LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » poesia http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 OMAGGIO A ANDREA ZANZOTTO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/10/10/omaggio-a-andrea-zanzotto/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/10/10/omaggio-a-andrea-zanzotto/#comments Sun, 10 Oct 2021 05:08:00 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3619 Ricordiamo Andrea Zanzotto nel centenario della sua nascita e a dieci anni dalla sua morte

Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921 – Conegliano, 18 ottobre 2011) poeta italiano tra i più importanti della seconda metà del Novecento

* * *

[Rimettiamo in primo piano questo post pubblicato il 18 ottobre 2011]

Oggi, 18 ottobre 2011, ci ha lasciati un gigante della letteratura: il poeta Andrea Zanzotto. Era nato a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, il 10 ottobre del 1921 (dunque, aveva da poco compiuti i novant’anni). Era ricoverato da alcuni giorni all’ospedale di Conegliano (soffriva da tempo di problemi di natura cardiaca e respiratoria).
A lui, e alla sua memoria, questo “spazio”. Un omaggio, ma anche un’occasione per far conoscere Zanzotto a chi non ha ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.
Chiedo a tutti di contribuire lasciando un ricordo, un’impressione, una citazione, informazioni biografiche… ma anche link ad altri siti e quant’altro possa servire a ricordare Andrea Zanzotto e la sua produzione letteraria.
Vi ringrazio in anticipo!

Di seguito, l’articolo pubblicato su La Stampa.it e il video “Ritratti – Andrea Zanzotto” (di Marco Paolini, regia di Carlo Mazzacurati, 2009).

Massimo Maugeri
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da LA STAMPA.IT

Morto Zanzotto, il cantore del tempo. Il grande poeta aveva appena festeggiato 90 anni: al compleanno l’omaggio di Giorgio Napolitano

E’ morto il poeta Andrea Zanzotto. Era stato ricoverato ieri, per problemi ai polmoni, all’ospedale di Conegliano. Pochi giorni fa Padova aveva festeggiato i 90 anni dell’autore, in passato più volte indicato come candidato al Nobel. Originario di Pieve di Soligo, ha saputo trasformare il dialetto in un linguaggio universale, straordinario e ironico cantore del tempo di lunga e generosa militanza poetica. Formatosi a lezione di Concetto Marchesi, Manara Valgimigli e Diego Valeri tra il 1938 e il 1942, fu sostenuto negli esordi come poeta da Giuseppe Ungaretti e da Alfonso Gatto. Fu partigiano nelle file di Giustizia e libertà ed è famoso il sodalizio che ebbe con Federico Fellini. Per celebrare i suoi 90 anni sono usciti diversi libri (compreso un Oscar Mondadori), una raccolta di inediti (Interlinea editore) e un numero speciale della rivista «Autografo» fondata da Maria Corti.
Pochi giorni or sono, nel festeggiare il suo compleanno con la consegna del «Leone del Veneto», la massima onorificenza della Regione Veneto, è stata letta la lettera che gli ha scritto il capo dello Stato Giorgio Napolitano «Le sono vicino, caro Zanzotto – ha scritto ricordando i comuni trascorsi studenteschi a Padova negli anni della guerra e dell’antifascismo – nella visione della poesia come sentimento del tempo, e sono tra i tanti che ammirano la ricchezza di motivi ispiratori e di accenti con cui l’ha come tale rappresentata. Nell’orizzonte più vasto, poi, dei suoi interessi culturali e civili, ritrovo i fili, a me familiari, non solo di un percorso tra politica e utopie come quello da lei rievocato, ma dell’ancoraggio alla Resistenza e alla Costituzione, e dell’idea di un’unità del paese, messa in campo fin dal Medioevo sul terreno della storia letteraria».
«E colgo in lei – prosegue il messaggio di Napolitano – la vigile attenzione e il fermo richiamo a valori essenziali dinanzi ai guasti subiti dalla società e dallo Stato, al diffondersi non solo della corruzione ma di una volgarità fatua e rissosa, di spinte sgangherate e di bassi sentimenti. La ringrazio per questa severità appassionata dei suoi messaggi, per l’amore che rivolge alla natura ferita così come alla gente del suo Veneto – una volta povera e serva – sempre faticatrice, ora anch’essa presa in quel “progresso scorsoio” che turba noi tutti. Continui, caro Zanzotto, a farci sentire questa sua limpida voce».
Il poeta, presente in videoconferenza al Pedrocchi, si è detto molto toccato: «Tutto ciò – ha sottolineato con voce incerta ma sguardo intenso e penetrante – viene ad alleviare il corredo dell’età a volte così inclemente». E prima di dare voce ad alcuni versi scritti in memoria del padre «al quale devo moltissimo», Zanzotto ha tratto un suo personale consuntivo: «Non potevo attendermi una miglior verifica di aver investito in ideali e valori», capaci di restituire coerenza e unità ai «cocci» del vivere quotidiano.
Zanzotto era il poeta delle cose semplici ma complesse, indicato dalla critica come continuatore della linea ungarettiano-ermetica. Un poeta delle parole cesellate e comprese dal loro interno. Mai magniloquenti ma sempre cariche di una forza in grado di cristallizzare l’emozione in un verso.
Il poeta nasce nel 1921 a Pieve di Soligo. La sua famiglia è apertamente antifascista. La formazione scolastica avviene a Treviso, successivamente sarà all’Università di Padova che Zanzotto consegue la laurea in Lettere forgiando la propria conoscenza abbeverandosi alle lezioni del latinista Concetto Marchesi e del poeta, Diego Valeri. Fu proprio Valeri a spingerlo a conoscere i poeti simbolisti francesi, da Baudelaire e Rimbaud.
Laureato, Zanzotto inizia ad insegnare nella sua Marca, in quel di Valdobbiadene. Fu arruolato nel 1943 e partecipò attivamente alla Resistenza veneta. Dagli anni ‘60 inizia il percorso poetico che lo condurrà a collaborare a numerosissime riviste letterarie, tra cui ‘Il Caffé’ che riuniva gli esponenti di spicco del panorama letterario italiano, tra cui Calvino, Ceronetti e Volponi.
Nel 1969 pubblica Gli sguardi, i fatti e Senhal dedicato allo sbarco sulla luna. Ma è nel 1976 che Zanzotto fa un incontro cruciale, quello con il regista Federico Fellini con il quale collabora al Casanova. Con il cineasta riminese, Zanzotto collaborò anche alla sceneggiatura de La città delle donne. Per Fellini scrisse ancora i Cori per E la nave va del 1983. In quell’anno, fertile e denso di novità, Zanzotto pubblica un’altra opera fondamentale: I Fosfeni, secondo libro di trilogia grazie al quale conquista il premio ‘Librex Montale’.
Iniziano in questo periodo i problemi di depressione che affliggeranno, periodicamente, il poeta gettandolo spesso in un cupo e ripiegato silenzio. Gli ultimi anni vedono Zanzotto al lavoro sulla lingua veneta, nel 2001 esce Sovrimpressioni, meditazioni attorno alla distruzione del paesaggio. Poi nel 2005 è la volta dei Colloqui con Nino, una sorta di introspezione nel passato e nell’educazione sentimentale. Il 2009 segna l’uscita di In questo progresso scorsoio. Un testamento spirituale in cui il poeta esprime l’angoscia del tempo presente.
La poetica di Andrea Zanzotto è fortemente innovativa e declina un’avanguardia estremamente personale. Una rarefazione del linguaggio frutto di un intervento di pulizia e recupero di fonemi ascrivibili quasi a un linguaggio infantile ma al contempo colto. Amplissime e frequenti le sue incursioni nell’universo semantico del greco classico, che il poeta sa intrecciare con visionaria precisione dell’etimo al suo verso sempre misura, sempre minutamente cesellato.
Zanzotto non è un oratore civile, a differenza da altri protagonisti, nel panorama letterario italiano che gli furono pure amici. Ma non mancò proprio nel giorno del suo ultimo compleanno, sul limitare dell’intera sua esistenza, di intervenire con parole nette e vibranti su di un tema di stringente attualità nel dibattito politico. Ebbe a dichiarare in un’intervista al nostro quotidiano La Stampa: «Mi ha fatto molto piacere sentire il Capo dello stato riaffermare l’unità d’Italia e liquidare certi giochi di parole che negli anni avevano creato un imbroglio. La Padania non esiste, il popolo padano neppure. Questa è una storia più che ventennale di equivoci e spettri. La riaffermazione di Napolitano potrà darci il senso di una tregua. E sono convinto che piano piano questo fantasma sparirà».
(da La Stampa.it del 18/10/2011)

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DI-VERSI IRREQUIETI: Il volo di Franco Battiato http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/05/18/di-versi-irrequieti-il-volo-di-franco-battiato/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/05/18/di-versi-irrequieti-il-volo-di-franco-battiato/#comments Tue, 18 May 2021 17:00:52 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8798 La nuova puntata di “Di-versi irrequieti“, spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine, è dedicata a Franco Battiato (che ci ha lasciati oggi, 18 maggio 2021)

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Il volo di Franco Battiato

di Daniela Sessa

All’alba Franco Battiato ha lasciato la vita. Nell’ora in cui la natura si risveglia: il cielo assiste alla fuga del buio e al primo canto e volo degli uccelli. E me lo immagino, Battiato, con la sua esile figura, il naso adunco, le braccia lunghe come ali, il sorriso evanescente e beffardo che si perde nell’infinito. Alla ricerca della sua nuova casa o di una forma diversa.

Volano gli uccelli volano
Nello spazio tra le nuvole
Con le regole assegnate
A questa parte di universo
Al nostro sistema solare

Aprono le ali
Scendono in picchiata, atterrano
Meglio di aeroplani
Cambiano le prospettive al mondo
Voli imprevedibili ed ascese velocissime
Traiettorie impercettibili
Codici di geometria esistenziale

Ha aperto le ali ed è salito in picchiata. La metafisica di Battiato è geometria esistenziale. Se l’universo è il tutto quanto, se è l’infinito che abbraccia il finito, il pensiero e il pentagramma e la parola di Franco Battiato sono quell’abbraccio. Nella sua vicenda di musicista e di poeta, Battiato ha tracciato linee dritte tra il qui e l’altrove.

Questo sentimento popolare
Nasce da meccaniche divine
Un rapimento mistico e sensuale
Mi imprigiona a te.
Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri
Non accontentarmi di piccole gioie quotidiane
Fare come un eremita
Che rinuncia a sé.

Emanciparmi dall’incubo delle passioni
Cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male
Essere un’immagine divina
Di questa realtà.

La morte come passaggio. La ricerca della Luce come desiderio. La musica come armonia cosmica e intima. Il vertice della sua poesia cosmica

Ne abbiamo attraversate di tempeste
E quante prove antiche e dure
Ed un aiuto chiaro da un’invisibile carezza
Di un custode.
Degna é la vita di colui che é sveglio
Ma ancor di più di chi diventa saggio
E alla Sua gioia poi si ricongiunge
Sia Lode, Lode all’Inviolato.
E quanti personaggi inutili ho indossato
Io e la mia persona quanti ne ha subiti
Arido é l’inferno
Sterile la sua via.
Quanti miracoli, disegni e ispirazioni…
E poi la sofferenza che ti rende cieco
Nelle cadute c’é il perché della Sua Assenza
Le nuvole non possono annientare il Sole
E lo sapeva bene Paganini
Che il diavolo é mancino e subdolo
E suona il violino
.

