LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » stefania nardini http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 STEFANIA NARDINI e SANDRA PETRIGNANI ospiti di “Letteratitudine in Fm” di mercoledì 11 febbraio 2015 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/02/11/in-radio-con-stefania-nardini-e-sandra-petrignani/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/02/11/in-radio-con-stefania-nardini-e-sandra-petrignani/#comments Wed, 11 Feb 2015 15:00:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6679 nardini-petrignaniSTEFANIA NARDINI e SANDRA PETRIGNANI ospiti di “Letteratitudine in Fm” di mercoledì 11 febbraio 2015 – h. 9 circa (e in replica nei seguenti 4 appuntamenti: venerdì alle h. 06:00 e alle h. 13:00, domenica alle h. 06:00, martedì alle h. 00:30)

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Stefania Nardini e Sandra Petrignani sono state le ospiti di “Letteratitudine in Fm” di mercoledì 11 febbraio 2015.

Con Stefania Nardini abbiamo discusso del volume “Jean-Claude Izzo. Storia di un marsigliese” (edizioni e/o) dedicato alla vita e alle opere di Jean-Claude Izzo, a quindici anni dalla scomparsa.

Con Sandra Petrignani abbiamo discusso di “Marguerite” (Neri Pozza), romanzo incentrato sulla figura di Marguerite Duras

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“Jean-Claude Izzo. Storia di un marsigliese” (edizioni e/o) di Stefania Nardini

Questa è la storia di Jean-Claude Izzo, lo scrittore marsigliese autore della trilogia che ha come protagonista Fabio Montale (Casino totale, Chourmo, Solea), e dei romanzi Marinai perduti e Il sole dei morenti. Cinque libri che hanno conquistato migliaia di lettori in Francia e in molti Paesi europei. Solo cinque, perché Jean-Claude Izzo a 55 anni se n’è andato, lasciando un segno non solo nella città a lui cara, Marsiglia, ma in tutti coloro che nei suoi testi hanno ritrovato sensazioni, emozioni, verità.
Le nostre edizioni hanno pubblicato anche la raccolta di racconti Vivere stanca e la raccolta di scritti inediti Aglio, menta e basilico. Marsiglia, il noir e il Mediterraneo.
Un omaggio allo scrittore, all’uomo, al giornalista che è stato ciò che scriveva. Senza mai rinnegare la sua storia di marsigliese. Il libro, apparso nel 2010 presso Perdisa, viene ora ripubblicato in un’edizione aggiornata. Il libro contiene alcune poesie di Izzo tradotte per la prima volta in Italia e alcuni brevi testi in prima pubblicazione mondiale.

Stefania Nardini, giornalista e scrittrice, è romana innamorata delle due città dove ha trascorso parte della sua vita: Napoli e Marsiglia. Vive tra l’Umbria e la Francia. È autrice di Roma nascosta (Newton Compton, 1984), del romanzo Matrioska, storia di una cameriera clandestina che insegnava letteratura (Pironti, 2001). Nel 2009, sempre con Pironti, ha pubblicato Gli scheletri di via Duomo, noir ambientato nella Napoli anni ’70. Le Edizioni E/O hanno pubblicato nel 2013 Alcazar, ultimo spettacolo. Alcuni suoi racconti compaiono su internet, su riviste letterarie e antologie.

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Marguerite” (Neri Pozza) di Sandra Petrignani

MargueriteQuesto libro racconta la vita di Marguerite Duras, dall’infanzia, quando è per tutti Nenè, agli anni centrali in cui gli amici più intimi, come Jeanne Moreau, Godard, Depardieu, Lacan, la chiamano Margot, fino al delirio megalomane e alcolico della vecchiaia in cui la scrittrice parla di sé in terza persona autocitandosi con il solo cognome: Duras.
È la storia di una vita irripetibile che si è intrecciata al colonialismo, alla Resistenza, al Partito comunista francese – con l’adesione prima, la ribellione e l’espulsione poi – al ’68, al femminismo, all’École du Regard, alla Nouvelle Vague. La storia di una donna dai moltissimi aggrovigliati amori e di una scrittrice e cineasta che, dopo la vittoria al Goncourt e il successo planetario del romanzo ispirato al suo primo amore – L’amante – ha conquistato, suo malgrado, una sterminata folla di lettori, a volte fanatici fino al culto. La storia, infine, dei trionfi e delle sconfitte di questa donna, del suo impressionante corpo a corpo con la letteratura, della sua autenticità e delle sue mistificazioni, del doloroso attraversamento dell’alcolismo, dei deliri dovuti alla disintossicazione, della sua capacità d’innamorarsi e di giocare coi sentimenti e con le parole fino all’ultimo soffio di vita. Per scoprire, infine, che nessun riconoscimento, nessuna turbinosa passione potevano guarirla dal male di vivere, dalle lontane eppure sempre attive ferite infantili e dalla lucidità con cui, in vecchiaia, avrebbe compreso che «nessun amore vale l’amore» o che «scrivere non insegna altro che a scrivere».
In una linea narrativa fra le più interessanti dello scenario contemporaneo, quella che trae dal racconto di vite vere materia di autentica letteratura, Sandra Petrignani offre un libro in cui la biografia, il reportage, la descrizione di un personaggio reale commovente e irritante, romantico e spregiudicato, illuminano un destino unico e, insieme, un’epoca straordinaria della cultura mondiale.

Sandra Petrignani, autrice negli anni ‘80 e ‘90 del romanzo postmoderno Navigazioni di Circe (premio Morante opera prima), dell’incantevole Catalogo dei giocattoli, del preveggente Vecchi, delle interviste a grandi scrittrici italiane Le signore della scrittura, è nata a Piacenza nel ‘52. Vive a Roma e nella campagna umbra. Le sue opere più recenti sono l’autofiction Dolorose considerazioni del cuore (Nottetempo, 2009) e il vagabondaggio E in mezzo il fiume. A piedi nei due centri di Roma (Laterza, 2010). Nel catalogo Neri Pozza: il fortunato La scrittrice abita qui, pellegrinaggio nelle case di grandi scrittrici del ‘900;  i racconti di fantasmi Care presenze; il libro di viaggio Ultima India.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

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È online la puntata con STEFANIA NARDINI e ROBERTO RICCARDI, ospiti di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 15 novembre 2013 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/11/17/in-radio-stefania-nardini-e-roberto-riccardi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/11/17/in-radio-stefania-nardini-e-roberto-riccardi/#comments Sun, 17 Nov 2013 09:30:09 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5600 nardini-riccardi-2È online la puntata con STEFANIA NARDINI e ROBERTO RICCARDI, ospiti di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 15 novembre 2013

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Gli ospiti della puntata di venerdì 15 novembre sono stati Stefania Nardini e Roberto Riccardi, con cui abbiamo discusso dei loro nuovi romanzi: Alcazar. Ultimo spettacolodi Stefania Nardini e “Venga pure la fine” di Roberto Riccardi (pubblicati dalle edizioni e/o – collezione Sabot/age).

