formazione della lingua”.
    Sono passati molti anni da quel 1994. La “sintassi del mondo” da allora si è sfasciata molte e molte volte e, per dirla con Consolo, “non sappiamo se si potrà mai ricomporre”.
    Così, in questo nostro paese “ormai telestupefatto”, io ho bisogno – sì, bisogno è il termine giusto – delle parole di “pietra dura” di Vincenzo Consolo. Mi sono necessarie quanto le sue narrazioni, che fanno vibrare la mia anima divisa di ‘siciliana in esilio’.
    Ed è per questo bisogno che, come ho detto all’inizio, per anni ho ritagliato, raccolto, messo da parte articoli e interventi: i giornali e le riviste, si sa, sono cose fragili, beni effimeri, tendono a sparire ancor più rapidamente dei libri.
    Insomma, ho voluto mettere in salvo le sue parole.
    E poi l’ho incontrato, Vincenzo Consolo.
    E nell’uomo, nel suo modo di parlare, schivo e preciso, nella maniera diretta ed essenziale con cui offre agli amici consolazione, affetto e soprattutto ascolto (anche a me, un giorno che non dimenticherò, mentre stavo andando a trovare mia madre, che giaceva immobile e immemore nel suo letto), ecco, nel modo di essere e di presentarsi di quest’uomo ho riconosciuto la “pasta dura” e luminosa di quelle parole raccolte per anni. Una concordanza fra ‘l’essere’ e il ‘dire’ piuttosto rara.
    Mi intimidisce, Vincenzo Consolo. Eppure lo sento ancor più che amico, familiare. Forse per quel suo viso che mi ricorda le sculture di Giuseppe Mazzullo, sculture ricavate dalle pietre del torrente che attraversa il mio paese (un pietroso paese che non per caso si chiama Graniti). Sculture di pietra. Forti. Dolorose e miti. E Vincenzo Consolo, con le sue indignazioni, le sue passioni politiche, la sua scrittura impetuosa e ritmica, questo è ai miei occhi: un mite guerriero.

    (Maria Rosa Cutrufelli)

  141. grazie mille per il grande lavoro che compi, massimo.
    credo che questo spazio, all’interno del web, sia in assoluto il più completo dedicato a vincenzo consolo

  142. caro massimo, ti ringrazio per questa finestra di luce e conoscenza che hai aperto sulla grandezza letteraria e umana di vincenzo consolo,inimitabile scrittore e insostiubile amico.

  143. Uno spazio davvero esaustivo. Un bel gesto per ricordare e onorare la figura di Vincenzo Consolo. Ma e’ anche uno scrigno di spunti importanti per conoscere lo scrittore e le sue opere. Sto indirizzando questo spazio ai miei studenti. Grazie!

  144. “Il sorriso dell’ignoto marinaio”… che era poi il suo quando ti parlava, umile e gentile. Sentivo di avere davanti un classico vivente della letteratura italiana, non osavo neanche proporgli una foto o chiedergli un autografo. Ma al “Premio Vittorini”, che ha presieduto per anni a Siracusa, la sua voce autorevole e pacata insieme colloquiava affabilmente. Voglio leggere e ri-leggere Consolo per riascoltarla.

  145. In ogni caso, la seconda parte della prossima puntata della mia trasmissione radiofonica “Letteratitudine in Fm” (venerdì prossimo, h. 13 circa) sarà dedicata a Vincenzo Consolo: manderò in fm l’audio del video YouTube che trovate su questo post.

  146. da la Repubblica (di Manuela Modica)
     
    I funerali dello scrittore a Sant’Agata, il paese della sua memoria, dove è stato sepolto

    di MANUELA MODICA

    Si è riunito alla sua terra lo scrittore Vincenzo Consolo, torna in Sicilia la salma, per i funerali da lui espressament evoluti nella terra natale, da cui mancava solo da questa estate. Ricomponendo così la continua lacerazione della lontananza sincopata dalla sua isola. Una cerimonia a un tempo colma e mesta, quella celebrata nella chiesa del Sacro Cuore e non nella Cattedrale di Sant’Agata di Militello (a Messina), dov’era nato Consolo. Ha scelto la chiesa, vicina alla casa in cui crebbe, luogo della sua memoria. In prima fila commossi il fratello e la moglie Caterina, assieme al nipote Nino Bertoloni Meli, giornalista del “Messaggero”. 
    Il parroco Enzo Vitanza, voluto dallo stesso scrittore per celebrare il suo saluto al mondo, ha sottolineato come “il suo esempio di intellettuale e di cittadino sia un’eredità per tutti”. Vitanza ha poi letto alcune parole dell’autore che ha scelto per i suoi funerali lo sfondo del dipinto del Sacro Cuore, dove un Gesù scalzo scende i gradini: “E gliene mancano ancora tre per essere a terra tra i bastasi”.
    Presenti alla cerimonia anche l’assessore all’Istruzione Mario Centorrino, in rappresentanza del governo regionale e l’europarlamentare Rita Borsellino.
    È intervenuto anche il sindaco, Bruno Mancuso: “Sant’Agata è a lutto. Oltre al nostro cordoglio alla famiglia, anche i ringraziamenti per aver scelto questo luogo per la tumulazione. Non ci mancherà come narratore, i suoi scritti resteranno patrimonio dell’umanità, ci mancherà la sua figura, il suo essere siciliano compresi i contrasti, per noi era un riferimento. Spingeva sempre i giovani a ribellarsi a un sistema e un modo di vivere siciliano che lui non accettava soprattutto rispetto alla politica e alla società civile che riteneva inquinate da una cappa asfissiante di corruzione e malavita”.

    Una lunga coda di persone ha poi seguito la salma lungo la strada principale, fino al cimitero.

    la Repubblica – 23 gennaio 2012)

  147. Il sorriso dell’ignoto marinaio La prosa magica di Consolo

    28 gennaio 2012 —   pagina 52   sezione: Nazionale

    Soprattutto ora che è scomparso, di Vincenzo Consolo si impone la riscoperta del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976 (Mondadori, 8.50 euro), opera multiforme fitta di oralità e lirismo, tra salti temporali e mistero, mescolanza di generi e stili. Ai tempi dello sbarco garibaldino in Sicilia esplode la rivolta contadina del 17 maggio del 1860 ad opera dei braccianti di Alcara Li Fusi, Messina, culminata nell’occupazione di una villa di nobili, con l’uccisione degli occupanti. Il popolo si ribella forte dell’arrivo dei garibaldini, che però ristabiliscono l’ordine condannando a morte buona parte degli insorti. In una trama variegatissima, protagonista è il barone di Mandralisca Enrico Pirajno, erudito che dall’incontro con il rivoluzionario Giovanni Interdonato e con i contadini in rivolta deciderà di mettere le proprie conoscenze al servizio della causa risorgimentale, innescando un processo di evoluzione interiore. Tutto inizia nel 1852, quando Pirajno compie un trasferimento in mare, da Lìpari a Cefalù, portando con sé un enigmatico ritratto.