Il violino che gli insegnò Giusto Pio. Misticismo non ascetismo: farsi carico della vita come sacralità. Ecco perché il sufismo, la corrente mistica che incantò Francesco nel suo viaggio in Medio Oriente e lo incatenò alla lana ruvida del suo saio. La stessa lana che ruota intorno al corpo dei dervisci, che ruotando celebrano l’unione con Dio.

Voglio vederti danzare
Come le zingare del deserto
Con candelabri in testa
O come le balinesi nei giorni di festa

Voglio vederti danzare
Come i Dervisci Tourners
Che girano sulle spine dorsali
O al suono di cavigliere del Katakali

E gira tutt’intorno la stanza
Mentre si danza, danza
E gira tutt’intorno la stanza
Mentre si danza

Gira la stanza, e girano le note. Da questa mattina girano nella testa e nelle orecchie di una generazione che di Battiato ha amato il cinghiale bianco e la paloma, che ha sventolato la bandiera bianca arrendendosi a questa povera patria. Che ha raggiunto la prospettiva Nevski e quel maestro “che ha insegnato l’alba dentro l’imbrunire”: lo svelamento della Bellezza (Arte ed Eterno) che come Battiato l’ha detto solo Dante di Brunetto Latini.

C’è un Battiato che ha viaggiato dentro la musica nobilitando il pop con la sperimentazione elettronica e dentro la musica classica e sinfonica. Un eclettismo cui non sfuggivano i testi in cui l’ironia si condensava nelle immagini evocative e ardite negli accostamenti, fino all’affastellarsi di concetti filosofici. L’incontro con Manlio Sgalambro arricchì un’ispirazione poetica di eco fortemente leopardiana e della poesia francese, senza dimenticare i versi del proemio dell’Iliade impastati a quell’inglese, che non ci servirà il giorno della fine. Sgalambro, Baudelaire e Battiato:

Ti invito al viaggio
In quel paese che ti somiglia tanto
I soli languidi dei suoi cieli annebbiati
Hanno per il mio spirito l’incanto dei tuoi occhi
Quando brillano offuscati
Laggiù tutto è ordine e bellezza
Calma e voluttà
Il mondo s’addormenta in una calda luce
Di giacinto e d’oro
Dormono pigramente i vascelli vagabondi
Arrivati da ogni confine
Per soddisfare i tuoi desideri

Forse laggiù è davvero luce e bellezza, calma e voluttà. Quaggiù oggi resta solo la nostalgia.

Questa piccola rubrica di poesia rende omaggio a Franco Battiato

* * *

[I versi sono tratti nell’ordine da “Gli uccelli”, “E ti vengo a cercare”, “Lode all’Inviolato”. “Voglio vederti danzare”, “Invito al viaggio”]

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DI-VERSI IRREQUIETI: Amelia Rosselli, poeta libellula http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/21/di-versi-irrequieti-amelia-rosselli-poeta-libellula/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/21/di-versi-irrequieti-amelia-rosselli-poeta-libellula/#comments Wed, 21 Apr 2021 06:00:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8768 La nuova puntata di “Di-versi irrequieti“, spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine, è dedicata ad Amelia Rosselli

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Amelia Rosselli, poeta libellula

di Daniela Sessa

Non ne vogliano i pasdaran della grammatica, se questa rubrica chiama Amelia Rosselli (e lo farà con tutte le altre scrittrici di versi che deciderà di raccontare) poeta e non poetessa. Nella fragile e burbera Amelia la poesia s’accampò come assoluto declinare dell’esistenza. Amelia Rosselli fu un’apolide del verso: lo incarnò nella musica (era una studiosa di musicologia) in un mutuo simbolismo dei metri, lo dispiegò tra i gangli della sua malattia (la diversità del suo stare al mondo tra depressione e schizofrenia fu di-versità), lo rese materico e incorporeo assieme quasi per eludere il destino.  “La libellula” è il poema che la rese celebre e cui affidò la metafora biografica e intellettuale. Libertà ed equilibrio, evocati dal leggendario insetto, sono i due confini entro cui si mosse la vita di Amelia Rosselli. Nata a Parigi nel 1930 da Carlo Rosselli e dall’inglese Marion Cave, Amelia assume su di sé una tragedia familiare (l’assassinio del padre e dello zio Nello per ordine di Mussolini nel 1937) senza una precisa consapevolezza della tragedia politica, assente nelle sue poesie. Il piglio di Montale è anche qui, nel metabolizzare la storia dentro la condizione umana. Le sedute di psicoanalisi, l’identificazione con la madre, l’ingombro forse della figura volitiva della nonna (quell’Amelia Rosselli con cui l’adolescente Moravia tenne un carteggio interessante e da riscoprire), la ricerca del padre negli uomini che volle – Carlo Levi e Renato Guttuso -, l’amicizia imberbe con Rocco Scotellaro, la specularità con Sylvia Plath che ne detta forse anche il suicidio a soli 66 anni. Un movimento sperimentale intorno a se stessa che Amelia Rosselli riprende proprio nell’opera “La libellula”, cominciata nel 1958 e poi inserita in “Scritti ospedalieri” del 1966.  Sperimentale se Amelia Rosselli, prima di abdicare al verso libero, senza poi contrapporvi un verso nuovo né tornare al metro classico, lo adottò nel poema come elemento fisico costruito sulle parole e non sulle sillabe (il cubo teorizzato in “Spazi metrici”) e sull’immagine del giro.

“La libellula (Panegirico della libertà)”

Fluisce tra me e te nel subacqueo un chiarore
che deforma, un chiarore che deforma ogni passata
esperienza e la distorce in un fraseggiare mobile,
distorto, inesperto, espertissimo linguaggio
dell’adolescenza! Difficilissima lingua del povero!
rovente muro del solitario! strappanti intenti
cannibaleschi, oh la serie delle divisioni fuori
del tempo. Dissipa tu se tu vuoi questa debole
vita che non si lagna. Che ci resta. Dissipa
tu il pudore della mia verginità; dissipa tu
la resa del corpo al nemico. Dissipa tu la mia effige,
dissipa il remo che batte sul ramo in disparte.
Dissipa tu se tu vuoi questa dissipata vita dissipa
tu le mie cangianti ragioni, dissipa il numero
troppo elevato di richieste che m’agonizzano:
dissipa l’orrore, sposta l’orrore al bene. Dissipa
tu se tu vuoi questa debole vita che si lagna,
ma io non ti trovo e non so dissiparmi. Dissipa
tu, se tu puoi, se tu sai, se ne hai il tempo
e la voglia, se è il caso, se è possibile, se
non debolmente ti lagni, questa mia vita che
non si lagna. Dissipa tu la montagna che m’impedisce
di vederti o di avanzare; nulla si può dissipare
che già non sia sfiaccato. Dissipa tu se tu
vuoi questa mia debole vita che s’incanta ad
ogni passaggio di debole bellezza; dissipa tu
se tu vuoi questo mio incantarsi, – dissipa tu
se tu vuoi la mia eterna ricerca del bello e
del buono e dei parassiti. Dissipa tu se tu puoi
la mia fanciullaggine; dissipa tu se tu vuoi,
o puoi, il mio incanto di te, che non è finito:
il mio sogno di te che tu devi per forza assecondare,
per diminuire. Dissipa se tu puoi la forza che
mi congiunge a te: dissipa l’orrore che mi ritorna
a te. Lascia che l’ardore si faccia misericordia,
lascia che il coraggio si smonti in minuscole
parti, lascia l’inverno stirarsi importante nelle
sue celle, lascia la primavera portare via il
seme dell’indolenza, lascia l’estate bruciare
violenta e incauta; lascia l’inverno tornare
disfatto e squillante, lascia tutto – ritorna
a me; lascia l’inverno riposare sul suo letto
di fiume secco; lascia tutto, e ritorna alla
notte delicata delle mie mani. Lascia il sapore
della gloria ad altri, lascia l’uragano sfogarsi.
Lascia l’innocenza e ritorna al buio, lascia
l’incontro e ritorna alla luce. Lascia le maniglie
che coprono il sacramento, lascia il ritardo
che rovina il pomeriggio. Lascia, ritorna, paga,
disfa la luce, disfa la notte e l’incontro, lascia
nidi di speranze, e ritorna al buio, lascia credere
che la luce sia un eterno paragone.

Nella poesia lo spostamento della posizione anaforica crea il giro come vortice sonoro ed esistenziale al tempo stesso, esaltato da una punteggiatura immeditata come un singhiozzo dell’anima. Una poesia d’amore dove ancora una volta si sente l’eco del secondo e terzo Montale, quello dell’anguilla e del visiting angel.

E se il mare che
fu quella lontana bestia nascosta mi dicesse
cos’è che fa quel gran ansare, gli risponderei
ma lasciami tranquilla, non ne posso più della
tua lungaggine. Ma lui sa meglio di me quali
sono le virtù dell’uomo. Io gli dico che è più
felice la tarantola nel suo privato giardino,
lui risponde ma tu non sai prendere. Le redini
si staccano se non mi attengo al potere della
razionalità lo so tu lo sai lo sanno alcuni ma
ugualmente la cara tenda degli scontenti a volte
perfora anche i miei sogni. E tu lo sai. E io
lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su
de le mie spalle e ride e sputa come una vecchia
fattucchiera, e nemmeno io so dove è che debbo
prendere il tram per arricchire i tuoi sogni,
e le mie stelle. Ma tu vedi allora che ho perso
anche io le leggiadre risplendenti capacità di
chi sa fregarsene. Debbo mangiare. Tu devi correre.
Io debbo alzar. Tu devi correre con la coda penzoloni.

Qui le immagini “della tarantola nel suo privato giardino” e dell’insoffribile “lungaggine” del mare sono variazioni musicali camuffate e nello stesso tempo confliggenti stati emotivi: “io non so se io rimo per incanto o per travagliata/pena” scriverà più avanti Amelia Rosselli. Ed è questa una dichiarazione di poetica che tanto dovette piacere a Pier Paolo Pasolini poeta. Pasolini che definì il linguaggio di Rosselli “così potentemente amorfo, così oggettivamente superbo”, Pasolini che ispirò con “Le ceneri di Gramsci” la forma poema di “La libellula”, Pasolini che c’è in questi versi:

E tu sedevi sicuro sul tuo ponte da falegname,
sicuro di ritrovarti nell’infinito. Io ne ho
perso le vie. Tu ancora ti dibatti: io non posso
più ricordare d’esistere. La miscela è troppo
fine: il ricordo è troppo tagliente: l’incastro
è troppo vivido. La luna (ed ora oso vederla)
è troppo triste. La luna pende. Io muoio. Gli
uccelli si dibattono. La malattia non ha diritto
d’esistere. L’uccellaccio ti rincorre. Io vomito.
Io, tu – no. Ed enormi pinete attendono, in riva,
ed enormi flutti di mare; ed enormi stesure di
sabbie, stancate e scoperte, calanti al di fuori
della città che le ricorda. Topo d’inferno, topo
tropicale, topo d’incontentabile seduzione; topo
orizzontale topo sbiancato nella memoria, impadronitosi
delle mie forze. Topo arcigno e spietato. Sapiente
topo; mercato di topi. Lunga notte di topi. Mercato
di topi e di ferramenta. Io sono grande e piccola
insieme: le vostre furie mi toccano e non mi
toccano. La mia malattia è diversa dalla vostra,
il mio santuario non è quello di Cristo, e lo
è anche, forse, se troppo insidia la spada alle
mie spalle.

