LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » filippo tuena http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 MEMORIALI SUL CASO SCHUMANN di Filippo Tuena http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/12/18/memoriali-sul-caso-schumann-di-filippo-tuena/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/12/18/memoriali-sul-caso-schumann-di-filippo-tuena/#comments Fri, 18 Dec 2015 14:30:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7004 Memoriali sul caso SchumannNell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del nuovo romanzo di Filippo Tuena intitolato Memoriali sul caso Schumann” (Il Saggiatore, 2015).

Nei prossimi giorni, su LetteratitudineNews, pubblicheremo un estratto del libro…

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Recensione di Claudio Morandini

Tuena è oggi, per me, uno dei migliori costruttori di storie; è artefice – ambizioso, com’è giusto in letteratura – di romanzi che ora si stendono come partiture, ora come mappe, o diari di bordo, o alberi genealogici, a seconda del tema, dell’ambientazione, delle passioni che vi si agitano. La struttura, nel suo caso, è importante quanto il soggetto – anzi, “è” il soggetto, ne è l’estensione, la proiezione. Il suo ultimo romanzo, “Memoriali sul caso Schumann”, conferma questo assunto: attorno alla figura complessa dell’ultimo Robert Schumann, afflitto da deliri e demenza, Tuena raccoglie (cioè in parte trascrive, in parte immagina) con meticolosità le testimonianze di coloro che lo hanno conosciuto, che ne hanno condiviso sofferenza e passioni, e che ne sono stati toccati fino al logoramento. Sotterranea, intanto, scorre una sensibilità musicale, che compone le parti del romanzo come sezioni di una vasta opera – cameristica, più che sinfonica, direi, visto l’esiguo numero di personaggi in gioco – in cui a prevalere, ancora una volta, come nella saga familiare delle “Variazioni Reinach” (di recente riviste per la nuova edizione Beat), è la forma della variazione. Il romanzo diventa polifonia di voci attorno allo stesso tema (la follia di Schumann): che ognuno dei personaggi declina a suo modo, attraverso punti di vista differenti, differenti distanze e livelli di comprensione, girando attorno al tema secondo dinamiche e giochi timbrici propri. A tutto ciò si inframmezza – in un modo che mi ha ricordato le abissali “lamentazioni oltremondane” in “Rosso Floyd” di Michele Mari, dedicato non a caso anch’esso a un caso di alienazione musicale, quello di Syd Barrett – una voce estranea, sgrammaticata, petulante, angosciosa, demoniaca, che all’inizio sembra una delle voci “sentite” da Schumann, ma diventa ben presto, tragicamente, la sua voce.
La variazione non è solo il mezzo attraverso cui si sviluppa e si articola l’indagine di Tuena: è anche una declinazione, insinuante e pervasiva, una sorta di rielaborazione a specchio dello stesso tema, cioè la follia ossessiva: non a caso, risuona in tutto il romanzo l’opera misteriosa e postuma di Schumann, quelle Geistervariationen, o Variazioni del Fantasma il cui tema, di struggente semplicità, sarebbe stato suggerito in sogno dallo spettro di Schubert.
Ecco, gli spettri: come è già stato notato, questa è una ghost story alla vecchia maniera, cioè secondo ritmi e dinamiche ottocentesche, che puntano sull’attesa e sull’economia di effetti, e dilatano atmosfere. In questo gioco di ombre, lo stesso Schumann è rievocato – come un fantasma – da distanze irraggiungibili, sia per lo stato che lo aliena dalla realtà chiudendolo in un mondo di allucinazioni e ossessioni, sia per l’impossibilità oggettiva di raggiungerlo nella clinica in cui è subito ricoverato dopo un tentativo di suicidio.
I fantasmi agitano le visioni di Schumann: ma per Schumann sono presenze reali, vivide, con loro ha un dialogo anche fecondo. Per curioso ribaltamento, sono gli esseri reali, gli amici che si preoccupano per lui e lo seguono da lontano, che Robert prende – forse – per apparizioni. È la prassi, nella clinica in cui è ricoverato: solo nascondendosi, e spiando non visti, i visitatori possono intercettare in un paziente segni di uno sperato miglioramento o di un temuto declino. Il vedere da lontano non visti è per lo più insoddisfacente e ingannevole, ma talvolta l’incertezza coglie frammenti di verità. «Quel suo modo di essere frammentario, nella parola, nella musica, nel fumare. Chissà se anche i suoi pensieri si disperdono nel vuoto.» Così, parafrasando Brahms, scrive Elise Junge sul suo diario. Ma le apparizioni contagiano un po’ tutti, nel romanzo di Tuena, al punto che ogni personaggio che sia stato vicino a Schumann prima o poi scorge un’ombra, sente parlare un fanciullo con la voce di un vecchio, vede animarsi angoli bui di una stanza.
Anche i temi musicali appaiono come spettri, nelle testimonianze circa la fine delle Variazioni del Fantasma: riemergono dopo anni di oblio, se ne scovano le tracce là dove non ci si aspetterebbe, anche in composizioni altrui, tornano a scomparire…
È racconto che turba e commuove proprio perché raccontato da lontano, per dettagli colti da amici e conoscenti, quello del precipitare nella demenza di Schumann: il dolore sempre composto dei parenti e degli amici trova sfogo nella fitta corrispondenza, come si usava allora. E diventa straziante quando si intravede la consapevolezza dello stesso Schumann dinanzi all’avanzare della malattia (le voci, le accuse immaginarie di non essere l’autore delle proprie musiche, la perdita di controllo delle mani sulla tastiera, l’aprirsi di voragini sempre più profonde nella memoria, e a correzione di tutto questo lo sforzo di apparire «presente a se stesso», di ricordarsi di tutto ciò che ha di più caro).
E ancora più straziante si fa il racconto quando scopriamo “il caso Schumann” duplicato nel monologare fitto e incoerente del figlio Ludwig, di cui si trascrivono pignolescamente i monologhi nel corso delle visite al manicomio di Colditz: e nelle sue parole la quotidianità in una casa di musicisti (con annesse sedute di spiritismo e visite di spettri, primo fra tutti “don Franzetto Sciubba”, cioè Franz Schubert) è riletta attraverso la lente distorta di una mente alienata, ancora capace però di distillare i dettagli veri che una mente lucida non saprebbe scorgere.
Come in un racconto gotico che si rispetti, si insinua il tema del doppio: il più consapevole sembra esserne Brahms, che con i doppi (gli pseudonimi) ha giocato a lungo, negli anni giovanili, in una moltiplicazione di identità (ne sa qualcosa Hélène Grimaud, che oltre a essere fine interprete pianistica ama cimentarsi nella letteratura, e nel “Ritorno a Salem”, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2014, immagina una sorta di thriller musical-filologico attorno a un manoscritto perduto di Brahms). Il Johannes Brahms di Tuena entra nella vita degli Schumann travolgendoli, vampirizzando Robert, in un continuo cimento, in una perenne emulazione che non si esaurisce nell’ambito musicale ma tracima in quello letterario e nel campo degli affetti. È interessante scoprire come, infine, non sia stato Brahms a vampirizzare Schumann ma piuttosto Schumann a “possedere” Brahms (così, almeno, sembra di leggere tra le righe del memoriale del vecchio Johannes, che conclude il romanzo mettendo un po’di ordine tra tutte le testimonianze). I due compositori sembrano davvero l’uno complementare all’altro – e il vecchio Brahms, nel suo “Memoriale”, ripensando agli errori passati, traccia le linee di queste due vite intrecciate, fino a mostrare come l’uno, Schumann, abbia finito per scrivere musica «titubante», balbettante, fragile e imperfetta, ma proprio per questo espressione di una lingua nuova e aperta verso l’avvenire, che spaventerà Clara, la quale reagirà nascondendo o distruggendo quelle pagine estreme; e l’altro, Brahms, si sia avviato verso una sorta di afasia musicale che ormai consente solo più forme brevi, composizioni di scarso respiro.

È notevole il modo in cui la musica è raffigurata nel romanzo di Tuena. In certe testimonianze (la citata Elise Junge, ad esempio) i musicisti vengono presentati come dotati di un’inquietante capacità di estraniarsi dai dolori e dalle angosce della vita reale attraverso la musica: questa capacità di «allontanarsi dal contingente» e ritirarsi in un mondo olimpico, «lunare», che è creato dalla stessa musica e si nutre del «piacere profondo di essere in accordo», è un dato che sembra accomunare Clara Schumann e il giovane Brahms, mentre invece la musica di Schumann va in tutt’altra direzione, conduce verso abissi di sofferenze e inquietudini di cui è la trasfigurazione. «Dice altro, dice di onde e di tempeste», chiosa il giovane amico Christian Reimers.
In Schumann la musica – su questo le diverse testimonianze concordano – è un viaggio o il sogno di un viaggio verso territori sconosciuti, è forse – come i percorsi astrusi che traccerà ossessivamente sugli atlanti – percorso sciamanico verso altri tempi e altri luoghi, «sentiero di sogni», «strada dei canti»: «Il sistema è temperato e dunque asimmetrico e c’è uno scartamento nella direzione della bussola di cu occorre tener conto perché re diesis non corrisponde a mi bemolle e si diesis e do bemolle sono note addirittura inesistenti dunque questo è un sentiero inesplorabile ancorché è proprio su questa traccia che mi trovo quando mi rivolgo al nord» come si legge nel delirio sinestesico della seconda seduta sciamanica in Australia raccontata da un contagiato Reimers in uno dei suoi diari.
Ma c’è dell’altro. La perdita di contatto con la musica da parte di Schumann nel ricovero di Endenich sta non solo e non tanto nella perdita di agilità manuale o di capacità tecnica, e nemmeno nella confusione crescente in cui sprofonda l’atto del suonare e del comporre, sostituito da surrogati come giochi matematici, compulsazione di atlanti e soprattutto dal domino, che da gioco diventa codice cifrato; sta, probabilmente, nella perdita di ogni contatto con il “tempo”, nel rallentamento del tempo fino all’immobilità (lo nota, in una sua lettera, il solito Christian Reimers); un sintomo del degrado mentale di Schumann stava, già prima del ricovero, nel rallentamento dei tempi fino all’estenuazione; ora tutto, nella clinica, a confronto con lo scorrere naturale del tempo nelle vie attorno, «si arresta, in attesa della guarigione, della follia conclamata o della morte». La musica di Schumann muore così, nel dilatarsi insopportabile del tempo fino alla stasi definitiva.