È possibile leggere le prime pagine di “Alcazar. Ultimo spettacolo” di Stefania Nardini, cliccando qui.

È possibile leggere le prime pagine di “Venga pure la fine” di Roberto Riccardi, cliccando qui.

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LA MARSIGLIA DI JEAN-CLAUDE IZZO, incontro con Stefania Nardini http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/04/16/la-marsiglia-di-jean-claude-izzo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/04/16/la-marsiglia-di-jean-claude-izzo/#comments Fri, 16 Apr 2010 21:35:17 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1932 Dieci anni fa – il 26 gennaio del 2000 – moriva Jean-Claude Izzo: noto scrittore e sceneggiatore francese.
Parlare di Izzo equivale – per certi versi – a parlare di Marsiglia, la sua città natale (dove vide la luce il 20 giugno 1945).

Ed è questo l’obiettivo della discussione che vi propongo: aprire una finestra su uno scrittore e sulla sua città (tutto il contrario di una città per turisti, perché la sua bellezza non si fotografa, si condivide). Lo spunto ce lo offre la nuova opera di Stefania Nardini, intitolata ”Jean Claude Izzo. Storia di un marsigliese” ed edita da Perdisa Pop nell’ambito della nuova collana diretta da Luigi Bernardi: Rumore Bianco.

Avremo senz’altro modo di discutere della trilogia che ha come protagonista il più noto personaggio letterario creato da Izzo: Fabio Montale (Casino totale, Chourmo, Solea); ma anche dei romanzi Marinai Perduti e Il sole dei morenti. “Cinque libri” – leggiamo nella scheda del saggio della Nardini – “che hanno conquistato migliaia di lettori in Francia e in molti paesi europei. Solo cinque libri perché Jean-Claude Izzo a 55 anni se ne è andato, lasciando un segno, non solo nella città a lui cara, Marsiglia, ma in tutti coloro che nei suoi testi hanno ritrovato sensazioni, emozioni, verità“.

Per narrare di Izzo, l’autrice di questo saggio ha trascorso un po’ di tempo a Marsiglia. Ecco cosa scrive nella nota finale al libro: “Andai a Marsiglia. Dovevo restarci due settimane. Ci sono rimasta quattro anni“. Ed è così che Marsiglia è diventata una delle “città elettive” di Stefania Nardini (l’altra è Napoli).

Alcune domande per favorire la discussione…

Conoscete Jean-Claude Izzo? Avete mai letto qualcosa di suo?

Qual è l’eredità principale che ha lasciato Izzo?

Che tipo di contributo ha dato, nell’ambito della narrativa europea e mondiale, la trilogia marsigliese che ha per protagonista Fabio Montale?

Avete mai avuto modo di visitare Marsiglia? Che ricordo ne conservate?

E quale città (diversa da quella dove siete nati) eleggereste a vostra “città elettiva”? E per quale ragione?

Vorrei approfittarne anche per invitare Luigi Bernardi a raccontarci del progetto editoriale Perdisa Pop (e delle varie collane che dirige).

Di seguito, la recensione firmata da Gordiano Lupi e l’articolo che Sandra Petrignani ha pubblicato sul quotidiano L’Unità.

Massimo Maugeri

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“JEAN CLAUDE IZZO. Storia di un marsigliese” di Stefania Nardini
Perdisapop – pp. 180 – Euro 14

recensione di Gordiano Lupi

Parte alla grande la nuova collana Rumore bianco diretta da Luigi Bernardi, ispirata al capolavoro di Don DeLillo e intenzionata a cercare uno squarcio di luce nel quotidiano. La grafica è a dir poco perfetta: libri agili, maneggevoli, belli da guardare, da sfogliare e da collezionare. Badate bene: non è un spot, non li so fare, è soltanto la prima cosa che viene in mente appena tocchiamo un volume. Caratteri di stampa ben leggibili, illustrazioni di Ivana Stoyanova che fanno respirare il testo, copertina – vivace ed elegante – che incoraggia l’acquisto. Un bel prodotto editoriale, non c’è che dire.
Il testo vibrante e partecipe di Stefania Nardini su Izzo e il suo rapporto con Marsiglia non poteva costituire miglior scelta per inaugurare la collana. A ogni pagina apprezziamo il legame intenso tra la scrittrice e la città francese, così come la narrativa di Izzo è inscindibile dalla realtà cittadina e non è possibile conoscere la sua opera se non si affondano le radici nel territorio dove ha vissuto. Stefania Nardini traduce molte poesie di Izzo e le utilizza per raccontare uno scrittore noto come autore della trilogia noir che vede protagonista l’ispettore Fabio Montale. Ci descrive un uomo nato in una città di frontiera, figlio di emigranti, immerso in una realtà meticcia e cosmopolita, ci fa capire che è impossibile raccontare Jean-Claude Izzo senza parlare di Marsiglia, una città consacrata dal mito, nata dall’incontro di un marinaio della Focide con la principessa ligure Gipsy, un’invenzione partorita da quell’incontro. Si vede che la Nardini ha amato Izzo, perché racconta la sua vita con passione e trasporto, narra di amori infelici, di solitudine estrema, del coraggio con cui è riuscito ad affrontare un male terribile. Il libro narra la passione politica di Izzo, il suo essere comunista e libertario, pacifista e sempre schierato dalla parte della povera gente, a fianco degli umili. Dove c’è rivolta c’è rabbia. Dove c’è rabbia c’è vita…, Izzo lo sa bene, si lascia travolgere dal maggio francese, dalla temperie sessantottina, dai movimenti di protesta e riesce a essere comunista, pure se il PCF – come il PCI – non vede di buon occhio chi passa tropo tempo sui libri. Alla lunga non potrà che arrivare la crisi tra Izzo e il partito, perché la sua intelligenza non può accettare verticismo e stalinismo. Resta un uomo libero, di sinistra, legato a ideali di libertà e democrazia, che fa il giornalista, un mestiere che considera umano e importante, perché ci si devono sporcare le mani con la realtà. Scrive una pièce teatrale su Angela Davis, ambasciatrice di un grido di dolore che veniva dalla terra della libertà, per mettere in primo piano il dramma dei neri e il problema razzista. Scrivere è il mio mestiere/ solitario con te morte solitaria nell’ignoto delle parole… scrive il poeta mentre vive la sua Marsiglia, ebbra di una povertà ancestrale, tutto il contrario di una città per turisti, perché la sua bellezza non si fotografa, si condivide. Per Izzo è importante l’atmosfera della città di confine, così come sono decisivi gli abitanti, individui portatori di sogni e cultura. La sua trilogia noir è il culmine di una grande opera che porta nei libri un intero mondo, una città con i suoi odori, il cibo, i profumi intensi, gli aromi che provengono dall’infanzia e i personaggi presi dal quotidiano. Sono cresciuto in mezzo all’odore del basilico come tutti i bambini del Sud… morirà in mezzo agli odori di un porto, malato di cancro ai polmoni, dopo una lunga lotta, scrivendo e soffrendo, perché scrivere era il suo mestiere.
Brava Stefania Nardini che ci fai capire cosa significa essere un vero scrittore. Izzo e Marsiglia: un binomio indissolubile che l’autrice comprende fino in fondo, perché si nota con chiarezza che anche tra lei e la città francese è nato un legame indissolubile.