Come ci sono gli “spasmodici trucchi di radianza” di Sylvia Plath tradotti da Amelia Rosselli (la poesia è Black Rook in Rainy Weather).

La vita poetica di Amelia Rosselli può essere letta in mille modi, come esige un classico della letteratura (per quanto valga – ahimè – ancora la categoria di classico) passando, oltre ai legami con Montale e  Dino Campana,  dalla produzione in lingua francese e inglese che riflette anche la babele linguistica della sua famiglia, alle frequentazioni con il Gruppo ’63 fino a Dario Bellezza, poeta erotico e turbante, cui Rosselli fu legata, nella vita e nella morte e nel destino di poeti trascurati in vita e celebrati dopo la morte.

E sulle loro labbra come per ragazzi ride
la beffa, la noia e l’angoscia. La noia, la beffa!
L’orrendo macinare grano tra spighe smorte

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DI-VERSI IRREQUIETI: Lucio Piccolo – poeta http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/21/di-versi-irrequieti-lucio-piccolo-poeta/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/21/di-versi-irrequieti-lucio-piccolo-poeta/#comments Sun, 21 Mar 2021 09:24:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8742 La prima puntata di “Di-versi irrequieti“, spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine, è dedicata a Lucio Piccolo

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di Daniela Sessa

Il Novecento in poesia è il luogo della rarefazione della parola. L’osso di seppia montaliano non è solo scarnificazione del verbum ma condensa in sé ogni rivolgimento e stravolgimento del rapporto suono e senso, verità e simbolo. La lirica novecentesca fu antilirica e liricissima assieme: sferzò il tempo con parole crude e fissò il tempo nella ungarettiana “quiete accesa”. Un poeta del ‘900 fu Lucio Piccolo. Poeta riservato e coltissimo, relegato in una nicchia fatta di diffidenza verso i suoi spettri e le sue manie, mai davvero entrato nel consesso dei letterati con la maiuscola. Seppure pare lo desiderasse. Di Lucio Piccolo si raccontano la stirpe nobiliare, le ironie del cugino Tomasi di Lampedusa verso quel poeta strambo e filosofo, la passione per lo spiritismo (condiviso con il fratello Casimiro) e per la relatività di Einstein. Lucio Piccolo si rifugiò nel Barocco (Villa Piccolo è assieme scrigno e materia di quella scelta) quando esplodevano le avanguardie e rievocò un crepuscolarismo di ritorno. Lo studio della musica si riversò nei suoi versi come attenzione alle pause e agli inarcamenti, a una sonorità che mai si mischiò con la tradizione del fonosimbolismo. Perché i suoi simboli, arcaici e ancestrali, scaturivano dall’oscurità e così si consegnavano alla pagina.

Dedico la Giornata mondiale alla poesia a Lucio Piccolo. Ecco alcune delle sue liriche. Che come tutte le liriche vanno lette e non spiegate, ascoltate e non analizzate. Ogni esercizio diverso dal viaggio sensoriale, snatura la poesia invece di celebrarla.  Le liriche sono tratte da “Canti barocchi”, la raccolta del 1956 in cui Piccolo voleva “rievocare un mondo siciliano sulla soglia della propria scomparsa…e anime adeguate a questi luoghi” e da “Plumelia” del 1967 la raccolta del viaggio iniziatico, tranne “La notte” tratta da “Gioco a nascondere”

Mobile universo di folate

Mobile universo di folate
di raggi, d’ore senza colore, di perenni
transiti, di sfarzo
di nubi: un attimo ed ecco mutate
splendon le forme, ondeggian millenni.
E l’arco della porta bassa e il gradino liso
di troppi inverni, favola sono nell’improvviso
raggiare del sole di marzo.

Il raggio verde

Da torri e balconi protesi
incontro alle brezze vedemmo
l’ultimo sguardo del sole
farsi cristallo marino
d’abissi… Poi venne la notte
sfiorarono immense ali
di farfalle: senso dell’ombra.
Ma il raggio che sembrò perduto
nel turbinio della terra
accese di verde il profondo
di noi dove canta perenne
una favola, fu voce
che sentimmo nei giorni, fiorì
di selve tremanti il mattino.

Voce umile e perenne

Voce umile e perenne
sommesso cantico
del dolore nei tempi,
che ovunque ci giungi
e ovunque ci tocchi,
la nostra musica è vana
troppo grave, la spezzi;
per te solo vorremmo
il balsamo ignoto, le bende…
ma sono inchiodate
dinnanzi al tuo pianto le braccia
non possiamo che darti
la preghiera e l’angoscia.

La notte

La notte si fa dolce talvolta,
se dalla cerchia oscura
dei monti non leva alito di frescura
perché non sòffochi, ai muri vicini apre corimbo di canti,
sale coi rampicanti pei lunghi archi,
alle terrazze alte, ai pergolati, al traforo
dei mobili rami segna garofani d’oro,
segreti fievoli coglie ai fili d’acqua sui greti
o muove i passi stanchi
dove l’onde buje si frangono ai moli bianchi.
Subito allo schermo dei sogni
soffia in vene vive volti già cenere, parole àfone…
muove la girandola d’ombre:
sulla soglia, in alto, ogni dove
vacuo vano, andito grande tende a forme,
sguardo che muove le prende,
sguardo che ferma le annulla.
Riverberi d’echi, frantumi, memorie insaziate,
riflusso di vita svanita che trabocca
dall’urna del Tempo, la nemica clessidra che spezza,
è bocca d’aria che cerca bacio, ira,
è mano di vento che vuole carezza.
Alle scale di pietra, al gradino di lavagna,
alla porta che si fende per secchezza
è solo lume l’olio quieto;
spento il rigore dei versetti a poco a poco
il buio è più denso – sembra riposo ma è febbre;
l’ombra pende al segreto
battere d’un immenso
Cuore
di fuoco.

PLUMELIA

L’arbusto che fu salvo dalla guazza
dell’invernata scialba
sul davanzale innanzi al monte
crespo di pini e rupi – più tardi, tempo
d’estate, entra l’aria pastorale
e le rapisce il fresco la creta
grave di fonte – nelle notti
di polvere e calura
ventosa, quando non ha più voce
il canale riverso, smania
la fiamma del fanale
nel carcere di vetro e l’apertura
sconnessa – la plumelia bianca
e avorio, il fiore
serbato a gusci d’uovo su lo stecco,
lascia che lo prenda
furia sitibonda
di raffica cui manca
dono di pioggia,
pure il rovo ebbe le sue piegature
di dolcezza, anche il pruno il suo candore.

Scirocco

E sovra i monti, lontano sugli orizzonti
è lunga striscia color zafferano:
irrompe la torma moresca dei venti,
d’assalto prende le porte grandi
gli osservatori sui tetti di smalto,
batte alle facciate da mezzogiorno,
agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni,
schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate,
i pergolati scuote, le tegole vive
ove acqua di sorgive posa in orci iridati,
polloni brucia, di virgulti fra sterpi,
in tromba cangia androni,
piomba su le crescenze incerte
dei giardini, ghermisce le foglie deserte
e i gelsomini puerili – poi vien più mite
batte tamburini; fiocchi nastri…

Ma quando ad occidente chiude l’ale
d’incendio il selvaggio pontificale
e l’ultima gora rossa si sfalda
d’ogni lato sale la notte calda in agguato.

Fu Montale a scoprire Lucio Piccolo.  Vincenzo Consolo lo chiamò il barone magico. Natale Tedesco lo raccontò meglio di chiunque altro quando scrisse che la poesia di Lucio Piccolo era “un sogno ancora caldo della vita, ma che vita non è più”.

* * *

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POESIA: Cettina Caliò (Di tu in noi) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/18/poesia-cettina-calio-di-tu-in-noi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/18/poesia-cettina-calio-di-tu-in-noi/#comments Thu, 18 Mar 2021 13:30:02 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8738 Nel nuovo appuntamento dello spazio “POESIA” di Letteratitudine ospitiamo Cettina Caliò autrice della silloge “Di tu in noi” (La nave di Teseo)

Ecco le risposte di Cettina Caliò alle domande “ricorrenti” di questa rubrica dedicata alla poesia.

* * *

- Cettina Caliò, chi è poeta?
Il poeta è uno che si fa delle domande, sempre. È uno che vede il lato stanco e incolore di ogni cosa, è uno che vede la meraviglia nel dettaglio e ne fa metafora.

- Poeti si nasce o si diventa?
A monte c’è la necessità del respiro: alcuni nascono col fiato corto, ad altri, il fiato, si accorcia strada facendo. In entrambi i casi diventa essenziale scrivere l’urlo del fiato.

- Cos’è la poesia?
La poesia è una condizione del sentire, come il dolore (è del più forte sentire la più forte figlia, diceva Vittorio Alfieri).

- A cosa serve la poesia?
La poesia non serve, la poesia offre, offre la possibilità di raggiungere se stessi attraverso un comune sentire.

- Che consiglio daresti a chi volesse avvicinarsi alla lettura della poesia?
A chi volesse, direi: lasciatevi leggere dalla poesia. Noi siamo convinti di leggere la poesia, ma è lei che ci legge nella misura in cui ci riconosce e si fa specchio del qui e ora del nostro sentire. La poesia funziona come una canzone: si ascolta, ci si galleggia dentro. Magari si trattiene solo un verso, ed è già tantissimo, perché quel verso diventa compagno, si fa carezza.

- Cosa consiglieresti a un poeta esordiente che ha velleità di pubblicazione?
Direi di leggere moltissimo, di essere severo e selettivo, moltissimo, nei confronti della propria scrittura.

- Parliamo di te. Come nasce il tuo amore per la poesia?
Come quando ci si imbatte in qualcuno e si prova per questo qualcuno una istintiva simpatia, come quando batte il cuore e forse è amore. E a quel qualcuno senti il bisogno di ritornare. Quel qualcuno te lo ripeti, te lo canti in testa.