  148. L’ultimo Consolo e l’Amor sacro di un monaco dell’Inquisizione

    25 gennaio 2012 —   pagina 50   sezione: Pordenone

    MILANO
    Non ce l’ha fatta a consegnare a Mondadori il romanzo che finalmente a tredici anni da Lo Spasimo di Palermo stava completando. Vincenzo Consolo è morto prima. I suoi occhi si sono chiusi sabato scorso, a 79 anni, perché il fragile corpo non ha piú sostenuto il tumore che lo affliggeva. Ora il grande scrittore italiano, un archeologo della lingua, l’erede di Sciascia ma per molti versi anche di Gadda, di Vittorini, di Pasolini (cui lo aveva legato un’amicizia forte, politica e letteraria e di cui esibiva in studio un raro disegno Due ragazzi di Casarsa) torna nella sua Sicilia, riposerà a Sant’Agata di Militello, il paese natale dove aveva fatto le prime prove di poesia da Lucio Piccolo, dove aveva accompagnato lungo i sentieri a lui cari Salvatore Quasimodo e da dove soprattutto muoveva per andare a trovare Sciascia, per apprendere e confrontarsi. Rispetto al maestro di Racalmuto, Consolo aveva scelto una strada linguistica e storica piú impervia e il suo romanzo piú famoso Il sorriso dell’ignoto marinaio era stato un segno di rottura forte nell’Italia ancora ammaliata dalle pagine del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. «Romanzo assolutorio» lo giudicava Consolo quanto il suo era invece il canto di un’aristocrazia realmente risorgimentale e unitaria. Presto, ma quanto tardi Mondadori pubblicherà il Meridiano a lui dedicato, con i romanzi, i saggi dell’ultimo decennio, ma anche i racconti giovanili raccolti da uno studioso di italianistica di un’Università spagnola, a testimonianza di quanto l’Italia dell’editoria gli sia stata ostile. Non gli perdonava la severità, il rigore linguistico e la sua stessa casa editrice l’astio e il fastidio che Consolo provava nei confronti dell’ingombrantissimo e da lui politicamente lontanissimo editore. Ma il declino della stella di Berlusconi lo aveva indotto a riprendere a lavorare. Mi disse a giugno scorso nella sua casa milanese: «Amor sacro sarà il titolo di questo romanzo storico. Ma lo dico con molto pudore, è un processo d’Inquisizione di cui ho trovato i documenti all’Archivio di Madrid: una storia che si svolge in Sicilia. La vicenda riguarda un monaco e quindi Amor sacro direi che è appropriato. Ma non voglio aggiungere altro ché sarebbe impudico. Il secolo è la fine del Seicento, tempo, luogo e stagione di furori e misteri. In ogni caso i miei libri sono sempre storico-metaforici. Spero». Ribelle fino all’ultimo dunque. Autore parsimonioso di romanzi-metafora sul Risorgimento, il fascismo (Nottetempo casa per casa), la mafia (Lo Spasimo di Palermo), Consolo preparava l’ultima stoccata politico-letteraria. Non ha fatto in tempo.
    (di Sergio Buonadonna)
     

  149. da La Nuova Sardegna (di Massimo Onofri)
     
