Il filo conduttore di questo post è il rapporto tra madre e figlia: uno dei più importanti tra quelli contemplati nell’ambito delle relazioni umane. Un rapporto non sempre facile, ma essenziale. Che muta nel tempo, ma che – alla fine (forse) – rimane sempre uguale.
Vorrei discuterne con voi insieme a due scrittrici (appartenenti a generazioni diverse) che hanno pubblicato – di recente – due testi di narrativa che, a mio avviso, sono collegati proprio dal tema che propongo in questa discussione: Sandra Petrignani (scrittrice notissima) e Dora Albanese (esordiente, ma già nota ai frequentatori di questo blog).
Introduco subito qualche domanda con l’intento di favorire la discussione:
Rispetto agli altri tipi di rapporti umani, cos’è che caratterizza quello tra madre e figlia?
È un rapporto basato più sulla complicità o sulla conflittualità?
Quali sono i rischi? E quali le opportunità?
Quali sono le fasi della vita (sia della madre, che della figlia) più delicate? Quelle che influenzano di più il loro modo di relazionarsi?
E come è cambiato il rapporto madre/figlia, in questi anni? Che differenza c’è – oggi – rispetto a venti, trenta, cinquant’anni fa?
Infine… che differenza c’è – a vostro avviso – tra il rapporto madre/figlia e quello madre/figlio?
I due libri protagonisti di questo post, in un modo o nell’altro, affrontano questo argomento.
Il libro di Sandra Petrignani è un romanzo intitolato “Dolorose considerazioni del cuore” (edito da Nottetempo). Ecco la scheda…
Dal suo rifugio sotto le coperte, Tina racconta a Vittoria, amica amatissima, persa e ritrovata, i fatti, il disordine e i ricordi degli anni in cui una brusca rottura le ha tenute lontane. Nel tentativo di ricondurre a un unico, ricorrente malamore i tanti modi in cui ha amato, Tina recupera dai suoi cassetti brani di romanzi incompiuti e li annoda alla testimonianza di un presente insopportabile. L’assistenza a due genitori anziani, incattiviti da una relazione infelice, riporta in superficie le sofferenze infantili e permette di ricomporre gli indizi di un antico rifiuto. Si delinea così l'”autobiografia di una borderline” dalla caotica vita sentimentale, nella quale gli affetti vivono di strappi e tormentosi ritorni. Eppure il cielo resta alto sulle rovine e una ricomposizione è possibile.
Dora Albanese, invece, per i tipi di Hacca, ha pubblicato la raccolta di racconti “Non dire madre“…
Attraverso il topos della maternità, Dora Albanese racconta tre metamorfosi sociali e culturali del Sud postbellico: la dura maternità della Lucania “interna”, ancora legata a feroci e dolcissimi stili contadini; la frustrata maternità piccolo-borghese di una Matera “piana”, dimentica della superba e misera civiltà dei Sassi; e, infine, la maternità delle nuove generazioni, sospese tra “ritorni al passato”, fastidi per un benessere di facciata, e goffi e ostinati tentativi di abbracciare il mondo, magari attraverso un altro topos di questo libro, quello dell’emigrazione. In Non dire madre il tema della maternità e della femminilità è ossessivamente indagato e sviscerato con franchezza, senza abbellimenti estetici e senza indulgenze; anzi, le donne di questo libro sono sempre colte in un estremo momento di quotidianità scoperta, finanche di buffa sciatteria. A Dora Albanese interessa il trucco che si scioglie sul viso, l’odore immediato della carne e della placenta, la calata delle maschere, l’emergere impietoso delle paure, delle viltà, dei sentimenti più immediati, senza temere né la crudeltà né il sentimentalismo – dilagante attitudine, quest’ultima, di un Sud che, a furia di recitare, ha pure imparato a recitare i sentimenti.
Seguono due recensioni: la prima, firmata da Stefania Nardini, riguarda il romanzo di Sandra Petrignani; la seconda, di Gianfranco Franchi, è relativa alla raccolta di racconti di Dora Albanese.
(Spero che Stefania e Gianfranco abbiano la possibilità di partecipare al dibattito).
Siete tutti invitati a discutere dei due libri e dei temi proposti.
Massimo Maugeri
P.s. Potete ascoltare le interviste che le autrici protagoniste di questo post hanno rilasciato alla trasmissione Fahrenheit. Quella di Sandra Petrignani è qui… quella di Dora Albanese è qui.
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Petrignani: la storia dell’età forte
di Stefania Nardini
A un’amica, un’amica mai perduta nonostante le pause che il tempo intransigente impone, una lettera vera, di quelle che vengono dal profondo del cuore. Da scrivere rannicchiandosi sotto le coperte.
Perché ci vuole uno spazio intimo. Caldo. Come quando i gatti decidono di stare da soli. Perché scrivere sotto una coperta significa mettersi a nudo. Lasciarsi andare alle emozioni, viaggiare senza soste ripercorrendo la propria vita, la propria storia.
Erano trascorsi tre anni da quando Tina si incontrò l’ultima volta con Vittoria. Una scelta? No. Piuttosto le circostanze, i cambiamenti, che spesso creano distanze che poi si rivelano apparenti. Tina per raccontarsi a Vittoria sceglie la parte di sé che meglio riesce a esprimere senza paure, filtri: la scrittura. Recupera romanzi incompiuti rimasti nel suo cassetto.
Creando un melange con il suo oggi. L’oggi di una donna matura che suo malgrado è portata ogni giorno a fare i conti con la sua vita, i suoi antichi problemi, i suoi mali. L’oggi di Tina sono i suoi genitori. Anziani, malati, sui quali il tempo implacabile ha tracciato un segno irreversibile, che si rivela in comportamenti discontinui, tra fantasmi del passato che cedono spazio all’universo fragile di chi da vecchio perde le difese.
Un romanzo, “Dolorose considerazioni del cuore” di Sandra Petrignani (ed. Nottetempo), che ha sicuramente un connotato generazionale che sboccia, pagina dopo pagina, nel racconto della protagonista, nel suo rapporto con una madre, tipica donna del dopoguerra, simile a tante altre madri dell’epoca: capace di amare e di fare male in nome di un “credo” conformista, in nome di una morale umorale, o per quell’esteriorità che si fa “veleno” da inghiottire nella vita quotidiana. Il mito del figlio maschio, la scuola dalle suore, il marito eroe da accettare comunque, l’uso di “parabole” per giustificare un semplice desiderio. E lei: la piccola Tina che cresce nel suo disagio che un giorno cercherà di superare con l’esperienza dell’analisi. Perché poi, come ci racconta bene Petrignani, la vita oltre al malessere costruito dal passato ti riserva quello della crescita, dell’esperienza, delle relazioni, dove tutto va e viene senza tregua. Si collezionano amori sbagliati che sembravano perfetti, si cede ai carnefici che ti vogliono vittima, si ama senza sapere dove si va…
Un libro da cui si evince un percorso esistenziale che giunge ad una maturità liberatoria, quando viene il momento in cui è la vita che si ricompone intorno alla propria storia. Ma è anche la fase del declino dei propri genitori, per i quali non resta che l’essenza dell’amore. Sono vecchi, dimenticano le cose, vanno accompagnati ovunque, accuditi, assistiti, e non possono far altro che abbandonarsi a una figlia che li ricorda come erano, per poi guardarli come sono.
Quando ascoltando la vecchia canzone “O main papà”, il padre si commuove e con Tina si ritrovano uniti dalle lacrime.
Sandra Petrignani che ha al suo attivo romanzi per i quali ha ricevuto importanti riconoscimenti, come “Care presenze” , “Ultima India”, La scrittrice abita qui”, giusto per citarne alcuni, con “Dolorose considerazioni del cuore” si dimostra ancora una volta una scrittrice di grande talento e di grande sensibilità, dote, quest’ultima, che esprime senza risparmiarsi mai. “Questo libro é nato dalla realtà di dovermi improvvisamente occupare di due genitori vecchi, non solo dal punto di vista accuditivo, ma anche pratico, economico – mi racconta. Uno crede di aver chiuso i conti con l’infanzia e invece una situazione del genere ti ributta addosso tutto, anche di più. Rileggi tutta la tua vita e i rapporti difficili con due persone che hanno determinato la tua vita e il tuo carattere…
Ho rovistato nei cassetti e ho davvero trovato manoscritti iniziati e lasciati lì in epoche diverse della vita. Ho riscritto ricucito inventato qualcosa (pochissimo).”
In questo testo emergono due sentimenti: il dolore e la grande gioia di vivere nell’amore, nel sentimento dell’amicizia. Sandra Petrignani ci lascia riflettere, ma ci regala anche la speranza di essere persone vere. Perché il dolore è come l’onda del mare. Va, viene. E quando c’è tempesta si infrange su quella scogliera che è la nostra esistenza. Una scogliera a tratti friabile. Là dove ha lasciato il segno tante, forse troppe, volte. Dove, appunto, c’è il cuore.
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Non dire madre: Dora Albanese
di Gianfranco Franchi
Prepotente come l’esordio di questo romanzo, di bellezza pari all’intensità e alla violenza dei sentimenti di una madre, della madre che racconta cosa significa dare alla luce un bambino, e cosa significa avere diciannove anni, in quel momento, ricordo d’aver letto poco, negli ultimi anni. Forse niente. La maternità è un mistero assoluto, per noi uomini; è solo il principio di una metamorfosi della donna che abbiamo amato e ameremo per sempre, è solo la sensazione di un evento fenomenale, incancellabile (e: giusto. Naturale, perfetto). E da quell’esordio in avanti mi sono lasciato andare, tra le pagine, come se fossi cullato. È strano, non ho accompagnato né guidato la lettura – sono stato, come dire, trasportato. Tutto a un tratto è cambiata la voce della narratrice, e ho scoperto che avevo di fronte una raccolta di racconti di una scrittrice lucana, classe 1985, esordiente; alle spalle qualche pubblicazione web e cartacea, qui alla sua opera prima. Ho guardato meglio la copertina di Maurizio Ceccato e ho sorriso. Mi sono accorto che nessuno mi stava cullando, e ho letto. Da letterato, ho apprezzato una gran sensibilità per i dialoghi, un grande amore per le proprie origini, un enorme orgoglio per Matera, per Stigliano, per le proprie radici; infine – magnifico – per il dialetto delle madri, per l’essenza di quella società contadina, matriarcale, tenace, forte. Ho sorriso di come mi s’era rovesciato tutto. Ho pensato al mistero della maternità, a quanto grande è questo enigma anche per le stesse donne che vanno a viverlo. È tanto grande che a un tratto narrarlo diventa impossibile: si devia nell’allegoria, si pasticcia col presente, ci si confonde tra un ricordo e un altro, si cerca una fine che non c’è (la fine è sempre una fortuna, un dono: ma è qualcosa di giusto, e naturale. Proprio come la nascita), si guarda nel lago delle proprie origini per dimenticare d’essere diventate origini voi, voi stesse donne. È bellissimo, e sbagliato (ma quanto è bello sbagliare? Quanto è sano?).
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Saluto l’esordio di una narratrice che farà scintillare la Lucania di vita nuova, nelle patrie lettere. Sarà come pioggia su una terra arida. Sarà madre di un canto di quella terra, di quelle persone, di quella cultura, che sin qua manca. E come spesso accade, saprà farlo meglio di chi vive lì, perché adesso lei da Roma osserva tutto con più chiarezza: sta interiorizzando e giudicando la sua vita, e la sua cultura originaria, e presto ne deriveranno nuove e grandi cose. Questo libro è il primo passo. È l’elegia dolorosa e magnifica della maternità, sin quando è romanzo. Poi, è prosa letteraria, espressione ancora d’una ricerca – d’uno stadio della ricerca. D’una ricerca di qualcosa che io non posso dire, non ne ho la prepotenza, né l’incoscienza; ma è qualcosa che Dora Albanese saprà plasmare.
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“Sarebbe bello uscire da questa camera e gettarsi nella pioggia, donare al buio il rosso delle mie ferite e il verde dei miei lividi, riempire dei miei capelli neri ogni fosso, tanto da annullare quest’annullarsi di colori, e appiattire tutto. Sarebbe bello, questa notte, ballare a piedi nudi e a braccia aperte, bagnata da gocce di pioggia, e affondare i piedi nella mia terra. Ho scelto di partorire in Lucania per dare in eredità a mio figlio le mie stesse origini. Ho sempre creduto, fantasticando, che Lucania fosse il nome di una madonna nata nei Sassi, e morta in quello strapiombo acquoso che è la Gravina”
(Dora Albanese, “Non dire madre”, p. 43).
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Tutto ha inizio nel reparto Ostetricia dell’ospedale Santa Maria delle Grazie di Matera. La narratrice, diciannove anni, sta per dare alla luce suo figlio; e intanto sogna di ritrovare le piccole cose quotidiane, di tuffarcisi e di non voltarsi più indietro; e il dolore la fa sentire “sgraziata” e “involgarita”. Sembra incredula lei stessa, che sempre s’era sentita libera ed emancipata, e aveva grandi sogni di libertà e d’incoscienza (ballare il flamenco a Madrid; ballare, e basta) tatuati sul polso (“duende”). È incredula, ferita e combattiva: le altre gestanti sono tutte più grandi, e hanno qualcosa di borghese (la responsabilità: la programmazione della vita, come fosse una cena) che lei proprio non sopporta. Non vuole interagire con loro, non vuole che osservino, giudichino, pensino. Non vuole che si rapportino a lei. “Che ne sanno, loro, di me? Che ne sanno del motivo per cui ho fatto un figlio a diciannove anni? Cosa ne sanno loro del perché ho scelto di sdoppiarmi proprio in questo ospedale, proprio in questa città, davanti agli occhi di tutti?” (p. 21).
La mamma deve starle vicino. Lei vuole. Già s’accorge che parla con quell’intercalare che si usa “solo da noi a Sud, un intercalare con cui presto dovrò prendere confidenza, anche se non significa niente, perché in questo momento avrei bisogno io di essere attaccata al seno” (p. 23). E poi allatta il bambino, davanti a tutti. Accetta d’essere madre. Sa che il bambino è anche frutto delle sue paure, “della mancanza di coraggio, della giovinezza e dell’inesperienza”; s’accorge d’avere paura del bisogno che il piccolo ha di lei.
Osserva sua madre. Cerca impossibili vie di fuga. Pensa. “Credo che mia madre abbia trascorso buona parte della sua vita a ingoiare tutto: i problemi famigliari, le incomprensioni con la suocera e le cognate, i problemi e la vita dei figli. La vita dei figli mia madre l’ha depositata, come un’ape regina, nella gola, e sta aspettando la carestia per ridistribuire i viveri” (p. 39). Pensa, prima di dormire, che è stato bello vedere la madre dormire al suo fianco. Adesso sarà difficile dire “madre”: essere madre annienta il sacrificio dell’altrui maternità.