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Jean-Claude Izzo e Marsiglia: misteri, allegria, disperazione
di Sandra Petrignani

Parigi non sarebbe quello che è se Simenon non l’avesse descritta come ha fatto nei suoi Maigret. Marsiglia, almeno la Marsiglia contemporanea, deve molto a uno scrittore dalla velocissima parabola e dalla scrittura ferma ed essenziale dei nostri giorni, oserei dire dei nostri giorni noir, Jean-Claude Izzo. Figlio di un nabo, un immigrato napoletano, mentre la madre era di famiglia spagnola, Izzo era dunque un rital, marsigliese figlio di immigrati, soprattutto era figlio del Panier, «il quartiere che spunta sulla collina e domina il porto, considerato un covo di ribelli… Un groviglio di vicoli in cui s’intrecciano storie, codici, misteri, allegria, disperazione». Così descrive la Marsiglia del 1945, data di nascita di Izzo, Stefania Nardini, giornalista culturale che viene dalla cronaca e che ha già fatto incursioni nel romanzo ( Matrioska e Gli scheletri di via Duomo, editi da Pironti). Jean-Claude Izzo. Storia di un marsigliese racconta un uomo e una città (quasi una doppia biografia) ed è in libreria il 7 di aprile, edito da Perdisa. Cinquantacinque anni – Izzo è morto nel 2000 per un cancro ai polmoni – pieni di storie, di amori, di ribellioni. Lo ricordo magrissimo e attraente a un convegno di scrittori in Provenza, già molto malato. Ricordo che mi colpì la sua serietà, un rigore che attraversava le sue parole, ma anche il suo modo di muoversi, di camminare. E ricordo l’aura che lo circondava, dovunque andasse era subito raggiunto da amici e fan, soprattutto giovani. Ora lo ritrovo nel racconto di Stefania Nardini con la sua parte d’ombra, di senso di colpa, di irresolutezza: un’umanità contorta e appassionata solo in parte riversata nel suo personaggio più famoso, il poliziotto Fabio Montale, protagonista della trilogia Casino totale, Chourmo, Solea (editi da e/o). Lo ritrovo giovane e innamorato della futura madre dell’unico figlio, Sébastien, che inizia con lei un percorso politico rigoroso, mentre scrive poesie non d’amore, ma sempre impegnate. Ha il mito di Rimbaud e nell’andare a Gibuti e ad Harar, a visitare la casa del poeta, scopre una realtà ancor più sconvolgente di quella miserabile degli operai e disoccupati di Marsiglia: la povertà totale, i lebbrosari. Sceglie una professione al servizio degli sfortunati, il giornalismo di denuncia. Politica, pacifismo, poesia. «E la poesia è nella strada come un senzatetto» dice un suo verso che potrebbe essere il suo manifesto. «Marsiglia non è una città per turisti». «Marsiglia, una verità alla luce del sole…». È sempre questa città a fare da sottofondo, a parte una parentesi parigina, alla sua narrativa come alla sua vita. Ma la narrativa arriva tardi e per caso. Un giorno pubblica un racconto di una ventina di pagine, Marseille, pour finir, su una rivista. Lo notano alla Gallimard e gli chiedono di farne un romanzo. Sarà Casino totale. Un inaspettato successo, l’inizio di una carriera di narratore (molto più interessante del poeta che credeva di essere) che non aveva programmato. Era il 1995. Aveva cinquant’anni: non era più iscritto al partito da tanto tempo, aveva macinato amori soffrendo della sua incapacità a essere fedele, lui così fedele ai suoi ideali, alla sua città. Cominciava una nuova avventura che lo avrebbe imposto anche fuori di Francia. Ma aveva poco tempo, pochissimo. Solo cinque anni per confermare un talento, che gli fu ampiamente riconosciuto da lettori e critica e che rimbalzò nelle trasposizioni cinematografiche e televisive. Nei suoi romanzi ritorna la sua esperienza personale, il suo impegno politico. Riflette in Solea: «L’attività criminale è strettamente associata, per l’opinione pubblica, al crollo dell’ordine pubblico. Vengono evidenziati i misfatti della piccola delinquenza, mentre il ruolo politico ed economico e l’influenza delle organizzazioni criminali internazionali restano invisibili». L’ultimo romanzo, Il sole dei morenti, parla di un clochard, un uomo che insieme all’amore ha perso tutto. Al funerale fu accompagnato dalla musica che preferiva, Aznavour, Ferré, Miles Davis. E «le sue ceneri furono gettate in mare», conclude Nardini. Il mare da cui era arrivato a Marsiglia suo padre, senza altra dote che la forza delle braccia.

7 aprile 2010
pubblicato sul quotidiano L’Unità (pag. 40) nella sezione “Culture”

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LETTERATURA DI MADRI E FIGLIE: Sandra Petrignani, Dora Albanese http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/14/letteratura-di-madri-e-figlie/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/14/letteratura-di-madri-e-figlie/#comments Mon, 14 Dec 2009 15:53:53 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1422 sandra-petrignani-dora-albanese

Il filo conduttore di questo post è il rapporto tra madre e figlia: uno dei più importanti tra quelli contemplati nell’ambito delle relazioni umane. Un rapporto non sempre facile, ma essenziale. Che muta nel tempo, ma che – alla fine (forse) – rimane sempre uguale.

Vorrei discuterne con voi insieme a due scrittrici (appartenenti a generazioni diverse) che hanno pubblicato – di recente – due testi di narrativa che, a mio avviso, sono collegati proprio dal tema che propongo in questa discussione: Sandra Petrignani (scrittrice notissima) e Dora Albanese (esordiente, ma già nota ai frequentatori di questo blog).

Introduco subito qualche domanda con l’intento di favorire la discussione:

Rispetto agli altri tipi di rapporti umani, cos’è che caratterizza quello tra madre e figlia?

È un rapporto basato più sulla complicità o sulla conflittualità?

Quali sono i rischi? E quali le opportunità?

Quali sono le fasi della vita (sia della madre, che della figlia) più delicate? Quelle che influenzano di più il loro modo di relazionarsi?

E come è cambiato il rapporto madre/figlia, in questi anni? Che differenza c’è – oggi – rispetto a venti, trenta, cinquant’anni fa?

Infine… che differenza c’è – a vostro avviso – tra il rapporto madre/figlia e quello madre/figlio?

I due libri protagonisti di questo post, in un modo o nell’altro, affrontano questo argomento.