    Vincenzo Consolo, scrittore antagonista in lotta con il potere

    24 gennaio 2012 —   pagina 33   sezione: Spettacolo

    I funerali si sono tenuti ieri a Sant’Agata di Militello, dove era nato il 18 febbraio del 1933, il paese sul mare sotto i Nebrodi con cui ha intrattenuto, per tutta la vita, un rapporto difficile, conflittuale, di quasi rabbioso amore. Ho detto Sant’Agata di Militello, ma avrei dovuto dire Sicilia e Italia: quando è vero che l’attualità politica – penso alle sue furiose e sempre più preoccupate prese di posizione antileghiste -, continuava ad indignarlo, forse perché restava l’unico contravveleno, ogni volta più acido, a quel leopardiano male di vivere, che gli era consanguineo, cui non avrebbe mai voluto soccombere. Ora che non c’è più, inghiottito per sempre dalla terra negra, dopo essere stato oltraggiato nel corpo e nello spirito da una malattia implacabile, non posso fare a meno di ricordarlo come l’ho visto apparire la prima volta, in un aereo borgo della Madonie, quando mi venne incontro generosamente sorridendo, per dirmi subito: «sei come ti aspettavo». Mi chiamava Massimino: ma tra noi due, il ragazzo anche impertinente, esatto e tonico, scattante, era lui. Così sprizzante d’energia nello sguardo intenso, così bello di giovinezza nel viso sempre uguale negli anni in cui ci siamo frequentati e voluti bene, così fisiognomicamente figlio della pittura del suo Antonello da Messina, che era diventato – glielo ripetevo sempre – come l’icona di se stesso. Amico caro, Vincenzo Consolo, per me lo zio di Sicilia, e tenerissimo anche nei risentimenti, nelle intemperanze improvvise, anche quando ingiuste, come nei confronti dell’amabile e squisito Gesualdo Bufalino, con cui lo feci incontrare nella ragusana Chiaramonte Gulfi, per una riconciliazione: in quella che fu, per tutti, una giornata bellissima, di risate e ricordi, sotto il segno nobile del comune maestro Leonardo Sciascia.
     Adesso che l’eternità l’ha mutato alfine in se stesso, possiamo e dobbiamo chiedercelo: che scrittore è stato Vincenzo Consolo? Quale fosse il suo modo di stare al mondo, partigiano e militante, antagonista, lo dice bene in Fuga dall’Etna (1993), con la precisa coscienza di quella tradizione – il «romanzo antistorico», per dirla con Vittorio Spinazzola – che da De Roberto e Pirandello arrivava a Tomasi di Lampedusa e Sciascia, ma anche marcando una sua diversità: «La letteratura per me (…) è il romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna Edward Carr, credo nel romanzo ideologico (…), cioè nel romanzo critico. La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo».
     Vincenzo Consolo esordisce nel 1963 con La ferita dell’aprile – romanzo autobiografico in cui si candidava a dar voce a quella Sicilia nebrodea che Vittorini diceva «lombarda» -, ma si trasferisce a Milano, dove aveva preso la laurea in Giurisprudenza, nell’anno ideologicamente più simbolico, il 1968: per andare a lavorare in una Rai dove, sempre insofferente, mai si accasò. Al Nord come appunto Vittorini: cui guardò da subito, proprio per quella forte tensione verso una parola-giustizia che voglia restare agonistica, sganciata da ogni facile linguaggio della comunicazione, prossima, piuttosto, agli ardui approdi della poesia. Ma anche per la naturale disposizione lirica del temperamento, rafforzata dall’apprendistato alla scuola aristocratica del cugino di Tomasi di Lampedusa, Lucio Piccolo, il più esoterico dei poeti italiani: che altro sono quel capolavoro che s’intitola Le pietre di Pantalica (1988) o certe pagine struggenti de L’olivo e l’olivastro (1994), se non il tentativo di riproporre, in vista d’una più aggressiva razionalità e d’un più concreto impegno storico, l’epopea inconclusa delle insondabili e vittoriniane Città del mondo (1967)? Epperò, se le verità di Vittorini erano utopiche, allusive se non illusive, quelle di Consolo diventavano memoriali, nei modi, come già ho scritto, d’una particolare metrica della memoria, d’una memoria riscattata per forza di prosodia. Di qui il mistero della sua prosa: che una scommessa civile possa vivere come un azzardo della lingua. Cosa che, malgrado l’indubbio plurilinguismo, lo allontana drasticamente dai tantissimi nipotini di Gadda, cui pure è stato superficialmente affiancato.
     Dicevo di Piccolo e Sciascia: che poi significa una specialissima alleanza tra malìa e ragione. Quella che sta a monte d’uno dei libri più belli del secondo Novecento italiano: Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976). Il tema è di quelli cruciali per la letteratura siciliana: il passaggio dai Borboni ai Savoia, il Risorgimento tradito. Ma Consolo vi proietta la vicenda di Enrico Pirajno di Cefalù, barone di Mandralisca, autore di un trattato scientifico sulle lumache, collezionista d’arte, liberale illuminato, però intrecciandovi quella d’un quadro enigmatico, un ritratto d’ignoto attribuito ad Antonello da Messina. Un anti-Gattopardo, come è stato tante volte ripetuto: quello in cui il barone che, testimone della rivolta contadina di Alcara Li Fusi, acquista esatta coscienza d’un dramma storico e sociale, azzera in un colpo solo quella teoria di aristocratici reazionari o velleitari, scettici o sofistici, della letteratura isolana. Consolo è partito da qui, razionalista e barocco, con la sua lingua che s’inciela nella tradizione o si sprofonda nel ventre del dialetto, per smascherare, libro dopo libro, le follie della Storia e del Potere: benissimo in Nottetempo, casa per casa (1992), con cui vince il Premio Strega. E ha conosciuto, come Sciascia, una sola forma di smemorata felicità: quella della scrittura, la quale in Retablo (1987) tocca vertici di leggerezza e allegria che solo a volte, e sempre accanto alla moglie Caterina, gli ho riconosciuto nella vita. Confesso che quando ho letto Lo Spasimo di Palermo (1998) ho sofferto molto: là dove si racconta, dentro l’Italia perduta delle stragi di mafia, la vicenda d’uno scrittore minacciato dall’afasia. Romanzo di parricidi, Lo Spasimo di Palermo, ma anche bilancio drammatico della propria vita, dolorosa e lucida resa dei conti. Ho sofferto molto: perché ci sentivo un congedo, seppure di molti anni anticipato nel silenzio creativo, nell’irrequietezza costante, nella cupa insoddisfazione. E purtroppo non sbagliavo.
    – Massimo Onofri

  150. Due giorni fa se n’è andato Vincenzo Consolo. Aveva settantanove anni, era molto malato. I suoi libri che subito vengono in mente: Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), Retablo (1987), Lunaria (1985), Nottetempo casa per casa (1992, premio Strega – titolo che germinerà nella testa di Ginevra Bompiani, dando luogo alla casa editrice Nottetempo).
    Credo di essere stato l’ultimo a commissionargli un testo. Vincenzo era un uomo intelligente e generoso. Pur essendo un grande scrittore, non perdeva di vista le cose piccole. Nel 2010 ero consulente del Napoli Teatro Festival, per il quale ideai una rassegna di testi italiani scritti su commissione. Era un po’ una scommessa, tentata con il direttore del Festival, Renato Quaglia: chiedere a dieci scrittori di diversa generazione e ispirazione di scrivere per le scene.
    Vincenzo accettò la scommessa e scrisse nei tempi stabiliti – piuttosto stretti – un testo di dolente stupefatta bellezza, in cui due vecchi, circondati da un mondo sempre più involgarito e becero, aspettano la propria morte. Mi colpì il fatto che la sua lingua, di solito così altera e lussureggiante, fosse invece semplice, piana. Come se avesse un tale bisogno di comunicare, una tale necessità di dire, da mettere in secondo piano l’urgenza dello stile.
    Non venne per la prima. Stava già male. Lo sentii al telefono e parlammo di teatro ma anche di politica: il mondo involgarito e becero, di cui scriveva nel suo testo, intitolato L’attesa, era la Milano del berlusconismo e del leghismo degli anni scorsi. Povero Vincenzo. Davvero si sentiva esiliato in un piccolo universo orrendo.
    http://fortunato.blogautore.espresso.repubblica.it/2012/01/23/vincenzo-consolo/