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La scheda del libro
Memoriali sul caso SchumannIl 27 febbraio 1854, in piena crisi artistica ed esistenziale, Robert Schumann esce dalla propria abitazione di Düsseldorf e si butta nelle fredde, nere acque del Reno. Salvo per miracolo, viene affidato alle cure del dottor Richarz e internato nel manicomio di Endenich, dove rimarrà fino alla morte, perseguitato da voci incorporee che lo accusano di non essere l’autore della sua musica e solo occasionalmente visitato da allievi e protetti, fra cui il prodigioso Johannes Brahms. Non rivedrà mai più l’amata moglie Clara e i figli.
Intorno a questa follia – e alle enigmatiche “Variazioni del fantasma”, che Schumann sosteneva gli fossero state dettate dallo spettro di Franz Schubert – Filippo Tuena costruisce un romanzo a incastro dalla presa magnetica, un congegno narrativo che dissimula la finzione come un raffinato trompe l’oeil ottocentesco e sfrutta sei punti di vista diversi – da un’anziana amica di Robert e Clara a Ludwig Schumann, affetto dallo stesso male del padre – per sondare il mistero che ancora circonda gli ultimi anni di Schumann e i suoi rapporti con la moglie e con Brahms, l’allievo dal volto angelico arrivato nella vita della coppia sei mesi prima del tentato suicidio e destinato a giocare un ruolo centrale non solo nella vita del Maestro, ma anche nella storia della musica.
Abilissimo come sempre nel mescolare verità storica e rielaborazione immaginifica, Filippo Tuena utilizza lettere, stralci di diari, partiture per raccontare una storia di arte e pazzia che ha i toni foschi di un romanzo gotico, e che attraverso la vicenda emblematica di Schumann esplora i rapporti della civiltà europea con la morte e l’aldilà, con la religione e la scienza, e da ultimo con la musica, «corpo spirituale del mondo», suo pensiero in scorrimento . Il risultato è un romanzo che si legge con la voracità di “Dracula” o “L’abbazia di Northanger”, una storia di fantasmi la cui scoperta più spaventosa è l’impossibilità di capire fino in fondo l’altro.

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© Letteratitudine

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L’E-BOOK E (È?) IL FUTURO DEL LIBRO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/06/20/ebook-e-il-futuro-del-libro/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/06/20/ebook-e-il-futuro-del-libro/#comments Mon, 20 Jun 2011 21:07:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3368 Vorrei riprendere la discussione sull’e-book già avviata a partire da questo post, offrendo come spunto per ulteriori riflessioni (e per un approfondimento del dibattito) la pubblicazione di questo nuovo volumetto che ho realizzato per i tipi della piccola casa editrice “Historica” (disponibile, ovviamente, anche in formato elettronico). Il titolo è già un punto di domanda: “L’e-book e (è?) il futuro del libro”.
L’intento non è quello di fornire approfondimenti tecnici sull’e-book, ma di divulgare opinioni emotive sull’argomento. Per far ciò ho coinvolto alcuni tra i più rappresentativi addetti ai lavori del mondo del libro – scrittori, editori, editor, critici letterari, giornalisti culturali – che hanno gentilmente messo a disposizione il loro parere (da qui il sottotitolo…).
Ho chiesto loro di ragionare sul “fenomeno e-book” ed esprimere un’opinione facendo riferimento alle seguenti domande: Cosa ne pensa dell’e-book? Come immagina il futuro dell’editoria e della letteratura tenuto conto del “peso crescente” delle nuove tecnologie? E cosa ne sarà dei libri di carta? C’è il rischio che possano diventare “pezzi da collezione”?
Dopo una parte introduttiva sulla evoluzione del libro elettronico e sugli e-book readers, e dopo una sintetica analisi di mercato, questo piccolo volume offre le “opinioni emotive” sull’e-book fornite da: Roberto Alajmo, Marco Belpoliti, Gianni Bonina, Laura Bosio, Elisabetta Bucciarelli, Ferdinando Camon, Daniela Carmosino, Antonella Cilento, Paolo Di Stefano, Valerio Evangelisti, Vins Gallico, Chiara Gamberale, Manuela La Ferla, Nicola Lagioia, Filippo La Porta, Gianfranco Manfredi, Agnese Manni, Diego Marani, Dacia Maraini, Daniela Marcheschi, Michele Mari, Raul Montanari, Antonio Paolacci, Romana Petri, Antonio Prudenzano, Giuseppe Scaraffia, Elvira Seminara, Filippo Tuena, Alessandro Zaccuri.

Vorrei coinvolgere nello sviluppo della discussione anche voi, proponendo come sempre alcune domande (e invitandovi a fornire la vostra risposta, se potete)…

1. L’e-book è davvero il futuro del libro?

2. Se sì, fino a che punto?

3. Che cos’è un libro: un supporto cartaceo, o il suo contenuto? O entrambi?

4. Tra un volume rilegato di fogli bianchi e un romanzo leggibile su un e-book reader, quale dei due è… più libro?

5. Come immaginate il futuro dell’editoria e della letteratura tenuto conto del “peso crescente” delle nuove tecnologie?

6. Cosa ne sarà dei libri di carta? C’è il rischio che possano diventare “pezzi da collezione”?

7. Una diffusione “significativa” dell’e-book  potrebbe favorire l’incremento della lettura?

La discussione on line proseguirà – per chi potrà partecipare – alla Feltrinelli Libri e Musica di Catania (via Etnea, n. 285 ) giovedì 30 giugno 2011, alle h. 18.

Vi aspettiamo!

Massimo Maugeri

P.s. Ne approfitto per segnalare questo post di Lipperatura incentrato sull’attuale crisi dell’editoria determinata dal decremento della vendita dei libri (il post riprende un articolo pubblicato su Repubblica, con dichiarazioni di Marco Polillo – presidente dell’Aie – anche sul “fenomeno e-book”)

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DIBATTITO SUL ROMANZO STORICO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/13/dibattito-sul-romanzo-storico/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/13/dibattito-sul-romanzo-storico/#comments Sun, 13 Dec 2009 18:15:58 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=985 dibattito-sul-romanzo-storicoImmagine 30 StoriaQuesto post, già avviato a partire dall’estate del 2009, si è progressivamente trasformato in un dibattito permanente sul romanzo storico.
Fino a questo momento hanno partecipato alla discussione i seguenti scrittori (li cito in ordine alfabetico): Andrea Ballarini, Rino Cammilleri, Giulio Castelli, Rita Charbonnier, Alfredo Colitto, Nicole Fabre, Andrea Frediani, Giulio Leoni, Giorgia Lepore, Simona Lo Iacono, Leda Melluso, Adriano Petta, Marco Salvador, Cinzia Tani, Jasmina Tešanović, Filippo Tuena.
Altri autori di romanzi storici, nel tempo, saranno invitati a partecipare.
Le domande poste per favorire la discussione sono le seguenti…

1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?

2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?

3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?

4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?

5. E nel resto del mondo?

6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?

La seconda parte del dibattito sul romanzo storico si è svolta in questo post.

Massimo Maugeri

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(Seguono il post del 26 luglio 2009 e i successivi aggiornamenti)
romanzo-storico-letteratitudineA partire da oggi, e per i prossimi giorni, qui su Letteratitudine proverò a condurre un dibattito sul romanzo storico. Per l’occasione ho invitato quattro protagonisti del settore: due scrittrici e due scrittori. Scrivo i loro nomi in rigoroso ordine alfabetico: Andrea Ballarini (foto in alto a sinistra, nel quadrante), Rita Charbonnier (in alto a destra), Marco Salvador (in basso a sinistra), Cinzia Tani (in basso a destra).
L’occasione è ghiotta. Discuteremo, con i quattro ospiti, del romanzo storico in generale e delle loro opere più recenti (nel farlo mi avvarrò anche dei contributi di Salvo Zappulla e Renzo Montagnoli).
Provo a porre alcune domande per favorire la discussione…

1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?

2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?

3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?

4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?

5. E nel resto del mondo?

6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?

Provate a rispondere alle domande!
L’invito è rivolto a tutti… e, in particolare, ai protagonisti di questo post (che invito a interagire tra loro).
Sono certo che ne verrà fuori una discussione molto interessante.
Di seguito, gli articoli sulle più recenti opere di Andrea Ballarini, Rita Charbonnier, Marco Salvador, Cinzia Tani.
Massimo Maugeri

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IL TRIONFO DELL’ASINO di Andrea Ballarini
Del Vecchio editore, pagg. 488, euro 17,50

articolo di Massimo Maugeri

Ho avuto il piacere di presentare Andrea Ballarini al Salone del libro di Torino insieme a Rita Charbonnier. Con il romanzo storico, “Il trionfo dell’asino”, ha aperto una nuova collana di narrativa dell’editore Del Vecchio.
Siamo nell’ultimo quarto del XVII secolo. Il protagonista del libro – e voce narrante della storia – è Giacomo Crivelli, figlio del Provveditore Generale di un Duca. Un giovane con una famiglia importante alle spalle, ma che è mosso da una passione che non viene compresa – o quanto meno assecondata – dai suoi familiari. Giacomo Crivelli ama il teatro. Incondizionatamente. Al punto da contravvenire agli indirizzi paterni su quello che dovrebbe essere il suo futuro e di unirsi a una compagnia di teatranti.
Nel corso del suo girovagare con l’Illustre Compagnia dei Comici Entusiasti, Crivelli incontra un uomo avanti negli anni e dal passato misterioso: Aristotele Cereri, (che viene assunto come scenotecnico all’interno della Compagnia). L’uomo rivela a Giacomo che la sua vita è votata a recuperare un tesoro molto particolare… e che questo compito gli è stato lasciato in eredità dal suo antico maestro: un filosofo nato a Roma nel 1583.
In seguito Aristotele rivela che il tesoro consiste in uno scritto… e che, secondo il suo maestro, nello scritto si cela un segreto, forse un diabolico incantesimo, in grado di sconvolgere l’ordinamento del mondo quale lo si conosce. Estremamente scettico, Giacomo – almeno all’inizio – non dà molto seguito a queste rivelazioni, sempre più determinato, invece, a perseguire la sua passione per il teatro e le teatranti. Perché – tra le altre cose – il protagonista del libro è… come dire… molto “sensibile” alle grazie femminili.
La compagnia però si sfascia e Giacomo si trova, giocoforza, costretto a seguire Aristotele nella sua ricerca (che li porterà in Francia, alla corte del Re Sole, e poi di nuovo in Italia, frequentando tanto salotti raffinati quanto umide e poco accoglienti stamberghe). Il tutto si complica per l’interesse che il manoscritto (un’antica commedia) suscita in più personaggi, anch’essi desiderosi di carpirne i contenuti che, se divenissero di pubblico dominio, potrebbero cambiare radicalmente le sorti del mondo. Insomma, a mano a mano che si procede nella lettura, il mistero si infittisce.
Questo romanzo è strettamente connesso al teatro per una serie di motivi: a) racconta le vicende di un gruppo di teatranti; b) il cuore del libro ha per oggetto la ricerca di un’antica commedia; c) il testo del romanzo offre, di tanto in tanto, stralci di commedia. In tal senso questo libro è un testo dotato di un’altissima valenza metaletteraria: un romanzo che guarda al teatro… che si rifà al teatro.
E Ballarini è bravo a mettere “in scena” (in questo caso il termine è azzeccatissimo) una storia ricca, complessa, con molti personaggi. Una storia lunga, ben gestita dall’inizio alla fine… nonostante la dimensione considerevole del testo. E lo fa con una scrittura sicura, efficace. Una prosa elegante, mai autoreferenziale.
Un libro che offre un piacevole e avventuroso viaggio tra i teatranti dell’Italia di fine 1600 e che – garantito! – consentirà al lettore di trovarsi in… buona compagnia.