- Guardando all’intera storia della poesia, quali sono i poeti che consideri come tuoi punti di riferimento?
Probabilmente quelli a cui sento il bisogno di ritornare. Quelli con i quali avrei voluto condividere un bicchiere di vino rosso. Cito qualcuno per affioramento: Alejandra Pizarnik, Wislawa Szymborska, Jaime Sabines, Cesare Pavese, Antonia Pozzi, Paul Celan…

- Quali sono i versi poetici che non ti stancheresti mai di rileggere?
Sono quelli che mi capita spesso di ripetere a memoria, a mo’ di preghiera:
Antonia Pozzi: io non devo scordare che il cielo fu in me.
Francesco Scarabicchi: toglimi da quest’ansia che mi spegne, portami dove sei umido e spine (…) Quest’ora del respiro, questa pena porta con sé per sempre la tua grazia.
Emily Dickinson: Quante mai cose possono venire e quante andare, senza che il mondo finisca. Else Lusker-Schuler: Io so l’inizio – di me di più non so però mi sono sentita singhiozzare nel canto.
Rainer Maria Rilke: Non avere paura, sono io. Non senti che su te m’infrango con tutti i sensi? Julio Cortazar: se mi volto, oh Lot, sei il sale dove la sete mi si rompe a pezzi.
Salvo Basso: Di te con me rimane uno sguardo per sbaglio e un pensiero che non finisce.
Franco Loi: Vòltati per ritornare, che dimenticato ci sono io dietro le spalle per rubarti quel niente del camminare, quel tuo andare via.
Mascha Kaléko: Nostalgia dell’altrove cui non sai sottrarti nostalgia di essere dentro, se sei fuori, di essere fuori, se sei dentro.
Edward E. Cummings: Il tuo cuore lo porto con me. Lo porto nel mio, non me ne divido mai. Dove vado io, vieni anche tu (…) Non temo il fato perché il mio fato sei tu.
Iosif Brodskij: difendo in me il ricordo del tuo volto, così inquietamente vinto.
Milo De Angelis: Dov’eri? Io ero lì, ero nel cortile che fu tutto. Ero lì, inchiodato a un esistere sparito.
Mario Benedetti: qui avvengo e qui mi inganno sommamente.

- Qual è il filo conduttore di questa tua nuova silloge intitolata “Di tu in noi”? E come nasce?
Il filo conduttore è la frattura, il crollo, la vita che ama, perde, dolora… e nasce mentre si muore rimanendo vivi.

- Ti chiedo di scegliere alcuni tra i versi che consideri più rappresentativi di questa tua raccolta e di offrirceli in lettura qui di seguito.

Sulla soglia dell’ora
che non torna e trasparente
mi vive intera

nel forse di ogni passo
a ridosso del silenzio
tu mi parli ovunque

*

Ti lascio
a un esistere altro

recupero le mie ossa
faccio carezza di ogni pensiero
e tanto
l’infinito che sai

*
… a perdifiato
io sto
al riparo di noi

- Per quale motivo hai considerato questi versi come i più rappresentativi della silloge?
Perché sono alcuni fra quelli che mi ripeto più spesso per tenermi compagnia.

- Come immagini il futuro della poesia?
Lo immagino in salita, purtroppo. Per una serie di ragioni. C’è, in questo mondo di fretta, l’incapacità di molti di indugiare sul suono e sul senso delle parole, l’incapacità di lasciarsi incantare da loro, di lasciarsi consolare e innamorare. C’è che la poesia è sostenuta poco e male da chi dovrebbe sostenerla tanto comprendendone il valore. Edgar Lee Masters scriveva: A questa generazione vorrei dire: imparate a memoria qualche verso di verità o bellezza. Vi potrà servire una volta nella vita.

* * *

La scheda della silloge: “Di tu in noi” di Cettina Caliò (La nave di Teseo)

Tre le sezioni di questo testo, in cui la prima si fa antefatto delle due successive: “Quel mio ritornare a te / da tutte le strade / per sottrarci da tanta morte”. Fra le pagine una mappatura dell’anima che è luogo e memoria ? “Ti tengo / nell’entroterra dell’anima / in un respiro di due sillabe”, la vita come frattura in fiore su un muro: “la conseguenza del mattino / uno schianto in due tempi”, e ovunque il frammento dell’esperienza restituito in trama: “nulla sappiamo della mano / che ci regge il giorno / a tremare / fra la memoria e la sete”. C’è un tempo fatto di attimi che sono già ricordo: “faccio ogni cosa / per l’ultima volta”; il respiro scardinato dagli eventi e lo scontro e il confronto con la perdita che si fa crollo: “mi cade addosso / il cielo che fu”. L’esperienza è rimodulata in senso e suono. “Scrivo perché mi aiuta a respirare meglio. Perché ho nostalgia di tutti i momenti in cui mi sono sentita viva”. Così l’autrice conferma lo stile ormai riconoscibile e la cifra della sua ricerca poetica: la capacità di tradurre la quotidianità viva dei giorni restituendo profondità e consistenza alle parole comuni. Attraverso l’indagine lucida, l’essenzialità delle immagini, l’accuratezza dei suoni e la misura del verso, l’autrice riesce a fare delle occasioni della vita metafora assoluta: “di noi stessi erranti / è certo / il destino corroso”.

* * *

Cettina Caliò è nata a Catania nel 1973. Scrive poesia e prosa. Traduce dal francese. Cura libri.
Ha pubblicato: Poesie (1995), L’affanno dei verbi servili (2005), Tra il condizionale e l’indicativo (2007), Sulla cruda pelle (2012), La Forma detenuta (2018), Di Tu in noi (2021).

* * *

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NORDICHE: ricordando Elena Salibra http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/10/nordiche-ricordando-elena-salibra/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/10/nordiche-ricordando-elena-salibra/#comments Fri, 10 Jul 2020 14:35:24 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8534 Nell’ambito delle rubrica di Letteratitudine Poesia” ospitiamo il primo di due saggi dedicati a ricordare la poetessa Elena Salibra, firmati dalla professoressa e saggista letteraria Emma Di Rao.

Questo primo saggio è incentrato sull’opera Nordiche la quinta raccolta poetica di Elena Salibra

* * *

L’Io di Nordiche: né Ulisse né Tiresia

di Emma Di Rao

L’inscindibile legame che intercorre tra vita e letteratura si rinviene anche in Nordiche[1], la quinta raccolta poetica di Elena Salibra, e ne costituisce il tratto più significativo. Dissimulata, o persino assunta come materia su cui viene esercitata un’ironia sottile ed elegante, la dolorosa contingenza della malattia si configura, infatti, come la prospettiva da cui l’io poetante rappresenta i molteplici aspetti del reale – finanche elementi riconducibili alla quotidianità o dettagli apparentemente insignificanti -, sui quali interviene quella “doppia visione” che consente di rinvenire in essi un significato ulteriore.
L’ambito del vissuto individuale è oltrepassato mediante il dar voce alla ricerca del significato da attribuire alla nostra esistenza, soprattutto quando essa è minacciata dal sopravvenire di circostanze drammatiche. È tuttavia innegabile che l’esperienza del dolore produce una sorta di potenziamento della capacità di vedere e di conoscere il reale, coniugandosi con una straordinaria lucidità. Come nelle raccolte precedenti[2], il discorso lirico non accoglie, però, toni che non siano pacati e sobri, dando luogo a una cifra stilistica che coincide con una scrittura elegante e armoniosa, acquisita dall’italianista siracusana anche in margine ad uno studio rigoroso del patrimonio letterario classico e moderno. Alla resa letteraria e alla creazione di un dettato sempre ricercato -anche quando si fa ricorso a toni volutamente dimessi e colloquiali – contribuisce indubbiamente la memoria poetica che, nell’itinerario lirico salibriano, si manifesta nella fitta trama di reminiscenze mutuate da poeti quali Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, Montale. Si tratta di echi o citazioni che, come è stato a ragione affermato[3], “non fanno macchia” e non sono di ostacolo alla creazione di un linguaggio poetico autonomo. Basti pensare al tema ricorrente del varco, che, pur rimandando innegabilmente a Montale, rappresenta anche un’innovazione rispetto al modello di riferimento. E’ fin troppo noto, infatti, che per il poeta ligure tale immagine si configura come una non comune e imprevedibile possibilità di sfuggire alla prigione della realtà fenomenica[4], come la rivelazione improvvisa di un segreto profondo, celato nella natura[5], da cui l’io lirico rimane escluso e a cui può accedere soltanto la figura femminile[6], quell’interlocutrice che, nelle Occasioni, al pari della Beatrice dantesca, assumerà il ruolo di visiting angel. Nella scrittura poetica di Elena Salibra, il termine varco si connota di una diversa sfumatura: non allude a una casuale ed improvvisa apertura che consenta di sfuggire al non senso della temporalità, ma si correla strettamente alla ricerca costante di un aldilà[7]. Si tratta di una tensione che caratterizza l’intero percorso salibriano[8], ma che in Nordiche assume uno spessore più profondo in virtù della dolorosa vicenda biografica, configurandosi come desiderio di trascendere la dimensione contingente, seppure in una prospettiva del tutto laica.
In alcuni casi, tuttavia, il soggetto lirico non appare deciso nella ricerca di un tunnel di passaggio e finisce per confessare la propria esitazione, come si evince dalla chiusa di Giorno 3, in cui si allude al dissolversi dell’oscurità e a quel sottile, ambiguo confine che separa il sonno dalla veglia:

[…]oggi nel disfarsi
delle tenebre si desta il sonno
alla mia voce…
non sono pronta al varco

image

Se il mistero indecifrabile dell’oltre produce nell’io una sorta di timorosa perplessità[9], è pur vero che non vengono invalidate le possibilità di conoscenza del reale. Dalla quinta raccolta di Elena Salibra si evince infatti la salda fiducia dell’autrice nel mondo sensibile, non ritenuto mai vuota e illusoria parvenza[10], ma realtà oggettiva cui si intende aderire con le forze residue e la cui pienezza si desidera ricomporre, pur in una situazione di estrema precarietà, con la medesima fermezza con cui ci si era prefissi di riparare pazientemente una conchiglia spezzata[11].
A nostro avviso, le reminiscenze montaliane non sono ascrivibili all’intervento di una memoria involontaria: preferiamo ipotizzare che l’autrice ricorra a tale presenza letteraria[12] non tanto perché  si prefigge di caratterizzare come colta la propria poesia quanto perché, con una strategia compositiva riconducibile alla ben nota arte allusiva[13], si propone di inserire riprese e citazioni proprio affinché queste siano riconosciute dal lettore, ma si configurino poi come elementi di uno sviluppo diverso e originale.
Alla memoria letteraria si fa appello anche quando sembra che la pena seguita a un verdetto non generoso debba far prevalere l’esigenza di un’espressione immediata. Al fine di esprimere la dolorosa rinuncia al viaggio – tema al quale si riconduce, nel discorso lirico salibriano, ogni esperienza interiore -, l’io ricorre, infatti, alla figura di Ulisse, in quanto paradigma di una condizione irrimediabilmente perduta. Archetipo dell’uomo perennemente teso alla ricerca di una meta, Ulisse è dunque presente in Nordiche, nell’itinerario estremo di un io che aveva già espresso nelle raccolte precedenti una costante propensione al viaggio, intrapreso in direzione di luoghi che, reali o mitici, si configuravano come l’approdo in cui potesse risolversi ora una perenne sete di conoscenza, ora un mero desiderio di evasione, ora una profonda inquietudine esistenziale.
In una cornice fatalmente mutata, qual è la realtà presente, è lecito solo protendersi verso il passato, come recita l’ultimo verso, scevro però da ogni autocommiserazione, di Mp3:

[…]penso ai miei viaggi…

Relegato in una condizione nella quale non si intravvede alcun orizzonte e in cui il tempo è

da riprogrammare ogni giorno.[14]

e consapevole dell’irrilevanza del prefiggersi una meta nella situazione presente[15], il soggetto lirico non può che accogliere una disposizione d’animo opposta a quella che, in altre circostanze,  si traduceva in un desiderio inestinguibile del viaggio. E’ quanto si coglie nel componimento Lo steccato, il cui incipit

al di qua dello steccato
che ci divideva dal mare

esprime già la difficoltà di aderire alla pienezza vitale che l’immagine del mare suggerisce. Ed ancora si legge:

nuotavo a rana nell’insenatura
se mi perdevi di vista oltre
il limite delle acque
sicure su di me
cadeva la tua scure.
ma non ero ulisse…
quando riprendevo fiato
tornavo nel tuo raggio