  151. l Centro Pio La Torre ricorda Vincenzo Consolo, ad una settimana dalla scomparsa, con un numero monografico del settimanale ASud’Europa. Una raccolta di scritti, commenti e interviste su uno dei temi centrali della sua vita: l’impegno civile. Dal ricordo di Carmelo Battaglia, ucciso nel 1966 a Tusa alla lotta contro il pizzo e l’oppressione mafiosa e all’analisi politica e sociale degli anni berlusconiani.
    Le pagine sono impreziosite dagli scatti di Giuseppe Leone. Un itinerario iconografico sulla figura di Consolo e di altri protagonisti siciliani della letteratura quali Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino.
    La rivista, scaricabile dal sito www.piolatorre.it, è stata presentata mercoledì 1 febbraio alle ore 18 presso la libreria Broadway di via Rosolino Pilo a Palermo. Sono intervenuti Ignazio Buttitta, antropologo dell’Università di Palermo, Vito Lo Monaco, presidente del Centro La Torre, Concetto Prestifilippo, giornalista e Aldo Scimè, della Fondazione Sciascia. Nell’occasione Consuelo Lupo ha letto alcuni brani di Consolo. Era presente anche la moglie di Vincenzo Consolo, Caterina.
    http://poesia.blog.rainews24.it/2012/01/30/asudeuropa-numero-monografico-su-vincenzo-consolo/

  152. Massimo Onofri su “Avvenire”
    ———–
    Consolo, l’arma della scrittura contro il potere
     
    ​Come epitaffio da incidere sulla tomba, Leonardo Sciascia scelse una misteriosa frase dello scrittore Villiers de l’Isle-Adam: «Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». Già: ma da dove? Proprio quando il suo pessimismo, ogni giorno più incalzante, da storico s’era fatto ferocemente cosmico, le non più sufficienti ragioni di Montaigne avevano lasciato il posto a quelle di Pascal, come per uno dei personaggi della terminale Una storia semplice (1989): dato che, ormai, non sembrava più la speranza l’ultima a morire, ma il morire l’ultima speranza. Ecco, se c’è una stazione in cui Vincenzo Consolo non è riuscito a seguire il suo grande maestro, è stata proprio la disincantata distanza, nell’ultimo Sciascia quasi siderale, da quelle delusioni storiche e civili che li avevano entrambi esacerbati. L’attualità politica, infatti – penso alle sue furiose e sempre più preoccupate prese di posizione antileghiste-, lo continuava ad indignare mentre restava il contravveleno, ogni volta più acido, a quel leopardiano male di vivere, che gli era consanguineo, cui non ha mai voluto cedere. Quale fosse il suo modo di stare al mondo, Consolo lo dice bene in Fuga dall’Etna (1993), con la precisa coscienza di quella tradizione – il «romanzo antistorico» (Spinazzola) – che da De Roberto e Pirandello arrivava a Tomasi di Lampedusa, ma anche marcando la sua diversità: «La letteratura per me (…) è il romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna Edward Carr, credo nel romanzo ideologico (…), cioè nel romanzo critico. La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo».
    Nato a Sant’Agata di Militello nel 1933, esordisce nel 1963 con La ferita dell’aprile e si trasferisce a Milano nell’anno ideologicamente più simbolico, il 1968. Al Nord come Vittorini: cui guardò da subito, proprio per quella forte tensione verso una parola-giustizia che resti agonistica, sganciata da ogni facile comunicazione, prossima agli ardui approdi della poesia. Ma anche per la naturale disposizione lirica del temperamento, rafforzata dall’apprendistato alla scuola nobiliare del cugino di Tomasi di Lampedusa, Lucio Piccolo, il più esoterico dei poeti italiani: che altro sono quel capolavoro che s’intitola Le pietre di Pantalica (1988) o certe pagine struggenti de L’olivo e l’olivastro (1994), se non il tentativo di riproporre, in vista d’una più aggressiva razionalità e d’un più concreto impegno storico, l’epopea inconclusa delle insondabili e vittoriniane Città del mondo (1967)? Epperò, se le verità di Vittorini erano utopiche, allusive se non illusive, quelle di Consolo sono memoriali, nei modi, come già ho scritto, d’una particolare metrica della memoria, d’una memoria riscattata per forza di prosodia. Di qui il mistero della sua prosa: che una scommessa civile possa vivere come un azzardo della lingua. Cosa che, malgrado l’indubbio plurilinguismo, lo allontana drasticamente dai tantissimi nipotini di Gadda, cui pure è stato superficialmente affiancato.
    Dicevo di Piccolo e Sciascia: che poi significa una specialissima alleanza tra malìa e ragione. Quella che sta a monte d’uno dei libri più belli del secondo Novecento italiano: Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976). Il tema è di quelli cruciali per la letteratura siciliana: il passaggio dai Borboni ai Savoia, il Risorgimento tradito. Ma Consolo vi proietta la vicenda di Enrico Pirajno di Cefalù, barone di Mandralisca, autore di un trattato scientifico sulle lumache, collezionista d’arte, liberale illuminato, intrecciandovi quella d’un quadro enigmatico, un ritratto d’ignoto attribuito ad Antonello da Messina. Un anti-Gattopardo, se si vuole: quello in cui un barone che, testimone della rivolta contadina di Alcara Li Fusi, acquista esatta coscienza d’un dramma storico e sociale, azzera in un colpo solo quella teoria di aristocratici reazionari o velleitari, scettici o sofistici, della letteratura isolana. Consolo è partito da qui, razionalista e barocco, con la sua lingua che s’inciela nella tradizione o s’inventra nel dialetto, per smascherare, libro dopo libro, le follie della Storia e del Potere. E ha conosciuto, come Sciascia, una sola forma di smemorata felicità: quella della scrittura, la quale in Retablo (1987) tocca vertici di leggerezza e allegria che solo a volte, e sempre accanto alla moglie Caterina, gli ho riconosciuto nella vita. Confesso che quando ho lettoLo Spasimo di Palermo (1998) ho sofferto: là dove si racconta, dentro l’Italia perduta delle stragi di mafia, la vicenda d’uno scrittore minacciato dall’afasia. Romanzo di parricidi, Lo Spasimo di Palermo, ma anche bilancio drammatico della propria vita, dolorosa e lucida resa dei conti. Ho sofferto: perché ci sentivo un congedo, seppure di molti anni anticipato nel silenzio creativo. E purtroppo non sbagliavo.
    http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/morto-Vincenzo-Consolo.aspx