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LA STRANA GIORNATA DI ALEXANDRE DUMAS di Rita Charbonnier
Edizioni Piemme, pagg. 374, euro 18,50

articolo di Salvo Zappulla

Rita Charbonnier è una di quelle donne predestinate al successo, ha nel sangue il dono dell’Arte e lo manifesta attraverso una personalità poliedrica ed esuberante, quale sia essa l’attività in cui si cimenta: il teatro, il cinema, la letteratura. Dopo il successo riportato con il romanzo “La sorella di Mozart” edito nel 2006 da Corbaccio, tradotto in ben dodici Paesi, si ripresenta con questo secondo avvincente romanzo (“La strana giornata di Alexandre Dumas“, Edizioni Piemme, pagg. 374, €18,50). Ancora una storia di donne strappate all’oblio e riconsegnate alla loro verità storica. Quasi un atto di giustizia sociale quello di Rita per ridare identità attraverso le sue opere letterarie a personaggi tenuti ingiustamente ai margini. Una storia scabrosa, un baratto di neonati per questioni di interessi che rischia di suscitare un terremoto nella Francia di fine Ottocento. Maria Stella Chiappini, la protagonista di questo romanzo, sembra permeata da un alone di magia, scaturita da una fiaba, o dalle radici del mondo; incanta con la sua eloquenza, incanta e seduce con la forza evocatrice delle parole. Incanta Alexandre Dumas che rimane ad ascoltare la sua straordinaria vicenda completamente rapito. Il grande scrittore trascorrerà con lei forse la giornata più intensa della sua vita. La stessa forza di narratrice che Rita Charbonnier trasmette al lettore, con una meticolosa descrizione dei costumi dell’epoca, il rapporto tra nobili e popolani, con particolare attenzione per il percorso psicologico e le azioni che danno slancio alla vicenda narrata. I suoi dialoghi, ora delicatamente ironici, ora drammaticamente lirici, affabulatori, nostalgici, malinconici. Le pagine dedicate all’incontro tra Maria Stella e la madre adottiva in punto di morte sono tra le più affascinanti, intense, coinvolgenti del romanzo. Così come anche le altre donne hanno un ruolo non indifferente nell’economia della storia, predominante rispetto agli uomini. Donne dotate di grande saggezza, un po’ compresse nel ruolo di semplici consorti, straripanti di personalità, desiderose di affermare la propria esistenza.

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LA PALUDE DEGLI EROI di Marco Salvador
Edizioni Piemme, pagg. 501, euro 20

articolo di Renzo Montagnoli

Avete presente quegli affreschi che nelle chiese si trovano nell’abside, che partono a sinistra dell’altare e in una serie di quadri successivi gli girano dietro per concludersi alla sua destra? Ecco, La palude degli eroi è strutturato così, come se Salvador fosse il pittore chiamato a celebrare la vita di un santo. E’ quindi tutta una serie di quadri, legati l’uno all’altro e che danno vita a un affresco di grande bellezza.
Se gli inglesi hanno avuto in Walter Scott con il suo Ivanohe il cantore del loro medioevo, mi sento tranquillamente di indicare l’autore pordenonese come il suo equivalente nel nostro paese.
In questo romanzo ci parla dei da Romano, quella famiglia che raggiunse l’apice della sua fama e fortuna con il condottiero Ezzelino, validamente coadiuvato dal fratello Alberico, ma la figura di questo personaggio, conosciuto, a torto o a ragione, come un sanguinario scompare quasi subito nella narrazione, poiché muore dopo la sconfitta subita a Cassano d’Adda per le gravi ferite riportate. Il fulcro invece di tutta la narrazione è costituito da uno straordinario personaggio, Guido da Romano, figlio adottivo di Alberico e figlio naturale di Ezzelino.
Non intendo raccontare la trama, che presenta in 501 pagine tanti fatti e accadimenti, una vera “summa” di questo protagonista, ultimo rimasto dei da Romano dopo la crudele esecuzione da parte dei papisti di Alberico e dell’intera sua famiglia. Non ci sarebbe infatti abbastanza spazio per una sintesi logica, né è mia intenzione privare il lettore di scoprire pagina dopo pagina il succedersi degli eventi.
Preferisco quindi scrivere di quello che ha suscitato in me questo romanzo, delle impressioni che ne ho ritratto, dell’emozione di cui è riuscito a pervadermi.
Ci troviamo davanti a una vera e propria opera d’arte, abbastanza fedele storicamente, e con tutta una serie di ceselli, che vanno dalla descrizione dei costumi per arrivare perfino alle abitudini alimentari, inseriti con abilità in modo non solo da soddisfare la curiosità, ma da consentire al lettore di immergersi progressivamente in un’epoca.
Fra l’altro, questo risultato è ottenuto in modo mai greve, tanto che il romanzo, se non fosse per la sua notevole lunghezza, si leggerebbe tutto d’un fiato.
Avevo già notato questa capacità di Salvador di avvincere in occasione della lettura del suo ciclo sui longobardi, ma in questo lavoro si è veramente superato, al punto che si ha l’impressione di essere presenti nella vicenda, come spettatori estasiati di un torneo o pavidi testimoni di una battaglia, di cui si ode lo scontro delle armi, si avverte il senso di paura e di follia che anima i contendenti e, perfino, sembra di fiutare l’odore dolciastro del sangue che inzuppa il terreno.
Ma questo, che pur è molto, non è nulla in confronto con la capacità di Salvador di rendere dinamiche le scene, così che si vedono i cavalli galoppare, giungere a contatto con quelli degli avversari, con campi lunghi e altri più ristretti, cogliendo particolari essenziali, proprio come in una pellicola cinematografica.
Adesso, quindi, potete capire il perché questo romanzo risulti particolarmente avvincente e il coinvolgimento è totale, nel senso che ci si dimentica di stare comodamente seduti su una poltrona, ma ci si vede accanto a Guido a duellare, oppure ad ascoltarlo quando si dichiara alla bella e umile Aurora. E questo alternarsi di scene cruente, di supplizi dolorosi, con immagini elegiache della campagna trevigiana, con stacchi incisivi su personaggi minori, che però sono funzionali al racconto, consente di trarre respiro, permette al lettore di abbassare il ritmo, pause indispensabili in una trama che galoppa come un cavallo selvaggio.
Non posso anche dimenticare l’abile caratterizzazione dei protagonisti, nessuno tutto buono o tutto cattivo, ma uomini con pregi e difetti, sia fra gli alleati di Guido che fra i suoi nemici. Se la figura di Ezzelino da Romano viene un po’ rivalutata, nel senso che la sua ferocia non era dissimile da quella dei potenti della sua epoca, un trattamento particolare viene riservato alla Chiesa di Roma, intrigante, superba, prepotente e sempre pronta a incrementare i suoi possedimenti. Per fortuna, però, esistono anche umili preti, che con il loro esempio, la loro fede e umanità consentono che una religione non venga identificata con la sua struttura politico-amministrativa; nel romanzo ne troviamo, ancore di salvezza in un mondo di lupi che si sbranano e in cui i potenti, come oggi, decidono delle sorti degli altri uomini.
Non mancano quindi anche motivi di riflessione che finiranno con l’emergere una volta ultimata la lettura, toccando argomenti che credevamo antichi e che invece sono ancora del tutto in corso. Questo è un altro dei pregi di questo lavoro ed è giusto sottolinearlo, perché la narrazione non è fine a se stessa e così riesce a coniugare la spettacolarità con la sostanza, compito questo in cui mi sembra che Salvador sia riuscito assai bene.
La palude degli eroi è un’opera d’arte, un romanzo di rara grande bellezza che vi consiglio di leggere, sicuro che alla fine rimarrete stupiti e soddisfatti.

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LO STUPORE DEL MONDO di Cinzia Tani
Mondadori, pagg. 319, euro 19

articolo di Massimo Maugeri

Cinzia Tani non ha bisogno di presentazioni: giornalista e scrittrice, autrice e conduttrice di programmi televisivi e radiofonici. Ha pubblicato diversi volumi, tra romanzi e saggi, aggiudicandosi svariati premi.
L’otto marzo 2004 il Presidente della Repubblica Ciampi ha scelto Cinzia Tani insieme ad altre undici donne per conferirle l’onorificenza di Cavaliere dell’ordine “Al merito della Repubblica Italiana”. Il precedente romanzo “Sole e ombra” (Mondadori, oggi disponibile nella collana Oscar besteller) ha vinto il Premio selezione Campiello 2008.
Di recente è uscito un nuovo romanzo storico, sempre edito da Mondadori, ambientato a Roma nel 1201: “Lo stupore del mondo”, da dove emerge la figura di Federico II.
Ecco la trama…
Il piccolo Pietro si è appena abbandonato all’abbraccio della levatrice, quando un tuono improvviso irrompe su palazzo Graziani, la balia perde la presa e il primo dei due gemelli appena venuti alla luce le scivola dalle mani. In quel tuono inspiegabile, a ciel sereno, è racchiuso il cattivo presagio che condiziona il destino di Pietro: nel suo volto, irrimediabilmente deturpato dalla caduta, molti leggono un segno del demonio, gli altri vengono respinti dalla sua deformità. Con il tempo l’isolamento rende il ragazzo diffidente, cupo e determinato, almeno quanto suo fratello Matteo cresce fiducioso e remissivo, ben voluto da tutti. Solamente il sogno di diventare cavaliere sembra accomunarli, ma ciascuno per realizzarlo seguirà il proprio temperamento e i propri ideali, che li porteranno inevitabilmente a combattere su fronti opposti.
Lontano da Roma, dalle rovine dell’antico impero e dai rigori della Santa Sede, vivono invece gli altri protagonisti del romanzo, la bella Flora dagli occhi immensi, curiosa e indipendente, e il suo amato e sfuggente Rashid, il ragazzino arabo che sa parlare agli uccelli. Separati dai conflitti religiosi di una Sicilia assolata e rigogliosa, i due si ritroveranno nuovamente insieme, adulti, nella reggia pugliese dell’imperatore, a Foggia. Ed è proprio Federico II, lo svevo dai capelli fulvi e lo sguardo acuto, il poeta con la passione per le arti e le scienze naturali, l’uomo potente impegnato nei continui conflitti con il Papato e la Lega Lombarda, a muovere Pietro, Matteo, Flora, Rashid e tutti gli altri personaggi, a spingerli a congiungersi o scontrarsi seguendo l’amore e la gelosia, il tradimento e la vendetta. Fino al rogo della città di Victoria, alle porte di Parma, dove l’imperatore ha trasferito il tesoro, l’harem, i serragli con gli animali esotici e il suo prezioso trattato sulla caccia con il falcone. E dove ogni destino troverà compimento
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Per Francesco Fantasia Lo stupore del mondo (cfr. “Il Messaggero” pag. 21 dell’11-5-09), “è il romanzo più maturo di Cinzia Tani, che mette adesso il suo talento narrativo al servizio di una storia traboccante di calore e colore, ambientata in un Medioevo distante dai diffusi stereotipi. C’è sentimento, avventura, mistero, in questo libro corale in cui si incrociano i destini di una folla di personaggi che si amano, si odiano, si combattono, in una altalena di passioni e tradimenti che durerà mezzo secolo. (…) Cinzia Tani si immerge senza reticenze nei meandri della Storia, fa i conti con le debolezze e le ambiguità dell’umana natura. E quando si finisce di leggere il suo romanzo, non si vorrebbe ancora uscire da questo XIII secolo ricco di passioni e di miti religiosi: un mondo pullulante di vita che ci appare a tutta prima irrimediabilmente lontano e che scopriamo invece straordinariamente vicino”.
Motivo in più, quello evidenziato sopra, per immergersi nelle pagine di questo ottimo libro.