Passa del tempo. Passano cinque anni. Riesce a crescere suo figlio senza l’aiuto di nessuno. Si sente una donna bella e sazia. Si sente simile alle mamme del Sud nella stanchezza e nei tormenti (“Mentre gli occhi scavano pozzanghere, noi madri teniamo sempre il pianto in bocca”, p. 50). Soffre perché suo padre non capisce; perché sembra offeso dalla sua scelta di vita, perché ripete che sua sorella più piccola può prendere il cattivo esempio. Vive a Roma, e trova pace nel paese che ha deciso sia la sua origine – il paese delle sue madri – Stigliano, terra di contadine forti e coraggiose. E condivide ricordi. Nonna che racconta di aver assistito a un parto in casa, e di aver visto ammazzare un bambino storpio; che racconta la disperazione dei poveri, e di come cercavano di abortire; di come sopravvivevano alle cose della vita. Con dignità, nonostante le eccezionali difficoltà: e con semplicità. E poi, ricorda un aborto accaduto senza che nemmeno capisse. Ricorda un’amica anoressica, a sedici anni. Ricorda come ha combattuto quel male. Ricordando il male, vince il male: lo nomina, lo domina.
Altrove. La sua storia d’amore è in crisi. Luca non ispira più senso di protezione. Lei vuole andarsene. Vuole liberarsi della fedina. Vuole andarsene portandosi via qualche libro di poesia, due vestiti, un caricabatterie. E poi perdona, si rimangia tutto, cambia idea. Lui le appartiene come la sua terra.
E da qui in avanti il romanzo scompare. Sembra di trovarsi di fronte a una raccolta di racconti vera e propria. Storie di amori più maturi, di un istruttore di scuola guida che si innamora di una suora, di una madre che parla della nostalgia di sua figlia, di povere donne meridionali emigrate a Roma in cerca di una fortuna che non c’è; di un vecchio amico che diventa donna, e per farlo finisce in coma, e se ne va; di squarci di Roma, dove “Il mio quartiere è una piazza, un piccolo paese nella metropoli. La Roma insonne e chiassosa non toccherà mai la mia piccola piazza in via La Spezia, e questa cosa mi rassicura”, in cerca d’una dimensione di paese che non c’è. Se vi pare.
Fonte: Lankelot
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VIDEOINTERVISTA A SANDRA PETRIGNANI
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BRANI ESTRATTI DAI LIBRI DI SANDRA PETRIGNANI E DORA ALBANESE
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da Dolorose considerazione del cuore di Sandra Petrignani (pagg. 60-61)
“Tina, che fai?”
“Tina, vieni qui”.
“Tina, non ti sporcare”.
“Tina, non stare in mezzo alla corrente”.
“Tina, mettiti il golf”.
Ero sempre nei suoi pensieri, non ero in nessuno dei suoi pensieri. Ero nelle sue parole, questo sí. Nel suo cuore no. Il suo cuore lo avevano preso i cacciatori, chissà quando. Era rimasta viva, apparentemente. In realtà non c’era piú, io non avevo mamma. Un simulacro dalla pelle liscia, dai capelli neri, dagli occhi brillanti, dalla bocca rossa. E le perle ai lobi delle orecchie.
Io gridavo “non andare via” ogni volta che si preparava a uscire e non poteva portarmi con sé, “non lasciarmi sola”. Gridavo senza voce, “resta con me”. Ero muta. La voce compressa sotto lo sterno.
“Tina, fa’ la brava, aspettami, torno presto,” come si dice a un cucciolo, un cane che piega la testa sconsolato.
Quanto dura “presto”? Che razza di misura è? Ore di abbandono e di solitudine. E quell’altra parola, “subito”, la piú bugiarda di tutte. Lei usciva e non tornava mai piú, tutte le volte.
“Non stare in mezzo alla corrente”, questo il viatico per affrontare la giornata e la vita. Correnti e umidità.
Precipitavo nel vuoto, e lei mi metteva la maglia.
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da “Non dire madre” di Dora Albanese (pagg. 18-19)
Oggi e pure domani, e per sempre credo, non sarò lo specchio di nessuno, e questo viso gonfio ricoperto da capillari rotti sarà la mia seconda faccia: di certo non mi dimenticherò mai di me, e ogni volta che mi specchierò vedrò dall’altro lato un miscuglio di carne aperta e di sudore.
Mio padre sbuca all’improvviso, inaspettatamente, davanti alla barella, e mi dice che è tutto finito e che ce l’ho fatta. Mia madre, invece, da lontano si asciuga le lacrime, e tiene fermo sulla bocca un sorriso che sa di disperazione.
Nonostante la sofferenza, il travaglio e i nove mesi di gravidanza, non mi sono mai sentita così lucida come in questo momento; nonostante abbia partorito senza alcun conforto chimico un bambino di quasi cinque chili, non mi sento affatto stanca, interiormente. È come se non fosse ancora successo niente, è come se il peggio dovesse ancora arrivare.
Adesso l’unico mio desiderio è riuscire a smettere di tremare come una rana, essere più dignitosa nell’aspetto e avere poca gente attorno.
Domando subito a mia madre, non appena mi si avvicina un poco, se ho gridato molto durante il parto; lei fa di no con la testa, e dice che non si è sentito quasi niente, e che sono stata forte e coraggiosa a non pretendere il cesareo.
In effetti è vero, credo anch’io di non aver gridato molto, anche quando l’ostetrica, mentre mi radeva i peli del pube, per sbaglio mi ha tagliato un pezzo di carne; sì, alla fine sono stata brava, ho solo sforzato la gola per sostenere il dolore come fece Cristo quando venne inchiodato al palo, ed è proprio a lui che ho pensato per tutto il tempo – però è sempre a lui che si pensa quando la sofferenza graffia nelle vene.
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da “Dolorose considerazione del cuore” di Sandra Petrignani (pagg. 76-77)
Eppure l’amavo. Io non sapevo niente, sapevo solo la forza del mio amore frustrato. Non sapevo la sua debolezza, la sua infelicità, la sua pazzia. La guardavo prepararsi per andare a una festa. La pelle perfetta. I capelli neri. Le perle bianche. Il lungo vestito frusciante.
Le spalle che restavano scoperte. Volevo baciarla.
Volevo sempre baciarla.
“No. Mi rovini il trucco”.
Baciami tu.
“No. Ho il rossetto”.
No no no. L’aria percorsa da elettricità. Non sapeva di essere bella. Sempre insoddisfatta. Sempre preoccupata di non essere all’altezza. Troppo elegante. Troppi vestiti da sera, troppe pellicce. A me piaceva la misura, mi piacevano le cose semplici, però l’ammiravo a bocca aperta. Era scintillante. Si trasformava come Cenerentola.
Anche la sua carrozza era finta, pronta a ritornare zucca. Lei lo sapeva e s’innervosiva. Che io le togliessi il rossetto.
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da “Non dire madre” di Dora Albanese (pagg. 28 – 29)
Entra la ginecologa senza chiedere permesso, e invita a uscire gli ultimi parenti rimasti in camera. La ringrazio con gli occhi, ma la dottoressa, che è donna e medico, capisce al volo il mio rifiuto. È stata lei ad assistere al parto, è lei che ha tagliato il cordone ombelicale gonfio di ossigeno, è lei che mi ha fatto molto male quando con le dita ha rotto le acque.
Anche mia madre viene allontanata dalla stanza e, prima di uscire, prende Alessio dal mio petto, e lo rimette nella culla.
– Non mi lasciare sola, mamma, aiutami, non abbandonarmi, non so cosa fare con il bambino se piange, resta con me, mamma, voglio stringerti la mano –.
Vorrei implorarla di rimanere, anche se non ne ho più il diritto.
“Rilassati, adesso” dice la ginecologa. Poi getta uno sguardo alla cartella clinica e continua a parlarmi chiamandomi per nome, come per farmi sentire al sicuro – proprio come accadeva a scuola quando la prof di matematica, per tranquillizzarmi, mi chiamava per nome per farmi svolgere le equazioni alla lavagna.
“Adesso, Erica, devi fare un ultimo sforzo. Chiudi gli occhi. Puoi anche mordere le lenzuola, se vuoi…”
mi dice rimettendo a posto la cartellina.
– Mamma, mamma, aiutami madre, madre aiuto, o madre sempre meno madre –.
Taccio, pensando al conforto materno che non arriverà mai.
Chiudo gli occhi come mi è stato detto, e trattengo le lacrime mentre la dottoressa continua a lavorare con distacco.
È giusto che io non dica mai più madre ora che il mio volto è racchiuso in una lacrima; è giusto che io non dica mai più madre, perché secondo lei, l’ho abbandonata prematuramente, e non ho apprezzato fino in fondo tutti i suoi sacrifici, anche se in realtà non è andata proprio così. Ho fatto un figlio punto e basta. Ho fatto di me una donna completa, ho messo le mani nella sabbia, e non la testa, come pure fanno molti a diciannove anni, e le conseguenze le pagherò io da sola, mentre i miei genitori lentamente si volteranno di spalle.
Il bambino dorme e io soffro, mi arrendo a quella donna che non porta sollievo ma altro dolore.
“Dobbiamo fare la spremitura dell’utero, durerà poco, ma devi essere forte, non possiamo permettere che si formino grumi di sangue, altrimenti bisognerà fare il raschiamento” dice mettendomi il palmo della mano sulla pancia ancora gonfia.
– Mi fai male, mi fai male, voglio morire, morire… perché non ho abortito… quella maledetta paura… avrei dovuto abortire… aia! aia! aia!… Voglio morire! –
Tengo i denti stretti, e piango ad occhi chiusi, mentre sto ferma e mi lascio torturare. Per il troppo pudore non getto neanche un urlo, e mi faccio spremere la pancia come fosse un’arancia, mentre tra le mie gambe scorre un fiume rosso.
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da “Dolorose considerazione del cuore” di Sandra Petrignani (pagg. 161-162)
Era seduta davanti a una tazza di latte.
“Non ha chiuso occhio stanotte,” dice Roda, “è preoccupata”.
“Preoccupata perché? Deve solo bere tanta acqua,” faccio io a voce alta in modo che lei senta. “L’azotemia si cura cosí, ha detto il medico. Se fosse una cosa grave, non si curerebbe con l’acqua”.
“Ho un tumore al cervello,” dice lei lasciando la tazza dove sta.
Cerco di ridere: “Ma che dici?”
“Ho paura”.
Le spiego con calma che non ha niente di terribile. È solo vecchiaia, vorrei aggiungere, ma non lo dico. Nessun tumore. Il cervello è un po’ lesionato, ma solo nella trasmissione dal pensiero alla parola. È una seccatura, lo ammetto. Ma sarebbe piú terribile che fosse davvero un cancro: operazioni, chemioterapia. Invece deve solo adattarsi a quella che è indubbiamente una menomazione, con cui però si può provare a convivere.
“Le parole crociate, non riesco piú a farle, nemmeno le piú semplici,” farfuglia disperata. La frase è quasi incomprensibile, ma ho imparato a ricostruire il senso dei suoi discorsi frammentati.
“Va bene, rinuncerai alla Settimana Enigmistica,” cerco tutta la dolcezza possibile per consolarla. “Farai altre cose”. Frugo nella mia mente alla ricerca di un’idea, la guardo. Ha i capelli in disordine, da un mese dice che vuole tagliarsi i capelli. Non le piacciono i parrucchieri del quartiere. E quello che era il suo parrucchiere, Roberto, è al centro della città, lontano.
Come fa ad arrivarci da sola? Penso alla riunione di lavoro che mi aspetta.
“Potresti andare da Roberto, per esempio. Se vuoi ti ci accompagno, ci sto andando anch’io”.
Ha un lampo di arresa incredulità negli occhi. Oppone resistenza per mettermi alla prova. “Devo vestirmi”.
Già pronta a rinunciare.
“Va bene, ti aspetto”.
L’aspetto nell’ingresso, leggiucchiando un giornale, dando occhiate corroboranti alla vetrata del terrazzo.
L’intrico verde delle piante è l’unico dettaglio dell’appartamento dei miei genitori che non ho mai sentito ostile.
Ricompare ancora in vestaglia e mi abbraccia. Improvvisamente mi abbraccia stretta stretta, e piange.
La sento piccola e fragile, me la ricordo piú alta di me, altera, fredda.
“Ho solo te,” dice chiaramente.
“E io ci sono e ti proteggo”.
Quell’abbraccio ha cambiato ogni cosa fra me e lei.
Mi propongo di tornare a sentire quell’abbraccio sul mio corpo ogni volta che sto per crollare.
Come ho scritto sul post il filo conduttore di questa discussione sarà il rapporto tra madre e figlia: uno dei più importanti tra quelli contemplati nell’ambito delle relazioni umane.
Ne discuteremo con due scrittrici (appartenenti a generazioni diverse) che hanno pubblicato – di recente – due testi di narrativa che, a mio avviso, sono collegati proprio dal tema che propongo in questa discussione.
Le due autrici sono: Sandra Petrignani (scrittrice notissima) e Dora Albanese (esordiente, ma già nota ai frequentatori di questo blog: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/14/i-cappuccini-del-mare-racconto-di-dora-albanese/ )
Il libro di Sandra Petrignani è un romanzo intitolato “Dolorose considerazioni del cuore” (edito da Nottetempo).
Dora Albanese, invece, per i tipi di Hacca, ha pubblicato la raccolta di racconti “Non dire madre”
Seguono due recensioni: la prima, firmata da Stefania Nardini, riguarda il romanzo di Sandra Petrignani; la seconda, di Gianfranco Franchi, è relativa alla raccolta di racconti di Dora Albanese.
Discuteremo sia dei due libri, sia del tema generale del post: il rapporto madre/figlia.
Seguono le domande finalizzate a favorire la discussione…
Rispetto agli altri tipi di rapporti umani, cos’è che caratterizza quello tra madre e figlia?
È un rapporto basato più sulla complicità o sulla conflittualità?
Quali sono i rischi? E quali le opportunità?
Quali sono le fasi della vita (sia della madre, che della figlia) più delicate? Quelle che influenzano di più il loro modo di relazionarsi?
E come è cambiato il rapporto madre/figlia, in questi anni? Che differenza c’è – oggi – rispetto a venti, trenta, cinquant’anni fa?
Sandra Petrignani e Dora Albanese parteciperanno alla discussione…
Seguo il blog da poco. Questo post mi interessa molto. Mia madre è morta pochi anni fa e mi è sempre rimasto il cruccio di aver lasciato aperto un rapporto irrisolto.
E’ un rapporto che cambia, come cambiano noi. Prima tu sei la figlia, poi ad un certo punto diventi la madre di tua madre.
A volte si va avanti facendo finta di niente. Si creano buchi neri che nessuno al mondo riuscirà a colmare.
Pensi che prima o poi lo farai. Che prima o poi riuscirai. Io sono arrivata tardi.
Scusate.
Non mi sento di rispondere alle domande. Solo alla 3.
C’è complicità, si, e anche conflittualità.