  153. Gli Amici di Leonardo Sciascia per Vincenzo Consolo
    ———
    Vincenzo Consolo avrebbe dovuto prendere parte al convegno internazionale sul cinquantenario de Il giorno della civetta, svoltosi a Palermo il 18 e 19 novembre 2011. L’aggravarsi delle sue condizioni di salute, che lo hanno portato alla morte il 21 gennaio, glielo ha impedito.    
    Il suo intervento sarebbe stato un’ulteriore manifestazione della sua lunga vicinanza all’Associazione, e una rinnovata prova della sua amicizia con Leonardo Sciascia.
    Non ci soffermeremo sull’importanza dell’opera di Consolo per la letteratura italiana della seconda metà del Novecento, che è stata autorevolmente e ampiamente confermata dai numerosi articoli che la stampa nazionale gli ha dedicato in occasione della scomparsa. 
    Tra questi, vogliamo ricordare quello di Salvatore Silvano Nigro, presidente della nostra Associazione dal 2006 al 2009, pubblicato sulla Domenica de Il Sole 24 Ore del 22 gennaio. Al di là di ogni altra considerazione, l’articolo di Nigro – intitolato “L’ultimo maestro della triade siciliana” – è anche il ricordo di un gruppo di amici. Nel sommario, infatti, si legge: “Sciascia lo aveva ispirato, Elvira Sellerio lo aveva spronato a  scrivere, con Bufalino condivideva le risate…”. 
    E proprio un momento di irrefrenabile allegria di Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino seppe cogliere Giuseppe Leone in una fotografia, scattata nel 1983 a Racalmuto, che occupa una parete dello studio di Nigro, e di cui Nigro ha concesso la riproduzione al Sole 24 Ore.

    Altre fotografie scattate in quell’occasione sono state pubblicate nel numero monografico che la rivista Nuove Effemeridi dedicò nel 1995 a Vincenzo Consolo. Ma quella pubblicata sul Sole 24 Orepochi giorni fa colpisce per il suo carattere di perfetta istantanea, che cattura e consegna alla memoria collettiva un momento felice nella vita di un gruppo di amici: insieme ai tre scrittori e al fotografo, scrive Nigro, era infatti presente anche Elvira Sellerio.

    Come a Salvatore Silvano Nigro, anche a noi piace ricordare  – sia pure in un’occasione dolorosa come la scomparsa dell’ultimo dei tre – quel momento di travolgente, assoluta allegria nella vita di tre uomini – Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo – che sono stati, ciascuno con la propria distinta personalità, tre protagonisti della cultura italiana. 
    Al primo di loro – Leonardo Sciascia –  è intitolata la nostra Associazione; il secondo – Gesualdo Bufalino – ne è stato socio fondatore e primo presidente; il terzo – Vincenzo Consolo – ci è sempre stato vicino, tra l’altro donando il testo intitolato Sciascia: tra Goya e Dürer, che accompagna l’acquaforte-acquatinta di Antonio Calascibetta (Momò) intitolata “Qua Qua Ra Qua”, per la nona cartella “Omaggio a Sciascia” del Natale 2003. Lo riproduciamo di seguito in sua memoria.

    http://www.amicisciascia.it/cartella-n-9-v-consoloa-calascibetta-natale-2003.html

  154. hO CONOSCIUTO VINCENZO CONSOLO negli anni ’70, dopo che avevo letto il suo “Il sorriso dell’ignoto marinaio”. I nostri incontri, data la sua residenza a Milano e la mia a Palermo, non erano frequenti, ma affettuosi e rari. Assieme a Collura e Vilardo eravamo, sino all’altro giorno i quattro autori ancora vivi presenti nel libro “Cento Sicilie” curato da Gesualdo Bufalino e Nunzio Zago per la Nuova Italia. Già la perdita di Sciascia e Bufalino ci aveva impoverito e tanto. Ora che anche Vincenzo Consolo se ne è andato ho l’impressione che la Sicilia sia rimasta senza voce. Ma andarsene è nel destino di tutti, perciò grazie Vincenzo per quello che ci hai dato, per avere amato con noi questo Paese non sempre felice.

  155. Ho conosciuto diversi anni fa lo straordinario scrittore Vincenzo Consolo al premio Vittorini di Siracusa , mi colpì la sua umiltà e l’amore viscerale per questa sua terra d’origine, nonostante la sua malattia era puntualmente presente in qualità di presidente della giuria.Gli chiesi di appoggiare la candidatura al premio Nobel per Alda Merini , mi promise il suo personale interessamento. Adesso siamo rimasti orfani di un grande intellettuale conosciuto in tutto il mondo.

  156. Illo tempore conobbi Consolo in occasione del premio Miscia di Lanciano. Da allora uno stringato carteggio, consigli sul muovermi nel panoram letterario italino, confidenze di sconforti, sproni e altro. E’ stato per la mia vita di narratore una pietra miliare. Soprattutto mi ha insegnato e spronato sulla strada di questo percorso dello scrivere che è unico e non soggetto alle mode e interessi editoriali.
    Quindi, “Buon viaggio, don Vincenzo, la sua moneta più che sufficiente al tributo obbligato all’antico Caronte…”.

  157. Ho conosciuto Vincenzo Consolo a Messina….se n’è andato un pilastro della nostra letteratura, ma soprattutto una persona dolce, amabile e innamorata della sua terra…conservo con cura “Nottetempo, casa per casa” autografato per me tra le cose a me più care.

  158. Grazie mille per il tuo commento, cara Marilena.
    Ne approfitto per ringraziare anche Enrico Brambilla Arosio, Giuseppe La Delfa e Carmelo Pirrera per i loro contributi.

  159. Care amiche, cari amici…
    il 21 gennaio 2012 è venuto a mancare Vincenzo Consolo.
    A un anno dalla morte, rimetto in primo piano questo post dedicato alla memoria di questo nostro scrittore invitandovi a ricordarlo (con messaggi, commenti, citazioni e quant’altro riteniate opportuno).
    Come sempre, grazie per la collaborazione.

  160. “L’olivo e l’olivastro”, come metafora di civiltà e selvatichezza della terra di Sicilia… “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, sospeso tra pittura e letteratura, rievocazione anche linguistica di storie perdute…
    E poi.
    Il Premio Vittorini. E quell’uomo gentile, dall’eloquio garbato, con cui parlare di Silvana La Spina, amica comune.
    Troppo soggezionata per conversare di scrittura, dei miei tentativi di narrazione. Impossibile anche tributargli ammirazione, per me che me lo figuravo già nella storia letteraria, incredula d’averlo davanti.
    Quanto ci mancano, scrittori e uomini così.
    Sit tibi terra levis, Vincenzo Consolo.

  161. Uno scrittore da ricordare. Uno dei grandi del Novecento.
    Uno scrittore che ha visto il nuovo millennio e non ha rinunciato a stigmatizzarne la contraddizioni.

  162. Qui c’è un patrimonio immenso dedicato alla memoria di Vincenzo Consolo.
    Davvero un bel post.
    Voglio leggere tutti gli interventi.

