LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » strane coppie http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 È online la puntata con ANTONELLA CILENTO e MASSIMILIANO FINAZZER FLORY, ospiti di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 1 marzo 2013 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/03/04/in-radio-con-antonella-cilento-e-massimiliano-finazzer-flory/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/03/04/in-radio-con-antonella-cilento-e-massimiliano-finazzer-flory/#comments Mon, 04 Mar 2013 22:15:31 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5025 antonella-cilento-massimiliano-finazzer-floryÈ online la puntata con ANTONELLA CILENTO e MASSIMILIANO FINAZZER FLORY, ospiti di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 1 marzo 2013

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Ospiti della puntata di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 1 marzo 2013 sono stati la scrittrice e docente di scrittura creativa Antonella Cilento e l’attore e regista teatrale Massimiliano Finazzer Flory.

Con Antonella Cilento abbiamo discusso della nuova edizione dell’iniziativa culturale chiamata “Strane Coppie” (che si svolge a Napoli).
Ne abbiamo approfittato altresì per discutere dell’attuale “situazione culturale” della città partenopea.

Con Massimiliano Finazzer Flory abbiamo discusso di teatro e di Pinocchio, in occasione della messa in scena dello spettacolo teatrale (diretto e interpretato dallo stesso Finazzer Flory) intitolato “Pinocchio. La storia di un burattino” (di recente oggetto di un importante tour internazionale).
Abbiamo chiesto a Massimiliano Finazzer Flory di interpretare, via telefono, qualche scena dello spettacolo.

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il venerdì mattina (h.13 circa) e – in replica – il martedì sera (h. 20,30) e il mercoledì mattina (h. 11,00). Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

È possibile ascoltare le puntate precedenti, cliccando qui.

© Letteratitudine

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STRANE COPPIE n. 3: ANNA MARIA ORTESE, INGEBORG BACHMANN http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/02/strane-coppie-n-3-anna-maria-ortese-ingeborg-bachman/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/02/strane-coppie-n-3-anna-maria-ortese-ingeborg-bachman/#comments Tue, 02 Jun 2009 09:16:00 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/02/strane-coppie-n-3-anna-maria-ortese-ingeborg-bachman/ ortese-bachmann.JPGNuova puntata de Le strane coppie di Antonella Cilento.
Stavolta vengono messe a confronto due scrittrici: Anna Maria Ortese e Ingeborg Bachmann. I due libri accoppiati sono: “Il cardillo addolorato” (della Ortese) e “Il caso Franza” (della Bachmann). Le ragioni di questo accoppiamento vengono ben spiegate da Franz Haas nella bella nota che segue.
Ne approfitto di questo post per invitarvi a ricordare e a esprimere le vostre opinioni su Anna Maria Ortese e Ingeborg Bachmann.
Conoscete queste due autrici? Le avete mai lette?
Inoltre, la relazione di Haas mi ha ispirato un paio di domande…

Haas scrive che in ambedue le opere qui considerate una voce femminile esprime il dolore del mondo.
Allora vi domando: secondo voi le voci femminili, nella scrittura, riescono a esprimere meglio il dolore del mondo?
Dalla lettura della suddetta relazione emerge la grande stima della Ortese nei confronti della Bachmann. Un stima immensa, che – al tempo stesso, come capirete leggendo – è indice di una grandissima umiltà.
Così vi domando… che relazione c’è tra arte e umiltà?
La grandezza di un artista può essere collegata alla sua umiltà?

Di seguito, l’introduzione di Antonella Cilento e la relazione di Franz Haas.

Massimo Maugeri

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Introduzione di Antonella Cilento

E’ con vera gioia che vi segnalo il proseguire incessante (e la crescita) del progetto STRANE COPPIE, organizzato da me con Lalineascritta Laboratori di Scrittura, e grazie alla collaborazione attivissima degli Istituti di Cultura napoletani, il Goethe Instut, l’Instituto Cervantes e l’Institut Français de Naples.
Strane Coppie è giunto ormai a buon punto: all’Instituto Cervantes giovedì 21 maggio h 19 si sono svolte le RIVOLUZIONI IMPOSSIBILI, dove Domenico Starnone e Melania Mazzucco hanno raccontato Il resto di niente di Enzo Striano e Il secolo dei lumi di Alejo Carpentier e, giovedì 11 giugno h 18.30 all’Institut Français de Naples, ci saranno RITRATTI DI DONNA, dove Sandra Petrignani e Donatella Trotta racconteranno Claudine di Colette e Il paese di Cuccagna di Matilde Serao.
Nel frattempo, ringrazio infinitamente Franz Haas per averci concesso di pubblicare la traccia del suo intervento avvenuto lo scorso 23 aprile presso il Goethe Institut: Franz Haas ha dialogato con Maria Attanasio intorno a Il cardillo addolorato di Annamaria Ortese e Il caso Franza di Ingeborg Bachmann.
Del perché di questo parallelo leggerete qui, di seguito, dalle stesse parole di Haas, ma occorre ricordare di quanto invece detto da Maria Attanasio, che speriamo presto di ospitare in questo spazio, che in quest’incontro si è rivelato un tema della scrittura di sempre: che un’autobiografia può essere un romanzo storico e che un romanzo storico può diventare una verità autobiografica. Di queste due autrici, fra i più grandi del Novecento, si può senz’altro dire che hanno cercato senza interruzione la loro personale Verità e sono rimaste, come scrive Monica Farnetti in Tutte signore di mio gusto, “fedeli all’invisibile”.
Ringrazio ancora particolarmente Franz Haas per la generosità e la gentilezza con cui ci ha raccontato i suoi personali ricordi relativi ad Annamaria Ortese e offerto sprazzi del loro carteggio privato.