Se ci fosse solo l’una o l’altra forse sarebbe più semplice.
Invidio il rapporto madre figlio perché è più univoco, meno duale di questo.
Beh,un po’ mi dispiace di essere passata da qui oggi,troppo difficile l’argomento,rischio di scivolare sul personale,e chi se ne può fregare del mio personale?C’è già troppa gente che gira il dito nel proprio ombelico,ma tenterò di rispondere alle domande del nostro carissimo Massimo- oramai diventato per me come uno di famiglia,appuntamento giornaliero … –
Madre-figlia = lei oppure me?Lei e me? Io non sarò mai come lei. Me allo specchio, fra trent’anni sarò come lei?Direi proprio “conflittuale complicità”, vicine ma necessariamente distanti per poter crescere senza confondersi.
E questo è uno dei rischi:confondersi l’una con l’altra,cercarsi nell’altra,perdersi nell’altra,risolversi nell’altra. Eh,no, io non voglio essere come lei,ripetere le cose di lei che ho detestato,cerco di diventare l’anti-lei, meglio di lei?Colmare le sue mancanze? Sarebbe interessante a questo punto della storia chiedere a mia figlia di continuare le risposte …
Le fasi,sono quelle in cui diventiamo donne,il suo sguardo si fa più critico,in cui diventiamo mamme: forse anche lei non vuole specchiarsi in me? La sua vecchiaia, – nell’articolo molto bello sul libro della Petrignani ( che bella signora,oltre che ottima scrittrice,l’ho vista a Napoli negli incontri con A.Cilento) credo sia una fase estremamente delicata,-”dimenticano le cose” c’è scritto nell’articolo, confermo:dimenticano anche il male fatto,non lo riconoscono, non serve ricordarglielo,spiegarglielo.
Non servirà nemmeno a noi, a noi che siamo le madri che tutto spiegano, che sempre parlano, che stanno affianco, mai avanti o dietro. Poi leggi di una donna che la mamma non l’ha più e ti sembra doloroso,commovente, ma io non riesco ad immaginare un rapporto “risolto” con una madre,forse perché “irrisolto” significa anche ancora aperto e nonostante chi è che vorrebbe veramente chiudere questo indissolubile, viscerale rapporto?
Un abbraccio “materno” alle sorelle che passeranno da qui.
errata corrige=nonostante tutto.
Caro Massimo ,le tue domande portano inesorabilmente a parlare di sè.Da quando sono diventata madre è cambiato completamente il mio modo di relazionarmi con mia madre.Penso che questo succeda a tutte le donne, la maternità ci consente di “guardarci” in maniera differente.Il rapporto tra madre e figlia genera inevitabilmente conflitto, credo anzi che questo sia necessario per potersi identificare in ” altro individuo”.La conflittualità ,sebbene dolorosa e devastante, segna l’inizio della propria identità. Giustamente chiedi: Quali sono i rischi?Quali le opportunità?I rischi di un conflitto continuo, prolungato è di restare cristallizzati nel dolore.Gli studi degli psicoanalisti rimbombano di dolorose parole che testimoniano l’irrisolto conflitto con la madre, con l’Altro.
Oggi che sono madre e mi relaziono da madre mi chiedo spesso quali errori stia facendo. A volte, presa dall’urgenza delle risposte, interrogo le mie figlie adolescenti. Io non davo mai risposte a mia madre. E temo. Sto li’ ad aspettare una sorta di nemesi. Per fortuna non avviene.Forse perchè una buona memoria della propria storia ci può e deve aiutarci a costruire relazioni serene. Forse le figlie che abbiamo generato ci danno l’opportunità di essere migliori, di guardare al passato, inteso come un passato doloroso e sofferto, come un tempo appunto “passato” e “grazie al quale oggi ci possiamo permettere di provare per le nostre madri un sentimento trasparente, autentico, vero. Non piu’ intriso da problematiche devastanti. Ma un rapporto il cui contenuto,oggi, è fatto di comprensione , di tenerezza e di amore.
Sono reduce da una messa per mia madre (oggi sarebbe stato il suo compleanno) e il mio pensiero, proprio oggi, è andato al nostro rapporto. Fatto di passioni e di conflitti. Però ci tengo a sottolineare un aspetto importante del libro di Sandra. La questione generazionale. Nella madre descritta nel suo libro ci ho ritrovato attegiamenti, modi di essere di donne legate ad uno specifico periodo storico. Quelle che hanno vissuto la guerra, il fascismo, e la cultura dell’esteriorità. Dunque il tipo di conflitto da parte di figlie che anagraficamente si collocano in un’epoca in cui il percorso è stato liberatorio, si pone su piani diversi. Le donne della mia generazione, come quella di Sandra, o della sua protagonista, hanno pagato sulla propria pelle quella voglia di ESSERE con il dolore. Tante hanno scelto percorsi psicoanalitici, altre hanno adottato misure in certi casi estreme. Natiuralmente non si può generalizzare. Ma ecco che in età matura, quando come la De Bevoir credi che l’età forte ti ha fatto dono dell’equlibrio, tua madre, che intanto è una vecchia signora, ti butta addosso quel suo modo di vedere la vita da cui faticosamente ti eri distanziata. E lei, tua madre, raggiunge un formidabile eccesso nutrito di senilità. Ma la ami. Ti sacrifichi. Cerchi di darle ciò che solo tu puoi darle. E il dolore, l’antico dolore riaffiora.
Grazie Massimo, un caro saluto a tutti
Con ciò non voglio dire che oggi mi sento uguale a lei. No. A volte mi sento piegare in due dai ricordi dolorosi resi ancora piu’ dolorosi da una mancata condivisione con altri fratelli o sorelle,perchè il mio essere l’unica figlia ha reso tutto ancora piu’ difficile. E’ che oggi chiedo a me stessa una tregua, voglio guardare mia madre senza quella rabbia che “avrebbe” fatto di me una persona complicata e difficile.Voglio pensare a mia madre, giovane donna, impreparata a crescere una figlia.Voglio pensare a mia madre e alle sue sofferenze,senza più sentirne il peso della mia esistenza. Ho imparato a sorriderle, ho faticato tanto, ho scavato dentro me stessa cercando risposte che ancora faccio fatica a darmi.Ma la vita è la vita. La guardo invecchiata,e a volte temo…
Le sue paure sono le mie…..Le sto accanto, vado a cercarla, forse nella sua vecchiaia, vedo la bambina spaventata che è stata un tempo.Mi accorgo, pur nella complessità del nostro rapporto, fatto di abbracci mancati..e di parole non dette, mi accorgo dunque dell’unicità di questo rapporto. Del mio sguardo che cerca il suo. Mi conferma il mio esserci.Ad altro,oggi, non voglio pensare. Ciao Massimo grazie…
Intanto consentitemi di ringraziarvi tutti per i commenti pervenuti.
Questa discussione è appena partita e avrà modo di svilupparsi nei prossimi giorni…
@ Milena Locri
Cara Milena, intanto benvenuta a Letteratitudine! In secondo luogo… grazie per i tuoi interventi e per averci rivelato delle considerazione così “intime”. Grazie davvero.
@ Francesca Giulia
Cara Fran, grazie anche a te per i tuoi interventi.
Scrivi: “un po’ mi dispiace di essere passata da qui oggi, troppo difficile l’argomento, rischio di scivolare sul personale, e chi se ne può fregare del mio personale?”
Credo che parlare di noi sia importante. Credo, anzi, sia fondamentale (nell’ottica del sano confronto con cui tentiamo sempre di farlo qui) perché ognuno di noi è specchio dell’altro. Ogni riflessione che passa dalla nostra mente e dalla nostra anima, in un modo o nell’altro, attraversa gli altri. E lascia un segno. Un’occasione, appunto, per guardarsi… per riflettere.
Per questo ti ringrazio.
Cara Grazie, grazie di cuore anche te. (Valgano le stesse parole che ho espresso a Francesca Giulia). Grazie, cioè, per averci raccontato un pezzo della tua esperienza di madre e di figlia.
Carissima Stefania, grazie di cuore a te.
Il pensiero a tua madre, poiché oggi (ormai ieri… è passata la mezzanotte) sarebbe stato il suo compleanno.
Scrivi una cosa importante, Stefy: “ci tengo a sottolineare un aspetto importante del libro di Sandra. La questione generazionale. Nella madre descritta nel suo libro ci ho ritrovato attegiamenti, modi di essere di donne legate ad uno specifico periodo storico. Quelle che hanno vissuto la guerra, il fascismo, e la cultura dell’esteriorità. Dunque il tipo di conflitto da parte di figlie che anagraficamente si collocano in un’epoca in cui il percorso è stato liberatorio, si pone su piani diversi. Le donne della mia generazione, come quella di Sandra, o della sua protagonista, hanno pagato sulla propria pelle quella voglia di ESSERE con il dolore.”.
In un certo senso hai risposto alla mia domanda: Come è cambiato il rapporto madre/figlia, in questi anni? Che differenza c’è – oggi – rispetto a venti, trenta, cinquant’anni fa?
Mi piacerebbe conoscere anche l’opinione degli altri, a tal proposito…
Altre considerazioni…
Milena scrive: “Prima tu sei la figlia, poi ad un certo punto diventi la madre di tua madre.”
E Grazia ribadisce: “Le sue paure sono le mie…..Le sto accanto, vado a cercarla, forse nella sua vecchiaia, vedo la bambina spaventata che è stata un tempo.”
Mi domando (vi domando): quanto è importante (e quanto è doloroso) questo ribaltamento di ruoli?
Nel post ho aggiunto una nuova domanda:
Che differenza c’è – a vostro avviso – tra il rapporto madre/figlia e quello madre/figlio?
Spero, in tal modo, di incentivare gli interventi “maschili”…
Nei prossimi giorni interverranno anche Sandra Petrignani e Dora Albanese (oggi Dora si trova a Bologna per presentare il suo libro)
@ Sandra Petrignani e Dora Albanese
Prime domande per voi…
Come nascono questi vostri libri così particolari? Da quale esigenza?
E ancora…
Come vi siete sentite nel momento in cui avete “messo” la parola fine e dato il testo alle stampe? Più piene, o più svuotate? O che altro?
(Sempre per Sandra e Dora)
Vi invito – se vi va – a rispondere alle domande del post…
Una serena notte a tutti…
Domande che scavano dentro, queste e che possono portare a galla nodi non ancora sciolti, caro Massimo.
Ma prima di rispondere volevo dire che questa sera incontrerò Dora Albanese, che, come tu hai preannunciato, sarà a Bologna allo Zammù, una bella, calda caffetteria- vineria-libreria dove “Mai dire madre” verrà presentato da Giuseppe Merico e Barbara Gozzi. Guarda che coincidenza…
E adesso, vengo alle domande e provo, confusamente, a rispondere.
In generale credo che il rapporto madre/figlia-figlio sia unico, caratterizzato da quel fenomeno naturale che è la gravidanza e la nascita, da quel cordone ombelicale che, forse, non si recide mai.
In particolare, per lo specifico rapporto fra madre e figlia, credo che il fatto di appartenere allo stesso sesso, dovrebbe essere una sorta di valore aggiunto: dovrebbe essere più facile, per una madre (uso però il condizionale) a mano a mano che la figlia cresce, rivedersi in lei, capire i mutamenti sia del suo carattere, che della sua fisicità. Dovrebbe, ho detto, perché molto spesso questo non accade, e proprio perché si appartiene allo stesso sesso. Ed ecco che salta fuori la confittualità, che sovente caratterizza anche rapporti diversi da quelli genitoriali fra individui che appartengono allo stesso genere. Ma forse penso questo, perché io con mia madre, dall’adolescenza (che considero la fase più cruciale della relazione fra genitori e figli) in poi, ho avuto sempre un rapporto conflittuale. Rigettavo ogni suo consiglio, mi inalberavo a ogni suo rimprovero. E mi vien da pensare, ora, che dipendesse dal fatto che fosse una donna, proprio come me. In un certo senso, mi vien da pensare, mi imbarazzava che lei avesse potuto provare, o provasse, le mie stesse emozioni, le mie stesse passioni amorose, per esempio. In verità faccio fatica a continuare a parlarne. Sono cinque anni che ho perduto mia madre e penso a lei ogni giorno, molto di più di quando era in vita. Con rimorso, perché non sono stata una figlia né affettuosa, né facile (anche quando sono diventata, come scrive Milena, madre di mia madre avrei voluto essere una madre più amorevole, ma mi angoscia il suo decadimento, e quindi lo rifiutavo); con rimorso, quindi, ma anche con gratitudine, perché molto di quel che sono (l’amore per la lettura, la scrittura, la musica e l’arte in genere) lo devo indubbiamente a lei.
Oggi si parla molto di complicità fra madre e figlia: forse le cose sono cambiate, negli ultimi treant’anni; ho un figlio maschio con cui ho un ottimo rapporto, conflitti non ne vedo, ma forse bisognerebbe chiedere a lui. So che c’è una frase che faccio fatica a tollerare: quando sento una madre che dice “Sono la migliore amica di mia figlia”. C’è qualcosa di stonato, in questa affermazione. Tutto sommato penso che i ruoli debbano essere in un certo senso subordinati, senza togliere nulla all’amore infinito che la madre e la figlia provano una per l’altra. E bisogna capire bene il significato di “complicità”.
Proprio un post emotivamente difficile, caro Massimo…
P.S.: fra l’altro ho pronta anch’io una raccolta di racconti che avrebbe anche un titolo: Madri. Tutto, o quasi, basato sui rapporti madre/figlia, appunto. Tutto è trovare il coraggio di mandarlo a qualche editore…
Beh, me ne vado a nanna.
Buon risveglio a tutti.
Milvia
Un primo passaggio per salutare tutti.
Oggi, 15 dicembre, è il compleanno di mia madre (a proposito di coincidenze, come dice Milva- ciao Milva! A stasera… ^_^).
Anch’io sono ‘madre’. Ma di un bimbetto.
Prima ancora sono figlia.
Mi ‘manca’ una direzione, rispetto a questo dibattito. Vivo la traiettoria figlia -> mamma ma non il suo inverso.
Per ora volevo sottolineare un aspetto del libro di Dora Albanese, un aspetto che trovo importante. Le ‘madri’ narrati sono tante. Le ‘madri’ sono tali in tanti modi. Ma soprattutto: non si negano nulla. Non cedono ai cliché, alle imposizioni sociali. Essere madre è anche sacrificio, fatica, rinunce, scelte, cambiamento di fondamenta. E tutto questo nella lingua di Dora si sente a pelle.
Buona giornata!