Il libro di Sandra Petrignani è un romanzo intitolato  “Dolorose considerazioni del cuore” (edito da Nottetempo). Ecco la scheda…

Dal suo rifugio sotto le coperte, Tina racconta a Vittoria, amica amatissima, persa e ritrovata, i fatti, il disordine e i ricordi degli anni in cui una brusca rottura le ha tenute lontane. Nel tentativo di ricondurre a un unico, ricorrente malamore i tanti modi in cui ha amato, Tina recupera dai suoi cassetti brani di romanzi incompiuti e li annoda alla testimonianza di un presente insopportabile. L’assistenza a due genitori anziani, incattiviti da una relazione infelice, riporta in superficie le sofferenze infantili e permette di ricomporre gli indizi di un antico rifiuto. Si delinea così l’”autobiografia di una borderline” dalla caotica vita sentimentale, nella quale gli affetti vivono di strappi e tormentosi ritorni. Eppure il cielo resta alto sulle rovine e una ricomposizione è possibile.


Dora Albanese, invece, per i tipi di Hacca, ha pubblicato la raccolta di racconti “Non dire madre“…

Attraverso il topos della maternità, Dora Albanese racconta tre metamorfosi sociali e culturali del Sud postbellico: la dura maternità della Lucania “interna”, ancora legata a feroci e dolcissimi stili contadini; la frustrata maternità piccolo-borghese di una Matera “piana”, dimentica della superba e misera civiltà dei Sassi; e, infine, la maternità delle nuove generazioni, sospese tra “ritorni al passato”, fastidi per un benessere di facciata, e goffi e ostinati tentativi di abbracciare il mondo, magari attraverso un altro topos di questo libro, quello dell’emigrazione. In Non dire madre il tema della maternità e della femminilità è ossessivamente indagato e sviscerato con franchezza, senza abbellimenti estetici e senza indulgenze; anzi, le donne di questo libro sono sempre colte in un estremo momento di quotidianità scoperta, finanche di buffa sciatteria. A Dora Albanese interessa il trucco che si scioglie sul viso, l’odore immediato della carne e della placenta, la calata delle maschere, l’emergere impietoso delle paure, delle viltà, dei sentimenti più immediati, senza temere né la crudeltà né il sentimentalismo – dilagante attitudine, quest’ultima, di un Sud che, a furia di recitare, ha pure imparato a recitare i sentimenti.

Seguono due recensioni: la prima, firmata da Stefania Nardini, riguarda il romanzo di Sandra Petrignani; la seconda, di Gianfranco Franchi, è relativa alla raccolta di racconti di Dora Albanese.

(Spero che Stefania e Gianfranco abbiano la possibilità di partecipare al dibattito).

Siete tutti invitati a discutere dei due libri e dei temi proposti.

Massimo Maugeri

P.s. Potete ascoltare le interviste che le autrici protagoniste di questo post hanno rilasciato alla trasmissione Fahrenheit. Quella di Sandra Petrignani è qui… quella di Dora Albanese è qui.

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Petrignani: la storia dell’età forte

di Stefania Nardini

A un’amica, un’amica mai perduta nonostante le pause che il tempo intransigente impone, una lettera vera, di quelle che vengono dal profondo del cuore. Da scrivere rannicchiandosi sotto le coperte.

Perché ci vuole uno spazio intimo. Caldo. Come quando i gatti decidono di stare da soli. Perché scrivere sotto una coperta significa mettersi a nudo. Lasciarsi andare alle emozioni, viaggiare senza soste ripercorrendo la propria vita, la propria storia.

Erano trascorsi tre anni da quando Tina si incontrò l’ultima volta con Vittoria. Una scelta? No. Piuttosto le circostanze, i cambiamenti, che spesso creano distanze che poi si rivelano apparenti. Tina per raccontarsi a Vittoria sceglie la parte di sé che meglio riesce a esprimere senza paure, filtri: la scrittura. Recupera romanzi incompiuti rimasti nel suo cassetto.

Creando un melange con il suo oggi. L’oggi di una donna matura che suo malgrado è portata ogni giorno a fare i conti con la sua vita, i suoi antichi problemi, i suoi mali. L’oggi di Tina sono i suoi genitori. Anziani, malati, sui quali il tempo implacabile ha tracciato un segno irreversibile, che si rivela in comportamenti discontinui, tra fantasmi del passato che cedono spazio all’universo fragile di chi da vecchio perde le difese.

Un romanzo, “Dolorose considerazioni del cuore” di Sandra Petrignani (ed. Nottetempo), che ha sicuramente un connotato generazionale che sboccia, pagina dopo pagina, nel racconto della protagonista, nel suo rapporto con una madre, tipica donna del dopoguerra, simile a tante altre madri dell’epoca: capace di amare e di fare male in nome di un “credo” conformista, in nome di una morale umorale, o per quell’esteriorità che si fa “veleno” da inghiottire nella vita quotidiana. Il mito del figlio maschio, la scuola dalle suore, il marito eroe da accettare comunque, l’uso di “parabole” per giustificare un semplice desiderio. E lei: la piccola Tina che cresce nel suo disagio che un giorno cercherà di superare con l’esperienza dell’analisi. Perché poi, come ci racconta bene Petrignani, la vita oltre al malessere costruito dal passato ti riserva quello della crescita, dell’esperienza, delle relazioni, dove tutto va e viene senza tregua. Si collezionano amori sbagliati che sembravano perfetti, si cede ai carnefici che ti vogliono vittima, si ama senza sapere dove si va…

Un libro da cui si evince un percorso esistenziale che giunge ad una maturità liberatoria, quando viene il momento in cui è la vita che si ricompone intorno alla propria storia. Ma è anche la fase del declino dei propri genitori, per i quali non resta che l’essenza dell’amore. Sono vecchi, dimenticano le cose, vanno accompagnati ovunque, accuditi, assistiti, e non possono far altro che abbandonarsi a una figlia che li ricorda come erano, per poi guardarli come sono.

Quando ascoltando la vecchia canzone “O main papà”, il padre si commuove e con Tina si ritrovano uniti dalle lacrime.

Sandra Petrignani che ha al suo attivo romanzi per i quali ha ricevuto importanti riconoscimenti, come “Care presenze” , “Ultima India”, La scrittrice abita qui”, giusto per citarne alcuni, con “Dolorose considerazioni del cuore” si dimostra ancora una volta una scrittrice di grande talento e di grande sensibilità, dote, quest’ultima, che esprime senza risparmiarsi mai. “Questo libro é nato dalla realtà di dovermi improvvisamente occupare di due genitori vecchi, non solo dal punto di vista accuditivo, ma anche pratico, economico – mi racconta. Uno crede di aver chiuso i conti con l’infanzia e invece una situazione del genere ti ributta addosso tutto, anche di più. Rileggi tutta la tua vita e i rapporti difficili con due persone che hanno determinato la tua vita e il tuo carattere…

Ho rovistato nei cassetti e ho davvero trovato manoscritti iniziati e lasciati lì in epoche diverse della vita. Ho riscritto ricucito inventato qualcosa (pochissimo).”