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AGGIORNAMENTO DEL 27 LUGLIO 2009

Aggiorno il post con questo video dove Cinzia Tani, Rita Charbonnier e Leda Melluso discutono del rinnovato interesse per il romanzo storico. Conduce l’intervista Elisabetta Bucciarelli. Il video è stato registrato il 16 maggio 2009 per Booksweb.tv in uno studio all’interno della XXII Fiera Internazionale del Libro di Torino.

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AGGIORNAMENTO DEL 31 LUGLIO 2009

Aggiorno il post per presentare e invitare due nuovi autori di romanzi storici. Premetto che nel corso della discussione è intervenuto lo scrittore Filippo Tuena – firma autorevole – che è già stato ospite di Letteratitudine in altre circostanza (qui e qui).

In questo momento trovate in libreria “I diari del Polo”, volume curato – appunto – da Filippo Tuena.

Adesso ho il piacere di presentarvi due scrittori che pubblicano con la Newton Compton: Andrea Frediani e Giulio Castelli.

Andrea Frediani vive e lavora a Roma, dove è nato nel 1963. Laureato in Storia medievale, pubblicista, è stato collaboratore di numerose riviste di carattere storico, tra cui «Storia e Dossier», «Medioevo» e «Focus Storia». Tra i suoi libri ricordiamo: “Il sacco di Roma”, “Costantinopoli, l’ultimo assedio e Attila”. Con la Newton Compton ha pubblicato “Gli assedi di Roma”, vincitore nel 1998 del premio «Orient Express» quale miglior opera di Romanistica, “Le guerre dell’Italia unita”, “Gli ultimi condottieri di Roma”, “Le grandi battaglie di Roma antica”, “Le grandi battaglie di Napoleone”, “Guerre e battaglie del Medioriente nel xx secolo”, “I grandi generali di Roma antica”, “Le grandi battaglie di Giulio Cesare”, “Le grandi battaglie di Alessandro Magno”, “Le grandi battaglie dell’antica Grecia”, “I grandi condottieri che hanno cambiato la storia”, “Le grandi battaglie del Medioevo” e i due romanzi di grande successo “300 guerrieri” e “Jerusalem”. (Ulteriori informazioni, qui).

Giulio Castelli, romano, narratore e saggista, è cultore e studioso di storia medievale e tardoantica. Giornalista professionista, ha coordinato i servizi culturali di due quotidiani e ha condotto trasmissioni radiofoniche. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo il romanzo “Il fascisti bile” e il pamphlet “Il leviatano negligente”. (Ulteriori informazioni qui)

A settembre usciranno due loro nuovi libri: “I 101 segreti che hanno fatto grande l’impero romano” di Andrea Frediani e “Gli ultimi fuochi dell’impero romano” di Giulio Castelli (trovate le immagini di copertina in basso).
Avremo modo di parlare dei suddetti libri nel corso della discussione.

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AGGIORNAMENTO DEL 24 AGOSTO 2009
Aggiorno il post segnalando la partecipazione al dibattito di due ulteriori scrittori di romanzi storici: Giorgia Lepore (autrice della Fazi editore) e Rino Cammilleri (autore Rizzoli).

giorgia-leporeGiorgia Lepore (nella foto) vive in Puglia, a Martina Franca. E’ archeologa e insegnante di storia dell’arte nelle scuole superiori. Dopo la laurea di Lettere con tesi in Archeologia Cristiana presso La Sapienza, ha conseguito presso la stessa sede il dottorato di ricerca in Archeologia e Antichità postclassiche, la specializzazione in Archeologia Medievale, e infine è stata assegnista di ricerca presso l’Università di Bari, nell’ambito del progetto di ricerca “L’insediamento medievale di Lama d’Antico a Fasano: l’abitato e la chiesa in grotta. Rapporti con altri insediamenti rupestri del territorio e con il sopraterra”. Ha insegnato presso la sede di Taranto del corso di Laurea in Beni culturali e collabora con la cattedra di Archeologia e Storia dell’Arte Paleocristiana e Altomedievale presso l’Università di Bari.
Ha al suo attivo varie coordinazioni di scavi in siti archeologici di tutta Italia e pubblicazioni in riviste specializzate e atti di convegni. Le sue attività di ricerca si incentrano soprattutto sull’altomedioevo italiano, specie pugliese e meridionale; sull’archeologia degli elevati e sullo studio delle strutture murarie; negli ultimi anni ha portato avanti e pubblicato vari lavori sugli insediamenti rupestri e sull’assetto del territorio nel medioevo.
L’abitudine al sangue” è il suo primo romanzo:
“II tuo futuro non è oggetto di discussione, né ora né mai. Il mese prossimo verrai avviato alla carriera militare”: crollano così i sogni di Giuliano, figlio dell’imperatore di Bisanzio, posto dal padre a capo dell’esercito. Il giovane, incapace di sopportare la perdita di vite umane, la vista e l’odore del sangue, grazie anche all’amore della prostituta Eucheria troverà il coraggio di ribellarsi al ruolo impostogli. La vendetta paterna sarà feroce: Giuliano, ridotto a schiavo e torturato fin quasi alla morte, è rinnegato e rinchiuso in un monastero. Da qui ha inizio il lento percorso interiore del protagonista, il suo confronto con il dolore per la perdita della donna amata e l’abbandono da parte di Dio e del padre, fino al raggiungimento della pace nell’epilogo del romanzo.

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Rino Cammilleri (nella foto) è nato a Cianciana (Ag) il 2.11.1950, dopo il liceo ad Agrigento si è laureato in Scienze Politiche a Pisa. Ha esordito come assistente di Diritto Diplomatico e Consolare nella stessa facoltà per poi dirottarsi sull’insegnamento di materie giuridiche ed economiche nelle scuole secondarie. Dopo aver lasciato il mondo della scuola, oggi fa esclusivamente lo scrittore, l’editorialista e il conferenziere. Attualmente collabora con varie testate nazionali. Come romanziere Cammilleri predilige il giallo storico, nel quale si è più volte cimentato (vedi la sezione sui libri). Non solo. Un altro dei suoi campi di attività è il fumetto: per le Edizioni ReNoir ha ideato una serie che si intitola «Gli Sconfitti». Il suo nuovo romanzo si intitola “Il crocifisso del samurai“:
1637: GIAPPONE
La grande rivolta dei samurai cristiani.

È l’alba quando la giovane Yumiko viene prelevata dalle guardie dello Shogun e torturata pubblicamente. La sua unica colpa è essere figlia di Kayata, samurai cattolico che non ha potuto pagare le tasse alle autorità, i cui uomini ormai da anni umiliano i cristiani di Shimabara con una violenza cieca e annientatrice. Ma nonostante la miseria e il sangue fatto scorrere per fiaccare la loro volontà, gli abitanti del villaggio si raccolgono attorno al simbolo di cui nessuno può privarli: il crocifisso di Cristo. Lo stesso al quale i primi cristiani giapponesi venivano inchiodati dalle guardie dello Shogun. La violenza su Yumiko è la scintilla che spinge uomini e donne alla ribellione estrema: rifugiati nel castello di Hara si oppongono al giogo persecutorio e a un destino ineluttabile. L’assedio da parte degli uomini dello Shogun dura cinque interminabili mesi, senza cibo e possibilità di scampo, ma quel “branco di contadini”, guidati dall’Inviato del Cielo, da Kayata e dal suo discepolo Kato, resistono, aggrappandosi alla speranza incrollabile nella resurrezione. Perché solo la fede può superare ogni sopraffazione e dare linfa vitale a un popolo in lotta.
Il crocifisso del samurai, l’opera forse più ambiziosa di un autore che ha trascorso la vita a indagare la storia della cristianità, è uno struggente romanzo storico capace di toccare le corde più profonde dell’anima esplorando le radici del concetto stesso di fede. L’epica ribellione dei samurai cristiani di Shimabara nel 1637 – dopo la quale per due secoli il Giappone si chiuse a ogni contatto con l’esterno – rivive in un affresco crudo e realistico, denso di azione e di colpi di scena, che testimonia l’eroismo di chi è morto per non rinnegare il proprio credo.

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13 dicembre 2009

AdrianoPetta.gifAdriano Petta - amico di Letteratitudine di antica data - è nato a Carpinone (IS) nel 1945. Romanziere, studioso di storia della scienza e medievalista, ha dedicato parte degli ultimi vent’anni alle ricerche per i suoi romanzi storici. Nel 1995 ha tradotto dal castigliano il racconto di Clarín La duchessa del trionfo (EDIS, La Collanina-Classici in breve, 1995), facendolo precedere da un piccolo saggio sull’Arte del romanzo («Nel rogo del calamaio»). Oltre alla produzione di romanzi, negli ultimi anni è stato collaboratore del quotidiano Il Manifesto con articoli d’interesse storico legati soprattutto al Medioevo e all’Inquisizione. Collabora con l’inserto letterario del settimanale Rinascita. Suoi racconti ed interventi di carattere storico sono stati pubblicati su svariate riviste e webzine (Carmilla-on-line etc.)
Tra i suoi romanzi pubblicati, ricordiamo: Ipazia, vita e sogni – di una scienziata del IV secolo (La Lepre Edizione, ottobre 2009); Assiotea – la donna che sfidò Platone e l’Accademia (Stampa Alternativa, novembre 2009); Eresia pura: dissidenza e sterminio dei catari (Stampa Alternativa, Viterbo, 2001), romanzo storico.