A. Cilento

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Anna Maria Ortese e Ingeborg Bachmann –
“Il cardillo addolorato” e “Il caso Franza”

di Franz Haas

Per vari motivi ho suggerito di abbinare il romanzo incompiuto “Il caso Franza” di Ingeborg Bachmann al capolavoro “Il cardillo addolorato” di Anna Maria Ortese: perché in ambedue le opere una voce femminile esprime il dolore del mondo; perché in entrambi i romanzi una giovane donna ha un legame viscerale con un fratello più piccolo; e perché la Ortese stimava la Bachmann in modo quasi smisurato, particolarmente “Il caso Franza”, come mi scriveva in varie lettere che in seguito citerò.
Nel 1993 tornano i miracoli a Milano: dopo il clamoroso insuccesso del romanzo “Il porto di Toledo” nel 1975, il nuovo romanzo di Anna Maria Ortese è più fortunato, e per più ragioni. Primo, perché “Il cardillo addolorato” è la summa di tutta l’opera dell’autrice; ibrido stupefacente, spiritoso e malinconico ad un tempo; libro dell’età matura ma pieno di virtuosismi giocosi. Secondo, perché esce presso la nobile casa Adelphi, il che conta molto in una società devota alle etichette. Terzo, perché i buttafuori della critica non vigilano più con tanta severità sulle mode postmoderne.
Anche questo romanzo, come “Il porto di Toledo” si svolge in una Napoli fantomatica, città che l’autrice non vede da molti anni, davanti alla “fiaccola del Vesuvio” e ad altri accessori vecchi duecento anni. Sull’Europa brillano ancora le stelle dell’illuminismo ma già i primi fantasmi romantici cominciano ad oscurare il cielo. Tre viaggiatori belgi vivono la città nella sua leggerezza scintillante, ma presto la scena si offusca. I tre conoscono un ricco guantaio e sua figlia Elmina; uno dopo l’altro si innamorano di lei e intuiscono che su questa famiglia grava un tremendo segreto. Passeranno gli anni e gli stranieri non capiranno niente – soltanto che la ragazza soffre di qualche amore ridicolo, per un folletto, o per un idiota.
L’autrice si prende gioco della logica narrativa, accumula personaggi strambi che raccontano sempre nuove e strane varianti della disgrazia. Il lettore coscienzioso fatica ad orientarsi fra tanti nomi e fatti, gradi di parentela e chiacchiere da serve; egli insegue orme di fantasmi e date storiche per mezza Europa, ma alla fine nulla quadra, e non si sa se lo gnomo tanto amato ha tre anni, o trecento. Il “narratore” si scusa ogni tanto della grande confusione. Ma in fondo la vicenda è molto semplice: la figlia del guantaio aveva promesso al padre morente di prendersi cura del fratellastro deforme; per questo rifiuta ogni altro legame amoroso.
La giovane Elmina si accanisce nel suo amore sordo per il fratellino e per la solitudine, tanto da non essere più in grado di amare se stessa o alcuno. Uno degli ospiti di suo padre, il principe Ingmar di Liegi, la adora invano per tutta la vita. Lei sposa un altro, senza amarlo, il primo pretendente che capita, un artista dissennato amico del principe, sperando così di poter adottare il piccolo deforme. Quando muore questo marito ad Elmina rimane soltanto una bimba ritardata e il disgraziato fratello, che forse non è neppure un umano, ma un folletto, che a volte sembra una gallina o anche un capretto.
Il principe cerca di dimenticare, si sposa e sua moglie muore. Anni dopo torna a Napoli ed è tutto come sempre. Nell’animo di Elmina sono sopravvissute la freddezza e la pazienza, nella sua voce c’è sempre un’ironia gentile. Morendo il principe spera ancora in una qualche illuminazione. Ma non ci sono più segreti. Il disamore è davvero così sinistramente banale.
In questo romanzo Anna Maria Ortese ha narrato anche una storia autentica che conosceva dai racconti della sua adolescenza; il resto è favola e quella fantasia che viene dalla solitudine e dalla memoria. Il dolore è un’eredità del ricordo e lo si sopporta meglio nell’ironia, nel divertimento, sciogliendolo nell’assurdo. Spesso si fa largo anche la malinconia, ma l’autrice ogni tanto la scaccia con bizzarra comicità: l’adozione della piccola creatura (un trovatello di Colonia, come affermano antichi documenti) sarebbe necessaria per prolungare “il permesso di soggiorno nel Regno di Napoli”. (Qualche stupido crede persino che lo gnometto sia una spia della polizia.) Ma il mondo non è fatto di sola carta timbrata.
La realtà brutta, povera, deforme è onnipresente; le ferite e la disperazione sopravvivono agli umani, e restano. Tanti folletti storpiati se ne stanno accovacciati sui marciapiedi di Napoli, a “Liegi ed altre capitali”, leccando un po’ di latte versato.
Con il suo amore per il fratello, questo figlio sciagurato della natura, Elmina pratica una religione senza Dio né preghiere. “Ama un fantasma e questa disgrazia merita il più grande rispetto.”
Sente per tutta la vita il canto di un cardillo, che la esorta a considerare il dolore un privilegio, e la invoca di non abbandonare mai quella creatura debole; e lei prende sul serio questa vocazione, come altri si dedicano agli affari di borsa o alla poesia. L’autrice ha piena comprensione per tale ossessione. Con una fitta rete di metafore elabora una poetica in difesa del superfluo, del debole e del ridicolo; di ciò che proviene dai gironi più bassi dell’umanità, contro la logica dei vittoriosi, contro l’arroganza profumata delle parrucche nei salotti aristocratici. Oppone loro, con convinzione, il suo racconto e le sue poetiche immagini dell’inanità.
Elmina sopporta la sua sorte con la calma dei forsennati.
Il suo vecchio padre guantaio soffre molto più di lei, per lo strano trovatello e per una moglie che non lo ha amato mai. In una scatola bucata custodisce le “lettere d’amore” di lei (oppure il trovatello?); qualche volta, attraverso i buchi filtra un lamento debole. Il guantaio trascina la scatola attraverso tutta la sua vita; ma in verità il pacco contiene una sola lettera di poche righe – una gelida richiesta di soldi.
In tutta l’opera di Anna Maria Ortese esistono simili creature del dolore, né folli né ottuse abbastanza da poter sopportare in silenzio. A loro l’autrice dà voce: un miscuglio fra il realismo oscuro e “la magia nera delle parole” (Ingeborg Bachmann).
La strategia linguistica del romanzo è semplice e raffinata come l’esibizione di un vecchio clown esperto: dal rococò leggiadro delle descrizioni di certe cianfrusaglie color rosa fino al turbato silenzio esistenzialista di fronte alle cose di cui un poveretto non può parlare. E regolarmente l’ironia simulata si interrompe per fare largo ad un terrore verace. La grande arte di Anna Maria Ortese consiste in questo funambolismo dialettico-stilistico fra ragionevolezza disincantata e irrazionalismo spaventato e spaventoso.
L’autrice mantiene un continuo dialogo con il lettore, catturandolo con spiritosa ambiguità: “É penoso compito del narratore di storie sotterranee (…) preparare il suo ipotetico Lettore a una tranquilla delusione e insieme cauta speranza.”
Si confida con lui per chiedergli, insicura e lusinghiera, se veramente lo interessa questa storia “di bambine dispettose e uccelli infelici”. In ogni capitolo è presente “il narratore” che sospira ammiccando: “Dov’è adesso, per favore, il Lettore silenzioso (…capace di) raccogliere il silenzio glaciale dell’Universo, le liti dei fanciulli del mondo sotterraneo, gli sputi, le lacrime (…)?”
L’eroe maschile dominante di questo romanzo è il principe Ingmar di Liegi; è quasi invulnerabile nella sua innocuità. Avverte il dolore della delusione ma continua la sua vita da diplomatico, illuminato e ingenuo. “La magia non lo turbava, ma le cose del cuore sì.” Non sa cosa lo leghi veramente a Elmina, non conosce i rumori notturni nell’anima di una camiciaia. In fondo la considera sempre “una ruvida capra”, brutta nel suo dolore mediocre, la “capra del Golfo”. Quando egli si corica la sera, per riposare o per morire, il maggiordomo annuncia “un certo Cardillo, da Napoli”. Il principe è contento del canto e tutto intorno a lui diventa calmo, freddo, infinito.