A causa di un male che non corrode soltanto il corpo, ma si insinua più profondamente, indebolendo consolidate certezze, l’io si riscopre, in talune situazioni, privo della temerarietà consueta, come quando, temendo di imbattersi in acque non tranquille, preferisce un approdo diverso: far ritorno nel raggio protettivo di chi attende amorevolmente sulla riva.
E’ lecito osservare che la presenza dell’enjambement in oltre/il limite conferisce rilevanza semantica a una dimensione che, sebbene non più accessibile al soggetto lirico, esercita ancora una profonda attrazione[16]. Su di essa, comunque, a causa della situazione dolorosa in cui versa l’io, finisce col prevalere la scelta di un rassicurante limite. Significativo appare, inoltre, lo spazio bianco che, creando una suggestiva pausa di silenzio, contribuisce ad accrescere il potenziale evocativo di oltre, in direzione di un senso ulteriore, veicolato proprio dal non detto.
Nella lapidaria e malinconica affermazione:

ma non ero ulisse…

si esprime, mediante l’antonomasia, l’impossibilità di identificarsi con l’eroe omerico e di aderire agli aspetti sottesi alla sua figura- come il desiderio dell’avventura e l’inarrestabile andare-, ma si esprime soprattutto la rinuncia a varcare i confini abituali dell’esistenza. Risulta dunque evidente che tale personaggio assolve la funzione di porre in risalto una condizione interiore dell’io, ovvero un’opprimente stasi e un arresto improvviso, imposti dal dramma personale.
Un’ulteriore menzione di Ulisse si rinviene ne Il cacciucco :

di fronte al tuo atelier
accanto all’accademia un insolito
ulisse progettava il suo viaggio
prima del naufragio. il mio è
per mare o in aereo- non importa-
purché mi guidi la stella del fondale

Nei versi citati si rinviene non la mancata identificazione del soggetto lirico con l’eroe di Itaca, ma una dimensione inusitata di quest’ultimo. Anche in questo caso è presente l’antonomasia,  che viene, però, attenuata dall’aggettivo insolito, poiché esso lascia intravvedere una corrispondenza al modello non così perfetta da giustificare l’assunzione del nome. L’insolito ulisse è collocato in un contesto che vari elementi, quali,  ad esempio, la menzione dell’accademia e della buca di oscar- quest’ultima offre il pretesto per un ulteriore elenco dei consueti sapori da contrapporre a ben diverse ricette-, inducono a identificare con la città di Livorno, che può aver suggerito l’immagine del viaggio per mare, così come,  in passato, aveva suggerito quella del ritorno con un attracco dolce[17]. La figura che viene rappresentata nell’atto di progettare il suo viaggio prima della catastrofe finale allude, verosimilmente,  all’Ulisse dantesco, exemplum della sete di conoscenza punita con la morte, o all’Ulisse pascoliano, travolto nella fallimentare ricerca di una risposta ai propri interrogativi esistenziali[18]. Risulta comunque evidente la contrapposizione fra chi è in grado di collocarsi sulla linea dello spazio e del tempo, nonostante il possibile esito fallimentare, e l’impossibilità, da parte del soggetto lirico, di fare altrettanto. Per orientare il percorso che si compie nelle strutture profonde della memoria viene evocato un elemento del tutto immateriale: quella stella marina,  attaccata al fondale, di cui si scrive, nel componimento In vena, che essa ha trovato la giusta posizione.

L’amara consapevolezza di non poter ormai disporre del tempo sembra attenuarsi nei versi conclusivi:

[…]ma a crocino a volte
i girasoli si volteranno
verso il sole

L’immagine dei girasoli, in cui si ravvisano tratti umani- come si evince dall’espressione si volteranno-, esprime  infatti uno slancio vitale che, pur attenuato dall’occasionalità dell’evento, configura comunque una promessa di felicità,[19] soprattutto in relazione a quanto recitavano i versi del martirio[20]:

[…] a crocino
i girasoli non ruotano
mai nel sole […]

Si osservi,  tuttavia,  che  il carattere corsivo, con cui tale immagine è resa nel testo, introduce una sorta di voce fuori campo – rifrazione o sdoppiamento dell’io – che, divergendo dal tono desolato di chi constata di non poter più sostare a fes, induce a ipotizzare che l’io riservi ad altri la speranza o che riponga quest’ultima nella mera capacità di ricreare, grazie alla guida infallibile della stella del fondale, la dimensione luminosa del passato.
Ancora una volta, in Off label , viene menzionata la figura di Ulisse:

tra le cartelle spuntava una foto
di te a trent’anni su una spiaggia
del Peloponneso durante
un workshop di logica formale.
leggevo ulysses al sole meridiano
dall’altro capo troia e un vento
di maestrale[…]

E’ una foto casualmente rinvenuta tra le cartelle ospedaliere a restituire l’immagine di una spiaggia del Peloponneso in cui il soggetto lirico appare intento a seguire, durante un’ assorta lettura, il   viaggio del moderno Ulisse nel labirinto della coscienza. Tale nome, unitamente all’atmosfera che avvolge il paesaggio egeo, è sufficiente a richiamare l’immagine della città che fu sconfitta dall’astuzia dell’eroe greco. La menzione di Troia, suggestivamente connessa con l’immagine del vento di maestrale[21] e collocata in una prospettiva spaziale indeterminata, fa indubbiamente  da contraltare alla realtà vissuta.
Lungi dall’assumere i toni di una sterile nostalgia, la memoria si configura dunque come una facoltà in grado di conferire al passato non solo ciò che esso autenticamente conteneva, ma anche quanto una visione dai  contorni sfumati  lascia affiorare,  permettendo così una sorta di ricreazione del passato stesso[22].

E’ quanto si evince dai versi sopra citati, in cui al contesto angusto e desolato di un interno si sovrappone uno spazio dalle linee ampie e luminose, proiezione simbolica di una pacificata condizione interiore dell’io, ma anche della trascorsa età giovanile.
Il dilatarsi dello spazio  si coniuga,  infatti, con l’indicazione di un tempo ben preciso – una foto di te a trent’anni - e di un elemento concreto – durante un workshop di logica formale -, che finiscono, però, con l’assumere i caratteri di una dimensione mitica.
Infine, ancora un mutamento nello spazio in cui si colloca il soggetto lirico: dissoltasi la visione del passato, quando una piena adesione alla vita induceva a lambire con il corpo le alghe del fondale, si profila  di nuovo l’orizzonte breve e limitato dell’oggi, in cui l’unica prospettiva concessa all’io sembra essere quella di rinvenire il senso della propria vicenda personale fra le numerose ricette mediche.
Se il viaggio è negato, è preclusa anche la dimensione temporale entro cui il viaggio si snoda: se non si è più Ulisse, non si è più nemmeno Tiresia. Così , infatti, recita l’incipit di Sapori da evitare:

ma non ero tiresia
quando ti ragguagliai sul mio destino
neanche sibilla che leggeva
tra le foglie[…].

Anche in tali versi si riscontra la figura dell’antonomasia, che esprime il significato fondamentale del testo: svanita quella tregua che sembrava fosse stata concessa dal destino, ci si scopre privi della capacità di formulare qualsiasi ipotesi sul futuro, proprio mentre si tenta di ragguagliare su di esso il proprio interlocutore. L’impossibilità di identificarsi con il celebre indovino dai poteri divinatori è rafforzata dalla seconda antonomasia: neanche sibilla. Proiettato inutilmente verso una nuova estate, il soggetto lirico prende le distanze dalla profetessa che, affidando al vento benevolo i propri responsi non sempre graditi, lasciava spazio alle illusioni degli uomini. Ed ancora, si legge:

ora tiresia non parla più
anzi dopo un po’ si addormenta
e insegue l’acqua del canale che scorre
lieve. dalle chiaviche guizza
un topo poi un altro e un altro ancora.
sono guariti da quel male e aspettano
la stagione propizia

E’ innegabile che l’immagine introdotta nei versi citati assume una valenza allusiva: gli animali che, guariti dal male, guizzano dalle acque putride esemplificano l’insensata casualità che riserva ad essi il privilegio di attendere quella stagione futura da cui l’io è invece escluso. Vi si potrebbe inoltre ravvisare un destino di sofferenza che accomuna leopardianamente tutti gli esseri viventi e che concede solo qualche pausa.
Se non risulta possibile identificarsi con l’eroe di Itaca o con l’indovino tebano, in quale nuovo contesto spaziale e temporale si muoverà allora il soggetto lirico?
E’ noto che nell’undicesimo libro dell’Odissea è rappresentato il colloquio di Ulisse con le anime dell’oltretomba e, in particolare, con Tiresia, cui l’eroe chiede ragguagli sul proprio ritorno in patria e sugli ostacoli da superare. Crediamo  - in virtù di un’ ipotesi suggestiva- che anche in Nordiche i due personaggi omerici interagiscano e riacquistino il significato connesso con la loro figura. Svanita l’euforia ulissidea di nuovi orizzonti, l’io ingloba, infatti,  la memoria dei viaggi passati – fossero stati reali o mentali non importa – e, con rinnovata audacia, si rimette in cammino verso un confine sconosciuto, in direzione di un approdo che ora si ha fretta di raggiungere, forse per concludere una ricerca avviata molto tempo prima. E’ quanto affiora dai versi:
[…]ora
c’ho voglia di andar via… nelle terre
del nord. […] .[23]

Allo stesso modo, è verosimile che, spentasi la voce malinconica di Tiresia, l’io, di nuovo fiducioso nel proprio canto, ponga fine al silenzio, proiettandosi ancora una volta verso il futuro, se è vero che vivere significa dare senso nell’unico modo possibile alla partita già persa in avvio contro la morte affidandosi alla letteratura, che è ricovero dell’unica realtà di cui può farsi artefice l’essere umano, ovvero la memoria…[24].
E’ innegabile infatti che, rispetto alla mutevolezza e alla caducità dell’esistenza, la parola poetica, scelta con rigore e con sapienza, permette di cogliere il reale e di fissarne definitivamente i contorni sfuggenti, esaudendo quell’esigenza di assoluto che avverte chi, come Elena, è in procinto di andar via, oltre le acque malsicure del vivere terreno.
Parola poetica, dunque, come possibilità d’infuturarsi, ma anche come risarcimento dei mali dell’esistenza. E’ forse in essa quel passepartout per l’aldilà di cui fa menzione l’autrice di Nordiche ? A noi che siamo qui finché ci saremo piace immaginarlo.

* * *

NOTE

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[1] Nordiche, Stampa 2009, 2014.

[2] Vers.es, Diabasis 2004; sulla via di Genoard, Manni 2007; il martirio di Ortigia, Manni 2010; la svista, A&B Editrice, 2011.

[3] Cfr. M. Santagata, Introduzione a sulla via di Genoard, pag.5.