In questo testo emergono due sentimenti: il dolore e la grande gioia di vivere nell’amore, nel sentimento dell’amicizia. Sandra Petrignani ci lascia riflettere, ma ci regala anche la speranza di essere persone vere. Perché il dolore è come l’onda del mare. Va, viene. E quando c’è tempesta si infrange su quella scogliera che è la nostra esistenza. Una scogliera a tratti friabile. Là dove ha lasciato il segno tante, forse troppe, volte. Dove, appunto, c’è il cuore.

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Non dire madre: Dora Albanese

di Gianfranco Franchi

Prepotente come l’esordio di questo romanzo, di bellezza pari all’intensità e alla violenza dei sentimenti di una madre, della madre che racconta cosa significa dare alla luce un bambino, e cosa significa avere diciannove anni, in quel momento, ricordo d’aver letto poco, negli ultimi anni. Forse niente. La maternità è un mistero assoluto, per noi uomini; è solo il principio di una metamorfosi della donna che abbiamo amato e ameremo per sempre, è solo la sensazione di un evento fenomenale, incancellabile (e: giusto. Naturale, perfetto). E da quell’esordio in avanti mi sono lasciato andare, tra le pagine, come se fossi cullato. È strano, non ho accompagnato né guidato la lettura – sono stato, come dire, trasportato. Tutto a un tratto è cambiata la voce della narratrice, e ho scoperto che avevo di fronte una raccolta di racconti di una scrittrice lucana, classe 1985, esordiente; alle spalle qualche pubblicazione web e cartacea, qui alla sua opera prima. Ho guardato meglio la copertina di Maurizio Ceccato e ho sorriso. Mi sono accorto che nessuno mi stava cullando, e ho letto. Da letterato, ho apprezzato una gran sensibilità per i dialoghi, un grande amore per le proprie origini, un enorme orgoglio per Matera, per Stigliano, per le proprie radici; infine – magnifico – per il dialetto delle madri, per l’essenza di quella società contadina, matriarcale, tenace, forte. Ho sorriso di come mi s’era rovesciato tutto. Ho pensato al mistero della maternità, a quanto grande è questo enigma anche per le stesse donne che vanno a viverlo. È tanto grande che a un tratto narrarlo diventa impossibile: si devia nell’allegoria, si pasticcia col presente, ci si confonde tra un ricordo e un altro, si cerca una fine che non c’è (la fine è sempre una fortuna, un dono: ma è qualcosa di giusto, e naturale. Proprio come la nascita), si guarda nel lago delle proprie origini per dimenticare d’essere diventate origini voi, voi stesse donne. È bellissimo, e sbagliato (ma quanto è bello sbagliare? Quanto è sano?).

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Saluto l’esordio di una narratrice che farà scintillare la Lucania di vita nuova, nelle patrie lettere. Sarà come pioggia su una terra arida. Sarà madre di un canto di quella terra, di quelle persone, di quella cultura, che sin qua manca. E come spesso accade, saprà farlo meglio di chi vive lì, perché adesso lei da Roma osserva tutto con più chiarezza: sta interiorizzando e giudicando la sua vita, e la sua cultura originaria, e presto ne deriveranno nuove e grandi cose. Questo libro è il primo passo. È l’elegia dolorosa e magnifica della maternità, sin quando è romanzo. Poi, è prosa letteraria, espressione ancora d’una ricerca – d’uno stadio della ricerca. D’una ricerca di qualcosa che io non posso dire, non ne ho la prepotenza, né l’incoscienza; ma è qualcosa che Dora Albanese saprà plasmare.

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“Sarebbe bello uscire da questa camera e gettarsi nella pioggia, donare al buio il rosso delle mie ferite e il verde dei miei lividi, riempire dei miei capelli neri ogni fosso, tanto da annullare quest’annullarsi di colori, e appiattire tutto. Sarebbe bello, questa notte, ballare a piedi nudi e a braccia aperte, bagnata da gocce di pioggia, e affondare i piedi nella mia terra. Ho scelto di partorire in Lucania per dare in eredità a mio figlio le mie stesse origini. Ho sempre creduto, fantasticando, che Lucania fosse il nome di una madonna nata nei Sassi, e morta in quello strapiombo acquoso che è la Gravina”

(Dora Albanese, “Non dire madre”, p. 43).

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Tutto ha inizio nel reparto Ostetricia dell’ospedale Santa Maria delle Grazie di Matera. La narratrice, diciannove anni, sta per dare alla luce suo figlio; e intanto sogna di ritrovare le piccole cose quotidiane, di tuffarcisi e di non voltarsi più indietro; e il dolore la fa sentire “sgraziata” e “involgarita”. Sembra incredula lei stessa, che sempre s’era sentita libera ed emancipata, e aveva grandi sogni di libertà e d’incoscienza (ballare il flamenco a Madrid; ballare, e basta) tatuati sul polso (“duende”). È incredula, ferita e combattiva: le altre gestanti sono tutte più grandi, e hanno qualcosa di borghese (la responsabilità: la programmazione della vita, come fosse una cena) che lei proprio non sopporta. Non vuole interagire con loro, non vuole che osservino, giudichino, pensino. Non vuole che si rapportino a lei. “Che ne sanno, loro, di me? Che ne sanno del motivo per cui ho fatto un figlio a diciannove anni? Cosa ne sanno loro del perché ho scelto di sdoppiarmi proprio in questo ospedale, proprio in questa città, davanti agli occhi di tutti?” (p. 21).

La mamma deve starle vicino. Lei vuole. Già s’accorge che parla con quell’intercalare che si usa “solo da noi a Sud, un intercalare con cui presto dovrò prendere confidenza, anche se non significa niente, perché in questo momento avrei bisogno io di essere attaccata al seno” (p. 23). E poi allatta il bambino, davanti a tutti. Accetta d’essere madre. Sa che il bambino è anche frutto delle sue paure, “della mancanza di coraggio, della giovinezza e dell’inesperienza”; s’accorge d’avere paura del bisogno che il piccolo ha di lei.

Osserva sua madre. Cerca impossibili vie di fuga. Pensa. “Credo che mia madre abbia trascorso buona parte della sua vita a ingoiare tutto: i problemi famigliari, le incomprensioni con la suocera e le cognate, i problemi e la vita dei figli. La vita dei figli mia madre l’ha depositata, come un’ape regina, nella gola, e sta aspettando la carestia per ridistribuire i viveri” (p. 39). Pensa, prima di dormire, che è stato bello vedere la madre dormire al suo fianco. Adesso sarà difficile dire “madre”: essere madre annienta il sacrificio dell’altrui maternità.