Ho conosciuto Anna Maria Ortese la primavera del 1990, tramite Fabrizia Ramondino, proprio mentre stava lavorando a questo romanzo per il quale le servivano delle fotografie di quella zona di Napoli dove in parte è ambientato, il Pallonetto di Santa Lucia. Mi assumevo il compito di farle e poi di commentarle durante una mia visita a Rapallo. Nelle nostre conversazioni e nelle lettere che seguiranno Anna Maria Ortese si sofferma volentieri su Napoli, e mi parla con grande fremito del “Cardillo”, la sua creatura napoletana. Quando il romanzo esce, a maggio del 1993, all’autrice rimane l’antica angoscia causata dai suoi naufragi napoletani, e mi scrive: “Il libro è pronto (gliene ho mandato una copia) e dovrebbe essere in vetrina fra pochi giorni. Ma mi aspetto la stessa accoglienza che ebbe ‘Toledo’. Sparirà subito. Vedrà”. (12 maggio 1993)
Questa è pura scaramanzia, perché già si stanno muovendo i tamburi della stampa, è in arrivo una valanga di recensioni favorevoli.
Nell’estate del 1993 faccio un’altra visita ad Anna Maria Ortese, a Rapallo. Orgogliosa, mi regala una copia della traduzione spagnola del “Porto di Toledo”, appena uscita. A dicembre del 1993 mi esprime la sua soddisfazione per il successo economico del “Cardillo”, ma pensa già al futuro, alla rinascita di “Toledo”, il suo libro ingiustamente affondato, la sua creatura più napoletana.
Di Napoli, di “Toledo” e del “Cardillo” la Ortese parla sempre con timoroso entusiasmo, ma volentieri affronta anche altri argomenti. Vuole conoscere le mie letture preferite. Le parlo di Carlo Emilio Gadda, di cui lei ha solo un vago ricordo, e poco dopo mi scrive: “Ho cercato subito “La cognizione del dolore”, e ho cominciato a leggerlo stanotte, sbalordita da tanta grandezza, e mortificata di non averne saputo del tutto – o quasi – nulla, finché Lei non me ne ha parlato.” (23 maggio 1990)
Una reazione simile, persino di maggiore entusiasmo, suscita un mio suggerimento su Ingeborg Bachmann – la Ortese non conosce affatto l’autrice austriaca. Le spiego che la Bachmann ha passato molti anni in Italia, che era approdata ad Ischia e a Napoli proprio quando lei, la Ortese, aveva lasciato per sempre la sua città, che a Roma, per molti anni, avrebbero potuto incontrarsi. In varie lettere la Ortese affronta gli scritti della collega austriaca, è palesemente emozionata: “Ho letto, con grande commozione, “Canti durante la fuga”, di Ingeborg Bachmann. Vorrei leggerne altre poesie. Dove? Chi le ha pubblicate? La neve del cuore rivela una Napoli ignota. Poesia, sì, da brivido: ma assolutamente alto.” (3 luglio 1990)
Nella mia lettera di risposta do le indicazioni bibliografiche, e qualche giorno dopo, ecco la sua ammirazione senza riserva:
“Della Bachmann ho letto, inviati dalla Adelphi, tutti e quattro (credo che siano quattro) i volumi di narrativa. Tutti i racconti sono di altissima qualità, le cose più alte scritte da una donna, in Europa. Non ci sono confronti con altre scrittrici, nel mondo. Come prosa, no. Nessuna donna scrive in un modo così vertiginoso, attento, limpido: e c’è un dolore quasi soprannaturale; il dolore moderno. Non c’è un suono, poi, che non sia puro. Non ci sono tracce di terra. Quando l’ho letta, ho sentito tutti i miei limiti. Ma senza umiliazione. (Di tutti i miei libri, Lei lo sa, ne considero uno solo. Un solo libro ho scritto, e il resto è così così.)” (10 agosto 1990)