La sua pubblicazione più recente è “Assiotea – la donna che sfidò Platone e l’Accademia”: Fliunte, Ellade, 350 a.c. – un misterioso assassino uccide per impossessarsi di un antico codice. Forse nel grande ordinamento di Leucippo si nasconde un terribile segreto. E mentre nelle miniere d’oro della Tracia gli schiavi rinvengono statuette dal bel volto di fanciulla che elevano a simbolo di libertà, nell’accademia platonica di Atene, l’astronomo Eudosso di Cnido con quelle statuine sta costruendo una strana mappa. Assiotea, inconsapevole eroina, si ritrova al centro di un intrico che farà di lei la prima donna ammessa all’accademia. Aiutata da personaggi eccezionali come Iperide, Diogene e Focione e avversata da giganti come Aristotele e Platone, lotta per far abolire la schiavitù e mutare la disumana condizione della donna, e nello stesso tempo per svelare il mistero delle statuine e dell’antico codice di Leucippo. Ma un implacabile guardiano vigila affinché il segreto non venga svelato, uccidendo chiunque si avvicini troppo all’arcano della casa del cielo.
Ho invitato Adriano Petta a discutere con noi di questo suo nuovo libro e del romanzo storico in generale.

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AGGIORNAMENTO del 17 febbraio 2010

Aggiorno il post introducendo altri tre scrittori di romanzi storici: Giulio Leoni, Alfredo Colitto e Jasmina Tešanović.
Ne approfitterò per discutere dei loro nuovi romanzi e invitare gli autori a partecipare al dibattito.

Giulio Leoni (Roma, 12 agosto 1951), narratore e autore di testi poetici e critici, si laurea in Lettere Moderne con tesi sui linguaggi della poesia visiva. Oltre a collaborare con saggi e testi creativi alle maggiori pubblicazioni specializzate, negli anni ‘80 fonda e dirige la rivista Symbola, dedicata all’analisi della poesia e della letteratura sperimentali. Attualmente insegna Teoria e tecniche della scrittura creativa presso la Sapienza di Roma. A questa sua attività si accompagna nel tempo un crescente interesse per la narrativa, cui si dedica realizzando una serie di romanzi e racconti del mistero per lo più ambientati in epoche passate e basati su suggestivi enigmi storici, come nel ciclo dedicato alle avventure investigative di Dante Alighieri.
In altri scritti affronta poi temi più decisamente legati al giallo, l’avventura, la fantascienza e l’orrore, esplorando pressoché tutto il campo del fantastico. Tra gli autori italiani di genere più conosciuti all’estero (sue opere sono state tradotte in una quarantina di paesi), alla produzione maggiore affianca una serie di romanzi per ragazzi in cui rielabora i suoi temi in forme adatte a un lettore giovanile. Collabora inoltre con Il Falcone Maltese, rivista dedicata al noir, dove cura la rubrica dedicata ai prodromi della narrativa poliziesca.
Nel 2000 vince il Premio Tedeschi per il romanzo “Dante Alighieri e i delitti della Medusa”, e nel 2006 il Premio Lunigiana per la narrativa giovanile. Con lo pseudonimo di J.P. Rylan ha scritto alcuni romanzi fantasy.

Il nuovo romanzo di Giulio Leoni si intitola “La regola delle ombre” (Mondadori, 2009, pagg. 415, euro 19).
Un incendio illumina la sera invernale di Firenze, devastando la prima stamperia a caratteri mobili della città. Con la vita del tipografo, le fiamme cancellano anche l’opera promessa a Lorenzo de’ Medici: un libro segreto e meraviglioso, impresso con il “carattere perfetto”. Accorsi sul posto, il Magnifico e l’amico Pico della Mirandola si rendono conto che non si tratta di un incidente: il corpo del tipografo pende dalla macchina per la stampa, la testa imprigionata nel torchio. A complicare il quadro del delitto, l’apparizione nei paraggi di una donna misteriosa che sembra essere la bellissima Simonetta Vespucci, morta anni prima nel fiore dell’età. Chi mai potrebbe averla richiamata tra i vivi? Pico è scettico. Si chiede se l’opera distrutta non sia l’oscura Regola delle Ombre, come sembra credere Lorenzo de’ Medici: l’antichissimo rituale che dischiude i cancelli del sepolcro. Un manoscritto passato per le mani di Leon Battista Alberti e scomparso dopo la sua morte. C’è un solo modo per scoprirlo: indagare a Roma sulle tracce lasciate dal grande architetto. Su incarico di Lorenzo, Pico parte per la città eterna deciso a servirsi del suo acume e della sua prodigiosa memoria per trovare una spiegazione razionale a delitti e apparizioni.
Ho invitato Giulio Leoni a intervenire in questa discussione sul romanzo storico.

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Alfredo Colitto scrive e traduce, soprattutto thriller, per alcune delle maggiori case editrici italiane. Il thriller storico Cuore di Ferro, primo volume di una trilogia ambientata nel XIV secolo, è uscito per Piemme a febbraio 2009 ed è stato venduto anche in Spagna e in Germania. Nel 2009 ho pubblicato anche Il candidato, noir di ecomafia per la collana Verdenero (Edizioni Ambiente). Altri suoi romanzi sono: Aritmia Letale (incluso nel Giallo Mondadori n. 2977 con il titolo Medicina Oscura), Duri di Cuore (Perdisa), Café Nopal (alacrán) e Bodhi Tree (Crisalide).
Ho partecipato a numerose antologie di racconti, tra cui: Killers & Co. (Sonzogno), Fez, struzzi e manganelli (Sonzogno), Il ritorno del Duca (Garzanti), History & Mystery (Piemme), Anime Nere Reloaded (Mondadori).
Insegna scrittura creativa presso la scuola “Zanna Bianca” di Bologna.

È appena uscito il suo nuovo romanzo: “I discepoli del fuoco” (Piemme, 2010, pagg. 429, euro 20).

Bologna, autunno 1312. Mondino de’ Liuzzi, medico anatomista, viene incaricato dal podestà di far luce su una morte strana e orribile: un membro del Consiglio degli Anziani è stato ritrovato carbonizzato in casa sua, eppure nella stanza nulla fa pensare a un incendio. Perfino la poltrona su cui l’uomo era seduto è rimasta quasi integra, mentre il corpo è bruciato in modo irregolare. I piedi sono illesi, un braccio è interamente ustionato, tutto il resto è ridotto in cenere. Mondino fa trasportare il cadavere nel suo studio per esaminarlo. Non riesce a svelare come è morto, ma sollevando con il coltello da dissezione la pelle bruciata del braccio scopre i resti di un tatuaggio: un mostro alato, con la testa di leone e il corpo avvolto nelle spire di un serpente. La mattina seguente il cadavere scompare. Qualche tempo dopo, un frate francescano viene ritrovato morto nel quartiere dei bordelli. In tasca ha un disegno molto simile al tatuaggio scoperto da Mondino. L’indagine sui due morti rivela l’esistenza di una setta di adoratori di Mithra, dio persiano del sole e del fuoco, adorato anche dai romani sotto il nome di Sol Invictus. Con l’aiuto di Gerardo da Castelbretone, un ex templare con cui ha stretto amicizia, Mondino viene a sapere che la setta si propone di salvare l’intera città per mezzo del fuoco purificatore: un grande incendio rituale in cui le anime di quelli che moriranno si riuniranno con Mithra.

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Jasmina Tešanović (Cirillico: Јасмина Тешановић) è una scrittrice, giornalista, traduttrice e regista serba. È l’autrice di “Normalità. Operetta morale di un’idiota politica“, un diario di guerra scritto durante il conflitto del 1999 in Kosovo. Da allora ha pubblicato tutti i suoi lavori, diari, racconti e documentari su blog e altri media, sempre legati ad Internet.

Di recente Jasmina Tešanović ha pubblicato il romanzo “Nefertiti. L’amore di una regina eretica nell’antico Egitto” (Stampa alternativa, 2009, euro 13, pagg. 125)

Nasce da un’ossessione questa rievocazione di un’antica regina egiziana. L’ossessione per un’eresia fallita, quella di Nefertiti che vuole abbattere la tradizione usando la bellezza, il rispetto e l’arte. Ma un’altra eresia fallita è quella vissuta dall’autrice: yugoslava prima di essere serba, ha respirato l’esaltazione e poi la caduta di un movimento che non voleva allinearsi al blocco sovietico né farsi colonizzare dall’Occidente. Così Nefertiti, condannata lei stessa come eretica, diventa il simbolo di un mondo ancestrale più che mai attuale caratterizzato da lotte di potere, invidie, donne sottomesse all’oligarchia patriarcale ed emarginazione. Questo romanzo sfonda la barriera del tempo per restituirci una sovrana tanto lontana quanto moderna. Perché “Nefertiti è qui”. (Prefazione di Bruce Sterling)

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AGGIORNAMENTO del 26 marzo 2010

La ragazza dal volto d’ambradi Leda Melluso
Piemme, 2009 – pagg. 364 – euro

Palermo, 1221. La Sala Verde, con le sue danze voluttuose, la musica e le conversazioni filosofiche, è l’unico luogo in cui Federico II di Svevia ami stare. Negli ultimi tempi, infatti, pare che fuori da quelle quattro mura gli sia impossibile trovare pace. Ci sono le richieste insistenti del Papa che necessita del suo aiuto e delle sue truppe per una nuova crociata in Terra Santa, la misteriosa scomparsa del suo medico e consigliere, Andrea Filangieri, morto probabilmente per avvelenamento, e lo strano comportamento di alcuni dei suoi uomini più fidati.
Quella sera, però, alla debole luce delle candele, Federico è riuscito a dimenticare gli oneri del sovrano e si è lasciato sedurre dai movimenti lenti e sinuosi di una delle danzatrici. È splendida. E a un tratto ha osato avvicinarsi con un’audacia che lui aveva visto solo in battaglia, e gli ha parlato.

L’imperatore non può rimanere indifferente di fronte a una sfida così allettante e vuole con sé la donna, nella propria stanza, stregato da tanta temerarietà. Ma la mattina seguente, dopo averla cercata invano a palazzo, Federico scopre la vera identità della sua amante: è Amina, la figlia del più acerrimo dei suoi nemici, l’emiro Muhammad ibn ‘Abbad, e molto probabilmente è una spia.
Capirà che la donna è solo un’esca e che a minare il suo potere è un segreto che viene tenuto nascosto dal giorno della sua nascita, un segreto torbido e spaventoso che qualcuno vuole usare per ucciderlo.