Ho scritto di rapporti madre/figli in “Dolorose onsiderazioni del cuore” e in “Care presenze” dove ho infilato storie diverse (un rapporto madre/figlia tutto sommato positivo e uno madre/figlio devastante). Non credo che si possa generalizzare. Personalmente ho un rapporto con mio figlio (ventiseienne) meraviglioso, fatto di amicizia, complicità, sostegno reciproco, ironia. Ed è stato così sempre, anche durante la sua adolescenza, che tutti definiscono un’età critica per i rapporti genitori/figli. Io invece ho avuto un rapporto dolorosissimo con mia madre, mai risolto. Ho difficoltà a parlare del tema in termini razionali, saggistici, diciamo. Quando un tema mi tocca profondamente ci scrivo su una storia, e credo così di dare davvero il meglio di me, come persona e come intelligenza. Posso riapondere a domande dirette su fatti precisi, se qualcuno vorrà farmene. Partendo dai libri magari
Bello leggere i post degli altri su un argomento che mi sta così molto a cuore.
A Sandra Petrignani.
Cara Sandra, ho letto alcuni dei suoi libri e la ammiro molto. Durante le festività natalize leggerò ‘Dolorose considerazioni del cuore’.
Volevo chiederle se quando scrive pensa mai a chi la leggerà, se pensa mai che tante persone si troveranno nelle sue parole, nelle sue storie. Glielo chiedo perché per me è una cosa bellissima.
Grazie e tanti complimenti.
Cercherò di leggere anche il libro di Dora Albanese, di cui si parla così tanto bene.
Complimenti alle due autrici per i loro interessantissimi libri. Conto anch’io di leggerli al più presto.
Le domande di Massimo sono particolarmente difficili e stimolanti. Provo a rispondere.
“Rispetto agli altri tipi di rapporti umani, cos’è che caratterizza quello tra madre e figlia?”
Avere un destino comune. Quello di essere state entrambe figlie e quello di essere, nella maggior parte di casi, entrambe madri. Credo che questa considerazione sia essenziale.
“È un rapporto basato più sulla complicità o sulla conflittualità?”
Entrambi gli elementi sono presenti, a secondo dei periodi e delle situazioni. Si potrebbe dire che è un rapporto conflittualmente complice.
“Quali sono i rischi? E quali le opportunità?”
Il rischio è quello di non capirsi per troppo amore. L’opportunità è quella di amarsi nonostante le incomprensioni.
“Quali sono le fasi della vita (sia della madre, che della figlia) più delicate? Quelle che influenzano di più il loro modo di relazionarsi?”
La fase dell’adolescenza della figlia, senz’altro. Ma anche quella della vecchiaia della madre, quando si ribaltano i ruoli.
“E come è cambiato il rapporto madre/figlia, in questi anni? Che differenza c’è – oggi – rispetto a venti, trenta, cinquant’anni fa?”
Negli anni Settanta le donne combattevano per un ideale di parità. In quegli anni le differenze generazionali erano assai più forti. Oggi, non so. Mi sembra tutto molto annacquato e confusionario.
“Infine… che differenza c’è – a vostro avviso – tra il rapporto madre/figlia e quello madre/figlio?”
Il rapporto madre/figlio è molto più a senso unico, in genere. E per questo meno conflittuale.
Grazie a tutti per le occasioni di riflessione.
Passo, intanto, per salutare e ringraziare l’amico Massimo, e l’artista Dora. E’ stato un onore essere al suo fianco nel corso della prima presentazione romana. Ogni migliore auspicio – ancora – a questa sua creazione.
carissima Sandra Petrignani, sono una sua lettrice. Le scrivo solo per ringraziarla per la grande emozione che mi ha suscitato la lettura di questo suo romanzo “Dolorose considerazioni del cuore”. E’ una storia che tocca nervi scoperti in molte di noi e mi permetto di consigliarne la lettura a tutti, donne e uomini.
un caro saluto a Dora Albanese, che avrò il piacere di scoprire, e a tutti i partecipanti di questo bel forum.
amelia corsi, guarda che non è così vero che il rapporto madre/figlio è meno conflittuale di quello madre/figlia. perché sostieni questa tesi?
secondo me è tutto relativo. cioè, dipende dai casi.
Il post è interessante. Sarebbe bello poter leggere qualche brano tratto dai libri……
Segnalo questo link che è in tema con la discussione http://www.margherita.net/salute_donne/psicologia/madri.html
Saluto Massimo Maugeri, Sandra Petrigani, Dora Albanese e tutti.
Credo che ci siano stagioni nell’essere madre e figlia di madre.
Non c’è mai solo un modo o un tempo per essere figlia. Nè per essere madre. E’ un intreccioso e segretissimo nodo di perdono e non perdono.
Ed è sguardo.
Da piccola non guardavo mia madre. Non pensavo a imprimermela nella memoria.
Adesso le guardo gli occhi. Le rughe. La fragilità di alcuni momenti.
Adesso guardo il calendario.
E se affiora – feroce – la tenerezza, la nostalgia, il ripensamento(anche) del nostro passato, adesso mi riconcilio con tutto, non perchè sono, anch’io, madre.
Ma perchè voglio rimanere sua figlia più a lungo possibile.
—
Un grazie alle bravissime autrici e un bacio di buona notte a voi tutti
il problema del rapporto della donna con la madre, e della madre con la figlia, è che la disidentificazione con la maturità, il divenire adulte come soggetti separati e con un identità propria è più difficile e ha bisogno di una specie di gesto psichico eclatante, che al figlio maschio non tocca: la madre ci cresce entrambi, ma il figlio è altro appunto. E’ l’opposto. La figlia è l’identico. Sicchè maturare per noi donne implica questo momento di scazzo tremendo, che in alcune spesso non si compie mai del tutto. E’ sempre un tragitto un po’ complicato. Il parallelo è quello del figlio col padre, non del figlio con la madre. Ma siccome allo stato attuale dell’evoluzione culturale il padre interviene più tardi nell’educazione del bambino, lo scontro può essere meno forte, meno viscerale.
Ti identifichi, poi rivendichi la tua soggettività, e ti arrabbi per separarti, per permetterti di crescere ed essere soggetto e non sempre depandance di altro soggetto e – quando ci riesci sei pronto a perdonare e a riamare – una cosa un po’ hegeliana, a pensarci.
Quando il perdono e la vicinanza emotiva non ci sono, allora qualcosa è irrisolto.
Grazie mille a tutti gli intervenuti.
In questo momento, mentre scrivo, Dora Albanese si trova a Bologna a presentare il suo libro.
Voglio il resoconto della serata! 🙂
Sono giunti altri nuovi interessantissimi spunti.
Quello di Milva, per esempio… quello di Barbara… e ancora: Milena, Amelia, Sonia, Lorella.
Grazie a tutti.
Gli uomini – com’era inevitabile – sono in netta minoranza. Dunque un ringraziamento particolare a Gianfranco Franchi per essere passato (torna, eh!), a Mimmo (benvenuto) e a Marco Vinci.
Sandra Petrignani è già intervenuta… grazie, Sandra.
Sottolineo questo tuo passaggio: Personalmente ho un rapporto con mio figlio (ventiseienne) meraviglioso, fatto di amicizia, complicità, sostegno reciproco, ironia. Ed è stato così sempre, anche durante la sua adolescenza, che tutti definiscono un’età critica per i rapporti genitori/figli. Io invece ho avuto un rapporto dolorosissimo con mia madre, mai risolto.
Zauberei, nel suo commento (nel ruolo di psicologa… grazie cara!) evidenzia le differenze tra il rapporto madre/figlia e madre/figlio.
Simona, invece, dice (grazie anche te): adesso mi riconcilio con tutto, non perchè sono, anch’io, madre.
Ma perchè voglio rimanere sua figlia più a lungo possibile.
Mi pare che sono pervenuti spunti molto interessanti…
Ho aggiornato il post inserendo un video con Sandra Petrignani… dove Snadra ci parla del libri e legge qualche brano.
Lo trovate in alto, alla fine del post.
Purtroppo su YouTube non sono riuscito a trovare video con Dora.
Ma la voce di Dora potete ascoltarla su Fahrenheit:
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=303348
–
Così come quella di Sandra:
http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=275617
Mi ero dimenticato di farvi notare che Sandra Petrignani, Dora Albanese, Stefania Nardini e Gianfranco Franchi… sono tutti presenti nella raccolta “Roma per le strade 2”:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/10/26/citta-per-le-strade/
http://www.azimutlibri.com/dettagli/dettaglio_general.php?id=274
Meglio non farvelo notare, però… magari qualcuno penserebbe che voglio fare pubblicità alla raccolta…
(Sorridete!… è obbligatorio!)
🙂
@ Sandra Petrignani
Sandra, parlaci della scelta del titolo… perché ‘Dolorose considerazioni del cuore’?
Per oggi chiudo qui.
Auguro una buona serata e una serena notte a tutti.
interessante argomento, il mio vissuto lo ha visto protagonista della mia infanzia e della mia adolescenza: assenza-presenza di una madre ingombrante, incapace di capire sua figlia, le sue figlie, tutta dedita all’unico figlio maschio.
di lei ricordo le spalle quando rimanevo sul portone che immetteva nel lungo, buio corridoio dell’istituto dove eravamo “ospiti” io e mia sorella minore… la pesante porta che si richiudeva imprigionandoci di nuovo.
Bambine infreddolite e insicure, racchiuse su sé stesse a confortarsi invano, nel gelo delle regole troppo rigide per avere soltanto sette anni…
fino ai quattordici, sette anni di esclusione, di non baci e non carezze, di non capelli pettinati con amore.
mai quella signora vestita all’ultima moda ebbe un uno slancio per riportarle a casa, contava molto di più il suo mondo di amici e amiche in cui sentirsi sempre la più bella, la più intelligente, la più amata.
Poi non bastarono altre assenze, molto più gravi, assenze che impedirono perfino di fare le domande giuste a una figlia suicida, scampata solo per miracolo a violenze e a un volo dal quarto piano…
ecco…sarà sufficiente a dare un senso a un’oscurità mai dimenticata?…
Mimmo, credo che per me ti abbia risposto Zauberei con cui concordo.
Trovo toccante il commento di Cristina Bove, perché in parte mi ci rispecchio. Ci sono certe ferite che rimangono aperte e che è difficilissimo far rimarginare.
E’ la prima volta che partecipo a un blog di questo tipo, in diretta insomma. E’ molto impegnativo. Le domande, le riflessioni sono tante, complesse. L’umanità delle persone che intervengono esposta e sincera. Ringrazio tutti, a cominciare da M. Maugeri che mi dà la possibilità di entrare in contatto con tutti voi. A certe domande fra il sociologico e lo psicanalitico non sono in grado di rispondere, direi banalità. A domande più semplici e sulla scrittura, invece, rispondo volentieri. Per esempio, Milena Locri mi chiede se penso al lettore quando scrivo, a quanto si riconoscerà nelle mie storie e parole. Sinceramente no, non ci penso. Penso a come posso esprimere quello che voglio esprimere nel modo più preciso possibile, in modo che chi legge non mi fraintenda. Poi però, ogni volta che incontro o parlo con un lettore/lettrice scopro che si aprono nuovi mondi, e questo è bellissimo. Quando dopo tanti anni, magari, dall’uscita di un mio libro qualcuno mi dice che quel romanzo l’ha segnato e me lo porta tutto stropicciato perché io lo firmi, mi commuovo. Non è narcisismo, credetemi. E’ pura felicità di un incontro. E’ sapere di non essere soli a sentire in un certo modo, è condivisione. Si scrive per tanti motivi: voglia di raccontare una storia perché ci piace la sua dinamica, semplice desiderio di giocare con le parole, bisogno di tirar fuori un dolore antico, ambizione e chi più ne ha più ne metta. Ma poi, quando un libro c’è, nella sua verità e concretezza, solo le risposte dei lettori gli danno senso. E quando il senso dei lettori coincide o completa il senso voluto dall’autore, allora sì, si può dire che l’operazione è riuscita, che scrivere quell’opera non è stato inutile.
Sul titolo “Dolorose considerazioni del cuore”: è un verso di Puskin citato da Evghenia Ginzburg in un bellissimo romanzo autobiografico sui gulag, “Viaggio nella vertigine” che purtroppo credo non si trovi più. Il verso completo dice: “Fredde considerazioni della mente e dolorose considerazioni del cuore”. Siccome nella vita pendo decisamente per “le fredde considerazioni della mente”, in questo libro ho voluto deliberatamente sbrigliare la parte sentimentale della mia personalità. Ora vado a scegliervi qualche brano da leggere qui nel blog. A presto
Cara Sandra La ringrazio molto per la risposta. Quello che ha scritto è bellissimo. Ed è altrettanto bello potersi incontare qui.
complimenti anche da parte mia alla petrigani per il post.
per amelia corsi e zauberei.
quando dico che tutto è relativo la faccio sulla base della mia esperienza. anche quella indiretta. conosco madri e figli (maschi) che non si rivolgono più la parola e madri e figlie (femmine) che sono pappa e ciccia.
tutto è relativo, dunque, e la differenza tra i sessi non mi convince più di tanto.
Mimmo certo che tutto è relativo e molto più complicato. C’è una bibliografia sterminata su queste cose. La varietà però non disconferna, la varietà riferisce solo di altri itinerari individuali, che non hanno a che fare per esempio con i processi di identificazione e disidentificaizone. Quello che voglio dire è che il rapporto tra madre e figlia non si connota per un quantum in più di conflittualità – se non forse per un certa fase del percorso adolescenziale, quanto per un problema specifico di disidentificaizone. Il che non nega la possibilità di altri conflitti dettati da altri itinerari e altre problematiche. In una cultura come la nostra in cui la differenza sessuale segna in maniera decisiva la distribuzione dei ruoli nella genitorialità, credere che questa sia relativa – è quanto meno illusorio.
mah, sono d’accordo con zauberei. la mia impressione poi è che le madri sono più pazienti con i figli maschi che con le figlie femmine. non so se questa impressione è condivisa…..
Una serata interessante, quella di ieri sera, allo Zammù di via Saragozza, a Bologna, dove Dora Albanese ha presentato il suo “Mai dire madre”. Una serata ben condotta da Giuseppe Merico e Barbara Gozzi e organizzata dalla Casa Lettrice Malicuvata.
Ho avuto così il piacere di conoscere l’autrice di questa raccolta di racconti (che, come è stato evidenziato durante la presentazione, potrebbe essere un romanzo a puntate). Se scrivo “piacere”, non è solo una formula di mera cortesia, ma è la verità, perché trovo Dora una donna ricca di sensibilità e ben consapevole del percorso che l’ha portata a scrivere “Mai dire madre”. Libro che nasce sia dalla sua esperienza di madre giovanissima, sia dal coloquio con tante altre donne del Sud, che appartengono, quindi, alla sua stessa terra d’origine. Ha uno sguardo lucido, Dora, sulla situazione della donna-madre. La donna, dice Dora, è condannata a generare, l’uomo a essere generato. Soprattutto nel Sud madre significa ancora senso di colpa, ricatto, rinuncia. E una riflessione va anche alle cosiddette madri assassine. Essere madre può contemplare anche la paura di far del male al proprio figlio, perché, qualunque sia la situazione individuale, nell’esperienza della maternità la donna è essenzialmente sola e fragile, e può, all’interno di questa sua fragilità, a causa di questa sua solitudine, diventare feroce.