“Un solo libro ho scritto” – è questa la sintesi drastica di una lunga vita, di settanta anni di incessante scrittura, il giudizio autocritico e ingiustamente duro, dopo essersi confrontata con Ingeborg Bachmann. Anna Maria Ortese è colpita particolarmente proprio da un’opera che la stessa Bachmann aveva rifiutata e mai pubblicata, il frammento di un romanzo che uscirà postumo con il titolo “Il caso Franza”. In una lettera dell’estate 1990, mentre sta lavorando incessantemente al Cardillo addolorato, la Ortese mi scrive le seguenti parole entusiaste:
“Nel Caso Franza (Adelphi), pag. 50-51, trovo la pagina più innocente, più splendida, di tutta la narrativa del dopoguerra. Quando Franza – e suo fratello – aspettano che il cielo (il mondo) si rassereni – si liberi. E poi arrivano solo delle umili Jeep – e Franza cerca di capire a chi rivolgere il suo benvenuto – la parola di Schiller – e si fa – da sola – capo del paese liberato.
Questo episodio non sopporta confronti con nessun altro della storia umana, visto da una donna – e forse da uomini – di questo secolo.
Lei può essere orgoglioso che l’Austria abbia dato una grazia e una grandezza simili. – Non ci sono confronti.” (26 agosto 1990)

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INGEBORG BACHMANN: Il caso Franza, Milano, Adelphi, 1988.
ANNA MARIA ORTESE: Il cardillo addolorato, Milano, Adelphi, 1993.

54 lettere di Anna Maria Ortese a Franz Haas, scritte negli anni 1990 – 1998, sono accessibili all’Archivio di Stato a Napoli.

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STRANE COPPIE: MARCEL PROUST, NATALIA GINZBURG http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/02/03/strane-coppie-marcel-proust-natalia-ginzburg/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/02/03/strane-coppie-marcel-proust-natalia-ginzburg/#comments Mon, 02 Feb 2009 23:00:17 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/02/03/strane-coppie-marcel-proust-natalia-ginzburg/ ginzburg-proust.JPGMettiamo a confronto Marcel Proust e Natalia Ginzburg. Accostiamo la Recherche al Lessico famigliare. La possibilità ce la offre Antonella Cilento con una nuova puntata de L’ombra e la penna, nella quale illustrerà una bellissima iniziativa culturale portata avanti a Napoli.
Leggete il bel pezzo di Antonella che troverete di seguito!
Io vi invito a discutere sugli autori e sulle opere oggetto di questo post.
Cosa pensate di Marcel Proust? Avete mai letto la “Recherche”? Che effetto vi ha fatto?
E su Natalia Ginzburg e il suo “Lessico famigliare”… ?
A proposito… a vostro avviso, oggi, in Italia, esiste ancora un lessico famigliare?
A voi.
Massimo Maugeri

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Cari amici de L’ombra e la penna,
dal mese di gennaio fino a giugno 2009 Lalineascritta e gli Istituti di Cultura napoletani (Institut Français de Naples, Instituto Cervantes e Goethe Institut) lanciano un’iniziativa intitolata Strane Coppie.
Tutti ricorderete il film di Billy Wilder: qui la strana coppia non è costituita dai due meravigliosi inquilini forzati (Walter Matthau e Jack Lemmon), ma da scrittori contemporanei che si confrontano e dibattono su coppie di grandi classici.
Lo scorso anno Lalineascritta aveva offerto Strane Coppie ai suoi iscritti con ottimi e sorprendenti risultati: si erano incontrati/scontrati, fra gli altri, Anna Karenina e Madame Bovary, le sorelle Brönte, Stevenson e Dostoevski, Orgoglio e pregiudizio e Ritratto di signora, L’isola di Arturo e Gita al faro. Quest’anno l’iniziativa è pubblica e gratuita grazie alla collaborazione con gli Istituti, cosa fondamentale per Napoli e per questo tipo di incontri che vogliono portare quanti più lettori ad avvicinarsi o riavvicinarsi ai grandi libri con una prospettiva meno scolastica e certo anti-accademica.
L’altra novità è che, svolgendosi gli incontri presso le sedi degli Istituti stessi, ogni coppia prevede un confronto fra classici italiani e, di volta in volta, francesi, spagnoli, tedeschi.
A volte si tratta di capolavori assoluti noti ai più ma magari non letti abbastanza, come è capitato nel primo incontro che si è tenuto giovedì 22 gennaio presso l’Institut Français de Naples e dove io stessa (in sostituzione di Laura Bosio, che salutiamo affettuosamente) e Mariolina Bertini Bongiovanni, vicedirettrice dell’Indice dei Libri del Mese, studiosa di Proust e di Balzac (di cui sta curando da anni l’opera per i Meridiani) abbiamo raccontato a una sala gremitissima Lessico famigliare di Natalia Ginzburg e Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.
Di seguito, troverete una sintesi del mio intervento e nei prossimi mesi spero di potervi fornire altrettante brevi sintesi degli incontri che seguiranno.
Intanto, eccovi il calendario dei prossimi incontri:

Giovedì 19 febbraio 2009 – Goethe Insitut
Triangoli amorosi
Le affinità elettive vs Malombra
Goethe vs Fogazzaro
GIUSEPPE MONTESANO E FRANCESCO COSTA

Giovedì 19 marzo 2009 – Instituto Cervantes
Fantastico
Finzioni vs Le città invisibili
J.L. Borges e Italo Calvino
IVAN COTRONEO E ANTONIO PASCALE