[4] Cfr. :[…] una maglia rotta nella rete/che ci stringe […] ( In limine, vv.15-16, da Ossi di seppia).

[5] Cfr. : il punto morto del mondo, l’anello che non tiene ( I limoni, v.28, da Ossi di seppia).

[6] Cfr. :[…]tu balza  fuori, fuggi!/va, per te l’ho pregato, ora la sete/ mi sarà lieve, meno acre la ruggine…(In limine,vv.16-18, da Ossi di seppia).

[7] Al riguardo, cfr. le considerazioni espresse da M. Minutelli in Introduzione a Nordiche di Elena Salibra, Soglie, aprile 2014, pp.52-53.

[8]Cfr. i versi: che cosa a mente avevamo studiato/per l’aldilà (Per via, da sulla via di Genoard, pag.23), che suonano quasi come una citazione del verso montaliano Avevamo studiato per l’aldilà (Xenia,I,4). Si veda inoltre: c’è un aldilà per i matematici ( ipotesi ,da il martirio di Ortigia,pag.25), ipotesi che la grafia in corsivo consente di attribuire a un altro da sé, mentre il soggetto lirico preferisce declinare l’aldilà come un inferno o un limbo. Malinconiche riflessioni sul mistero di chi nasce/ e muore… inducono l’io, nella chiusa de Il fiume sotterraneo, ad estendere la prospettiva di un aldilà al proprio cane (e penso a un aldilà/per lui…), il cui respiro affannoso, nell’incipit de I sapori, non poteva non alludere al crudele destino che accomuna uomini e animali.

[9] E’ quanto affiora anche dai vv.16-18 de Il fiume sotterraneo ([…] ma non ero/pronta[...] a rispecchiarmi/nell’acqua scura), in cui il soggetto lirico riflette sulla propria riluttanza a specchiarsi nelle acque del fiume Amenano, perché ancora pervaso da la luce di su.

[10] Tale concezione si riscontra nel montaliano Forse un mattino (Ossi di seppia), in cui il poeta esprime il dubbio che il mondo fisico non sia altro che un inganno, un’illusione dei sensi, ma afferma anche di non voler divulgare il suo doloroso segreto agli uomini che non si voltano. Una reminiscenza di tale immagine si coglie nei versi salibriani: non sempre/negli arenili d’alghe le ombre vanno/alla deriva senza voltarsi. (L’appartamento), in cui le ombre non indicano, come nel poeta ligure, gli esseri inconsapevoli di quel nulla che una realtà ingannevole nasconde, ma figure che non si collocano dalla parte dei vivi.

[11] Cfr. i vv. 1-4 de  la conchiglia: mi si è spezzata tre le dita oggi /la conchiglia/che portavo al collo./mi ci provo/ a ricomporla (la svista)

[12] Sulla presenza di citazioni nella poesia salibriana, vedi M. Cristina Cabani, Salibra. Poesia per l’occhio, poesia per l’orecchio, Il Portolano, n.51-52, p.47.

[13] Sull’espressione arte allusiva, cfr. Giorgio Pasquali, in Pagine stravaganti, 2° ediz., Firenze 1968, pp.275-282.

[14] La condanna ( Nordiche).

[15] Lo si evince dai versi di Tragitti: oggi dopo vent’anni/ la meta non importa più.( Nordiche).

[16] Si noti che l’espressione oltre il limite appariva già, assumendo una connotazione di carattere non spaziale, ma temporale, nel verso iniziale di Oggi (Vers.es): Oggi il tramonto s’allunga oltre i limiti/del giorno[…] . In questo caso, nonostante il frequente  ripetersi dell’enjambement nel testo,  esso non è presente fra oltre e i limiti, quasi si volesse evidenziare che tra la dimensione contingente e l’oltre non è avvertita dall’io alcuna scissione, come si evince anche dall’atmosfera di quiete e dal desiderio di oblio che caratterizzano il componimento.

[17] Cfr. : Livorno o uno storno di tempo/ ancora da computare (Per via, da sulla via di Genoard, p.42).

[18] In relazione a L’ultimo viaggio, Poemi Conviviali ( canto XXIII) di G.Pascoli, cfr. E.Salibra, Voci in fuga, Liguori pp.32-33.

[19] Evidente risulta la reminiscenza dei versi montaliani: e mostri tutto il giorno agli ameni specchianti/del cielo l’ansietà del suo volto giallino. (Portami il girasole). E’noto che il girasole si configura, nella poetica montaliana, come simbolo dell’aspirazione a sradicarsi dalla condizione terrena, ma si ritiene anche che la luce illimitata provochi in esso un delirare, come si evince dall’espressione impazzito di luce. Al riguardo, cfr. Angiola Ferraris, Montale e gli Ossi di seppia. Una lettura, Donzelli, 1995,pag.25.

[20] Cfr. : a crocino,vv.2-4.

[21] Non riteniamo superfluo evidenziare il frequente ricorrere, nella scrittura salibriana, dell’immagine del vento: a volte è il caldo vento di scirocco (ora il vento /di scirocco accresce la calura…[L’appartamento]), a volte è un vento ostile  al soggetto lirico (ma un vento contrario mi spingeva/ fuori…[I piatti del giorno]) o, ancora , è il vento di maestrale (tra le foglie portate sulla soglia dal vento di maestrale…[Sapori da evitare]). Elemento dinamico, il vento sortisce l’effetto di produrre un mutamento e di rendere imprevedibile la vita,  fosse anche in senso negativo ( la vita la stessa di un mattino/ d’inverno- imprevedibile/ al vento di maestrale-… [Se imprigioniamo il mare da Vers.es]). Anche nei versi: sentivo/un tempo nuovo che increspava il mare (il secondo lavoro, da la svista) si alludeva al subentrare di un elemento non propizio che sconvolgeva la superficie del mare, metafora dell’esistenza, rendendo non sicura la navigazione. Si osservi che nella poetica montaliana, invece, il vento, anche quando si configuri come soffio vitale e liberatorio, non riesce ad attenuare la condizione di stasi e immobilità del soggetto, imprigionato nel mondo fenomenico. E’ quanto si coglie nel testo liminare degli Ossi di seppia (Godi se il vento ch’entra nel pomario/vi rimena l’ondata della vita, vv.1-2) e in Notizie dall’Amiata (Ritorna più forte/vento di settentrione che rendi care/le catene e suggelli le spore del possibile!,vv. 37-39, dalle Occasioni).

[22] Sull’efficacia della memoria in Nordiche ci limitiamo a citare alcuni esempi: forse riesumando i sudori/nell’afa cittadina qualcosa rimarrà/d’un martirio d’ortigia non goduto/ a pieno (-Alla Matalotta-); […] e incidi la mia ombra/sulla vetrata a piombo con la lima/della memoria […] (L’orchidea); […] lì un tempo-ricordi-ha trovato/la giusta posizione[…] ( In vena). Al riguardo, non si può non rilevare che la memoria, nella scrittura poetica montaliana è, invece, sempre destinata a fallire, configurandosi come morto viluppo (In limine) o riducendosi a poca nebbia (Casa sul mare), cosicchè, nonostante ogni tentativo di far emergere il ricordo, si deforma il passato, si fa vecchio,/appartiene ad un altro…(Cigola la carrucola nel pozzo).

[23] In vena ( Nordiche).

[24] Cfr. Essere o riessere . Conversazione con Gesualdo Bufalino, a cura di Paola Gaglianone e Luciano Tas, Omicron Roma 1996, pag.48.

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INTERVISTA A EUGENIO MONTALE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/04/20/intervista-a-eugenio-montale/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/04/20/intervista-a-eugenio-montale/#comments Fri, 20 Apr 2018 15:13:58 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7766 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine sulla “POESIA” lo dedichiamo a questa breve intervista televisiva (la riportiamo in forma di testo) che Eugenio Montale rilasciò per la rubrica televisiva “Arte & Scienza” del 1959.

Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981),  poeta e scrittore italiano, ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura nel 1975.

* * *

A PROPOSITO DI POESIA: intervista a Eugenio Montale

- Montale, lei ha scritto che il poeta è colui che coglie la palla al balzo. Può spiegarci il senso di questa frase?
Nel mio caso, e anche nel caso di altri, credo che si tratti di una situazione linguistica. Ci sono delle cose che non possono essere dette che in un determinato tempo e con determinate parole. Colui che si rende conto prima di questo fatto è anche lo stesso che poi realizza qualcosa in questa direzione. Insomma ci sono possibilità da essere prese tempestivamente… diciamo così.

- Lei crede in una distinzione ancora valida tra poesia e prosa, o crede che i due fatti espressivi si vadano via via identificando?
Diciamo che la poesia va diventando certamente sempre più prosastica, ma credo che rimarrà sempre una distinzione dato il carattere più sintetico della poesia.

-Che cosa pensa della frattura tra poesia e pubblico? Esiste cioè un pubblico della poesia?
Forse no. Forse no perché i poeti sono così tanti che formano un pubblico. Escono migliaia di libri di versi all’anno. È probabile che questi poeti siano anche i clienti di se stessi; cioè che comprino essi stessi i libri di poesia. Ma dubito che esista veramente un pubblico per la poesia moderna. Forse esiste più in Italia che altrove.

- Potrebbe indicarci almeno tre opere poetiche di autori contemporanei degni, a suo giudizio, di restare nella storia della nostra poesia?
Io salverei le opere di Ungaretti e le opere di Saba. I critici dicono anche le mie, ma non potrei giudicare il mio caso. Ci sono poi poeti più giovani come Luzi, Sereni, Caproni, Pasolini e altri che sono molto apprezzabili e promettenti.

- Qual è il suo giudizio sulla produzione poetica degli autori delle ultime generazioni?
Se per ultime  generazioni devono intendersi quella posteriore alla mia, direi che si stanno facendo degli sforzi molto interessanti; ma è un po’ presto per giudicare. Gli strumenti stilistici e linguistici ereditati da questi giovani non sono del tutto idonei a una poesia di impegno realistico e sociale diretto. E quindi è probabile che avverrà una certa frattura che potrà durare qualche anno. In sostanza devono rinnovarsi le idee, ma anche gli strumenti.

- E qual è il suo giudizio su Montale pittore?
Dipingendo ho cercato di ritrovare una certa ingenuità che avevo perduto scrivendo versi. Credo di averla trovata. Ecco, mi diverto più a dipingere che a scrivere, ma se insistessi molto forse non mi divertirei più nemmeno a dipingere.

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POESIA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/04/19/poesia-e-poeti/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/04/19/poesia-e-poeti/#comments Wed, 19 Apr 2017 04:58:32 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7518

Il nuovo spazio di Letteratitudine interamente dedicato alla Poesia (in aggiunta all’iniziativa PoesiaNews ) dove diversi poeti si avvicenderanno per rispondere ad alcune domande “ricorrenti” e a discutere della loro nuova opera. La rubrica ospiterà anche ulteriori contributi – in varia forma – dedicati alla poesia e ai poeti.

Tutte le puntate della rubrica sono disponibili qui.