Passa del tempo. Passano cinque anni. Riesce a crescere suo figlio senza l’aiuto di nessuno. Si sente una donna bella e sazia. Si sente simile alle mamme del Sud nella stanchezza e nei tormenti (“Mentre gli occhi scavano pozzanghere, noi madri teniamo sempre il pianto in bocca”, p. 50). Soffre perché suo padre non capisce; perché sembra offeso dalla sua scelta di vita, perché ripete che sua sorella più piccola può prendere il cattivo esempio. Vive a Roma, e trova pace nel paese che ha deciso sia la sua origine – il paese delle sue madri – Stigliano, terra di contadine forti e coraggiose. E condivide ricordi. Nonna che racconta di aver assistito a un parto in casa, e di aver visto ammazzare un bambino storpio; che racconta la disperazione dei poveri, e di come cercavano di abortire; di come sopravvivevano alle cose della vita. Con dignità, nonostante le eccezionali difficoltà: e con semplicità. E poi, ricorda un aborto accaduto senza che nemmeno capisse. Ricorda un’amica anoressica, a sedici anni. Ricorda come ha combattuto quel male. Ricordando il male, vince il male: lo nomina, lo domina.

Altrove. La sua storia d’amore è in crisi. Luca non ispira più senso di protezione. Lei vuole andarsene. Vuole liberarsi della fedina. Vuole andarsene portandosi via qualche libro di poesia, due vestiti, un caricabatterie. E poi perdona, si rimangia tutto, cambia idea. Lui le appartiene come la sua terra.

E da qui in avanti il romanzo scompare. Sembra di trovarsi di fronte a una raccolta di racconti vera e propria. Storie di amori più maturi, di un istruttore di scuola guida che si innamora di una suora, di una madre che parla della nostalgia di sua figlia, di povere donne meridionali emigrate a Roma in cerca di una fortuna che non c’è; di un vecchio amico che diventa donna, e per farlo finisce in coma, e se ne va; di squarci di Roma, dove “Il mio quartiere è una piazza, un piccolo paese nella metropoli. La Roma insonne e chiassosa non toccherà mai la mia piccola piazza in via La Spezia, e questa cosa mi rassicura”, in cerca d’una dimensione di paese che non c’è. Se vi pare.

Fonte: Lankelot

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VIDEOINTERVISTA A SANDRA PETRIGNANI

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BRANI ESTRATTI DAI LIBRI DI SANDRA PETRIGNANI E DORA ALBANESE

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da Dolorose considerazione del cuore di Sandra Petrignani (pagg. 60-61)

“Tina, che fai?”
“Tina, vieni qui”.
“Tina, non ti sporcare”.
“Tina, non stare in mezzo alla corrente”.
“Tina, mettiti il golf”.
Ero sempre nei suoi pensieri, non ero in nessuno dei suoi pensieri. Ero nelle sue parole, questo sí. Nel suo cuore no. Il suo cuore lo avevano preso i cacciatori, chissà quando. Era rimasta viva, apparentemente. In realtà non c’era piú, io non avevo mamma. Un simulacro dalla pelle liscia, dai capelli neri, dagli occhi brillanti, dalla bocca rossa. E le perle ai lobi delle orecchie.
Io gridavo “non andare via” ogni volta che si preparava a uscire e non poteva portarmi con sé, “non lasciarmi sola”. Gridavo senza voce, “resta con me”. Ero muta. La voce compressa sotto lo sterno.
“Tina, fa’ la brava, aspettami, torno presto,” come si dice a un cucciolo, un cane che piega la testa sconsolato.
Quanto dura “presto”? Che razza di misura è? Ore di abbandono e di solitudine. E quell’altra parola, “subito”, la piú bugiarda di tutte. Lei usciva e non tornava mai piú, tutte le volte.
“Non stare in mezzo alla corrente”, questo il viatico per affrontare la giornata e la vita. Correnti e umidità.
Precipitavo nel vuoto, e lei mi metteva la maglia.

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da “Non dire madre” di Dora Albanese (pagg. 18-19)

Oggi e pure domani, e per sempre credo, non sarò lo specchio di nessuno, e questo viso gonfio ricoperto da capillari rotti sarà la mia seconda faccia: di certo non mi dimenticherò mai di me, e ogni volta che mi specchierò vedrò dall’altro lato un miscuglio di carne aperta e di sudore.
Mio padre sbuca all’improvviso, inaspettatamente, davanti alla barella, e mi dice che è tutto finito e che ce l’ho fatta. Mia madre, invece, da lontano si asciuga le lacrime, e tiene fermo sulla bocca un sorriso che sa di disperazione.
Nonostante la sofferenza, il travaglio e i nove mesi di gravidanza, non mi sono mai sentita così lucida come in questo momento; nonostante abbia partorito senza alcun conforto chimico un bambino di quasi cinque chili, non mi sento affatto stanca, interiormente. È come se non fosse ancora successo niente, è come se il peggio dovesse ancora arrivare.
Adesso l’unico mio desiderio è riuscire a smettere di tremare come una rana, essere più dignitosa nell’aspetto e avere poca gente attorno.
Domando subito a mia madre, non appena mi si avvicina un poco, se ho gridato molto durante il parto; lei fa di no con la testa, e dice che non si è sentito quasi niente, e che sono stata forte e coraggiosa a non pretendere il cesareo.
In effetti è vero, credo anch’io di non aver gridato molto, anche quando l’ostetrica, mentre mi radeva i peli del pube, per sbaglio mi ha tagliato un pezzo di carne; sì, alla fine sono stata brava, ho solo sforzato la gola per sostenere il dolore come fece Cristo quando venne inchiodato al palo, ed è proprio a lui che ho pensato per tutto il tempo – però è sempre a lui che si pensa quando la sofferenza graffia nelle vene.

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da “Dolorose considerazione del cuore” di Sandra Petrignani (pagg. 76-77)

Eppure l’amavo. Io non sapevo niente, sapevo solo la forza del mio amore frustrato. Non sapevo la sua debolezza, la sua infelicità, la sua pazzia. La guardavo prepararsi per andare a una festa. La pelle perfetta. I capelli neri. Le perle bianche. Il lungo vestito frusciante.
Le spalle che restavano scoperte. Volevo baciarla.
Volevo sempre baciarla.
“No. Mi rovini il trucco”.
Baciami tu.
“No. Ho il rossetto”.
No no no. L’aria percorsa da elettricità. Non sapeva di essere bella. Sempre insoddisfatta. Sempre preoccupata di non essere all’altezza. Troppo elegante. Troppi vestiti da sera, troppe pellicce. A me piaceva la misura, mi piacevano le cose semplici, però l’ammiravo a bocca aperta. Era scintillante. Si trasformava come Cenerentola.
Anche la sua carrozza era finta, pronta a ritornare zucca. Lei lo sapeva e s’innervosiva. Che io le togliessi il rossetto.