Giovedì 23 aprile 2009 – Geothe Institut
Azzurrità
Il cardillo addolorato vs Il caso Franza
Anna Maria Ortese vs Ingeborg Bachmann
FRANZ HAAS E MARIA ATTANASIO

Giovedì 21 maggio 2009 – Instituto Cervantes
Rivoluzioni impossibili
Il secolo dei lumi vs Il resto di niente
Alejo Carpentier e Enzo Striano
DOMENICO STARNONE E MELANIA MAZZUCCO

Giovedì 4 giugno 2009 -Institut français de Naples
Ritratti di donna
Claudine vs Il paese di Cuccagna
Colette e Matilde Serao
DONATELLA TROTTA E SANDRA PETRIGNANI

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Il lessico famigliare di Natalia Ginzburg

di Antonella Cilento

Come vedete, alcuni classici sono assai noti e altri in Italia meno conosciuti o diffusi: la Bachmann, Carpentier, Colette che sono autori di assoluto rilievo nei rispettivi paesi, mentre in Italia sono tradotti ma non oggetto di attenzione continua, come meriterebbero. In altri casi, un grande classico come Malombra di Antonio Fogazzaro è spesso brevemente antologizzato a scuola ma di rado lo si legge integralmente. Quindi, sperando di avere anche gli amici di Letteratitudine fra il pubblico che affollerà i prossimi incontri, passo a raccontarvi un po’ del “mio” Lessico famigliare.

Dopo che Mariolina Bertini Bongiovanni ha raccontato magistralmente La Recherche, affrontando la sfida di concentrare in poco più di un’ora una storia critica lunga un secolo di un romanzo senza il quale molta della letteratura del Novecento non sarebbe concepibile e trattando, fra i molti temi che era possibile affrontare, anche la questione della traduzione di Proust in Italia, mi accingo a parlare di Lessico famigliare.
Il primo volume della Recherche fu tradotto per Einaudi proprio da Natalia Ginzburg: una traduzione imperfetta, fatta in condizioni particolari e senza un adeguato vocabolario, che però la Ginzburg non rinnegò mai, anche a distanza di anni. Quella traduzione era un pezzo della sua memoria, le ricordava un momento particolare della sua vita.
Proust compare in Lessico famigliare in moltissimi e spassosi punti:

“Mia madre aveva letto Proust, e lei pure, come Terni e la Paola, lo amava moltissimo; e raccontò a mio padre che era, questo Proust, uno che voleva tanto bene alla sua mamma e alla sua nonna; e aveva l’asma, e non poteva mai dormire; e siccome non sopportava i rumori, aveva foderato di sughero le pareti della sua stanza. Disse mio padre: – Doveva essere un tanghero!”.

Ma anche quando La Recherche non viene evocata direttamente, Proust è nell’aria: è parte indispensabile, causa prima di Lessico famigliare.
Il mio personale ricordo di questo libro è scolastico: è capitato alla Ginzburg come a Calvino di diventare classici in vita, citatissimi e indispensabili per decenni, hanno parlato a intere generazioni e poi le antologie scolastiche, che prima li includevano sempre, hanno smesso di ospitarli. Non so, quindi, quanti oggi fra i più giovani abbiano mai letto la Ginzburg. Certamente, anche Proust, lettura indispensabile alla formazione intellettuale di intere genie di lettori, oggi è accostato con sempre maggiore difficoltà.
Lessico famigliare parlava a me, che avevo quattordici o quindici anni, in un dialetto che non era il mio, con un idioletto sconosciuto (potacci, sbrodeghezzi, fufignezzi) ma che mi entrava direttamente nel sangue: non c’è famiglia in Italia che non abbia il suo specifico lessico, quei modi di dire con cui si identificano nonne e zie, fratelli e sorelle.
Il secondo ricordo è invece più recente: all’Archivio di Stato, mentre preparavamo A.M.O., una serie di giornate dedicate all’Ortese, mi capitarono fra le mani alcune delle lettere intercorse fra queste due grandissime scrittrici. Puntuta e fitta la scrittura di Ortese, occupava anche gli spazi verticali del foglio, invadeva persino un pacchetto di sigarette (meravigliosa icona). Quella di Ginzburg era invece calma, scolastica, aperta, come i denti larghi dei bambini. E l’Ortese si disperava per i suoi libri (erano lettere editoriali del periodo in cui Ginzburg lavorava per Einaudi) e Ginzurg, molto discretamente, cercava di tranquillizzarla.
Questa serenità di Natalia che ce la rende ancor oggi vicina perché donna attraversata dalla Storia, soggetta a dolorose perdite (i due mariti, i suoi cari, la nascita di un figlio malato) ha forse offuscato per un po’ i suoi grandi meriti letterari. Lessico famigliare fa parte di quella grande famiglia di romanzi che esplorano le relazioni e la memoria nati in risposta, per filiazione o gemmazione dalla Recherche: guarda caso, però, a me sembra che queste filiazioni riguardano un numero assai maggiore di scrittrici piuttosto che di scrittori (penso, per fare giusto due nomi, ad Althénopis di Fabrizia Ramondino ma anche a scrittrici distanti dallo spazio europeo, all’autobiografia stupenda di Janet Frane, Un angelo alla mia tavola).
Probabilmente perché la Recherche tocca il tema della memoria attraversando il tempo, ma anche legandosi agli spazi, cosa che accomuna molte scrittrici, da Ginzburg a Ramondino, come scrive brillantemente Monica Farnetti nel suo bellissimo Tutte signore di mio gusto (ediz. La Tartaruga) a proposito di Dolores Prato:

“Per lei apprendere è stato ed è infatti nominare, e nominare è cartografare lo spazio (…) Che le donne non abbiano con il tempo, il tempo “classico” commerci efficaci e soddisfacenti sa bene la citata Maria Zambrano, che dice che così è perché le donne hanno di fatto con esso una relazione di grado più elevato: la relazione con l’istante, quello che ella chiama ‘il vaso minuscolo del tempo’. (…)”