E ancora: essere madre è dilatazione della carne, e il parto è una sorta di prima morte. Leggendo, mentre rientravo a casa in autobus, le prime pagine di “Non tremare”, racconto che apre la raccolta, ho ritrovato la sua affermazione nella descrizione, narrata in prima persona, del parto di Erica. Dora possiede una onestà, nella scrittura, veramente notevole.
Racconta le cose come davvero sono, con un linguaggio privo di fronzoli letterari, che può sembrare crudo, anche, ma che non mistifica la realtà. In molti punti, ci ho trovato la mia, di esperienza.
Insomma, Dora Albanese mi è piaciuta molto, come persona, e mi sta piacendo molto come narratrice.
Ora non mi resta che leggere il romanzo di Sandra Petrignani. Ancora grazie di cuore a Massimo, per avermi dato la possibilità di conoscere due nuove, per me, autrici, e per avermi dato la possibilità di riflessioni su un argomento veramente complesso.
E un forte abbraccio a Dora, naturalmente, che ringrazio anche per la bella dedica che mi ha scritto sul libro.
Fra poco pubblicherò qualche foto della serata nel mio blog, magari poi metterò qui il link.
Post che tocca nervi scoperti e ferite ancora sanguinanti…
Grazie a Sandra Petrignani e a tutti gli altri ospiti, a Cristina Bove per il suo commento così asciutto ma intriso di dolore.
Simona, anche io voglio restare figlia il più a lungo possibile… il tempo scorre e fugge ed è anche terribile pensare che di quella mamma un giorno saremo madri, perché magari avrà bisogno di noi come noi abbiamo avuto bisogno di lei pur sentendo la necessità dolorosa della differenziazione.
Anche allora desidereremo essere figlie per sempre, come si è madri per sempre, senza sconti, fine amore mai, tanto per parafrasare l’ergastolo. Che qui è pena d’amore, nel senso latino di “cura”: preoccupazione, affetto, cura in sé, vicinanza, responsabilità, empatia…
Grazie Zaub per le tue considerazioni che condivido in toto.
Ecco il link al post dove ci sono alcune foto della presentazione del libro di Dora:
http://rossiorizzonti.splinder.com/post/21888520/Mai+dire+madre%3A+un+libro+da+le
Le foto sono alla fine del post.
Eccomi di ritorno da Bologna.
Dalla mia postazione romana proverò a rispondere alle tue domande caro Massimo.
Voglio prima ringraziare te e in particolare Milvia (signora fantastica) Barbara Gozzi che ieri sera è stata meravigliosa… e tutte le persone che mi seguono…
Questa mia raccolta di racconti il cui titolo è cara Milvia “Non dire madre” 😉 nasce dal desiderio di raccontare la maternità attraverso i suoi aspetti più feroci e inconfessabili. Mi riferisco alle paure che una donna si porta addosso durante i nove mesi di gravidanza, per non parlare del travaglio, e dell’allattamento.
Mi riferisco pure al fisiologico rifiuto che in alcuni casi la madre ha nei confronti del nascituro subito dopo il parto: “perchè il dolore è ancora troppo forte per poter gioire”.
Ho anche provato a lanciare un messaggio chiaro a tutti gli uomini che credono che per la donna essere madre è una condizione talmente naturale che non prevede “imprevisti”.
E’ pure vero che per molte donne la maternità è un’esperienza fantastica, ma dipende sempre dalle circostanze.
Io scrivo e penso che fare un figlio a vent’anni prima di un lavoro fisso, della laurea e dell’acquisto della prima casa, cioè, prima di avere delle certezze, è una vera e propria scelta di vita.
Fare un figlio alla fine di un percorso di vita ben definito, può essere la classica ciliegina sulla torta che non guasta mai, e che non comporta alcun rischio.
Con questa prima breve riflessione vi saluto e abbraccio Sandra Petrignani che stimo molto.
@Dora: stima che ricambio. Hai una grande forza, immagini che restano impresse, coraggio di dire il lato oscuro e sgradevole delle cose.
Rispondendo al desiderio di una delle signore che stanno intervenendo nel dibattito, riporto un brevissimo brano tratto dal romanzo di Mavie Parisi “E sono creta che muta” edizione Giulio Perrone, Roma, che è uscito in questi giorni.
“Un bel giorno attraverso strade e vicoletti che solo il destino conosce, i suoi quadri vennero notati dal proprietario di una grossa galleria di Roma, che le organizzò una mostra proprio nella capitale.
– Benedetta, possibile che non hai ancora chiuso la tua valigia? Finiremo col perdere l’aereo. [ ]
Benedetta invece era stata irremovibile, aveva voluto seguire Kita in questa cosa. [ ]
– Ti sei ricordata di prendere la macchina fotografica, mamma?
– Sì, sì. Ce l’ho qui nella borsa.
Benedetta non voleva perdere neanche un istante di questo viaggio. Era eccitatissima, quanto o più di Kita.
– Hai messo in valigia il vestitino viola? Ti sta così bene. Sarà perfetto per domani. [ ]
– Mamma, da grande voglio essere come te.
La voce familiare e dolcissima di Benedetta la distolse dai pensieri.
La guardò con gli occhi che sorridevano per questa affermazione ingenua e buffa, e in quel momento sentì che nessun attimo della vita era andato sprecato, neanche quelli che le avevano procurato sofferenza.”
Il brano descrive un rapporto affiatato tra madre e figlia, in cui bastano poche parole per capire l’intesa e l’unione che c’è tra le due e per far capire a Kita che l’amore di una figlia può asciugare ogni lacrima.
Maria Rita Pennisi
Credo che il rapporto madre- figlia sia sempre speculare ed è proprio questo che nella maggioranza dei casi lo rende difficile. Ci sono momenti in cui lo specchio ti manda una immagine armonica e perfetta, ci sono occasioni invece in cui l’immagine ti appare deformata. Ed ecco le difficoltà. Da secoli si favoleggia sull’amore materno come istintivo e primordiale, ma i casi di cronaca denunciano chiaramente che qualche volta le cose non stanno così, ma restiamo nella normalità delle cose, quando cioè i rapporti madre- figlia sono basati sull’amore reciproco. Sono sempre difficili e più grande si fa la figlia e più difficili diventano. Ci si trova ad essere due donne a confronto, due padrone di casa, due persone che sottilmente vorrebbero gestire la vita dell’altra. Restare nei ranghi, rispettarsi non è cosa da poco. Forse solo la cultura può venirci in aiuto, può farci capire che i tempi cambiano, che la differenza generazionale ora è più profonda che mai, che nostra figlia non è nostra, ma è una persona con le sue fragilità, il suo egoismo, la sua dolcezza e la sua disponibilità. Penso che quando ero ragazza il compito delle mamme fosse meno arduo, perché ci dicevano cosa potevamo fare e cosa no e alla nostra domanda perché, rispondevano perché te lo dice la mamma. La sera dopo il carosello si andava a letto e tutto era a posto. Le ragazze vivevamo di letture, dischi e chiacchierate al telefono, ma adesso i tempi sono cambiati ed essere delle mamme efficienti è molto difficile. Le strade da percorrere per raggiungere un buon rapporto con le figlie sono impervie e soprattutto il rapporto comincia da subito, quindi non ci lamentiamo se ci accorgiamo di nostra figlia solo quando ha 20 anni e vorremmo stabilire un contatto dicendole parlami dei tuoi problemi che oggi ho un po’ di tempo, perché le cose non vanno così.I rapporti sono come le case si costruiscono mattone su mattone. Maria Rita Pennisi
Cara Maria Rita,
condivido tutto.
E’ proprio di queste difficoltà che parlo nel mio libro.
Ci sono tante madri e tante figlie che hanno bisogno di essere capite e accettate… e poi alla fine di confessare le proprie verità.
grazie
Dora Albanese
Complimenti a Sandra Petrignani ed a Dora Albanese. Premetto che leggerò con piacere i vostri libri.
Ho una curiosità, che esula un po’ dalla discussione. vorrei chiedervi se ci sono delle scrittrici del passato che considerate come punti di riferimento. E se sì per quale motivo.
Cara Dora, ti ringrazio per avermi definita fantastica… Ma tanto fantastica in verità non mi sento! Ho toppato il titolo! Beh, perdona una vecchia signora sbadata… Aggiungo che sto proseguendo la lettura e apprezzo sempre più.
Per i riferimenti a scrittrici del passato rimando al mio libro “La scrittrice abita qui” in cui racconto le case, le vite, gli amori delle scrittrici che ho più amato, da Virginia Woolf alla Blixen a Colette a yourcenar ecc.
un saluto a tutti.
Argomento molto stimolante, per cui è praticamente impossibile starne fuori.
Volevo agganciarmi a quanto detto da Dora Albanese. Fare un figlio a vent’anni è una scelta di vita, è vero, ed è molto rischioso. Ma farlo dopo, quando tutto è già programmato, solido, costruito, può esserlo allo stesso modo. Anzi, forse peggio. E’ un rischio sempre, perchè ti metti in gioco, anche se magari non lo hai preventivato, non sai come andrà, che figlio avrai tra le braccia, se lo riconoscerai e ti riconoscerà, se sarai una madre “sufficientemente buona”. E se a vent’anni il rischio è palese – e ci vuole certo molto coraggio – a trenta o quaranta, quando tutto è ok e le cose vanno come devono andare, secondo regole più o meno scritte, non ti aspetti che possa essere tale: tutto “deve” andare per il verso giusto. E invece non è detto che sia così…
Non credo che una donna più matura sia necessariamente più pronta a diventare madre, specie adesso, che la maternità entra in inevitabile conflitto con abitudini, modi di vivere, di pensare, consolidati nel tempo. E che spesso non è una scelta libera, ma imposta, non dal caso (come forse lo può essere a vent’anni) ma da qualcosa di peggio: lo status sociale. Un figlio, insomma, è una tappa obbligata, la ciliegina sulla torta, come dici tu; però è proprio in quell’essere “ciliegina” che i nodi vengono al pettine…
poi, una cosa che non c’entra niente… sono contenta di conoscere una scrittrice lucana. Sono molto legata a quella terra, in parte per vicinanza geografica (diciamo che puglia e lucania sono regioni “sorelle”), in parte perchè la frequento spesso per lavoro. Spesso passo dalle tue parti perchè da un paio di anni abbiamo uno scavo a Grumento, e ogni tanto mi perdo tra le strade in montagna… diciamo che è un perdersi “volontario”… 🙂
Ringrazio tutti per i nuovo interventi…
E dò il benvenuto a Dora, nella discussione…
Un saluto affettuoso a Cristina per aver condiviso con noi un pezzo della sua esistenza…
Grazie, Cri.
Mi piace evidenziare questo passaggio di uno dei commenti di Sandra:
Quando dopo tanti anni, magari, dall’uscita di un mio libro qualcuno mi dice che quel romanzo l’ha segnato e me lo porta tutto stropicciato perché io lo firmi, mi commuovo. Non è narcisismo, credetemi. E’ pura felicità di un incontro. E’ sapere di non essere soli a sentire in un certo modo, è condivisione.
Credo che sia una delle soddisfazioni più belle per chi scrive… sapere che la propria storia, le proprie parole, penetrino nell’anima di qualcuno.
Ho messo in grassetto la parola “condivisione” perché sintetizza (lo sapete tutti) la filosofia e lo spirito di questo blog.
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Grazie, Sandra.
@ Milva
Grazie per il reportage della presentazione bolognese. E grazie per le foto: le ho viste.
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[ Dora, stai molto bene con questa nuova pettinatura 🙂 ]
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Aspetto anche gli interventi di Barbarella…
@ Dora
Scrivi: “Questa mia raccolta di racconti nasce dal desiderio di raccontare la maternità attraverso i suoi aspetti più feroci e inconfessabili. Mi riferisco alle paure che una donna si porta addosso durante i nove mesi di gravidanza, per non parlare del travaglio, e dell’allattamento”.
È vero… in effetti tu racconti “senza veli”. È una scrittura che fa “sentire” sulla pelle certe situazioni. E lo dico da uomo che – credo – salvo miracoli [poi non si può mai sapere: mi ricordo un film con Arnold Schwarzenegger] non partorirà mai, se non libri.
Maria Rita scrive (grazie, Maria Rita): Penso che quando ero ragazza il compito delle mamme fosse meno arduo, perché ci dicevano cosa potevamo fare e cosa no e alla nostra domanda perché, rispondevano perché te lo dice la mamma. La sera dopo il carosello si andava a letto e tutto era a posto. Le ragazze vivevamo di letture, dischi e chiacchierate al telefono, ma adesso i tempi sono cambiati ed essere delle mamme efficienti è molto difficile. .
Nei fatti è una risposta alla domanda: E come è cambiato il rapporto madre/figlia, in questi anni? Che differenza c’è – oggi – rispetto a venti, trenta, cinquant’anni fa?
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Gli altri cosa ne pensano? Siete d’accordo?
Giorgia Lepore, invece, sottolinea che fare un figlio è sempre un rischio… a prescindere dall’età.
E che è una “tappa obbligata”.
Be’, anche questo potrebbe essere un interessante argomento di discussione.
Che ne dite?
Sandra mi ha inviato alcuni brani tratti dal suo libro.
Il primo l’ho inserito sul post (in alto, dopo il video): da “Dolorose considerazione del cuore” di Sandra Petrignani (pagg. 60-61).
Mi pare un brano molto significativo,
Che ne dite?
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Gli altri li inserirò nei prossimi giorni.
Cara Dora,
mandami per mail qualche brano del tuo libro, se possibile…
Un caro saluto a tutti gli altri intervenuti.
Per oggi chiudo qui.
Una serena notte.
Ho letto il libro di Dora Albanese e ne sono rimasta affascinata. Mi ha colpito molto soprattutto per gli aspetti che ha rintracciato Barbara Gozzi e che ha tratteggiato bene la stessa Dora nel suo intervento.
Parlare in lingua materna non è necessariamente legato alla capacità riproduttiva ma significa prima di tutto accoglienza dell’Altro e Cura. Almeno così credo di aver letto nelle parole di Dora che sanno di carne. E cuore.
Un saluto a Massimo che propone sempre ottime discussioni critiche e a tutti gli intervenuti. Leggerò al più presto il libro di Sandra Petrignani.
Alessandra*
Cara Giorgia,
mi piacerebbe questa estate perdermi un pò con te… i nostri sono paesaggi bellissimi. 🙂
Certo, la maternità è un rischio a prescindere ed io provo a raccontarlo attraverso donne giovani e meno giovani.
Nel mio primo intervento mi riferivo a quelle famose “sicurezze sociali” che permettono alle donne di non sentirsi in colpa.
Perchè il senso di colpa per molte donne è come il peccato originale.