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da “Non dire madre” di Dora Albanese (pagg. 28 – 29)

Entra la ginecologa senza chiedere permesso, e invita a uscire gli ultimi parenti rimasti in camera. La ringrazio con gli occhi, ma la dottoressa, che è donna e medico, capisce al volo il mio rifiuto. È stata lei ad assistere al parto, è lei che ha tagliato il cordone ombelicale gonfio di ossigeno, è lei che mi ha fatto molto male quando con le dita ha rotto le acque.
Anche mia madre viene allontanata dalla stanza e, prima di uscire, prende Alessio dal mio petto, e lo rimette nella culla.
– Non mi lasciare sola, mamma, aiutami, non abbandonarmi, non so cosa fare con il bambino se piange, resta con me, mamma, voglio stringerti la mano –.
Vorrei implorarla di rimanere, anche se non ne ho più il diritto.
“Rilassati, adesso” dice la ginecologa. Poi getta uno sguardo alla cartella clinica e continua a parlarmi chiamandomi per nome, come per farmi sentire al sicuro – proprio come accadeva a scuola quando la prof di matematica, per tranquillizzarmi, mi chiamava per nome per farmi svolgere le equazioni alla lavagna.
“Adesso, Erica, devi fare un ultimo sforzo. Chiudi gli occhi. Puoi anche mordere le lenzuola, se vuoi…”
mi dice rimettendo a posto la cartellina.
– Mamma, mamma, aiutami madre, madre aiuto, o madre sempre meno madre –.
Taccio, pensando al conforto materno che non arriverà mai.
Chiudo gli occhi come mi è stato detto, e trattengo le lacrime mentre la dottoressa continua a lavorare con distacco.
È giusto che io non dica mai più madre ora che il mio volto è racchiuso in una lacrima; è giusto che io non dica mai più madre, perché secondo lei, l’ho abbandonata prematuramente, e non ho apprezzato fino in fondo tutti i suoi sacrifici, anche se in realtà non è andata proprio così. Ho fatto un figlio punto e basta. Ho fatto di me una donna completa, ho messo le mani nella sabbia, e non la testa, come pure fanno molti a diciannove anni, e le conseguenze le pagherò io da sola, mentre i miei genitori lentamente si volteranno di spalle.
Il bambino dorme e io soffro, mi arrendo a quella donna che non porta sollievo ma altro dolore.
“Dobbiamo fare la spremitura dell’utero, durerà poco, ma devi essere forte, non possiamo permettere che si formino grumi di sangue, altrimenti bisognerà fare il raschiamento” dice mettendomi il palmo della mano sulla pancia ancora gonfia.
– Mi fai male, mi fai male, voglio morire, morire… perché non ho abortito… quella maledetta paura… avrei dovuto abortire… aia! aia! aia!… Voglio morire! –
Tengo i denti stretti, e piango ad occhi chiusi, mentre sto ferma e mi lascio torturare. Per il troppo pudore non getto neanche un urlo, e mi faccio spremere la pancia come fosse un’arancia, mentre tra le mie gambe scorre un fiume rosso.

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da “Dolorose considerazione del cuore” di Sandra Petrignani (pagg. 161-162)

Era seduta davanti a una tazza di latte.
“Non ha chiuso occhio stanotte,” dice Roda, “è preoccupata”.
“Preoccupata perché? Deve solo bere tanta acqua,” faccio io a voce alta in modo che lei senta. “L’azotemia si cura cosí, ha detto il medico. Se fosse una cosa grave, non si curerebbe con l’acqua”.
“Ho un tumore al cervello,” dice lei lasciando la tazza dove sta.
Cerco di ridere: “Ma che dici?”
“Ho paura”.
Le spiego con calma che non ha niente di terribile. È solo vecchiaia, vorrei aggiungere, ma non lo dico. Nessun tumore. Il cervello è un po’ lesionato, ma solo nella trasmissione dal pensiero alla parola. È una seccatura, lo ammetto. Ma sarebbe piú terribile che fosse davvero un cancro: operazioni, chemioterapia. Invece deve solo adattarsi a quella che è indubbiamente una menomazione, con cui però si può provare a convivere.
“Le parole crociate, non riesco piú a farle, nemmeno le piú semplici,” farfuglia disperata. La frase è quasi incomprensibile, ma ho imparato a ricostruire il senso dei suoi discorsi frammentati.
“Va bene, rinuncerai alla Settimana Enigmistica,” cerco tutta la dolcezza possibile per consolarla. “Farai altre cose”. Frugo nella mia mente alla ricerca di un’idea, la guardo. Ha i capelli in disordine, da un mese dice che vuole tagliarsi i capelli. Non le piacciono i parrucchieri del quartiere. E quello che era il suo parrucchiere, Roberto, è al centro della città, lontano.
Come fa ad arrivarci da sola? Penso alla riunione di lavoro che mi aspetta.
“Potresti andare da Roberto, per esempio. Se vuoi ti ci accompagno, ci sto andando anch’io”.
Ha un lampo di arresa incredulità negli occhi. Oppone resistenza per mettermi alla prova. “Devo vestirmi”.
Già pronta a rinunciare.
“Va bene, ti aspetto”.
L’aspetto nell’ingresso, leggiucchiando un giornale, dando occhiate corroboranti alla vetrata del terrazzo.
L’intrico verde delle piante è l’unico dettaglio dell’appartamento dei miei genitori che non ho mai sentito ostile.
Ricompare ancora in vestaglia e mi abbraccia. Improvvisamente mi abbraccia stretta stretta, e piange.
La sento piccola e fragile, me la ricordo piú alta di me, altera, fredda.
“Ho solo te,” dice chiaramente.
“E io ci sono e ti proteggo”.
Quell’abbraccio ha cambiato ogni cosa fra me e lei.
Mi propongo di tornare a sentire quell’abbraccio sul mio corpo ogni volta che sto per crollare.

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RECENSIONI INCROCIATE n. 7: Marino Magliani, Stefania Nardini http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/31/recensioni-incrociate-n-7-marino-magliani-stefania-nardini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/31/recensioni-incrociate-n-7-marino-magliani-stefania-nardini/#comments Tue, 31 Mar 2009 19:50:40 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/31/recensioni-incrociate-n-7-marino-magliani-stefania-nardini/ recensioni-incrociate.jpgNuova puntata delle “recensioni incrociate” di Letteratitudine. Gli scrittori/ospiti coinvolti sono Marino Magliani e Stefania Nardini.

I libri oggetto delle recensioni sono ”La tana degli Alberibelli“ (di Marino Magliani) e “Gli scheletri di via Duomo” (di Stefania Nardini).

Due libri diversi, ma che hanno tratti in comune…

La Liguria di Magliani a confronto con la Campania della Nardini; un incrocio tra Napoli e una città della costa ligure; due noir, due romanzi incentrati sull’indagine e sulla ricerca della verità.