  163. Ciao Massimo. Lodevole da parte tua ricordare Consolo. Credo che i grandi giornali e i grossi media ( salvo qualche eccezione ) se ne disinteresseranno, così come è avvenuto per Fruttero.

  164. Carissimi amici,
    il 21 gennaio dello scorso anno Vincenzo Consolo ci lasciava. Non era
    uomo che amasse le celebrazioni o le parate retoriche. Credo
    ricordiate anche voi la dolcezza del suo sguardo e la gioia timida con
    cui si ritrovava tra i suoi lettori quando, molto spesso alla libreria
    Hobelix, qui a Messina, presentavamo i suoi libri. Quindi osserveremo
    di buon grado la sua franchezza, il suo essere schivo ma ‘presente’ e
    il rifiuto della vana spettacolarità che, insieme a tante altre cose,
    ci accomunavano.
    Vincenzo mi manca, ci manca, e per ricordarlo, per averlo ancora con
    noi, il gruppo di amici e lettori di Mesogea, di Sabir e dei
    «Cappellai matti» ha pensato di organizzare una serata nel corso
    della quale, nelle sedi di Sabir di Messina e di Palermo collegate via
    skype, ciascuno interverrà con la lettura di un breve brano tratto dal
    libro di Vincenzo Consolo che più ha amato e che vorrebbe far
    ascoltare agli altri. Inoltre lo ascolteremo leggere le sue stesse
    pagine e avremo modo di rivedere dei filmati di alcuni dei suoi
    numerosissimi incontri con il pubblico.
    Una serata, insomma, in omaggio d’affetti e di pensieri a un grande
    scrittore e a un carissimo amico per ritrovare insieme le voci dei
    luoghi e delle città che si è portato sempre nella mente, nel cuore,
    nella creazione poetica e nell’impegno civile.

    Siete tutti invitati a partecipare (estendendo quest’invito a chi
    pensate possa essere interessato) a

    di qua dal faro, le voci dell’ignoto marinaio
    domenica 20 gennaio 2013, a partire dalle ore 18
    nelle sedi di Sabir
    a messina, in via catania n.62
    a palermo, in via catania n.13

  165. A Messina, saranno con noi e proporranno le loro letture:
    Carlo Guarrera
    Biagio Guerrera
    Maurizio Marchetti
    Massimo Barilla
    ‘I cappellai matti’
    Giovanni Raffaele

    ma la lista, ne siamo certi si allungherà, perciò scrivete a
    sabirmessina@yahoo.it per comunicare la vostra adesione e il brano che
    pensate di leggere (per i più timidi: nel caso non voleste farlo
    direttamente, uno dei ‘cappellai matti’ potrà leggerlo per voi.)

    vi aspettiamo, di qua dal faro!
    grazie
    affettuosi saluti

  166. Sono passati alcuni mesi dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, certo uno degli scrittori più affascinanti dell’ultimo cinquantennio. Ma per fortuna avremo da leggere ancora altri suoi libri, a cominciare da questo La mia isola è Las Vegas (Mondadori 2012, pagg. 250, € 19) che raccoglie cinquantadue racconti, tutti o quasi i suoi testi narrativi brevi. Sono testi molto godibili, che coprono un arco temporale molto ampio, dal 1957 al 2010; usciti in gran parte su quotidiani e su periodici, rimodulano la poco meno che leggendaria complessità dello stile di Consolo in una direzione fortemente comunicativa. D’altro canto vi ritroviamo tutta la ricchezza del suo stile: fra sapori dialettali, soprattutto ma non solo siciliani; lacerti di altre lingue; ampi strati di lingua colta, arcaismi, linguaggio letterario; franche, a tratti vertiginose discese verso la colloquialità. Ma la densità della scrittura di Consolo, lungi dall’essere riducibile alla sua lingua, è anche fatto strutturale, e mette radici nella capacità di unire una franca vena narrativa a molteplici altri modi discorsivi: dal saggio storico alla critica sociale, dall’indagine antropologica alle note di costume.

  167. Al cuore del discorso c’è la rappresentazione della Sicilia, a cui rimanda il titolo, ripreso da un racconto, dove il narratore è un carcerato, condannato al 41bis, che dichiara il proprio rimpianto perché, all’epoca dello sbarco degli Alleati, la Sicilia non è riuscita a diventare il cinquantunesimo stato degli Stati Uniti. Se così fosse stato, davvero avrebbe potuto diventare una specie di Las Vegas: cioè un luogo di gioco, di divertimento, di soldi a fiumi, di sesso facile e altro ancora. La nostalgia dell’ergastolano, è chiaro, va letta due volte a contropelo: perché non la possiamo condividere, e perché quel suo sogno mistificato ci rivela non tanto e non solo che cosa la Sicilia non è diventata, ma, ahimè, proprio quello che in qualche modo la Sicilia è invece poi davvero diventata.

  168. Metafora ad alta densità del mondo tutto, la Sicilia di Consolo oscilla fra il vagheggiamento di un luogo che avrebbe potuto conciliare bellezza storica e naturale, vitalità e cultura, desiderio e conoscenza, fra scampoli d’idillio e prefigurazioni dell’utopia, e la constatazione, addolorata e indignata, dell’orrore reale, fra violenza mafiosa e scempio edilizio, degrado di valori e distruzione del paesaggio. In questo libro si alternano tre tipi di narratore: un narratore lontano dall’autore, portatore di valori degradati, come si è visto; un narratore dai connotati autobiografici, ma dissimulati; un narratore apertamente autobiografico. È quest’ultimo tipo di narratore che spesso si mette al servizio della ricostruzione storica di episodi lontani, come la strage di Bronte del 1860 (E poi arrivò Bixio, l’angelo della morte) o recenti. Come, fra gli altri, nel memorabile Un filo d’erba ai margini del feudo, uscito su L’Ora il 16 aprile 1966, che rievoca l’assassinio mafioso del sindacalista Carmelo Battaglia. Ma anche nella rievocazione, intensamente ironica, della spedizione del Living Theatre a Cefalù, sulle tracce di Aleister Crowley, il santone decadente poi protagonista di Nottetempo, casa per casa.