Siamo colpevoli a prescindere. Saremo considerate “poche serie” se decideremo di avere un figlio a vent’anni, perchè ancora “la società” ci riconoscerà il ruolo di figlie… e non di madri.
Per Arianna:
le mie scrittrici preferite sono tante, due in particolare: Anna Maria Ortese, Elsa Morante, Mansfield perchè riescono a creare in me una sorta di dipendenza. Amo rileggerle spesso e ogni volta trovo spunti e riflessioni e anche suggerimenti.
buona giornata
Dora
Forte e denso, il brano scelto da Sandra Petrignani. Ed il finale del brano “Precipitavo nel vuoto, e lei mi metteva la maglia” mi lascia un solco dentro. Mi viene in mente quand’ero bambina, ma me lo ricorderò ogni volta che dirò a mio figlio di coprirsi bene che fa freddo.
C’è un freddo che penetra più delle ariette gelide. Da quel freddo è difficile coprirsi.
buondì. argomento inquietante (e interessante)…
condivido i post di amelia(rischio di non comprendersi per troppo amore) e ho letto con emozione quello di cristina.
vorrei proporre – se il padrone di casa è d’accordo – una divagazione sulla Lessing oppure sulla Jelinek, autrici eccezionali nel delineare quanto devastante può essere questo rapporto. Se qualcuno ha voglia di parlarne…
un caro saluto
Un passaggio breve breve, giusto per un caro saluto a tutti nel salotto di letteratitudine. (Massimo, stavolta mi astengo dall’argomento)
Ciao
Maril
beh, a me leggere divagazioni sulla Lessing e sulla Jelinek piacerebbe molto. marina torossi: hai il mio appoggio 🙂
bellissimo il brano di sandra petrignani. aspetto di leggere gli altri. e quelli di dora albanese.
Sul figlio come “tappa obbligata” non sono molto d’accordo. Di coppie senza figli, per scelta, ce ne sono e ne conosco a volontà. Anche se forse bisogna registrare una leggera inversione di tendenza.
parlare di maternità per me è sempre parlare di un’assenza, di un insoluto e insolubile bisogno di composizione.
Siamo state 4 braccia e 4 gambe in origine, mi diceva ieri sera un caro amico, nonchè grandioso critico letterario, poi alla nascita separate.
Da quel momento per tutti noi è sempre e solo un continuo desiderare.
Vale per il rapporto madre figlia, come per quello figlia madre, e vale per l’amore in generale. Perchè la dualità fa parte di noi, anche se tra donne poi s’arricchisce dell’effetto specchio, della fatica che nasce dal confronto, dall’ereditarietà, dal senso di colpa.
Diffcilissimo parlarne, quindi, per me meglio scriverne.
Posso solo dire qui, quasi fosse un short story di vita familiare, che mia mamma, ogni volta che le arriva tra le mani un mio nuovo romanzetto, mi chiama sempre tre o quattro volte, oppure manda una ventina di sms, chidendomi: “ma tizio che dice a caio a pag 23 quella certa cosa lì, lo dice per me? oppure quel personaggio che compare a pag 74 e compie quel certo gesto lì, quello sono io?”
Me lo chiede sempre, non può farne a meno.
Io ogni volta le rispondo che: no, stai tranquilla, non è così che stanno le cose, e lei di rimando sospira: “meno male!”
Ma io lo so che non mi crede.
Catherine Mansfield è stato ed è un grandissimo amore, molto cecoviana. Della Jelinek trovo eccezionale un solo libro, “La pianista”, che però è davvero significativo. Soprattutto per come descrive la sessualità femminile. Di Lessing che dire? Una Maestra grandissima. Al di là del tema di cui dibattiamo. Un rapporto devastante con la madre è quello avuto da Marguerite Duras: ha impostato tutta la sua vita sentimentale nel senso della dipendenza, e certamente ha avuto a che fare col suo alcolismo (alcool = latte materno mancato)
non ho mai letto catherine mansfield. mi sa che dovrò rimediare.
cara sandra, cara dora,
con quale libro mi consigliate di cominciare?
@ elisabetta liguori
pensa un po’ se un giorno dovessi decidere di scrivere un libro dichiaratamente su tua madre
🙂
Un passaggio di corsa, tra nevischio e freddo (proprio quello che entra nelle ossa!).
La serata a Bologna, con Dora, Giuseppe Merico, Milvia e molti altri è stata interessante, intima e aperta, secondo me. Gli argomenti non mancavano ma credo che nell’insieme si siano tirati fuori alcuni ‘noccioli’ del libro di Dora e altri più generali legati alle precise nominazioni ‘madre’, ‘mamma’, ‘maternità’, anche entro alcune declinazioni secondo me.
Riporto di seguito, gli appunti-riflessioni su ‘Non dire madre’ preparatori anche per la serata di Bologna, scritti dunque prima di conoscerla, dopo aver assaporato la sua scrittura.
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Ci sono tre termini che mi vengono in mente a proposito di ‘Non dire madre’: fiammata, stordimento, millenovecentottantacinque.
Fiammata perchè le prime cinquanta pagine sono per l’appunto una fiammata in prima regola. Scaldano, offuscano, colpiscono coi pugni chiusi e la furia della trasparenza giovane e candida. Nelle successive venti pagine il corpo prende in parte ad assorbire l’urto, la fiamma si fa costante, diventa più controllabile (pare almeno). Ed è qui che arriva lo stordimento. Proprio quando lo stomaco sembra scaldarsi uniformemente, le viscere fremono al pensiero di nuove ipotetiche fiammate ecco che tutto vira. Ma proprio tutto. Lo stordimento è la scoperta che il romanzo mai realmente qualificato tale ma tacitamente immaginato (dal lettore) non è romanzo. Lo stordimento è finire risucchiati da volti, intrecci, affezioni e dis-affezioni, luoghi che hanno ‘teste’ e ‘code’ visibili. Anche lo stordimento comunque tende all’abitudine. Nelle ultime quaranta pagine le storie proposte con abilità di linguaggio e freschezza si accolgono con la voglia della ’scoperta’. [segue]
Proprio nell’ultima pagina ho pensato a millenovecentottantacinque. L’anno di nascita dell’autrice. Che mi aspettassi (e dopo le prime venti pagine, desiderassi fortemente) una storia ad ampio respiro, dove lasciarmi annegare tra placenta, pensieri onesti e sguardi dolorosi. Che me l’aspettassi non lo nego. Che poi lo stordimento mi abbia avvolta e accompagnata, allo stesso modo è stupefacente e interessante. Ma più di tutto, alla fine, io credo non si possa scindere da quell’anno, che è età anagrafica di Dora Albanese. Al di là delle aspettative che il lettore può ritenere disilluse o meno, al di là della necessità di aggiungere o sottrarre spiegazioni, evoluzioni narrative alle storie che si snodano tra decisamente tante strade e vite; al di là di tutto questo. Trovo sorprendente che una giovane donna sia capace di entrare, abbozzare, dar voce e corpo a così tante donne diverse tra loro. Diverse per età, per vite scelte o subite, per linguaggi, conoscenze, abitudini, luoghi. Nonché per maternità. Che la condizione di ‘madre’ sia centro nevralgico del libro non stupisce, io credo, nemmeno chi non l’ha letto. Ci sono riferimenti precisi e voluti. L’immagine in copertina necessità la lettura per una decodifica consapevole (salvo probabilmente conoscere le abitudini del Sud, conoscenza a me preclusa). Ma la parola ‘madre’ nelle sue declinazioni più comuni è leitmotiv necessario, pressante, scivoloso, respingente, destabilizzante.
[segue]
Allo stesso tempo, proprio in virtù di quell’anno di nascita, trovo notevole la capacità di Dora Albanese di dare il nome alle cose attraverso i corpi. Di tentare sguardi verso uno dei misteri del mondo, della vita, con la semplicità della nominazione. In questo libro la maternità non è scontata. Non è ‘una cosa’ o un ‘grappolo di cose’ che rimandano a precise sfere del vivere e giudicare comune. Nelle storie, differenti, mutevoli, scrostate, abbozzate, stridenti; in queste storie la maternità ha molti spigoli. Non è né bene né male bensì miscela variabile. E’ ammissione di dolore e amore, cura e perdita, ingresso e uscita. E’ diversità entro il sottile cordone ombelicale poi reciso. E’ abbandono di un’identità che si strappa da se stessa per accogliere nuove consapevolezza di sangue e sudore, puzzo e rinunce. E’ vedere in un altro individuo il bisogno di accudire e preservare scevro da vincoli genetici. E’ l’accettazione di un ’sé’ che guarda al suo dentro con sospetto e paura, per l’avvento di altri ‘dentro’ a lui estranei poi gradualmente familiari. E’ la fuga da uteri soffocanti. E’ il viaggio entro un utero che si apre.
[segue]
n questo libro ‘madre’ non si dice non soltanto perchè c’è un preciso aggancio del titolo alle prime cinquanta pagine, ma anche entro sensi più generali dove più facilmente sono i corpi, i gesti, taluni pensieri, che restituiscono la maternità entro forme mutevoli. La protagonista iniziale, che diventa ‘madre’ proprio nelle prime scene, si interroga a lungo sulla parola. E una frase ad alta voce che contenga ‘mamma’ (“Bevi a mamma” dico, e improvvisamente, come liberati da un incantesimo, tutti i presenti si sciolgono in una risata liberatoria. – pag. 24) la pronuncia sforzandosi, per dare soddisfazione a una platea in trepidante attesa composta da parenti e amici vari, volti a rendere teatrale l’atto che nella sua naturale evoluzione scatena deformazioni carnali, dolore, imbruttimento (reale o percepito soggettivamente dalla partoriente).
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La lingua di Dora Albanese si sta formando, così come l’affondo in storie e la capacità di narrare voci, snodi, gestendo personaggi e contesti. C’è immediatezza e freschezza nell’incedere. Una sorta di carnale registrazione che galleggia, affonda, riemerge, galleggia un pò, pare perdersi poi di nuovo a prendere un ampio respiro prima di tornare negli abissi. Negli esordi si celano spesso aderenze da pelle ancora in crescita, non del tutto stabile tra ossa e muscoli.
[segue]
Leggendo ‘Non dire madre’ ho avuto l’impressione che una certa ‘paura sottile’ abbia nascosto alcuni sottili strati epiteliali, come a voler proteggere un qualcosa di prezioso, fors’anche grezzo (per ora) che necessita di ulteriori tempi e spazi per rinforzarsi, rendersi capace di alzare fiero la testa e andare, seguendo nuovi sguardi, diventando altro. Ma ci sono, trovo difficile ignorarli o tacitarli, guizzi, intenti, affondi, ruvidità, sincerità; ci sono tante storie sintomatiche di una produzione creativa in divenire. Ci sono ricerche linguistiche a tratti ancora in bilico ma ben consapevoli, non onde piuttosto salite e discese ferme nei movimenti orizzontali ma piene di verticalità, nuove esplorazioni. Mi sembra che in questo romanzo sia percepibile un approccio verso il narrare che (con modalità e risultanze non uniformi) lega sottilmente alcuni autori italiani contemporanei. L’uso dei corpi, della carne, dentro la narrazione dove di frequente da oggetti-comparse, diventano voci dirette, espressioni cristalline anche di un ‘dentro’ difficile, che le parole sole non riescono ad esprimere direttamente. La narrazione parte privilegiatamente dalla dimensione ‘intima’ di almeno un personaggio, dal quale si diramano i tentacoli che strutturano la storia entro coralità di corpi, intenti, volti e gesti. Però mi pare che l’attacco, l’inizio’ arrivi non tanto dall’ ‘ombelico’ (come invece si strilla spesso nei dibattiti recenti) che è dunque dimensione individuale ‘bloccata’ piuttosto da ‘viscere’ che contorcendosi richiamano altre viscere (quelle del lettore evidentemente).
[segue]
La maternità è tematica che difficilmente può considerarsi sterilmente ombelicale. Proprio per questo diventa ‘arma’ pericolosa, già intensamente trattata, osservata, sezionata e standardizzata. Dora Albanese la stringe tra le mani con cautela e rispetto, non nega pensieri (di qualunque provenienza, derivazione e umore), non disdegna virate, silenzi e riprese più nette. Ma soprattutto si ‘muove’. Le storie sono autonome anche grazie ai ritmi che le cadenzano, la capacità di spostare campi visivi ruotando collo e corpo tutto. I tentativi di entrare anche silenziosamente in vite sconosciute, ascoltare per capire il necessario poi lì fermarsi. Ed eventualmente proseguire pensando, mentre già la narrazione si è spostata, ha preso un altro mezzo, un bus appena passato, un treno, una zattera, l’asfalto…
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“Mi piacerebbe, cara madre, regalarti una carezza per placare la tua rabbia, e comporti i capelli in una corolla ben fatta, perché ogni madre del sud raccoglie i suoi capelli, e li tiene stretti e composti, in segno di rigidità e di mistero quando cammina per la piazza e cresce i figli. Poi, quando è notte, la corolla si scioglie, e il volto di voi madri, prima duro e impenetrabile, ritorna a essere quello di bambine davanti allo specchio. “(pag.42)
Volevo aggiungere un’annotazione.
A proposito del discorso che fa Dora, ovvero del distinguere tra lo scegliere di diventare madre giovane tra incertezze e instabilità, e l’avere un figlio più avanti quando diversi ‘tasselli’ si sono sistemati.
Io mi trovo in una sorta di ‘mezzo’ rispetto a questo ragionamenti.
Diventai madre a 27 anni, mio figlio ha la stessa età oggi di quello di Dora.
Né troppo presto, né troppo tardi, è un pensiero digerito e ormai ammuffito.
In realtà per tutta una serie di aspetti, la si potrebbe considerare una scelta affrettata. Professionalmente, così così, nulla di fermo, lanciato, univoco e stabile quanto meno entro i canoni sociali generali. Economicamente come per molti, tutto ancora da capire partendo da zero. Sul fronte studi invece feci io una precisa scelta, per rendermi indipendente in fretta, dunque lì non c’è stato bisogno di cambiare nulla.
Viceversa, ci sono altri angoli che tutto sommato potrebbero indurre all’affermazione contraria, ovvero: potevi anche farlo un paio d’anni prima. Perché in effetti non sarebbe cambiato granché, quanto meno rispetto ai fattori sopra elencati (ad esempio, per me, da 24 a 27 nessuna delle variabili appena citate è poi mutata così tanto)…
Eppure.
Io la maternità la vivo come scelta, in ogni caso.
Proprio perchè biologicamente le donne nascono madri. Ma la biologia da sola non fa nulla, non basta, io credo.
Si nasce donne. E figlie. Punto.
Poi, lentamente, crescendo si aggiungono ruoli, si fanno scelte, si tracciano strade e le si percorre.
Personalmente non mi sento di stabilire il grado ‘di fatica’ delle varie condizioni di maternità anche tra canoni mediamente standard come possono essere età, condizione sociale ed economica, posizioni lavorative o di studio, possibilità di aiuti e dunque di persone vicine presenti. Mi sembra ugualmente una forzatura, stabilire.