Lessico famigliare vive dei luoghi che racconta, perché non solo gli appartamenti in cui vivono i Levi sono gli unici spazi del narrare, ma perché i familiari stessi di Natalia vengono guardati come luoghi esotici, benché piuttosto frequentati. Sono “spazi” in questo romanzo da esplorare, attraverso le parole, il magnifico professor Levi, detto Pomodoro per via dei capelli rossi, ovvero Pom, la mamma Lidia, le sorelle, i fratelli, gli amici, la tribù che si muove intorno a Natalia. E, come ha scritto mirabilmente Cesare Garbali, questa tribù è osservata con complicità ma anche con l’impercettibile senso di vendetta di chi è piccolo e assiste ai giochi fatti dagli adulti sui quali ha l’unico potere di riportarli con il linguaggio che più le aggrada. Ed ecco che i personaggi vengono sorpresi con le dita nel naso o nella marmellata, per così dire: fotografati nella loro unica frase storica, magari insignificante o buffa. Non importa dare loro profondità nell’immediato: meglio consegnarli al lettore per quel che hanno detto, ripresi di scorcio e a sorpresa nel loro momento ridicolo, epico ma infausto, insomma nella loro favolistica umanità. E’ il tempo, il tempo di questo stupefacente romanzo a restituire, poi, la melanconia dei Persi, dei Trapassati, di coloro che non esistono più se non per le parole che hanno detto. Lo scrittore, in questo caso, è un archeologo della memoria e le tracce, labili e confondibili, si prestano a effetti di senso e di humour.
Questo sguardo dell’infanzia è così forte, così ironico, umile ma feroce, che rileggendo ho pensato a quanto debba a questo libro, fra gli altri, il Guizzardi di Gianni Celati (Le avventure di Guizzardi): magari sbaglio o, al contrario, è già stato fatto notare da altri, ma con il suo lessico da folle, da stralunato Guizzardi è solo un pelo più in là della piccola Natalia, che, certo, non è stralunata, ma come Guizzardi guarda al mondo adulto con l’improvvisa saggezza sintetica del bambino che in noi non muore mai.
Altra filiazione, come si accennava, è Althénopis di Fabrizia Ramondino, capolavoro assoluto e poco letto: altra famiglia, questa volta non ebraica e torinese ma napoletana e assai pagana. Althénopis è tutto giocato sugli spazi familiari, sui luoghi della memorie (ville, case, persone, zii e zie, ecc…) e dallo spazio struggente e ironico della memoria si concentra sul dramma privato fra madre e figlia. Certo, la struttura di Lessico famigliare resta più inavvicinabile, meno identificabile di altre: il romanzo, che è scritto senza partizioni di capitolo, senza sottotitoli o sezioni è un continuum di ricordi dove è difficile stabilire il prima e il dopo. Difficile fare una sintesi degli eventi a beneficio dei nuovi lettori per la miriade di micro episodi che lo popolano e per l’impossibilità di stabilire confini.
Siamo immersi nel senso salvifico delle parole, delle lingue perse: in una sua prefazione, Garboli segnala che forse l’idea del lessico famigliare viene dal “continico” che parlano i ragazzi ne Il giardino dei Finzi Contini di Bassani, dove, però, la ricca famiglia ebrea sembra quasi consegna allo sterminio (un destino simile a quello degli Etruschi, scrive Garboli), mentre qui l’idioletto familiare va oltre l’identità ebraica (anche se la contiene), è universale.
Meraviglioso, poi, e favolistico è il rapporto di questo romanzo con la Storia, quella con la maiuscola, che passa distratta dal salotto di casa Levi, dove appaiono Turati e Anna Kuliscioff, citati più per la pruderie delle donne di casa che non per la loro dimensione politica. Pajetta, Adriano Olivetti, lo stesso Leone Ginzburg, Pavese: tutta gente di famiglia, osservata senza epica, perfetti però nell’apparire al punto giusto della narrazione, ricordata per un soprannome o un’espressione: la Vandea, zia reazionaria, il povero Filippèt, come dice Pom di Turati, il “baco del calo del malo” che ripete ostinato Mario, fratello di Natalia, le poesiole (“la vecchia zitella senza mammella ha fatto un bambino tanto carino” o “salve ignoranza al tuo pensier mi cessa il mal di panza”), il Barbison e la puzza di acido solfidrico, “cotoletta madama bianca!”, il bir per indicare il laccio emostatico…
E’ sempre stato fondamentale per me quel passo delle Piccole virtù dove Ginzburg scrive dell’invenzione e della memoria: inventiamo quando siamo felici, ricordiamo quando siamo tristi, scrive all’incirca. Perché la nostra “condizione terrestre” influenza la nostra scrittura che è come “un padrone”, inflessibile.
Dunque, il ricordo nel momento dell’infelicità, ma sempre mescolato all’invenzione e alla fantasia, momento della felicità. In Lessico famigliare la piccola Natalia viene ricoverata in ospedale e la mamma le spiega che quella è la casa del medico, per non darle spavento. Natalia sa che quello è un ospedale ma fa finta anche lei: “…e quella volta, come anche più tardi, la verità e la menzogna si mescolarono in me”.
Cosa è vero e cosa è falso nel ricordo, cosa resta del nostro passato e cosa occorre scrivere: la verità, pur sapendo di mentire?
Antonella Cilento

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AGGIORNAMENTO DELL’8 febbraio 2009

Sono molto lieto di annunciarvi che (come ci aveva pronosticato Antonella Cilento) Mariolina Bertini ha fatto pervenire il suo ottimo contributo. Lo riporto qui di seguito. Vi invito a leggerlo con attenzione, perché è molto interessante.
Massimo Maugeri

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TRA MARCEL E NATALIA
di Mariolina Bertini