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IL CANTORE FOLLE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/09/19/il-cantore-folle/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/09/19/il-cantore-folle/#comments Mon, 19 Sep 2016 14:15:30 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7248 IL CANTORE FOLLE. Hölderlin e le Poesie della torre (Moretti & Vitali)

di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato a questo nuovo saggio di Francesco Roat intitolato “Il cantore folle. Hölderlin e le Poesie della torre” (Moretti & Vitali). Il libro è incentrato sulla figura del poeta Friedrich Hölderlin (1770-1843), sulla sua poesia e… sulla sua “follia”.
Ho avuto modo di discuterne con l’autore…

-Caro Francesco, come nasce il tuo interesse per le poesie di Friedrich Hölderlin? E come si è evoluto questo tuo interesse al punto da spingerti a dedicargli un saggio?
Hölderlin (1770-1843) a tutt’oggi è considerato unanimemente non solo uno tra i più grandi lirici/scrittori germanici, ma pure uno dei massimi poeti moderni occidentali. Ed io, che sono nato in una regione di confine tra il mondo italiano e quello tedesco (il Trentino-Alto Adige), ho sempre avuto un forte interesse per la letteratura e, in genere, per la cultura tedesca. Negli ultimi anni, non a caso, ho scritto saggi intorno a Goethe, su Rilke e Robert Walser. Era quindi fatale approvassi ad Hölderlin, la cui opera poetica è da senz’altro ritenersi anticipatrice di istanze, inquietudini e forme stilistiche innovative; per certi versi – oso affermare provocatoriamente − quasi novecentesche.

-Approfitterei di questa intervista per contribuire a far conoscere la figura di Hölderlin. Parliamo di lui: che tipo d’uomo è stato?
Direi innanzitutto un personaggio notevole sin dalla più giovane età. Sensibilissimo, appassionato di musica (fu un discreto pianista) e dell’arte in generale, si interessa dapprima dei poeti greci e latini, poi di quelli a lui contemporanei e inizia quindi a comporre egli stesso, andando contro i desiderata della madre che lo vorrebbe pastore protestante. Nello Stift di Tubinga ‒ celebre collegio di studi teologico-filosofici ‒ incontra Schelling ed Hegel, il quale diverrà suo amico fraterno. Ma le loro vie ben presto si divideranno: vocato alla filosofia quest’ultimo, alla poesia Hölderlin, che in seguito avrà la ventura di conoscere Schiller, von Humboldt, Novalis e persino di incontrarsi col vecchio Goethe. Il Nostro scriverà numerose opere: il romanzo Iperione e testi poetici eccelsi, come gli Inni, le Odi e le Elegie; tuttavia egli non verrà comunque mai apprezzato/riconosciuto appieno durante la sua vita. Solo nel secolo successivo infatti la produzione hölderliniana riceve finalmente la considerazione che merita. Ma veniamo al fatidico 1807, quando il poeta cade preda della pazzia, finendo relegato sino alla morte, per i successivi 36 anni, nella cosiddetta torre di Tubinga, dove egli scriverà i suoi ultimi testi, intitolati giusto: Poesie della torre.

-Approfondiamo un po’ di più l’aspetto relativo al disagio psichico di questo poeta. Del resto il titolo del saggio è molto indicativo: “Il cantore folle”. Da dove trae origine la sua “follia”?
Da una grave forma di psicosi, appunto, ovvero la schizofrenia, forse provocata o favorita dalla morte prematura e improvvisa della sua amatissima Diotima (così lui chiamava Susette Gontard), dopo la cui scomparsa Hölderlin precipita in breve tempo in una pazzia devastante, da cui non guarirà più. Rinchiuso nella “torre” a causa della sua ingestibilità, il poeta viene abbandonato da amici e conoscenti, che gli fanno visita via via sempre più di rado: “vuoi perché la loro pietà era talmente grande da lasciarli scossi fino alle radici alla vista di un crollo spirituale così compassionevole” – come scrive Wilhelm Waiblinger nella sua biografia sul poeta −, “vuoi perché se ne stancavano velocemente, ritenendo che non si potessero scambiare con lui nemmeno due parole di senso compiuto”. Eppure, e questo è un autentico miracolo, durante i lunghi e solitari decenni della sua reclusione Hölderlin continua a scrivere, componendo/distillando una cinquantina di poesie, che vari critici ritengono rappresentino l’apice creativo della sua pur vasta produzione. Va precisato, comunque, che probabilmente egli produsse altri testi poetici, finiti chissà dove o trafugati dopo il suo decesso.

Risultati immagini per francesco roat-Che tipo di influenza ha avuto la schizofrenia nell’arte poetica di Hölderlin?
La ha profondamente mutata, questo è fuori dubbio. Se prendiamo gli inni tardi e le liriche scritte prima del ricovero nella clinica psichiatrica (1807) e li confrontiamo con le Poesie della torre, vi troveremo una differenza abissale: riguardo a temi, stile, linguaggio, ampiezza dei testi persino: molto più brevi sono in genere queste ultime ed assai più semplici. Ciò non vuol dire però poeticamente meno intense. Anzi, come ho accennato prima, l’ultima peculiarissima produzione creativa del Nostro ‒ così icastica, lineare, quasi naif direi, con un ritorno all’uso della rima ‒ è forse la più felice. Anche se la sintassi delle Turmgedichte si fa talvolta eccentrica e in alcuni casi la strofa è a rischio d’incoerenza grammaticale; così come l’ostinatezza reiterata di certe immagini può far pensare a una coazione ossessiva a ripetere. Ciò che in ogni caso colpisce in tali poesie d’estremo nitore  è una grande levità, il respiro musicale e placido di una versificazione sobria ed essenziale ma ricca di echi, rimandi, suggestioni.

-È possibile scindere l’arte poetica dal sopravvenuto disagio psichico del suo autore (a cui abbiamo già fatto riferimento) o le due componenti finiscono con l’essere inevitabilmente (e ineluttabilmente) legate?
Questione difficile, a cui è difficile rispondere in poche parole, ma cercherò di farlo sottolineando come la tarda produzione poetica hölderliniana resta comunque contrassegnate dal marchio deturpante della psicosi, se non altro per quanto concerne la firma e la datazione. Molte di esse infatti sono firmate Scardanelli, che non è un vero e proprio pseudonimo, poiché, a mio avviso, esso indica l’abbandono dell’identità, l’abdicazione dell’io, il venir meno del soggetto raziocinante Hölderlin. Per non parlare delle date incongrue con cui sono siglate le poesie, una delle quali reca la data più assurda e inquietante: il 1943. Eppure, ad onta della schizofrenia e della reclusione alienante, il poeta continua ad essere tale, pervenendo infine ad una sorta di accettazione mistica della propria sofferenza e, spogliatosi di ogni egoità, raggiunge una purezza espressiva commovente/coinvolgente.

-Cosa puoi dirci in merito ai giudizi contrastanti sui testi di Hölderlin prodotti, appunto, nel periodo creativo segnato dalle problematiche psichiche?
Sulla tarda produzione hölderliniana e sulla sua pregnanza poetica permangono ancora dei giudizi contrastanti, anche se sempre più si sta affermando la consapevolezza del valore delle Poesie della torre. E, modestamente, con questo saggio io cerco di addurre argomenti a favore di quest’utima tesi. In estrema sintesi Hölderlin, a mio avviso, resta grande sino all’ultimo.

-Che tipo di riscontro hanno avuto le poesie di Hölderlin nel nostro Paese? Mi riferisco soprattutto al ruolo svolto da Ungaretti, Luzi, Montale, Zanzotto (ma anche da Guardini e Reitani)…
Qui tocchiamo un tasto dolente. La poesia, in Italia, non ha mai goduto dell’attenzione che meriterebbe presso i lettori. Oggi, purtroppo, meno che mai. Parliamoci con franchezza: la maggior parte della gente non sa nemmeno chi sia Hölderlin. Certo gli intellettuali, gli uomini di cultura che tu citi hanno invece fatto molto per far conoscere nel Belpaese il poeta tedesco. Soprattutto gli ultimi due. Romano Guardini ha scritto un testo critico fondamentale sulla sua opera (parlo di Hölderlin. Immagine del mondo e religiosità, edito dalla Casa Ed. Morcelliana) e Luigi Reitani ne ha tradotto tutte le poesie e sta inoltre allestendo un volume dei Meridiani Mondadori che raccoglierà tutti gli altri scritti del Nostro. Tuttavia, ripeto, resta che la poesia da noi si legge troppo poco.

-A proposito di poesia (che va letta!)… come epigrafe del libro hai scelto questi versi tratti dalla poesia “Brod und Wein” (Pane e vino) di Friedrich Hölderlin. Li ricopio di seguito…
Un fuoco divino pur ci sospinge, di giorno e di notte, / a metterci in marcia. Su, vieni! Guardiamo nell’Aperto, / cerchiamo qualcosa di nostro, per quanto sia ancora / lontano.
Perché hai scelto proprio questi versi come “anticamera testuale” del tuo saggio?

Perché possono davvero riassumere la poetica di Hölderlin. Il concepire ogni cosa, ogni singolo essere come parte del divino o del sacro che dir si voglia ‒ vedasi la famosa definizione, di provenienza eraclitea, ἓν ϰαὶ πᾶν (Uno e Tutto) ‒, qui visto quale fuoco, corrente energetica che urge in noi, stimolandoci ad agire e creare. È al contempo l’invito a guardare all’Aperto (das Offene): all’oltre, all’altrove e all’altro rispetto alla notra piccola monade egocentrica ed egocentrata. Un’apertura che corrisponde alla nostra autenticità di eterni viandanti senza stelle fisse all’orizzonte.

-In definitiva qual è, a tuo avviso, la principale eredità culturale (e poetica) che ci lascia Friedrich Hölderlin?
Invece di rischiare parole retoriche o di circostanza, preferirei lasciare che parli il poeta stesso, citando in conclusione di questa nostra chiacchierata giusto l’ultima poesia della torre, scritta forse il giorno prima di morire. Meditando su di essa, che accenna alla morte non come annichilimento definitivo ma come metamorfosi, i lettori si misureranno con la sua estrema, lucida e felice testimonianza. Si tratta della lirica dal titolo La veduta, che io ho cercato di tradurre, consapevole di come ogni tentativo di questo genere sia sempre operazione limitata e infedele, essendo sin troppo vero che tradurre equivale pur sempre a tradire.

Quando va lontano la vita che dimora negli umani,
dove lontano splende il tempo della vite,
v’è pure accanto il campo spoglio dell’estate,
e il bosco appare con la sua immagine scura.
Che la natura completi l’immagine delle stagioni,
che lei rimanga, esse trascorron via veloci,
è per sua perfezione; allor l’alto del cielo
all’uom riluce, come la fioritura gli alberi incorona.

-Grazie, caro Francesco. Invitiamo gli amici lettori a leggere le poesie di Friedrich Hölderlin e ad approfondire la conoscenza di questo poeta e delle sue opere attraverso la lettura di questo tuo saggio.

* * *

Francesco Roat ha pubblicato i testi narrativi: Tra-guardo (Argo-1999), Una donna sbagliata (Avagliano-2002), Amor ch’a nullo amato (Manni-2005), Tre storie belle (Travenbooks-2007), I giocattoli di Auschwitz (Lindau-2013), Hitler mon amour (Avagliano-2014); e i saggi: L’ape di luglio che scotta. Anna Maria Farabbi poeta (LietoColle-2005), Le Elegie di Rilke tra angeli e finitudine (Alpha beta- 2009), La pienezza del vuoto. Tracce mistiche negli scritti di Robert Walser (Vox Populi-2012), Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove (Moretti&Vitali-2015).