Io credo nelle storie di ognuno. In ciò che sulla pelle si è vissuto e registrato.
Io che ‘tecnicamente’ sto nel mezzo, non sento affatto metà benefici e metà fatiche rispetto ai due poli. Affatto.
Mi chiamo come la protagonista del libro di Sandra Petrignani. un libro che mi ha emozionato tantissimo, e di questo ringrazio l’autrice. Non sono brava a dire le cose ma mi sono molto ritrovata in queste parole di Michele Lauro su Panorama
http://blog.panorama.it/libri/2009/04/27/dolorose-considerazioni-del-cuore-sotto-le-coperte/
Sandra Petrignani invita il lettore “sotto le coperte” per sfogliare le pagine del suo ultimo romanzo, Dolorose considerazioni del cuore, pubblicato da Nottetempo in una (rara) coerenza d’intenti e atmosfere fra autore ed editore. Il caldo abbraccio della notte permette a una donna, Tina, di sciogliere le catene della consuetudine, della ritrosia e anche del pudore per raccontarsi a un’amica ritrovata. È un libro sorprendente e diretto, sfuggente perché giocato su piani narrativi diversi eppure dotato di una rigorosa unitarietà. Un romanzo dalla struttura circolare, in cui il tempo non procede in modo cronologico da un inizio a una fine ma, come in una seduta psicanalitica, indietro e avanti e poi ancora indietro – la contemporaneità del tutto. Uno stream of consciousness in magico e sottile equilibrio fra mente (”le fredde osservazioni della mente”), cuore (le “dolorose considerazioni del cuore”) e corpo (”questo pezzo di macelleria fra le mani”). Diceva Proust in All’ombra delle fanciulle in fiore, tracciando un profilo critico dello scrittore Bergotte: “Gli uomini che producono opere geniali […] cessando bruscamente di vivere per se stessi, hanno il potere di rendere la loro personalità simile a uno specchio, in modo che la vita […] vi si rifletta.” Sandra Petrignani, ex chiromante, ha questo potere ipnotico sul lettore. La sua scrittura è pulita, levigata, seduttiva. Come già accadeva nel suo romanzo Ultima India – diario emotivo di un viaggio nel subcontinente sulla scia dei grandi narratori avvinti dalla terra di Shiva e Ganesh – l’autobiografia svapora via via leggera, fino a stimolare le corde di un mondo affettivo che ci riguarda tutti. L’amore e la morte, l’infanzia e la vecchiaia, l’amicizia, il sesso, l’odio, la crisi di mezza età, padri madri analisti amanti mariti e cani. Si scava. A volte si arriva a intravedere dove non si vorrebbe. Ma sotto le coperte, si può.
Il coraggio della scrittrice è più ardito nel raccontare la storia di una vecchiaia terribile, quella dei genitori della protagonista. Spazzando via l’ipocrisia con cui la nostra società affronta (o rimuove) il problema, la vecchiaia viene presentata senza false indulgenze, in maniera dura e spietata forse, ma certamente onesta. La protagonista si interroga su una delle irriducibili contraddizioni dell’esistenza – accudire i vecchi genitori che non furono buoni genitori – con i suoi corollari desolanti analizzati con lucida e struggente sensibilità: dagli oggetti che anche loro invecchiano alla necessità di liberare la casa dalle loro tracce, dalla paura del decadimento fisico e mentale ai pensieri sulla morte, alla fatica quotidiana del vivere accanto al vecchio cui rimangono addosso i tratti peggiori di un carattere già di per sé insopportabile. Risposte non ce ne sono, c’è invece nelle pieghe sinuose di questo libro una umana pietas di fronte all’essere umano nella sua eterna fragilità. Per questo forse l’amicizia viene al primo posto e il romanzo stesso nasce come espiazione al reato di “lesa amicizia”. “Adesso l’amicizia è diventata alleanza, quello che dovrebbero essere tutti i rapporti umani, se uomini e donne fossero razionali e non i pazzi che sono”. Parole bellissime, di disarmante semplicità e infinita tenerezza.
(Michele Lauro)
@ Massimo Maugeri
Nel tuo commento del 16 dicembre 2009 h. 11:37 pm hai scritto “una scrittura che fa “sentire” sulla pelle certe situazioni. E lo dico da uomo che – credo – salvo miracoli [poi non si può mai sapere: mi ricordo un film con Arnold Schwarzenegger] non partorirà mai, se non libri”.
Buone notizie per te:
http://www.repubblica.it/2008/07/sezioni/esteri/uomo-incinto-partorito/uomo-incinto-partorito/uomo-incinto-partorito.html
🙂
Aggiungo, dall’articolo: “Avere un bambino non è un desiderio femminile, né maschile – aveva dichiarato Beatie – E’ un bisogno umano. Sono una persona e dunque ho diritto ad un figlio biologico”.
@ donato vicari
vuoi rimescolare le carte? non ci provare 🙂
@Dora.
hai toccato un altro tasto dolente: il senso di colpa. perchè? da dove nasce? è scritto nei cromosomi? lo succhiamo con il latte dal seno materno? ce lo insegnano, inculcano, fanno passare per inevitabile. Senso di colpa se siamo madri, e se non lo siamo, perchè non andiamo mai bene, vuoi per uno o per l’altro schema. Sensi di colpa per le assenze o per le troppe presenze, per l’inadeguatezza, perchè le nostre, di madri, erano meglio di noi (almeno così sembra, però poi a loro volta erano peggio delle loro), oppure perchè ci viene sempre chiesto qualcosa di più rispetto a ciò che diamo.
Una maternità senza senso di colpa, questo sarebbe l’obiettivo da raggiungere. A volte mi viene il dubbio che il senso di colpa nasca dal fatto che tutte, almeno una volta, durante il travaglio, parto, allattamento, notti in bianco, eccetera, abbiamo desiderato di poter tornare indietro. E se qualcuna dice “io no, a me non è mai successo”, bè, consentitemelo, io non le credo.
Sarà quel momento di rifiuto, seppure unico, fuggente, a farci sentire poi in colpa per una vita intera?
allora è deciso… quest’estate a zonzo tra accettura e dolomiti lucane…
🙂
Cara Giorgia,
credo che le nostre madri ci abbiano educate e abituate al senso di colpa nel preciso momento in cui siamo nate. Cioè, credo che sia una cosa davvero inevitabile sentirsi sporche, e cercare di eliminare una macchia che però è invisibile, perchè troppo vicina ai nostri occhi, alla nostra anima.
Io mi sono sentita in colpa quando ho deciso di partire da Matera in cerca di un futuro migliore, mi sono sentita in colpa quando ho fatto l’amore la prima volta, quando ho deciso di “scrivere” e poi quando sono rimasta incinta… mi sono sentita in colpa quando per mio figlio appena nato non ho provato niente. Poi ho guardato mia madre e ho pensato: non devo dargliela vinta, non devo essere come lei “non dirò mai più madre” perchè questo è mio figlio, e sono io adesso LA MADRE, siamo DUE MADRI che si parleranno per sempre ALLA PARI. VESTIREMO PER SEMPRE LO STESSO RUOLO.
Solo pochi giorni fa ho notato come mio figlio mi abbia salvata da certi gesti inutili e da certi giri a vuoto… adesso lentamente sto cercando di cancellare “la macchia”.
P.S. Accettura la conosco bene, mia madre è di Stigliano, paese che nomino spesso nel mio libro. 🙂
Per Letizia:
Io ti consiglio tutti i racconti della Mansfield, in particolare l’ultimo trovato dopo la sua morte, il cui titolo è: “Coraggioso amore”.
Per Barbara:
grazie cara per l’analisi precisa che solo una donna con il mio stesso segno zodiacale poteva fare 😉 ti abbraccio porte
a presto
Dora
Molte madri “del mio sud” sono donne a cui è stata imposta la maternità, magari dalla famiglia, dal “perchè si fa così” e dunque dalla società.
Mia madre da ragazza dipingeva quadri bellissimi, e aveva i capelli lunghi e lucidi. Dopo il parto ha tagliato i capelli e ha smesso di dipingere.
Credo, che diventare madre per molte donne sia come una “sottrazione della vita”.
Ecco cosa intendo dire con la frase “non sarò come lei”, cioè non vivrò la maternità come si vive una condanna. Farò i conti con me stessa, prenderò per i capelli tutti i sentimenti mediocri e li sbatterò al muro.
A domani, notte a tutte. :*
Caspita, quanti nuovi commenti… vi ringrazio tutti: Alessandra, Milena, Marina, Maril, Letizia…
E ancora: Barbara per i numerosi e preziosi contributi.
Un saluto speciale a Elisabetta Liguori e un rigraziamento per il suo significativo (e divertente) aneddoto…
E un grazie a Tina e a Giorgia…
–
@ Donato Vicari
Avevo rimosso quella notizia… ma hai fatto bene a inserirla nella discussione. Trovo che sia gravida di significati…
(Ma al di là della battuta, anche su questo si potrebbe discutere molto).
Infine un ulteriore ringraziamento a Dora e a Sandra per i loro interventi…
Sul post, nella parte finale, ho inserito un brano tratto dal libro di Dora e un ulteriore brano tratto dal libro di Sandra.
Andate a vedere.
(Domani ne inserirò altri).
Per oggi chiudo qui: una serena notte a tutti.
Molto bella l’alternanza dei brani di Sandra Petrignani e Dora Albanese. Brave!
Avrei una domanda per Sandra Petrignani e Dora Albanese. Non avendo ancora letto i libri, ma prometto di farlo, la domanda non riguarda i contenuti degli stessi ma la discussione in generale.
Secondo voi qual è la cosa in assoluto che un uomo non potrà mai capire dell’essere madre?
Ve lo chiedo perché a me ogni tanto viene rinfacciato che certe cose non le posso capire.
Ovviamente la domanda è rivolta anche a tutte le altre signore partecipanti al forum.
Caro Fabio,
io credo che l’uomo non possa capire fino in fondo, solo perché non lo ha provato, il rapporto di intimità che si crea tra madre e figlio durante la gravidanza. La madre sente da subito quella creatura come propria e ne disegna mentalmente i contorni, i colori, i lineamenti e sente pure che i loro cuori battono all’unisono e si intenerisce. Certamente avrai notato che ogni tanto le donne incinte si accarezzano la pancia o la guardano intensamente per vedere se il bimbo si muove e ogni tanto toccano un piedino, un gomito. Ecco caro Fabio, penso che sia questo. Sono felice della tua domanda, perché denota una personalità sensibile e attenta.
Con simpatia Maria Rita Pennisi
il dolore e l’amore. e la inevitabile coincidenza dell’uno con l’altro.
Concordo con quanto detto da Maria Rita e Giorgia,però vorrei anche aggiungere che spesso dovremmo essere noi donne a coinvolgere di più l’uomo,il compagno nel momento della gravidanza e della maternità.Per loro,per quanto sensibili e desiderosi di vivere l’evento e l’esperienza,è abbastanza difficile sentire quel senso viscerale di appartenenza che per noi donne è immediato .La paternità è un sentimento molto delicato che forse è meno immediato, va nutrito, coltivato con attenzione e tempo,la vicinanza di una donna che con amore renda realmente partecipe l’uomo di quanto fisicamente e emotivamente le stia accadendo è fondamentale per rendere questo coinvolto quanto più possibile, senza escluderlo. Purtroppo ho conosciuto molte donne che hanno fatto l’esatto contrario,marcando un territorio in cui anche l’amore paterno può essere vissuto come una “minaccia” alla loro esclusiva relazione con il bambino.La donna, a mio parere, può fare moltissimo affinchè questa magia dell’esperienza materna venga trasmessa,in parte, anche a chi la ama ed è parte integrante della relazione d’amore con la creatura che nascerà.
Per Fabio:non sempre nella vita è necessario “capire con la testa”,secondo me in faccende d’amore è più importante sentire con tutto il cuore, empaticamente accanto a chi amiamo.
Per Fabio.
Io ho profonda perplessità quando chiunque mi dice che qualcosa non la posso capire. Tutto si può capire: è la garanzia di esistenza della letteratura – per non dire della psicologia. Che vi credete che i terapeuti uomini non prendono in cura le pazienti donne – e viceversa? Che ci possiamo permettere noi donne il lusso di poter dire che nessun uomo ha mai saputo scrivere di noi? Indubbiamente capire qualcosa che non si ha esperito implica uno sforzo in più, e anche di una certa portata – ma Fabio, è fattibile! E come dice la saggia Francesca Giulia anche con il cuore. Il materno ha nel paterno moltissime affinità, anche se certo si forma prima è affonda in un carnale. Ma siamo sempre nel regno della genitorialità.
“Tu non puoi capire” quando è appioppato alla differenza di genere, ma anche alla differenza di generazioni, per me ha sempre qualcosa di strumentale, e non reale. Prima che avessi un bambino mia sorella mi ripeteva sempre che uh non potevo capire. Posso dire una cosa presuntuosa?
Col cavolo! Avevo capito tutto. Non ho avuto grandi sorprese, se non una intensità di felicità inaspettata, ma per il resto niente che qualsiasi testa portata a pensare e a sentire – senza manco esse’ Proust – può contemplare.
possa contemplare!
Non facciamo stramazzare la grammatica anzi tempo:)
Ciao Zaub,proprio vero,anch’io detesto questa frase “Tu non puoi capire”,spesso c’è dietro la volontà di emarginare la persona a cui è indirizzata,ma non entriamo nello specifico perchè non vorrei crear casini a Fabio che mi pare tanto carino con la domandina fatta!
un bacio “saggio” a te e allo zauberillo.
si, vabbè, però scusate alcune cose proprio non le possono capire… quando parlavo di dolore mi riferivo a cose non proprio poetiche, tipo il dolore da cani come se ti stessero squartando da dietro la schiena… o la sensazione del bambino che ti esce da dentro, quella cosa pazzesca che ti fa gridare di gioia e di dolore, per il distacco e per l’incontro. E tutto il resto… direi che questo no, gli uomini non lo possono capire.
magari altro, magari tutto il resto, amore, protezione, cuore, sentimenti, eccetera, ma quel legame animalesco, fisico, carnale, non credo proprio.
——
ciao zaub, ti leggo spesso e mi fai schiattare dalle risate 🙂
Pensate a un pover’uomo che va con una donna sperando di trascorrere qualche ora piacevole e si ritrova padre. Anche quello è un evento doloroso.
– Salvo caro:)) la smemoratezza porta non di rado a questi infelici incidenti.
– Ciao giorgia 🙂 contenta che sei contenta:)
– Francescs Giulia hai ragione! Ma io nun intendevo mica attaccare Fabio, ma quella pallosissima rinfacciatora che ni ci dice che non può capire!