E proprio la ricerca della “verità” – basata sull’indagine, ma non solo – potrebbe essere uno dei temi che lega i due libri…
Così vi domando:
quali sono i principali limiti della ricerca della verità (nella vita e in letteratura)?
spesso la verità è sfuggente, multiforme, difficilmente individuabile… ma esistono situazioni oltre le quali la verità assume una veste univoca e incontrovertibile?

Di seguito potrete leggere le recensioni incrociate dei due scrittori/ospiti di questa puntata.

Vi chiedo di interagire con Marino Magliani e Stefania Nardini, che parteciperanno alla discussione. Che ciascuno di voi – se vi va – faccia il giornalista culturale e ponga delle domande per scoprire (insieme) cosa offrono questi due libri. Chi ha già avuto modo di leggerli è pure invitato a esprimere la propria opinione.

Massimo Maugeri

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La tana degli Alberibelli – Marino Magliani – Longanesi, 2009 – euro 18 – p. 329

MAGLIANI, LA FORZA DEL ROMANZO MEDITERRANEO
di Stefania Nardini

Bella e misteriosa.
Azzurra da far sognare, verde per darti il senso della vita. Terra di confine, di streghe, di gente con la faccia bruciata dal sole. Di mare, un mare che ne inghiotte il mistero. E’ la Liguria di Marino Magliani che torna con il suo nuovo romanzo: “La Tana degli Alberibelli” (ed. Longanesi). Romanzo “ad alta definizione” di questo narratore che ha fatto della scrittura il suo viaggio, il suo percorso, con lo spirito di chi non vuole sottrarsi alla realtà fermandosi su cio’ che è poesia dell’esistente.
Magliani ci racconta una bella storia. Una storia il cui protagonista è un giovane olandese, ufficialmente archeologo alla ricerca di un oggetto abbandonato dai disertori nella battaglia di Marengo, in realtà un investigatore inviato da un ufficio antifrode per avere informazione sui fondi dirottati su un porto turistico che si preannuncia il più grande del Mediterraneo.
E Magliani mette nelle mani del protagonista, nel suo duplice ruolo, passato e presente di un Ponente Ligure dove riaffiora il “non detto” (aspetto questo che troviamo anche nel suo precedente romanzo “Quella notte a Dolcedo”) della Storia. Una storia in cui la verità è rimasta spesso sepolta tra i rovi di queste montagne dove la guerra è stata povertà, morte, ma anche esplosione di miserie umane che sono ancora oggi nella memoria. Magliani non esita a rivisitare la metamorfosi di quelli che furono i partigiani, con i loro nomi di battaglia, con i loro nomi di protagonisti “eccellenti” quando poi la guerra divenne un ricordo. Come in un’operazione chirurgica estrae pezzi di memoria che ricostruiscono l’identità. E lo fa mettendo insieme il dato storico e una penetrante osservazione sul particolare, su cio’ che meglio arricchisce l’atmosfera ruvida e al tempo stesso dolce.
E’ un romanzo che parla del mare “La Tana degli Alberibelli”, di un mare visto dalla prospettiva dei villaggi arroccati sulla roccia. Un osservatorio da cui è possibile immaginare un futuro imminente legato a grandi interessi economici, in cui in nome della speculazione si sta per compiere lo scempio. Santaleula non è solo l’idea di realizzare il grande porto. Ma l’uso della più bieca persecuzione a colpi di ordinanze e carte bollate, per eliminare tutto cio’ che puo’ “interferire”. E’ cio’ che scoprirà il giovane Jean Martin, giunto in terra ligure dopo la misteriosa morte dell’agente suo collega con il quale manteneva segretamente i contatti, è l’intreccio tra passato e presente, tra gli strani segni lasciati da un partigiano cattolico in una grotta e mai decifrati, e gli “avvertimenti” che riceve quotidianamente mentre è pedinato da una Volvo bianca.
Un noir. Anche. Ma soprattutto un libro in cui la vera denuncia è in un disperato grido per salvare la ricchezza umana di questa terra, al di là di quell’apparente immagine sorniona di villaggi dove il tempo sembra scivolare senza lasciare traccia. Una ricchezza che Magliani mostra attraverso la forza della natura, delle parole, ricorrendo, senza esitazioni, a Francesco Biamonti di “Vento Largo”.
Un romanzo mediterraneo, che a tratti ci riporta a Braudel, come alla Marsiglia di Izzo , mantenendo un sua fisionomia precisa, nuova , che ne fa un testo maturo, saldamente collocato nello stile e nei contenuti.
Marino Magliani ha scritto una vera lettera d’amore alla sua terra. Mettendoci, come si fa con un’amata, la passione, l’amarezza, e una ribelle dolcezza.
E questa è una grande novità. Cercare in letteratura la verità senza rinunciare alla bellezza.

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Gli scheletri di via Duomo – Stefania Nardini – Pironti, 2008 – euro 10 – p. 111

QUANDO GLI SCHELETRI NON SONO NELL’ARMADIO
di Marino Magliani

In tempi in cui diventa ormai un genere parlare della Napoli quotidiana e di usare tutti gli ingredienti di cui si sa, una scrittrice, una giornalista, come si suol dire, prestata alla letteratura, decide di consegnarci squarci di una Napoli appena trascorsa eppure lontanissima. E non le basta, la morte sulla quale indaga l’io narrante, un giovane cronista del Mattino, é addirittura archeologica. Si tratta di due scheletri ritrovati nell’intercapedine di un palazzo che ha conosciuto momenti migliori. Il palazzo si trova in via Duomo al civico 214 e dá il titolo al libro. Gli scheletri di Via Duomo.
L’autrice é Stefania Nardini, che ha pubblicato lavori con Newton Compton e questo é il suo secondo romanzo con l’editore Tullio Pironti, un buon editore, storico, al quale si sono legati grandi nomi della narrativa italiana e internazionale e del giornalismo. L’altro romanzo della Nardini é Matrioska ed é stato addirittura tradotto in Ucraina, cosa piú unica che rara nella narrativa italiana contemporranea.
Leggendo questo romanzo pensavo a Morte annunciata di Marquez, non perché ci assomigli ( anche se in quest’aria di Napoli andata e lontana, a tratti magica, qualcosa di latinoamericano si riesca a respirare ), ma per la perfezione della costruzione, per come entrambi gli autori, Marquez e la Nardini riescano a ubbidire e a stupire il lettore nello stesso tempo. Per come a parlare siano i colori e i respiri, e per come passo passo le ipotesi sappiano ridare vita e rimettere carne intorno agli scheletri di Via Duomo.
Il professor Improta, come sempre attentissimo lettore, recensendo questo libro ha fatto notare che in questa indagine, la polizia non gioca un ruolo. Ed é vero, si direbbe di piú una questione privata, iniziata chissá quando e mai interrotta, un rapporto senza mediazioni, tra il giornalismo e la cittá di Napoli.
Alla fine questa diventa la ricerca di un giornalista che aveva capito che indagando su due scheletri si poteva indagare sul cadavere di una cittá.

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