Per gli italiani della mia generazione, nata a ridosso della seconda guerra mondiale, i nomi di Marcel Proust e di Natalia Ginzburg sono molto strettamente legati.
Nel 1946 Natalia Ginzburg firma la sua traduzione, per Einaudi, del primo volume della “Ricerca”, “La strada di Swann”. Non è l’unica: nello stesso anno, presso Sansoni, esce anche la pregevole versione dello scrittore fiumano Bruno Schacherl, intitolata “Casa Swann”. Ma soltanto il volume einaudiano rappresenta il primo tassello di una traduzione integrale della “Recherche”; questo gli assicura maggior visibilità e maggior fortuna sul mercato editoriale. Tra il 1946 e il 1983, dunque, anno in cui comincia ad uscire la traduzione di Giovanni Raboni, la stragrande maggioranza dei lettori italiani di Proust si accosta alla “Ricerca” passando, per il primo volume, attraverso la mediazione della voce di Natalia Ginzburg, attraverso il filtro delle sue scelte lessicali e sintattiche, della sua scrittura, del suo stile.
La data cruciale della mia esperienza in proposito è il 1968: tra un corteo e un’assemblea, tra un intervento di Guido Viale e una discussione su don Milani, “La strada di Swann” einaudiana mi introduce, affascinata, nel mondo di Proust, dove resterò a lungo. Ma è per me importante anche un’altra data, precedente: quella del 1963, anno di apparizione di “Lessico famigliare”. Perché è leggendo, quindicenne, “Lessico famigliare” fresco di stampa che comincio ad intuire nella figura un po’ misteriosa di quel romanziere morto nel 1922 una presenza terribilmente viva e ingombrante, alla quale sarà difficile sfuggire. Nelle pagine di “Lessico famigliare” si avverte, si respira quello che fu il fascino esercitato da Proust sui lettori degli anni Venti, anche su quelli come Natalia Ginzburg che erano ancora troppo giovani per leggerlo direttamente. In “Lessico famigliare” Proust è presente come una sorta di mito. La protagonista-narratrice non l’ha ancora letto, ma sente sua sorella Paola, sua madre, Terni – il giovane assistente di suo padre, professore di medicina – che ne parlano continuamente. Ai suoi occhi, il mondo famigliare si divide in due zone contrapposte: da una parte c’è chi come il padre ama le scienze naturali e le gite in montagna, dall’altra chi, come la madre, ama la poesia, il teatro e il mondo ovattato dei romanzi.

” Da una parte c’erano Gino e Rasetti, con le montagne, le “rocce nere”, i cristalli, gl’insetti. Dall’altra parte c’erano Mario, mia sorella Paola e Terni, i quali detestavano la montagna, e amavano le stanze chiuse e tiepide, la penombra, i caffé. Amavano i quadri di Casorati, il teatro di Pirandello, le poesie di Verlaine, le edizioni di Gallimard, Proust. Erano due mondi incomunicabili.
Io non sapevo ancora se avrei scelto l’uno o l’altro. (…)
- Cos’ha Terni con Mario e Paola da ciuciottare? Diceva mio padre a mia madre. – Stanno sempre lì in un angolo a ciuciottare. Cosa sono tutti quei fufignezzi?
I fufignezzi erano, per mio padre, i segreti; e non tollerava veder la gente assorta a parlare, e non sapere cosa si dicevano.
- Parleranno di Proust,- gli diceva mia madre.
Mia madre aveva letto Proust, e lei pure, come Terni e la Paola, lo amava moltissimo; e raccontò a mio padre che era, questo Proust, uno che voleva tanto bene alla sua mamma e alla sua nonna; e aveva l’asma, e non poteva mai dormire; e siccome non sopportava i rumori, aveva foderato di sughero le pareti della sua stanza.
Disse mio padre:
-Doveva essere un tanghero!” (p. 53)

In questa pagina, Proust viene quasi a racchiudere, a simboleggiare la letteratura; ne rappresenta il mito e il prestigio. Nell’Italia di quegli anni aveva d’altronde un giovane profeta, il critico Giacomo Debenedetti, ritratto in “Lessico famigliare” senza che venga menzionato esplicitamente il suo nome:

“La Paola era innamorata di un suo compagno di università: giovane piccolo, delicato, gentile, con la voce suadente. Facevano insieme passeggiate sul Lungo Po, e nei giardini del Valentino; e parlavano di Proust, essendo quel giovane un proustiano fervente: anzi, era il primo che avesse scritto di Proust in Italia. Scriveva, quel giovane, racconti e saggi di critica letteraria.” (p.61)

Giacomo Debenedetti, contrariamente a quanto credeva Natalia, non era stato il primo a parlare di Proust in Italia, anche se a Proust aveva dedicato saggi pionieristici nel 1925 e nel 1928. Il primo a parlare di Proust in Italia era stato il giornalista Lucio D’Ambra che recensendo, nel dicembre del 1913, “Du côté de chez Swann” aveva scritto :
“Ricordate questo nome e questo titolo: Marcel Proust e “Du côté de chez Swann”. Tra cinquant’anni i nostri figlioli ritroveranno forse l’uno e l’altro accanto a Stendhal, a “le Rouge et le Noir” e alla “Chartreuse”. ”

Il nome di Stendhal, in questa fase aurorale della fortuna di Proust torna spesso, soprattutto in Italia. Nel 1919, ad esempio, quando “All’ombra delle fanciulle in fiore” riceve il premio Goncourt, è Giuseppe Ungaretti ad evocarlo, scrivendo dell’autore della Recherche :
“…questo scrittore dalle analisi minuziose a cui non sfugge la minima emozione, che fruga nelle più segrete e remote risonanze della vita sentimentale, è forse un nuovo Stendhal.”