Zaub,sì sì anch’io come te,per l’appunto tengo paiura che la rinfacciatora poi se la piglia con Fabio dopo che lui avrà utilizzato gli spunti dati dalle nostre considerazioni….etc etc…
Giorgia cara però ti dico che quando mio marito soffrì come due cani squartati con le coliche renali e poi cacciò il pargolcalcolo fu una grande gioia per lui,ma pure per me!!!..
🙂
vi abbraccio giovincelle belle letteratitudiniane
Fabio, certo che hai aperto un altro bel sottotema… 🙂
A questo punto, Fabio, dovresti rivelare alle intervenute quantomeno il ruolo della tua “rinfacciatrice”: madre, moglie, figlia, o altro?
@fra giu
pure il mio partorisce spesso… “pargolcalcoli” è bellissimo!
comunque, per far capire il più possibile al maschio adulto la problematica partoristica (partica?!?, insomma quella del parto) consiglio assistenza attiva al travaglio e al parto, tipo danza del ventre insieme, respirazione insieme, vocalizzi insieme, massaggi, eccetera. Non sta solo nei film, si può fare davvero…
ma scusate, non è che la rinfacciatora poverina magari c’ha le ragadi al seno, quei dieci-dodici chili che non se sono andati, qualche mega smagliatura che manco con la plastica se ne vanno, eccetera, notti in bianco, umore nero, e quindi magari sta nu’ poco depressa?
e facciamoglielo dire, ” tu non puoi capire”! almeno con funzione di mantra catartico!
A mio avviso è bellissimo che alcune sensazioni della madre siano incomprensibili al padre e viceversa. E’ uno stimolo a cambiare prospettiva. A “recitare” un’altra parte.
Lo dico da madre di figlio maschio.
Ho dovuto apprendere i rudimenti della lotta, le sputacchiate contro vento, i nomi dei bazuka, le gerarchie militari, il fascino delle imboscate e la logica dei piani di guerra. Sono un’esperta nella decodificazione dei linguaggi, nella concentrazione delle intenzioni e finanche nell’interpretazione (testuale e filologica) di alcune parolacce a me assolutamente sconosciute.
Mentre con mia nipote posso dilungarmi in esempi e metafore, con mio figlio è più efficace il corpo a corpo o il gergo (da me ripulito) delle (basse) leve dell’esercito…
All’inizio è stato sconcertante però… con lui ho capito meglio gli uomini.
E i padri.
Credo che la nostra parte maschile possa essere educata, così come quella femminile nell’uomo.
Il risultato è un andarsi incontro con meno pregiudizi. Con più voglia di affidarsi l’uno a l’altra. Di somigliarsi un po’ di più…
—–
(@ Francesca Giulia: mi è troppo piaciuto il “pargolcalcolo”! Un bacio)
Simona perdona se ci ho il rigurgito filosofico: ma se apprendi vuol dire per necessità logica che non ti possono rimanere incomprensibili eh. “Tu non puoi capire” implica che nun te devi manco sforzà:)
Giorgia mi hai fatto ridere – ma no, io ci ho il Pipikke di 6 mesi – nnnonoonnè che stia una favolaaa de formaa smagliante ecco! Ma tu non puoi capire non lo dico mai.
Fabio difendi la rinfacciatora! Ora!
Ciao Massimo:)
@Giò sì, in nome della condivisione che anima il blog che ci ospita è un bene coinvolgere attivamente…io il mio durante il corso preparto lo massacravano con il “morso del ciuccio” all’interno coscia e lui …respirava…come quando si fa con le doglie!!!Per me è stato un elemento di tortura-unione indimenticabile…
@Simo condivido quello che dici sul comportamento antitetico e complementare con il figlio. Io sono sicura di soffrire di sdoppiamento peggio di Psycho,passo da “maleparole” da quartieri bassi partenopei con il maschio,insieme con mosse di judo da sciatalgia fulminante, a scelte di nuance di maglioncino da indossare e dissertazioni filosofiche sulla gamma dei verdi con la femmina….il segreto,come suggeriscono le tue belle descrizioni,è restare aperti a chiavi di comportamento e di codici differenti anche se a prima vista non li capiamo.
Mi ripeto,perchè ci credo,non sempre nella vita è necessario capire con la testa,il raziocinio, l’intelligenza,anzi talvolta l’uso smodato della testa ci fa fare passi indietro,mentre un equilibrio di testa e sensi ricettivi ci porta avanti…
Ricambio i baci e vi dono il diritto d’uso del pargolcalcolo, anche se spero non dobbiate trovarvi ad assistere partorienti maschi di pargolcalcoletti!!!…diventano isterici….non ne parliamo poi quando,dopo immane fatica per cacciarlo, scoprono che guardandolo in faccia non assomiglia a nessuno della famiglia,neppure ai nonni!!!!
@zaub
non lo dici perchè sei filosofa e psicologa e politicamente corretta. ti scatta la censura automatica. però in qualche zona recondita della tua amigdala sotto stress c’è qualche neurone ribelle che lo grida… o no? 😉
@fra giu
ma allora… se il maschio adulto comprende le gioie del parto attraverso il pargolcalcolo… si potrebbe dire che non con il cuore, nè con la mente egli comprende… bensì attraverso il …. (pisellino?) ?!? (se po’ ddì?)
bene, ora mi faccio i miei dieci minuti di vergogna e vado a nanna!
di corsa!
ciao a tutti e buona notte!
Ciao Zaub. E un saluto “ridareccio” a Fran, Simo, Giorgia…
Mi sa che Fabio si è dileguato…
Io, intanto, ho aggiornato il post inserendo due nuovi brani di Sandra e Dora:
– da “Non dire madre” di Dora Albanese (pagg. 28 – 29)
e
– da “Dolorose considerazione del cuore” di Sandra Petrignani (pagg. 161-162)
…
Andate a vedere!
Mi piace molto l’alternanza dei due brani.
In quello di Dora permane l’eco del dolore fisico del parto (e del post parto). C’è il figlio… e una “madre- non madre” (o non più madre) che si allontana per via del figlio.
Nel brano di Sandra, invece, c’è una madre che si avvicina (che ritorna). Anche questa, in fondo, è una “madre- non madre”… dato che diventa così piccola e bisognosa de sembrare quasi una figlia.
Ci vedo una sorta di gioco di specchi.
Bellissimo!
Ho pubblicato un nuovo post, ma qui spero che la discussione possa proseguire.
Una serena notte a tutti.
Sono mancata per un po’, ma rieccomi. Una riflessione, paragonando i miei ricordi di neo-madre a quelle di Dora e delle giovani (almeno credo) che sono intervenute a questo proposito. Io non ho “partorito nel dolore”, ho fatto il cesareo e mi sono risparmiata lo squartamento (che temevo più di ogni altra cosa). Non so se avrei retto all’attraversamento dei tormenti che Dora Albanese racconta con tanta dolorosa precisione. Mi è stato messo fra le braccia un bambino grasso e tondo che nemmeno lui portava i segni della sofferenza della nascita e aveva subito una gran fame. Ero comunque a pezzi, tagliata in due, sofferente e, una volta costatato che il piccolo era sano, l’unico desiderio era dormire e riprendermi. Dopo è stato l’innamoramento più totale e meraviglioso della mia vita. Mio figlio si chiama Guido e credo, sinceramente, che senza di lui non avrei mai avuto la misura dell’amore, quello con l’A maiuscola che dà senza chiedere, che è felice nel dare, che pensa solo al bene dell’altro. Credo di essere stata una buona madre tutto sommato. Parlo al passato perché oggi Guido ha 27 anni e il nostro rapporto più che fra madre e figlio sembra quello fra due amici per la pelle. Ho esteso alla sua compagna lo stesso amore: Silvia è la figlia femmina che non ho avuto. (Mi è più facile voler bene ai giovani che ai vecchi, devo confessarlo…) Sento invece molto estraneo il “senso di colpa” di cui ho letto in diversi interventi. Sono una devastata dal senso di colpa, ma verso mio figlio no. Forse perché quando si ama davvero e si fa tutto quel che si può (anche se non è mai sufficiente) non è possibile sentirsi in colpa. Ricordo un lidro di Erich Fromm, letto prima della gravidanza, “L’arte di amare”. Mi sembra dicesse proprio questo: che bisognerebbe amare tutti come una madre ama i figli. Capii quanto avesse ragione dopo la nascita di Guido. Eppure non tutte le madri amano bene i figli (la mia ne è un esempio: mi ha massacrata con i suoi doppi messaggi). Insomma non viene naturale a tutte, purtroppo, e questo complica le cose. Per me è stato così, non mi sono mai sentita meglio psicologicamente come durante la gravidanza: ero una mucca felice di compiere il mio dovere naturale, sparite le angosce e le nevrosi da cui ero invasa (poi sono tornate, ahimé).
Quanto al discorso della differenza fra maternità e paternità: credo che sia gigantesca e che non sia realmente possibile spiegare a chi non ha fatto l’esperienza (uomo o donna che sia) il senso di onnipotenza che dà sentire una vita crescerci dentro. E’ la misura del miracolo. E’ essere in pace con la vita e la morte, perché finalmente vivere ha un senso. Il senso di compiere il proprio mandato naturale, emozione unica di far parte armoniosamente di un universo di cui non capiamo nulla ma che ci chiede di essere creature sottoposte a regole precise. Non so se mi sono spiegata. Ho un grande rimpianto: non aver avuto altri figli.
Francesca Giulia mi ha ricordato un’altra cosa. Che il mio rapporto con Guido piccolo è stato molto carnale. Tutto nella nostra comunicazione, prima che lui imparasse le parole, ma anche dopo finché era un bambinetto che vedeva solo la mamma, passava attraverso il corpo e le emozioni. Per me, che devo sempre razionalizzare tutto e ho un rapporto prevalentemente intellettuale col mondo e con gli altri, è stata una rivoluzione copernicana. Quando mi chiedono “cosa devo fare per non sbagliare nell’educazione di mio figlio/a?” mi sento di rispondere solo questo: fai passare la comunicazione (e l’educazione) attraverso i fatti. Il contatto carnale di carezze, baci, rassicurazioni fisiche di tutti i tipi, e l’esempio. Inutile dire a un bambino: non ingozzarti, se poi la madre s’ingozza di cibo, sigarette ecc. O al contrario chiedergli di mangiare se poi gli si danno esempi anorressici. Per dire. Ho scelto due esempi basic. Ma la regola si può applicare a tutto: dal rapporto con gli altri a quello con gli animali, dal creare intorno al bambino un clima di sicurezza e apertura e non invece di paura e autoprotezione. Il bambino deve fare le sue esperienze, iperproteggerlo lo renderà egoista e insicuro. Naturalmente, se sta giocando ad aprire e chiudere un cassetto forsennatamente, dobbiamo essere lì pronti con la borsa del ghiaccio per curarne subito le dita peste. La sofferenza sarà ridotta al minimo e lui avrà imparato due cose: a non giocare così coi cassetti e a scoprire che ci sono rimedi ai guai. Bisogna conoscerli. Se invece gli impediamo fin dall’inizio di giocare coi cassetti, ci odierà e gliene resterà la voglia per sempre.
Francesca Giulia, anche tu come quelli che dicono “ah tu fai l’intellettuale” “ah tu fai quella de sinistra”? No cara, io non faccio niente, non simulo niente. non ho contraddizioni con la mia amigdala. Ti confesso che rimango sempre perplessa davanti a questo tipo di incredulità.
Però sempre alla francesca giulia ci mando un faccino 🙂
Così se no il commento sopra era troppo polemico!
Eccomi qua, Massimo. Non mi ero dileguato.
Non pensavo di ricevere così tante risposte. Ringrazio Sandra Petrignani e tutte le altre. 🙂
La “rinfacciatrice” è la mia adorabile compagna.
Per Natale le regalerò i libri di Sandra Petrignani e Dora Albanese e questi vostri commenti di risposta alla mia domanda. Tutto infiocchettato a dovere. 🙂
@ Fabio
Bentrovato!
Comunque sia, regalare libri è sempre un’idea vincente! 🙂
@ Zauberei
Ehm… Zauberilla?… mi sa che il commento a cui ti riferivi era di Giorgia, e non di Francesca Giulia.
Alla tua faccina ne aggiungo un’altra. 🙂
Inflazione di faccine, dài…
@ Sandra Petrignani
Cara Sandra, grazie per questi tuoi bellissimi commenti in cui ci racconti di te e della tua esperienza di madre.
eh, si zaub, temo proprio che il commento fosse mio… però stavo giocando un po’ con le parole…. 🙂
tornando seri, condivido moltissimo l’intervento di sandra (che è un piacere conoscere, anche se solo attraverso il web). il senso di onnipotenza che ti invade quando hai una vita dentro, e soprattutto (almeno per me) dopo averla data alla luce, è verissimo. a me sembrava che dopo aver fatto quello non avrei avuto più paura di niente, sarei stata capace di tutto. poi finisce, purtroppo…
e mi ha fatto tanto ridere la definizione di “mucca felice”, sensazione che anche io ricordo bene…
e poi, la diversità di esperienze maschili e femminili a proposito della genitorialità è un dato di fatto: perciò, forse, il “tu non puoi capire”, è reciproco. Posso cercare di comprendere, immedesimarmi, provare attraverso il cuore, la mente, la ragione, la cultura, e posso raggiungere gradi anche molto alti di empatia, però non posso “sentire” come l’altro.
ma non mi sembra una cosa negativa, perchè credo anche che la diversità sia una ricchezza.
Ringrazio ancora tutti gli intervenuti in questo splendido post… in particolare le due protagoniste: Sandra Petrignani e Dora Albanese.
Per me – se volete – la discussione rimane aperta…
Intanto fornisco ulteriori informazioni sui due libri.
Qui trovate la rassegna stampa al volume “Dolorose considerazioni del cuore” di Sandra Petrignani:
http://home.edizioninottetempo.it/category/stampa/rassegna-stampa/?titolo=Dolorose+considerazioni+del+cuore
Qui, invece, la rassegna stampa a “Non dire madre” di Dora Albanese:
http://www.hacca.it/hacca/prodotti/prodstampa.php?idProdotto=68
Caro Massimo, bellissimo ed intrigante argomento.Mi balenano tali immagini, quando penso al rapporto madre-figlia:l’unità indivisibile;il due in uno;la perpetuazione;l’essere per la morte;la perdita e il ritrovamento; la trasformazione.Sono questi processi psichici e fisici insiti nel femminile.Altro é il rapporto madre-figlio: amore e distacco. Per divenire altro rispetto al femminile. Tanti auguri.Lucia
Carissima Lucia, grazie per questo tuo commento. E bentornata a Letteratitudine…
Complimenti per il tuo blog…perché non mi inserisci tra i tuoi amici e mi linki?? Te ne sarò grata
grazie!!!
La recensione su Dora Albanese di Gianfranco Franchi mi ha colpito dritto nel cuore – e anche nell’alfabeto che li’, nel cuore, risiede. Di lui ho fiducia e pertanto amerei poter leggere il debutto di Dora per, magari chissa’, poter esprimere qualche balbettio su carta…