  169. Troviamo in questi racconti, fra le altre cose, non solo il versante impegnato e tragico di Consolo, ma anche una linea apertamente comico-grottesca: nei vivacissimi racconti di costume (come La prova d’amore), o nei racconti fantastici, un filone finora semisconosciuto. Consolo si fa comunque sempre portatore di un’idea forte di scrittura: non ci si può accontentare di “narrare”, bisogna “scrivere”, che è tutt’altro. Nell’intensissimo Un giorno come gli altri, egli rifiuta la vecchia alternativa fra la vita e la scrittura: se “dopo Freud siamo tutti nevrotici”, dopo Marx “siamo tutti intellettuali, siamo tutti politici, siamo tutti ‘filosofi dell’azione’”. Una lezione di etica, e anche di politica, di cui continuiamo ad avere bisogno. (gianni turchetta)

  170. Quando un autore è grande, le opere che ha scritto sovrastano la morte.
    È il caso di Vincenzo Consolo.

  171. Carissimo Massi
    è una ricorrenza che in Sicilia sentiamo moltissimo. Ovunque convegni, commemorazioni, reading, ricordi di amici o di lettori affezionati.
    Questo drappello di palpitanti estimatori, sarebbe piaciuto tanto a Vincenzo Consolo. Perchè somiglia molto a quel vascello carico di pellegrini, raccontato ne “il sorriso dell’ignoto marinaio”, che il 12 settembre si recavano a Tindari per perorare Grazie alla Madonna Nera. Erano speziali, operai, artigiani, afflitti dal mal di pietra delle cave, e misteriosamente accompagnati dal Mandralisca (estimatore di Antonello da Messina ) e dallo stranissimo marinaio che conduceva la nave…
    Questo per dire come le storie entrano nelle nostre vite e come le nostre vite finiscono per assomigliare alle storie.
    Niente è più bello di questo peregrinare dalla letteratura alla realtà!
    Ed è per questo che dobbiamo essere grati a chi ci ha aiutato – e ci aiuta – a compiere questo misterioso viaggio.
    Grazie, Vincenzo Consolo!

  172. È bello scoprire dell’esistenza di questa convergenza per ricordare Consolo.
    Ancora saluti.

  173. Lo stimavo assai, il Consolo, caro Maugeri.
    E più volte me ne sentii affine col cuore e la mente!
    Ora lo commemoro con molta nostalgia, tempi andati, i miei e i suoi!
    Le scrissi una missiva nella sua posta elettronica, caro ragazzo, aiutato – ovviamente. Anzi, credo si dica una e-mail.
    Ora le aguro una notte dolce e riposante, caro Maugeri.
    Mi abbia suo
    (influenzato) professor Emilio

  174. stimolata da questo post ho acquistato il sorriso dell’ignoto marinaio di Consolo.
    Ecco, ci tenevo a dirvelo.

  175. Molto interessante “Esercizi di cronaca” edito da Sellerio. Non sapevo che esistesse.
    Grazie per la segnalazione.

  176. CRONACHE SICILIANE DI VINCENZO CONSOLO
    di Corrado Stajano


    T anti anni fa Vincenzo Consolo raccontò di quando, da giovane, correva alla stazione del suo paese natale, Sant’Agata di Militello, «ad aspettare il “mio” giornale, il giornale dell’altra Sicilia, quella vera e storica della cultura e della speranza: “L’Ora”. Dalla sua cronaca apprendevo ora con gioia, ora con raccapriccio, delle occupazioni delle terre, delle uccisioni dei sindacalisti, della mafia, di Danilo Dolci, di Li Causi».Il grande scrittore siciliano è morto il 21 gennaio dell’anno scorso a Milano, lontano dalla sua isola amata e disamata. L’editore Sellerio, per l’occasione, ha pubblicato in volume gli articoli che Consolo scrisse sull’«Ora» in diversi periodi della vita: Esercizi di cronaca, a cura di Salvatore Grassia, con una prefazione di Salvatore Silvano Nigro (pp. 243, 13). Negli anni, Consolo collaborò a diversi giornali, «Tempo illustrato», «Il Messaggero», il «Corriere della Sera», «L’Unità», «il manifesto», ma per lui «L’Ora» fu sempre la voce di casa, il foglio più consonante, «il mio giornale», appunto. E sarebbe stato forse questo il titolo da dare alla raccolta uscita adesso, di grande interesse per la biografia dello scrittore.È una lezione di umiltà per Consolo il giornalismo. Non aveva, nei suoi confronti, la puzza sotto il naso di tanti letterati che disprezzano e insieme ambiscono a scrivere sui giornali. «Altro che dorata e comoda distanza, altro che metafora della scrittura letteraria! Com’è difficile il mestiere di giornalista e di giornalista in una città come Palermo, e in un giornale come “L’Ora”» scrisse.Il linguaggio, nei suoi romanzi, è essenziale. Ma nei suoi articoli dimentica del tutto il suo espressionismo barocco, usa soltanto l’italiano limpido e chiaro. Collaborò all’«Ora» dal 1964 e seguitò a scrivere su quel giornale della sinistra fin quando chiuse i battenti. Nel 1975 ? stava per finire, inquieto, il suo capolavoro, Il sorriso dell’ignoto marinaio ? lavorò per sei mesi nella redazione del quotidiano. Seguì allora a Trapani, nel Collegio dei gesuiti diventato Tribunale, il processo Vinci, l’uomo accusato di aver ucciso a Marsala tre bambine gettandole in un pozzo, condannato all’ergastolo per quegli orribili delitti. Scrisse la cronaca quotidiana del processo, testimone illuministico delle doppie verità, dei misteri, delle menzogne, delle isterie popolari, tra la tragedia greca e la manzoniana Storia della colonna infame. Protagonista è sempre il dubbio, i suoi resoconti sono minuziosi, a Consolo non sfugge nulla, attento alle figure e ai comportamenti dei giudici e all’enigmatico silenzio dell’imputato. Sa rendere partecipe il lettore del clima di follia che in quell’estate africana divise la città. Conobbe non superficialmente Giangiacomo Ciaccio Montalto, l’umanissimo e colto pubblico ministero del processo, che il 25 gennaio 1983 sarà ucciso dalla mafia. A lui Consolo dedicherà sul «Messaggero» pagine doloranti e bellissime.Gli articoli sul processo Vinci ? cento pagine ? letti adesso sembrano un libro nel libro. Consolo scrisse sull’«Ora» di molti temi. Il rapimento Corleo, parente dei ricchissimi cugini Salvo, gli esattori di Salemi, una cupa storia di mafia, ma usando il lato comico del suo primo libro, La ferita dell’aprile, raccontò anche storie gogoliane di vita siciliana andando a vedere gli uffici di Palermo, lo Stato civile, l’Inps, le Imposte dirette, con i loro grotteschi capiufficio, gli ispettori, gli impiegati.Lontano dalla Sicilia, invece i suoi articoli sembrano le lettere a casa di un eterno emigrato. Che cosa succede al Nord? Anche questo: un contadino salernitano viene licenziato da un’azienda di Codogno perché sa parlare soltanto nel suo dialetto.Scrisse affettuosamente di Franco Trincale, il cantastorie siciliano, e di Gaetano Manusé, il bancarellaio dalla faccia araba che vendeva libri dietro l’abside della chiesa di San Fedele, a Milano, ebbe clienti illustri, Montale, Toscanini, Luigi Einaudi, la Callas e tra le mani una Vita di Alfieri postillata da Stendhal.Il 12 giugno dell’anno scorso, sul «Corriere», Cesare Segre, recensendo La mia isola è Las Vegas, il libro di racconti uscito postumo, scrisse tra l’altro che «al dolore della perdita si mescola la consapevolezza, anche, dei mutamenti che questa perdita ha implicato per il quadro attuale della narrativa italiana. Si sa che Consolo era tra le figure di maggiore spicco del romanzo di fine Novecento».Si sa ora che era anche un ottimo giornalista.