All’epoca Stendhal è visto soprattutto come un maestro d’insuperata introspezione psicologica. Nel 1923 Giacomo Debenedetti, che leggerà Proust soltanto un anno dopo, scrive in una lettera all’amico Cesare Angelini:
“Sono più che mai innamorato di Stendhal e se sapessi farmi una bandiera io che, in fondo, sono spaventosamente timido, scriverei su quella la parola introspezione.”

Quando, nell’estate del 1924, durante una vacanza a Champoluc, ai piedi del Monterosa, Giacomo Debenedetti legge Proust per la prima volta, ha l’impressione che quel romanziere, morto due anni prima, abbia in qualche modo preceduto la sua generazione nella conoscenza di sé, nell’introspezione, nell’intuizione anticipata del proprio destino.
Gli altri scrittori – scriverà più tardi- erano semplicemente scrittori, della stessa razza di quelli che avevamo studiato nelle storie letterarie (…); mentre Proust sembrava far parte direttamente del nostro destino, sembrava prendere la durata uniforme dell’esistenza e farne una fluida, stupenda, incessante calligrafia di luce.”

A livello europeo, è un’intera generazione di scrittori ad avere la stessa impressione di Giacomo Debenedetti. “Che cosa resta da scrivere dopo Proust?” si chiede nel suo diario Virginia Woolf. E Rilke scrive a Gide nel 1922: “Su moltissimi punti, Proust ci ha costretti a cambiare il nostro modo di vedere.” Cambiare il proprio modo di vedere dopo la lettura di Proust per molti significa identificarsi con la figura , fluida ed enigmatica, del narratore della Ricerca. In un saggio del 1946, Debenedetti lo scriverà esplicitamente:
“Per quanto singolare, per quanto differenziato, il protagonista di “A la recherche du temps perdu” era, tra tutti i personaggi che allora ci furono offerti, quello con cui si sentiva più forte la tentazione, più immediata e più ricca la possibilità di identificarsi.”

Si profila, attraverso il puzzle di queste citazioni, la storia di una filiazione, della trasmissione di un mito: dalle parole di Giacomo Debenedetti, l’amico di Paola “dalla voce suadente”, Natalia ricava la sua prima immagine di Proust, lo scrittore che non somiglia a nessun altro, che trasforma la nostra vita prosaica “in una calligrafia di luce”. Quell’immagine avrà per lei una tal forza che quando, nel 1937, Giulio Einaudi le chiederà di tradurre l’intera Ricerca, risponderà di sì, benché non ne abbia ancora intrapresa direttamente la lettura. La storia di quella traduzione è raccontata nelle pagine del bellissimo saggio del 1990 che accompagnò la ristampa della “Strada di Swann” nella collana degli “Scrittori tradotti da scrittori” e che da allora è stato più volte ristampato. Le prime pagine, ci racconta Natalia, furono tradotte e ritradotte sotto la guida affettuosa di Leone Ginzburg; la maggior parte del lavoro prese forma a Pizzoli, in Abruzzo, durante il confino, nel 1940-43. La morte di Leone, torturato e trucidato a Regina Coeli, nel febbraio del 1944, getta sull’opera un’ombra di tragedia: non è difficile capire perché la scrittrice si senta legata a quelle pagine in modo così stretto da non volerne, anni dopo, nemmeno correggere le imperfezioni. Quel Proust intravisto nella penombra dell’adolescenza, e poi affrontato, con strumenti inadeguati (un povero vocabolario scolastico), nella vita durissima del confino, tra i figli bambini e l’esperienza della resistenza, doveva restare tale e quale, così come era stato amato e interpretato negli anni atroci e fondamentali della guerra. Così Natalia l’ha trasmesso alla mia generazione, così la mia generazione l’ha letto negli anni Sessanta e Settanta, con la consapevolezza di appropriarsi di un lascito prezioso.
Avvicinandomi oggi a quel lascito, è forte la tentazione di rispettarne l’aura; di preservarne il fascino evitando di guardarlo troppo da vicino. Ma in realtà la traduzione di Natalia Ginzburg non è una reliquia, è una cosa viva e come tale merita di essere studiata e frequentata. La sua lingua colloquiale, asciutta, modernissima, prossima al parlato, anticipa la lingua dei dialoghi di Lessico famigliare. Vediamone due esempi, confrontando la traduzione di Natalia Ginzburg con quella di Giovanni Raboni:

“On ne pouvait pas remercier mon père .”
Raboni: “Non si poteva ringraziare mio padre.”
Ginzburg: “Mio padre, non era possibile dirgli grazie.”

Meno fedele di Raboni nella costruzione, con l’anacoluto che apre la frase Natalia Ginzburg rende straordinariamente la componente di oralità della scrittura proustiana.

“Moi je sais bien que cela me serait très désagréable de voir mon nom imprimé tout vif comme cela dans le journal…”
Raboni:”Io sono sicura (è una prozia del narratore che parla) che mi riuscirebbe molto sgradevole vedere il mio nome spiattellato così sul giornale…”
Ginzburg: “Io se vedessi il mio nome stampato bello caldo così sul giornale, sarei molto seccata.”

E’ davvero la naturalezza di “Lessico famigliare” che irrompe nel mondo di Proust. Lo comprese molto bene Giacomo Debenedetti, che del Proust tradotto da Natalia Ginzburg riassunse la modernità in una citazione con la quale vorrei concludere:

“Il connotato proustiano che la Ginzburg sembra aver voluto – consapevolmente, o no – cogliere con più coerenza, è forse quello a cui Proust deve la simpatia umana che egli esercita, la sua facoltà di non sopraffarci mai, anzi di farsi sentire vicino, confidenziale, fraterno, dovunque spinga – magari a un estremo che, a prima vista, potrebbe parere troppo sottile, prolisso, insaziato e farraginoso – la sua ricerca. Ed è il suo modo di continuamente “sliricare” un discorso che pure tocca di continuo, per tangenze luminosissime, di un radioso fulgore musicale, cantante e a volte perfino canoro – la sfera di una massima tensione lirica.”
Mariolina Bertini

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