Il nuovo appuntamento dello spazio “POESIA” di Letteratitudine è dedicato alla raccolta di versi di Daniela Matronola intitolata “Melamangiai” (RP libri)
Di seguito, la recensione di Simona Lo Iacono.
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MELAMANGIAI di Daniela Matronola
Scrivere è sempre uno scandalo. Forse un peccato originale. Come se, cogliendo il frutto proibito nel giardino dell’Eden, Eva avesse immesso nell’eternità non solo il destino dell’uomo, la sua fragilità, la sua finitezza. Ma anche l’ambiguità delle parole.
Prima di tradire, l’uomo non scontava alcuna differenza tra l’essere interiore e quello esteriore. Interagiva con Dio attraverso un linguaggio silenzioso e stupito. Ma quando disobbedisce, la prima cosa di cui si accorge è che è nudo. Che è uomo, e deve coprirsi. E che la parola non è solo relazione, ma anche maschera.
Per farne riaffiorare la purezza, per tornare a darle la perfezione originaria, servono i poeti.
A loro è dato eliminare le scorie del tradimento, scavare, riannodare, ripulire. Nelle loro mani è la ricerca dolorosa di quella prima compattezza tra dentro e fuori. Una compattezza perduta per orgoglio.
Il poeta, allora, in qualche modo è un potente rievocatore di umiltà, perché si fa servitore della primissima vocazione della parola.
Ripara al tradimento, sia pure nel breve lasso di un verso.
Daniela Matronola è quel genere di poeta.
Non a caso la sua raccolta di versi si intitola “Melamangiai” (RP libri), la parola che disse Eva dopo quel primo morso alla mela nel paradiso terrestre.
La sua ricerca è tutta volta a riannodarsi ai valori nascosti dell’essere. Alle motivazioni spirituali e inquiete della scrittura.
Daniela indaga mentre scrive. La poesia le si rivela mentre si fa, mentre si crea. È una tela di ragno, ma è anche il ragno che tesse la tela. È sogno di dormiente, ma anche dormiente che viene sognato.
Come quando dice: “la scrittura si compone per affioramenti, affiora la patologia e affiora la diagnosi”. E quando trova la forza di sospirare: “Sparire nella parola chiede coraggio”.
È sempre l’atto dello scrivere che la forza a farsi domande scomode, che si scontrano contro l’incessante passare delle cose, contro quella loro transitorietà destinata a finire. Perché la parola nata da un atto di verità, sempre alla verità deve tornare.
E allora: “Mi chiedo se tutto questo lasciare indietro sia una regola aurea da sopravvissuti o se sia il cinismo solo un coperchio di metallo…. come si forma, e come si trattiene il ricordo? …In quale punto della terra restiamo nel mondo?”
Daniela ci si addentra, nel mondo, anche se silenziosamente, spiandolo come da una feritoia. Questa feritoia è sempre la poesia. Ed è la poesia a rivelarle, per quel suo antico e regale destino, che la realtà tradisce al pari del morso di Eva. Che tralascia i deboli, disarma i disarmati, sconfigge gli sconfitti.
“Fu assicurata la crescita zero al Mezzogiorno… poco o punto è importato degli orfani”.
È quindi ciò che siamo diventati a tradire, a rinnovare quel primo atto di disubbidienza. Figli del primissimo atto di ribellione, continuiamo a rivoltarci contro la nostra essenza dimenticando la nostra vera eredità. Eravamo nati per essere felici, e quindi per essere semplici.
I poeti allora diventano indispensabili oggi. Gli unici a opporsi veramente a quel primo, e perpetuato, tradimento. Gli unici a resistere e a rimarcare il valore della memoria, il pericolo di smarrire la semplicità.
Daniela lo avverte, lo denuncia, lo grida. La dimenticanza è un allarme, che inghiottirà le cose vere poco per volta, e le farà – le ha già fatte – sparire.
“Sparita la viva voce del mezzadro, col suo racconto dialettale, …sparito il gallo accigliato attento al proprio parco, accostato senza deferenza abbastanza… sparito anche il pane tolto col coltello a fette alte dalla forma cotta al forno a legna… Tutti spariti, tutti scomparsi… maggior sconfitta o guadagno è aver capito che nessun altro avrebbe lottato, con o per te”.
Lottare è quindi dire. Ma dire nella misura alta del poeta vero, che alla apparenza preferisce la sostanza calda del cuore. Alla visibilità, l’invisibilità: “Di te vorresti si dicesse, si nota per l’assenza, non c’è dunque manca”.
Ma Daniela c’è. E c’è nella misura in cui afferma il suo bisogno di esserci, la sua fame di dare un nome alle cose perché vengano ad esistenza: “Della lingua della Legge ho imparato un trucco: tutte le cose dette, le cose nominate, sono tutte indicate perché mancano”.
Con “Melamangiai” Daniela Matronola ci regala un gioiello di rara bellezza. La sua voce. La sua ricerca. Il suo personalissimo atto di riparazione al peccato originale.
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Daniela Matronola, Cassino 1961, lavora alla propria letteratura da molti anni, su quasi tutti i fronti: racconto, romanzo, traduzione, critica, poesia. Prima in Italia (a parte le lezioni milanesi di Giuseppe Pontiggia) ha tenuto corsi sulla poesia italiana a studenti americani alla LUISS, e corsi di scrittura in versi per la scuola di scrittura OMERO. Ha vinto premi per racconti e poesie.
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