* * *

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FILIPPO LA PORTA ospite di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 21 marzo 2014 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/03/21/in-radio-con-filippo-la-porta/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/03/21/in-radio-con-filippo-la-porta/#comments Fri, 21 Mar 2014 19:25:01 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6002 filippo-la-porta-poesia-come-esperienzaFILIPPO LA PORTA ospite di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 21 marzo 2014

In Fm e in streaming su Radio Hinterland

LA PUNTATA È ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

In occasione della GIORNATA MONDIALE DELLA POESIA 2014 (celebrata e patrocinata dall’Unesco ogni 21 marzo), l’ospite della puntata di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 21 marzo 2014 è stato il saggista e critico letterario Filippo La Porta.

Con Filippo La Porta abbiamo discusso di poesia prendendo spunto dal suo recente saggio intitolato “Poesia come esperienza. Una formazione nei versi” (edito da Fazi).

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

LA PUNTATA È  ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il venerdì mattina (h.13 circa) e – in replica – il mercoledì mattina (h. 11,00). Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

È possibile ascoltare le puntate precedenti, cliccando qui.

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LA POESIA: SPECIALITA’ DEI PERDENTI? http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/26/la-poesia-specialita-dei-perdenti/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/26/la-poesia-specialita-dei-perdenti/#comments Thu, 26 Mar 2009 21:45:00 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2007/06/11/la-poesia-specialita-dei-perdenti/ La poesia è una specialità dei perdenti?
Ripropongo con questa domanda secca uno dei miei post permanenti dedicati alla poesia. Questo post treva origine da un articolo del 2007 pubblicato da Berardinelli sul Domenicale de Il Sole24Ore. Credo che sia ancora attualissimo.
In coda potrete leggere un’intervista in tema che mi ha rilasciato Renzo Montagnoli.
Dunque… la poesia è una specialità dei perdenti?
A voi.
Massimo Maugeri

—————–

Post dell’11 giugno 2007

La poesia annoia? La poesia è ghettizzata? La poesia è in crisi? Sono in crisi i lettori di poesia?

Qualche giorno fa, per l’esattezza il 27 maggio, Alfonso Berardinelli ha pubblicato un articolo sul Domenicale de Il Sole24Ore. Un articolo che ha fatto molto discutere. Il titolo è emblematico: “Togliamo la poesia dal ghetto”.

Ancora una volta, partendo dallo spunto offerto da Berardinelli, potremmo tornare a domandarci cosa si intende per poesia e chi è poeta. La discussione, per la verità, ha toccato altri punti. Per esempio: Chi legge poesia? E, soprattutto, chi è davvero in grado di valutare un testo di poesia?

Scrive Berardinelli: “Chi si accorge che un libro di poesia è brutto o inesistente sono sì e no cento persone. Di queste cento, quelle che lo dicono sono una ventina. Quelle che lo scrivono sono meno di cinque.”

Ma prima ancora di giungere a questa conclusione si domanda: “chi conosce a memoria un paio di testi scritti dalle ultime generazioni di poeti?”

È pessimismo o realismo, quello di Berardinelli?

Vi riporto quest’altro stralcio dell’articolo, che coincide con una ulteriore serie di domande:

“Chi potrebbe credere oggi che fino a vent’anni fa “testo poetico” era sinonimo di testo letterario e che tutta la teoria della letteratura, da Jakobson in poi, ruotava intorno alla nozione di “funzione poetica del linguaggio”? Ora i teorici, quando ci sono, si occupano di romanzi. La poesia sembra  diventata la specialità dei “perdenti” e i critici che se ne occupano dimostrano un’inspiegabile vocazione al martirio. Chi li inviterà mai a un convegno? Quale giornale recensirà i loro libri?”

Spunti, domande e considerazioni che giro a voi, amici di Letteratitudine.

Cosa ne pensate?

Ha ragione Berardinelli?

C’è qualcuno, tra voi, che ritiene di rientrare nel ristretto gruppo di cento persone in grado di accorgersi che un libro di poesia è brutto o inesistente?

La parola è vostra.


———————-

INTERVISTA A RENZO MONTAGNOLI

Renzo Montagnoli nasce a Mantova l’8 maggio 1947. Laureato in economia e commercio, dopo aver lavorato per lungo tempo presso un’azienda di credito ora è in pensione e vive con la moglie Svetlana a Virgilio (MN).
Ha vinto con la poesia Senza tempo il premio Alois Braga edizione 2006 e con il racconto I silenzi sospesi il Concorso Les Nouvelles edizione 2006.
Sue poesie e racconti sono pubblicati sulle riviste Carmina, Isola Nera, Prospektiva e Writers Magazine Italia, oltre a essere presenti in antologie collettive e in e-book.
Ha pubblicato le sillogi poetiche Canti celtici (Il Foglio, 2007) e Il cerchio infinito (Il Foglio, 2008).
E’ il dominus del sito culturale Arteinsieme e del blog Armonia delle parole.

Quando hai scritto la tua prima poesia?
Tralasciando qualche cosina da fanciullo, di cui peraltro non ho più memoria, la prima poesia è abbastanza recente e risale ai primi del 2003. Prima leggevo, oltre alla narrativa, anche poesie, soprattutto queste, in parte per una comodità legata ai tempi ristretti a causa dell’attività lavorativa.

Sei laureato in economia e commercio e per molti anni hai lavorato in banca. Come è possibile conciliare la creatività poetica con un lavoro che, di norma, è considerato “freddo” e “asettico”?
Quando lavoravo in banca non scrivevo poesie e nemmeno racconti; mi dedicavo tutto all’attività e non potevo, anche per una questione psicologica, nemmeno ipotizzare di stilare una poesia. C’è da dire che, però, potevo usufruire di una certa creatività, perché il ruolo che ricoprivo (responsabile dell’ufficio legale) non era asettico, con tutte le cause legali che avviavo o che vedevano come convenuto il mio istituto. Questo mi ha consentito di non spossessarmi di quanto avevo appreso, ovviamente a scuola, in campo letterario, anzi vi attingevo per predisporre le comparse di risposta, o per integrare le conoscenze legali nel redigere le citazioni. Penso che questo lavoro sia il meno bancario che possa esistere e infatti non nascondo che mi piaceva molto.

Conosci il romanzo “La morte in banca” di Pontiggia? Cosa ne pensi?
Ne ho sentito parlare, ma non l’ho mai letto. Penso che sia una descrizione del lavoro del bancario, impiegato spesso malvisto dagli esterni perché freddo, addirittura glaciale, e inoltre rappresenta ai più il tentacolo di un moloch pachidermico e insensibile quale è nell’opinione comune qualsiasi azienda di credito. Ci sono impiegati così, con una spanna di pelo sul cuore, e che per la carriera sono disposti a tutto, ma ci sono anche quelli che lavorano a testa bassa e che riescono perfino a risultare simpatici ai clienti.

C’è un poeta del passato che consideri come tuo “Maestro”?
Tutti. Da ognuno che ho letto ho imparato qualche cosa e dire quale è stato più prodigo di conoscenza nei miei confronti mi è difficile. Tuttavia, visto che c’è da fornire una risposta, mi permetto di fare tre nomi:
Publio Virgilio Marone, per la ricerca quasi ossessiva della purezza nello stile, ma soprattutto perché non tanto con l’Eneide, ma con Le bucoliche e Le georgiche ha saputo creare opere di straordinaria attualità.
Giovanni Pascoli, sfortunato, chiuso nell’alveo familiare, ha saputo fondere metrica classica e profondità di pensiero.
Giuseppe Ungaretti, un uomo nato troppo tardi e morto troppo presto. Mi spiego meglio: è indubbio che lui è il capostipite della corrente ermetica, che si è esaurita troppo velocemente, anzi direi che se n’è andata con lui. Ungaretti mi ha sempre colpito per quei versi così immediati che dicono tanto con poco.
Comprendo che ho citato tre maestri d’eccezione e che come allievo assomiglio un po’ a Pierino, però sono autori che ho studiato e ristudiato, che mi sono entrati dentro e dai quali forse, a volte, riesco ad attingere qualche cosa.

Che differenza c’è, a tuo avviso, tra poesia e componimento poetico?
La poesia ricorre al significato semantico delle parole, componendole in suoni e adottando un ritmo, così che ne scaturisce una musicalità. In pratica il poeta compone, ricorrendo anziché alle note, alle parole e in questo contesto esistono diverse tipologie di componimenti poetici, che hanno caratteristiche peculiari di costruzione e di ritmo, come, tanto per citarne alcuni, il poema o la ballata. Così come esiste il componimento musicale esiste anche quello poetico.

Poeti si nasce o si diventa?
Il talento è innato, ma per svilupparlo occorrono studio e applicazione. Quindi, sarebbe meglio dire che poeti si nasce, ma che scrittori di poesie si diventa.

La poesia è una specialità dei perdenti?
Occorre preliminarmente vedere che cosa si intende per perdente. In una società come la nostra, in cui il valore di un individuo si misura con i suoi profitti, è senza dubbio vero; è fuori discussione che anche il più famoso dei poeti ritrae dalla sua arte assai meno di un mediocre narratore. Del resto, quando di parla con qualcuno e quello ti chiede che cosa scrivi, se rispondi che sono poesie ti guarda con un’aria di commiserazione. Non credo che i poeti siano dei narratori falliti o comunque dei perdenti, penso invece che, come qualsiasi individuo, si sentano realizzati in ciò che riescono a esprimere. La capacità di trasmettere emozioni agli altri sondando dentro se stessi è solo una piccola parte della soddisfazione che un poeta può provare; il sapere interagire con il mondo e con il proprio “io” finisce con il far scoprire nuovi orizzonti prima del tutto impensabili e questa continua ricerca è al tempo stesso punto di arrivo della conoscenza e stimolo per nuovi traguardi. Non vedo pertanto né perdenti, né vincenti, ma solo dei realizzati.

Cosa consiglieresti a un poeta esordiente che ha velleità di pubblicazione?
Che è una tragedia! E’ strano, perché ci sono tanti che scrivono poesie e assai meno che le leggono. Ne consegue che il ritorno economico di un libro di poesia non è frequente ed ecco allora che molti editori (non tutti a onor del vero) chiedono all’aspirante poeta di contribuire alle spese di pubblicazione. E’ deprimente, ma mi ricordo che un certo Pincherle, più noto come Moravia, pubblicò il primo romanzo esclusivamente a sue spese.
Egoisticamente gli consiglierei di farsi conoscere attraverso Internet, magari ricorrendo ad Arteinsieme, che non pubblica tutto e tutti, ma fa una certa cernita in modo da avere un livello qualitativo medio più che soddisfacente.

Hai nuove pubblicazioni in cantiere?
Pubblicazione è un nome grosso. Vedi in genere scrivo sillogi tematiche e attualmente una c’è, molto lontana dal completamento, ma esiste.
Non so dirti nemmeno l’epoca presumibile in cui sarà terminata, perché l’importante è che scriva qualche cosa che mi soddisfi. Poi, se avrò la fortuna che venga pubblicata, bene, ma in caso contrario la metto su Arteinsieme.

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