Leda MellusoLeda Melluso è nata nel 1947 ad Arezzo, ma vive a Palermo, dove ha insegnato letteratura italiana e latina nei licei. È autrice di testi scolastici per la scuola media superiore e di numerosi saggi sulla storia della Sicilia. La ragazza dal volto d’ambra è il suo primo romanzo.

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/13/dibattito-sul-romanzo-storico/feed/ 734
MICHELANGELO LA GRANDE OMBRA. Incontro con Filippo Tuena http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/09/michelangelo-la-grande-ombra-incontro-con-filippo-tuena/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/09/michelangelo-la-grande-ombra-incontro-con-filippo-tuena/#comments Mon, 08 Dec 2008 23:32:40 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/09/michelangelo-la-grande-ombra-incontro-con-filippo-tuena/ michelangelo_buonarroti_statua.JPGParliamo di Michelangelo. Il grande Michelangelo Buonarroti. L’occasione ce la fornisce la ri-pubblicazione del libro di Filippo Tuena “Michelangelo la grande ombra” (Fazi, pagg. 313, euro 12).
Tuena – nel libro - si è interessato alla parte finale della vita di Michelangelo, ponendosi (e ponendo) le seguenti domande:
Perché Michelangelo, ormai anziano e malato, declinò i continui inviti di Cosimo de’ Medici a fare rientro a Firenze? Era trattenuto a Roma dagli obblighi di lavoro per il papa o era altro a impedirgli il ritorno in patria? .
Un romanzo che, come ha sostenuto Paolo Di Stefano sulle pagine del Corriere della Sera “ha il dono di essere insieme godibile e denso di tutte le inquietudini e le disillusioni che segnarono il glorioso autunno del Rinascimento”.
Ce ne parla in maniera più approfondita Renzo Montagnoli: di seguito potrete leggere la recensione al libro e un’intervista rilasciata dallo stesso Filippo Tuena.
A voi chiedo di discutere della vita e delle opere di Michelangelo. Vi siete mai soffermati a riflettere sulle opere di Buonarroti? Sulla loro importanza?

E naturalmente vi invito a interagire con Filippo Tuena (che parteciperà alla discussione), mentre Renzo Montagnoli mi aiuterà a moderarla e ad animarla.
Massimo Maugeri


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Michelangelo La grande ombra di Filippo Tuena
Fazi Editore – www.fazieditore.it - Narrativa romanzo
Pagg. 313 – ISBN: 9788881129737 -Prezzo: € 12,00

Recensione di Renzo Montagnoli

Leggere un libro di Filippo Tuena è sempre un’esperienza del tutto particolare, perché si può star certi, ogni volta, di trovarsi di fronte a una spiccata originalità, sia come struttura che come stile, entrambi mai ripetitivi.
La sua espressione artistica, infatti, non è mai rivolta a soddisfare il gusto di un pubblico assuefatto a modi di scrivere tradizionali, ma è il frutto di una ricerca che se nelle prima pagine può disorientare finisce poi con lo stupire, il meravigliare, perché non c’è nulla come la novità che possa veramente colpire il lettore attento.
Inoltre ci si accorgerà che successive riletture faranno scoprire nuovi motivi di riflessione, mantenendo inalterato il gradimento dell’opera.
Tuena, per parlarci di un Michelangelo al termine della sua vita, avrebbe potuto scrivere un romanzo tipicamente storico, magari avvincente, e invece ha saputo costruire una narrazione che travalica i limiti propri di quel genere, offrendoci non solo un affresco di pregevole fattura, ma un’approfondita disamina dei rapporti fra arte e potere e tra disfacimento senile e decadenza di un periodo storico di grande rilievo quale fu il Rinascimento.
Con queste finalità imbastisce un tessuto letterario che prende spunto da una domanda: perché l’ormai anziano, quasi inabile Michelangelo rifiutò i pressanti inviti di Cosimo de’ Medici a rientrare a Firenze? Che cosa determinò in lui la ferma decisione di non fare ritorno in patria e di morire così a Roma?
Si tratta di un quesito senza apparente risposta, tanto che si potrebbe pensare alle bizze di un vecchio, oppure addirittura a un pretesto dell’autore per imbastire il solito romanzo storico, e invece ci troviamo fra le mani un’opera dai mille risvolti, da finalità che a primo colpo non si scorgono, ma che nel loro insieme danno corpo e sostanza a un lavoro di straordinaria qualità.
Filippo Tuena infatti rivela ancora una volta la capacità di stupire, di essere artista alla ricerca dell’originalità dei propri lavori, tanto che non si smentisce con questo Michelangelo La grande ombra, già uscito otto anni fa sempre per i tipi di Fazi e ora in un’edizione rinnovata non solo nella veste, ma anche con modifiche e implementazioni.
L’autore si pone la domanda e cerca la risposta avviando un’indagine che vede protagonisti, di volta in volta, chi conobbe Michelangelo negli ultimi anni della sua vita, nomi talora famosi, come lo stesso Cosimo de’ Medici o Giorgio Vasari, tanto per citarne due, e altri meno noti, ma non per questo meno importanti per giungere al risultato principale, nonché per affrontare altri argomenti di interesse più generale.
Come le pietruzze, sapientemente accostate l’una all’altra, vanno a formare un mosaico, le testimonianze sono singole voci di un coro e con le loro specificità danno vita a un ritratto incredibilmente palpitante del grande pittore e scultore fiorentino.
Un uomo, esso, affetto da profonda solitudine, propria solo dei grandi geni che si sentono lontani dalla quotidianità degli altri uomini, impossibilitati a condurre un’esistenza normale; è una solitudine che al contempo esalta la sua arte, ma che anche lo isola, gli fa avvertire fortemente come la creatività sia concepibile solo con la massima astrazione e l’altrettanto massima libertà.
Michelangelo non torna a Firenze perché Cosimo de’ Medici rappresenta il potere, il principe che pretende la proprietà intellettuale di quell’opera d’arte che l’artefice invece sente solo sua.
Ma dal coro di voci, costituite da uomini con inevitabili pregi e difetti, quali l’invidia, il malanimo, emerge anche un altro elemento che, oltre a connotare la fase di declino del Rinascimento, proietta la specie umana ai nostri giorni, con gli stessi vizi e le stesse virtù, comuni dei mortali e che nulla contribuiscono all’accrescimento di valori della specie stessa.
Tuena non disprezza questi personaggi, anzi conferisce loro una propria dignità, facendoli anche portavoce di riflessioni su cui il lettore è indotto a soffermarsi, perché risultano tipiche dell’esistenza e quindi sempre di attualità. Al riguardo trascrivo alcune righe della testimonianza del poeta Giovan Battista Strozzi, righe che danno la misura di ciò che l’uomo pensa e sente quando avverte il declino della vita “Mi si viene a dire che Michelagniolo ha compiuto una scelta simile. O, non parlo di palazzi affrescati, di broccati, di arazzi. Del lusso, in una parola. Ma parlo del buio di una stanza, del rinchiudersi in se stesso, del cercare in sé la verità che fuori ci appare artefatta. Mai più grandi sepolture per le morti altrui; mai più affreschi per altri edifici. Tutto per sé è quello che produceva.”
E’ tutto un susseguirsi di opinioni, e anche di supposte verità, di autoreferenzialità, ma pure di profonda convinzione dei propri limiti; sono personaggi che riemergono dalle tenebre, si agitano, ricorrono a un linguaggio che l’autore di fatto ha inventato (una sorta di gradevole commistione tra rinascimento e moderno), operano freneticamente come tante formiche all’ombra del genio, ammiratrici, ma anche invidiose, perché incapaci di comprendere che cosa ci sia realmente al fondo della creazione di quei capolavori. Quei monumenti, quegli edifici, quelle statue che non finiscono di sorprendere sono al tempo stesso l’estasi e il tormento di un autore la cui genialità è tale da rendergli impossibile la convivenza con i comuni mortali.
Da questo libro, quindi, emerge non solo l’eterno contrasto fra potere e libertà artistica, ma scaturisce anche un ritratto veritiero, spesso impietoso, della condizione umana, di una specie dotata del bene dell’intelletto, eppure così fragile, così immatura da non riuscire a comprendere nemmeno se stessa.
Ci si chiederà comunque perché il titolo sia Michelangelo La grande ombra. Che cos’è quest’ombra? E’ quella in cui agiscono gli artisti dell’epoca inferiori al genio che brilla di luce propria, o è qualche cosa d’altro?
Se consideriamo già le pagini iniziali, con un Cosimo de’ Medici emiplegico, con un filo di bava che gli scende da un angolo della bocca, quasi un cadavere vivente, ma conscio del suo stato, e se poi leggendo percepiamo nelle risposte degli altri intervistati il timore, sempre latente ma che riemerge nell’occasione, della naturale conclusione della vita umana, a cui non pochi sono prossimi, o addirittura vi sono già giunti, emerge prepotente l’atmosfera dell’ombra della morte che aleggia su tutto, a riprova che la caducità è propria di tutti uomini, geni o sconosciuti che siano.
In questo quadro di dolorosa, ma naturale angosciante incertezza per il dopo, si viene così a delineare anche la decadenza di un periodo storico così importante per le arti quale fu il Rinascimento. Del resto i frutti, ormai marcescenti, del Concilio di Trento arriveranno non solo a condizionare la vita degli uomini, ma anche a creare un’epoca di illiberalità, una sorta di reazione metodica e oppressiva, di cui anche Michelangelo, ormai defunto, fu vittima, visto che si decise, con una stoltezza che si commenta sé, di metter le braghe alle figure ignude del Giudizio Universale.
Nella lotta fra libertà creativa e potere temporale quest’ultimo riprese il sopravvento, ma, per sua fortuna, Michelangelo già non c’era più.
Renzo Montagnoli
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Filippo Tuena è nato a Roma nel 1953 e vive a Milano. E’ laureato in Storia dell’arte.
Ha pubblicato:
Il tesoro dei Medici (Giunti Art & Dossier, 1987); Lo sguardo della paura (Leonardo, 1991), Premio Bagutta Opera Prima; Il tesoro dei Medici (De Agostani, 1992), in collaborazione con Anna Maria Massinelli; Il volo dell’occasione (Longanesi, 1994); Il diavolo a Milano (Ikonos, 1996); Cacciatori di notte (Longanesi, 1997); Tutti i sognatori (Fazi, 1999), Premio Super Grinzane-Cavour; La grande ombra (Fazi, 2001); La passione dell’error mio. Il carteggio di Michelangelo (Fazi, 2002); Quattro notturni (Aletti, 2003); Il volo dell’occasione (Fazi, 2004), nuova edizione; Le variazioni Reinach (Rizzoli, 2005), Premio Bagutta; Il diavolo a Milano – nuova edizione e Fantasmi di Schumann a Manhattan (Carte Scoperte, 2005); Michelangelo. Gli ultimi anni (Giunti Art & Dossier, 2006); Ultimo Parallelo (Rizzoli, 2007), Premio Viareggio.
Sito web: http://digilander.libero.it/filippotuena
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INTERVISTA A FILIPPO TUENA (nella foto)
di Renzo Montagnoli