    Corrado Stajano
    Pagina 25
    (21 gennaio 2013) – Corriere della Sera

  177. Vincenzo Consolo: la ferita che non guarisce

    di Anna Vasta

    A un anno dalla morte di Vincenzo Consolo, è ancora aperta quella “Ferita dell’aprile”, libro d’esordio e di iniziazione (1963) a quel mestiere delle armi che è la letteratura e la vita che in essa prende forma e sostanza di verità, quasi a riparazione di un suo trasformarsi in altro da sé che ne amplifichi le potenzialità espressive. Espressiva, Consolo definisce la sua scrittura, distinguendola da quella comunicativa del realismo narrativo. “La scrittura espressiva ha un destino diverso, com’è per la poesia. La narrazione non cambia il mondo”- Evocativo di suggestioni eliotiane – “Aprile dei mesi é il più crudele, col germogliare/lillà da desolate terre,/ mischiando memoria e desiderio/resuscitando/morte radici con pioggia di primavere”- La ferita dell’aprile mescola memoria e desiderio e rinverdisce morte radici. da una realtà dura e desolata come zolle in inverno.

    Quello che pare un omaggio a Eliot, si configura come un pronunciamento di poetica, in cui prosa e poesia sconfinano l’una nell’altra, senza che la narrazione, la cronaca, la memoria collettiva e personale, perda in forza e convinzione di realtà, e senza che la tensione lirica si stemperi nei toni bassi della prosa. “Ho organizzato la mia prosa attorno alla forma poetica, seguendo un procedimento che riporta alle narrazioni arcaiche, orali, dove il racconto prendeva una scansione ritmica e mnemonica”. Nelle opere che vennero dopo, da Il sorriso dell’ignoto marinaio, sino a Lo spasimo di Palermo, senza tradire la sua vocazione alla verità dei fatti, senza venir meno a un modello di letteratura dell’impegno, Vincenzo Consolo sviluppò questa sua inclinazione alla visione, all’espressività della lingua, più che alla sua comunicatività, costruendosi un’identità linguistica che affonda in ancestrali reminiscenze, in un passato intrecciato di mito e di storia. Mito che assurge a fattualità storica, storia che si risolve nelle astrattezze paradigmatiche del mito. In un incontro con l’autore, a Giardini Naxos, confessai a Vincenzo Consolo di essere particolarmente legata tra i suoi libri a La ferita dell’aprile. Ne fu commosso. Mi disse che in pochi dei suoi lettori conoscevano quel libro, che egli sentiva profondamente suo, e che amava, come leopardianamente si ama quella stagione della vita, crudele e ingrata, che è l’adolescenza. Libro di una singolarità che stupì lo stesso Sciascia per le novità della lingua e dell’invenzione. Malgrado Consolo sottolineasse le ascendenze sciasciane -Le parrocchie di Regalpetra- di La ferita dell’Aprile, Leonardo Sciascia avvertì da subito che il figlio elettivo si muoveva in un mare aperto a nuove sperimentazioni che l’avrebbero portato lontano dal padre, come è nell’ordine delle cose, e come spesso accade in letteratura.

  178. Vincenzo Consolo, l’irrequietudine e il sigillo della scrittura

    di Natale Tedesco


    Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo, ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.
    L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi. Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione.
    In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli.
    Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta.
    In Sicilia, nell’arte dei siciliani, la contemporaneità si sposa con la classicità, per cui avviene quel bipolarismo tra il presente che viene mitizzato, e il mito che viene reso contemporaneo. In questo ambito lo sperimentalismo si configura ed esercita come una costante attenzione a ricercare soluzioni formali nuove, per insoddisfazione dei vecchi statuti, ma nel suo tendere al nuovo vuole costruire.
    La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa. In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza.
    Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si giuoca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

  179. Buona sera,

    Non conoscevo Vincenzo Consolo, pur essendo siciliana ,fino all’aprile 2012, quando il destino di mio fratello Vincenzo si è incrociato, per certi versi con lo scrittore che purtroppo non ho avuto il privilegio di conoscere da vivo.
    Entrambe “Vincenzo” ed entrambe finiti nel tritacarne mediatico di un personaggio gelese: il fraticida che lo scrittore menziona nel suo libro ” l’Olivo e l’olivastro” e per il quale lo scrittore fu portato in tribunale, con l’accusa di diffamazione.
    Ho letto qualcosa in merito, e penso cho lo scrittore sia per certi versi stato abbastanza fortunato ad avere avuto questa causa con il personaggio in questione , quando ancora non era giunto il momento dei social -network.
    Sto assistendo , impotente, alla mattanza mediatica che sta facendo su mio fratello Vincenzo il fraticida in questione , per diferndersi a modo suo e con il metodo di disinformazione che lui ben conosce al solo fine di trasformare in denaro le sue stesse colpe.
    Mi piacerebbe scambiare quattro chiacchere con qualche parente o amico che visse con lo scrittore quei momenti sicuramente difficili.
    La mia e-mail la conoscete ed eventualmente potete contattarmi, ve ne sarei grata.
    Grazie
    cordialmente
    Lucia

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