Il romanzo è in pratica un’indagine svolta dall’autore, cioè da te, per appurare per quale motivo Michelangelo non sia voluto ritornare a Firenze negli ultimi anni della sua vita, nonostante gli inviti ripetuti di Cosimo de’ Medici. Sei andato a ritroso nel tempo interrogando tanti personaggi, alcuni noti, altri meno e altri ancora del tutto sconosciuti, una serie di ritratti di notevole efficacia. Allora, secondo te, per quale motivo Michelangelo è rimasto a Roma dov’è morto, e non è rientrato in patria?
- Mah, guarda, non è detto che sia l’autore a formulare le domande. Tu sai di quanto sia convinto del ruolo autoriale del lettore, di quanto una lettura coinvolta determini il piacere e persino la passione che può scaturire da un libro. Quindi sì, la persona che formula la domanda, (perché il libro ruota tutto attorno a una domanda) che ascolta i monologhi, potrei anche essere io ma senza sovraccaricare l’identificazione. Qui ci sono persone che parlano, identificabili, e qualcuno che ascolta, meno riconoscibile. Questo è il gioco, il meccanismo.
Quanto al dato storico, Michelangelo morì a Roma e fu trasportato a Firenze poche settimane dopo, secondo quanto aveva chiesto. Non c’era però mai voluto tornare dal 1534 e quindi per quasi trent’anni. Alla base di questo rifiuto vi sono molte motivazioni anche di carattere personale ma soprattutto c’era la situazione politica di Firenze, la fine della repubblica, il ritorno del ducato e la figura di Cosimo I, monarca assoluto col quale Michelangelo non aveva intenzione di entrare in rapporti anche se finì poi per fornire consigli su alcune fabbriche fiorentine come Palazzo Vecchio o la Biblioteca Laurenziana. Michelangelo sentiva fortemente il conflitto tra artista e committente, non poteva sopportare che il suo lavoro venisse utilizzato per giustificare in qualche modo la presa di potere da parte di Cosimo. Non voleva lavorare per un sovrano assoluto. Questa decisione comportò grandissime rinunce, quali sono quelle che deve sostenere un esiliato, ancorché rispettato, come Michelangelo.

Come nei tuoi precedenti lavori il personaggio è un pretesto per costruire un’opera la cui portata e la cui valenza va oltre lo stesso. Anche in questo caso la figura di un Michelangelo, ormai vecchio e solo, è in funzione di un discorso più ampio che gradirei che tu riassumessi di seguito, magari anche riferendo della genesi di questo romanzo che penso ti avrà impegnato non poco, soprattutto per le indispensabili ricerche di carattere storico.
- Michelangelo anziano è certamente molto legato a Léon Reinach e a Robert Scott – i protagonisti dei miei più recenti libri. L’argomento è sempre la devastazione del corpo umano o desideri che non si realizzano o il senso del destino a cui tutti siamo sottomessi. Avendo scelto di ripercorrere gli ultimi anni di Michelangelo era inevitabile che il libro prendesse questa piega desolata, anche se penso che sia una mia cifra abbastanza riconoscibile. Tieni conto che ho scritto il libro dopo un mio personale e volontario esilio da Roma a Milano e certe pagine sono piuttosto autobiografiche. Tra l’altro l’ho scritto in un tempo relativamente breve, meno di un anno, perché la formula dei monologhi mi consentiva grande libertà di azione e io stesso concedevo ai personaggi grande libertà. Non sempre, ti sarai accorto, rispondono a tono, spesso deviano dall’assunto, vanno per loro conto, persi nei loro pensieri, innamorati delle loro malinconie.
Alla base c’è un grande lavoro di ricerca, perché è dal 1985 che m’interesso di Michelangelo e soltanto nel 2000 ho pensato di scrivere un romanzo. In quei 15 anni ho letto tutto quello che Michelangelo aveva scritto, un immenso epistolario, una corposa raccolta di versi, persino i conti della spesa e una quantità spaventosa di testimonianze dirette. Meno m’interessava la critica mia contemporanea perché avevo l’impressione che potesse allontanarmi dalla ricostruzione di un ambiente e di un’epoca.
Tra l’altro Michelangelo anziano è in qualche modo il modello per tutti quelli che amano ciò che non è perfetto, ciò che viene abbandonato, è l’ideale argomento per coloro che ritengono che l’opera d’arte sia semplicemente l’ombra di qualcos’altro, irrecuperabile. Una visione del mondo neoplatonica – Michelangelo era un grande neoplatonico – tutta diretta a recuperare quel che si è perduto e che riaffiora per frammenti. Immagina i relitti galleggianti di una nave. Conoscendo i miei libri capirai come mi muovo tra questi relitti.

Oltre la proprietà intellettuale dell’opera d’arte, che penso sia una giusta rivendicazione di ogni autentico artista, in Michelangelo quindi c’era anche forte il desiderio che i frutti del suo genio non venissero utilizzati per giustificare l’ascesa al potere di Cosimo. In effetti lui era stato un sostenitore della repubblica, tanto da dover andarsene con la caduta di questa.
Questo concetto penso sia riproponibile in tutte le epoche, nel senso che l’autentico artista non dovrebbe essere al servizio del potere. Tuttavia, di coerenza intellettuale come quella di Michelangelo se ne trova pochina, scorrendo la storia.
Al riguardo, la tua opinione qual è, cioè l’artista deve mettersi a disposizione del potere, deve con le sue opere glorificarlo, o invece deve essere avulso dalla realtà politica del momento, onde esprime in completa libertà il suo genio?

- Michelangelo pone, a metà del cinquecento, uno dei quesiti più complessi del fare artistico: la proprietà dell’opera d’arte. Considerandola più il prodotto di un’idea che della manualità è evidente che se ne sentiva proprietario anche una volta che l’aveva terminata e che questa, materialmente, non gli apparteneva più. Michelangelo è l’unico artista del cinquecento – e il primo – che scolpisce statue importanti per se stesso. Il Bruto, la Pietà Bandini e la Pietà Rondanini sono opere personali, realizzate senza la spinta di una commissione ma solo rispondendo a un’intima necessità.
Volendo fare un paragone con la letteratura odierna, o del secolo appena trascorso, il suo atteggiamento non è diverso da quello di Kafka, di Joyce, di Proust, ma con quattro secoli di anticipo.

Da ultimo, un tuo giudizio personale, ma di competente in materia, sull’arte di Michelangelo.
- Guarda, io più che dall’arte, sono rimasto travolto dall’umanità di quest’uomo, dal suo desiderio di onestà intellettuale. La sua arte è il prodotto di questo pensiero, ed è grande e continua a commuoverci perché risponde a domande etiche piuttosto che estetiche, perché mette in discussione questioni che esulano dal fare artistico e coinvolgono la sfera esistenziale. Come mi scrisse una volta Romeo De Maio, “Michelangelo dà un senso alla vita.”
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AGGIORNAMENTO DEL 10 dicembre 2008

dal volume “Michelangelo la grande ombra” di Filippo Tuena

Francesco Amadori, detto Urbino,
scalpellino e domestico

Io glielo dissi subito che potevamo permetterci di meglio che quella casetta buia di fronte alla Colonna Traiana.
Oddio, Roma per me era comunque uno splendore. Venivo da Casteldurante e poi da Firenze che è bellissima, sì, ma non antica. Roma invece era la meraviglia delle meraviglie. E se il Tevere non è imponente come l’Arno ed è più lento e limaccioso, non taglia però come quello la città dritto come un fuso, senza fantasia. No, il Tevere fa una bella ansa, che intenerisce, che è cosa rara, proporzionata, naturale.
Ma la casa, a Macel de’ Corvi, poteva scegliersela meglio, se avesse voluto. La verità è che cercava proprio una cosa così, senza pretese. Buia. Quasi volesse nascondersi. Avrebbe potuto finire in Belvedere. Avrebbe potuto comprarsi un palazzo come Sangallo o Raffaello. Avrebbe potuto scegliersi un cardinale, Salviati o Ridolfi, o una famiglia nobile e ricca, come gli Strozzi o gli Altoviti, e vivere con loro. Scelse Macel de’ Corvi: il monnezzaro, i macellai, i panettieri, gli scalpellini. Scelse di starsene per proprio conto.
E poi, quando la prese, forse ancora non sapeva che ci avrebbe vissuto per il resto dei suoi giorni. In quell’anno, nel 1532, noi facevamo ancora avanti e indietro tra Firenze e Roma; quattro mesi lì, il resto a Roma. Così aveva deciso Papa Clemente, che voleva che Michelagniolo terminasse le fabbriche di San Lorenzo: la Sagrestia e la Biblioteca. Perché della facciata della Basilica, ci s’era fatta una croce sopra, tanto sa-rebbe venuta a costare, di marmi, di sculture e d’impresa e mai s’era neppure principiata.
Così io credo che lui avrebbe potuto pensare che una casetta come quella di Macel de’ Corvi sarebbe andata benissimo anche se non era proprio la più elegante e prezio-sa di Roma. Ma poiché doveva starci lontano per dei mesi, era meglio che fosse una cosa che non portava via tanto tempo e denaro per mantenerla. Michelagniolo in que-ste cose era economo. E infatti, quando stavamo a Firenze, la casa era vuota. Ci veniva ogni tanto un amico, a controllare che i ladruncoli non si rubassero le galline e i frutti dell’orto non marcissero; e li coglieva e li regalava agli amici: fra’ Sebastiano, don Tommaso.
Ecco, sicuramente così aveva pensato: una piccola casa e un piccolo impegno.
Ma poi accaddero, uno dopo l’altro, come chicchi di un rosario, quei fatti che lo portarono via da Firenze. Papa Clemente che voleva il Giudizio dipinto sulla parete della Sistina; la lite a Firenze con il Duca Alessandro; i dissapori con i parenti; l’umiliazione con Febo; e Tommaso che era a Roma e che rubava l’anima e ogni pensiero al mio padrone..
Così come la calamita attrae il ferro e come la bussola indica sempre il nord, l’animo di Michelagniolo prese quella direzione che l’attrazione gl’indicava e non poté, mai più, volgere altrove lo sguardo.
Delle cose che lui lasciò a Firenze: opere, affetti, sofferenze, volle dimenticarsene. Soprattutto a me dispiace che quelle belle opere, statue e architetture, siano rimaste abbandonate. E che la memoria d’esse si sia cancellata nell’animo di chi le aveva create. Più volte ho cercato di convincerlo a tornare sui suoi passi e se non voleva farlo per onorare un Duca che detestava, che almeno lo facesse per pietà verso la sua arte; che nessun altro vi avesse a metter le mani e rovinasse quelle belle proporzioni. Ma lui ha fatto rocca del suo convincimento e nulla ho potuto contro la sua scelta. E così la casa di Macel de’ Corvi divenne il carapace d’una tartaruga, la nicchia d’un mollusco, la tana d’un orso. Divenne la sua casa per la vita. E la mia, fino a quando la morte non m’ha portato via.
Perché io subito l’ho capito che in quella casa c’eravamo venuti per morirci. E morendo io, come lui ha scritto, gli ho insegnato a morire. Ma di questi insegnamenti, oggi, morti tutti e due, che cosa rimane. Meglio sarebbe stato imparare a vivere, perché la vita è lunga e difficile e incerta, e l’atto della morte, brevissimo, e facile, e sicu-ro. E tutti, quando è il momento, sanno come fare, anche se non è cosa che ci si può preparare, perché accade una volta soltanto e quella volta basta per sempre.
Un ossario comune

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MAURIZIO DE GIOVANNI, FILIPPO TUENA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/13/maurizio-de-giovanni-filippo-tuena/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/13/maurizio-de-giovanni-filippo-tuena/#comments Thu, 13 Mar 2008 19:32:39 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/13/maurizio-de-giovanni-filippo-tuena/ In questo post presentiamo i due libri italiani più votati nell’ambito del gioco “eleggiamo il miglior libro dell’anno 2007”. Si tratta di “Il senso del dolore” di Maurizio De Giovanni (Fandango, pagg. 256, euro 10) e “L’ultimo parallelo” di Filippo Tuena (Rizzoli, pagg. 352, euro 18).

Presentiamo di seguito due recensioni. La prima, relativa al libro di De Giovanni, già pubblicata sul sito del Premio Napoli, porta la firma di Luigi Pincitore. La seconda, per il libro di Tuena, è stata pubblicata su Diario da Gian Luca Favetto.

I due autori sono caldamente invitati a partecipare al dibattito sui loro libri.

Gli amici di Letteratitudine sono invitati a esprimere le loro considerazioni e ad accogliere i due autori con la massima cordialità.

(Massimo Maugeri) 

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Il senso del dolore di Maurizio De Giovanni

Tolstoj diceva che le famiglie felici sono simili le una alle altre. Talvolta capita che i libri felici siano simili l’uno all’altro. Ai lettori succede di scoprire un punto, anche piccolo – una pagina oppure una semplice immagine – che magicamente richiamano alla mente pagine o immagini di altri libri che pure si sono amati. Leggendo l’esordio di Maurizio De Giovanni (Il senso del dolore – Fandango) viene in mente quello straordinario racconto che è I Morti, scritto da Joyce a chiusura di Gente di Dublino. Due libri diversissimi, appartenenti a due scrittori altrettanto diversi. Uno, italiano, alle prese con un giallo solido e dall’impianto tradizionale, con protagonista principale un commissario di polizia impegnato nello scoprire l’assassino di un noto tenore. E qui il lettore più consumato può tranquillamente storcere il naso, dal momento che giallo e noir, per l’abuso che se n’è fatto negli ultimi anni, possono provocare una naturale crisi di rigetto. Senza contare quella distinzione che certa critica traccia tra letteratura alta e letteratura bassa, o di genere. Dimenticando che l’unica vera distinzione andrebbe fatta tra libri che emozionano e libri che non emozionano.Ma il gancio con il genio di Joyce c’è. E’ in quel lento cadere della neve, che scende sulla città di Dublino all’alba di un primo gennaio, e che sempre lentamente va a posarsi ovunque, su tutti i vivi e su tutti i morti; e paralizza lo sguardo di Gabriel, il protagonista del racconto, costretto a rimettere a fuoco quella cosa strana che chiamiamo realtà, e che nasconde sempre porzioni che ad un primo sguardo ci sfuggono. Nel libro di De Giovanni è il vento a cadere, letteralmente, sulla città. Un vento inusuale; non è lo scirocco africano che ci ricorda che Napoli è città mediterranea. E’ un vento freddo, australe, e anche qui cade sui vivi e sui morti. E ci fa scoprire che la città è davvero piena di morti. Più di quelli che un occhio qualunque possa normalmente vedere. Mentre il commissario Ricciardi li vede. E soprattutto li sente. Ha qualcosa, un potere, il fatto lo chiamo lui. E questo fatto, che non è potere parapsicologico da thriller americano, lo mette in comunicazione con i morti assassinati, di cui percepisce il dolore, di cui rivive nella carne e nello spirito l’agonia che diventa la sua. E così va avanti, senza poter raccontare ad alcuno di questo suo segreto, perché una volta ci provò, ragazzino, ma non fu creduto. Va avanti mescolando il suo dolore originario con quelli che vede e assorbe, antenna terminabile di un unico grande dolore che accomuna tutti i vivi e tutti i morti.

Ecco che salta subito all’occhio la componente cristologica del romanzo, il protagonista è condannato ad un eccesso di empatia verso l’umanità. E questa empatia, se da un lato gli permette di scavalcare l’immagine più semplice e banale del cadavere che ha di fronte, dall’altro lo condanna a scendere ogni volta in quel cuore di tenebra che ci portiamo dentro e che nell’istante della morte probabilmente illumina in un’ultima smorfia il nostro volto. Destino segnato il suo, perché evidentemente solo commissario poteva diventare uno che percepisce con tanta violenza emozionale il trapasso degli altri. Ma non c’è nessuna filosofia in questo fatto, Ricciardi non interroga forzatamente la propria identità. Oramai la accetta. E’ la sua nausea, e fa parte di lui. Egli è solo un povero Cristo, e ha la sua croce, e forse accettando di portarla silenziosamente sulle spalle aiuterà l’umanità dolente ad espiare.

Da questo punto di vista siamo nei territori dell’hard boiled, con la figura del detective solitario e a suo modo eroico. Che ha un amore inespresso che abita a pochi metri di distanza. Che ha occhi spesso socchiusi, perché la realtà è una luce che ferisce. E che incide dentro. Potrebbe bere whisky e fumare sotto la pioggia. Ma non siamo nell’America anni quaranta, ma, e qui c’è l’altro elemento di originalità del libro, siamo nella Napoli degli anni trenta. In pieno ventennio fascista. Quel vento che spazza le strade della città sembra alludere al vento del consenso, che spianava tutte le divergenze, gli alti e bassi, ammutoliva la gente entrando con forza in bocca, perché all’esterno fosse presentata un’unica facciata tersa e accogliente.
Romanzo quindi, questo di De Giovanni, in cui scorre sottopelle una cifra politica. Il segreto del commissario Ricciardi, all’esterno uomo del potere, emanazione di questori e potestà, allude al segreto di quanti in quegli anni erano costretti al silenzio e alla macerazione interiore, pena l’esilio e il confino. E così mentre indaga per ricomporre i tasselli che lo porteranno allo scioglimento del giallo, si immerge in quell’altro grande enigma narrativo e antropologico che è Napoli. Città da sempre problematica da raccontare. In questo romanzo l’autore opta per un’iconografia organica, presentando il dedalo di vicoli, il sovrapporsi di quartieri alti e quartieri bassi, con la folla spesso silenziosa e inerte che sciama per le strade, alla stregua di un reticolato di arterie e vene, dove scorre sempre molto sangue.

Quindi in una struttura di genere, basata sulla triade omicidio-indagine-interrogatori, si inseriscono alcuni piani che tendono a sbilanciare la narrazione, a farla uscire dai perimetri consolidati e canonici. L’autore sembra puntare soprattutto a costruire un mood, un’atmosfera che si faccia carico di sottolineare il non detto della vicenda, i momenti di sospensione e di precarietà.

Se nell’hard boiled chandleriano la solitudine di fondo del detective Marlowe era controbilanciata dalla secchezza dei dialoghi, dal machismo insistito e quasi autocompiaciuto di un certo stile di vita, qui siamo in un territorio diverso. Nonostante il vento Napoli si fa sentire, e batte sulla pelle del protagonista incidendola con la sua radice marina. Aleggia in queste pagine la solitudine salina di Montale, il detective creato dal grande scrittore francese Jean Claude Izzo. I dialoghi virano dal duro al malinconico. E la città nonostante non sia al centro della narrazione, se non durante i tragitti che il commissario compie, spostandosi in tram o a piedi, è in realtà sempre presente. Si direbbe anzi, che il mood del romanzo è in questa sospensione tra malinconia del protagonista e malinconia della città. Entrambi fuori posto, entrambi preda di un destino più grande. L’uomo schiavo del fatto, che ne regola il percorso biologico e umano. La città schiava della sua impasse storica e di un fascismo che non si accorda con il suo cuore segreto.
Potrebbero fondersi questi due eroi – uomo e città – ma non è possibile, se non in brevi e fulminanti momenti. A volte si incontrano, quando la morte di un uomo famoso cristallizza la scena. Altre volte si vivono uno addosso all’altro, ma poi ognuno torna sulla propria strada. Ricciardi si lascia alle spalle il teatro San Carlo entrando nel vento furioso che spazza Napoli. E Napoli va in quello stesso vento che però non la spinge mai abbastanza oltre.

Luigi Pingitore

Il romanzo uscito nel 2006 per un piccole editore napoletano come Graus, ha avuto un locale ma fulmineo successo. Immediatamente adocchiato da un grande editore come Fandango, è stato ripubblicato per essere riproposto ad una platea più ampia. http://www.premionapoli.it/2007/dolore.html 

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L’ultimo parallelo di Filippo Tuena

Alla fine, ma nemmeno troppo alla fine, già quando ci sei in mezzo fra pony, cani, tende, marce, cartine e ghiaccio, tanto ghiaccio, solo ghiaccio e neve, non pensi più che sia solo un libro. Mentre lo leggi, è un’avventura, un’esperienza. Sei lì che spii. Come fossi in un diario intimo, dentro una confessione, la confessione di un’ombra che racconta.Racconta che hanno giacche a vento di cotone e scarponi di cuoio, sci di legno pesantissimi e fragili, stivali di pelle di foca, due o tre paia di calzettoni di lana grezza, due o tre maglioni o camicie o maglie di cotone, grandi guanti di pelle di foca e sotto ancora guanti di lana, e poi slitte cariche e ingombranti. Hanno una missione, un’impresa, un sogno, un’ambizione, che poi è un’ossessione, un incubo, una solitudine: raggiungere il luogo che non c’è, un’idea di luogo, l’idea di un luogo, una metafora geografica, il cuore del deserto di ghiaccio. Raggiungerlo e piantarci una bandiera. Arrivarci per primi e poi tornare. Anche tornare, vogliono, questa è l’ambizione.Non ci riescono. Muoiono. E passano alla storia. E la storia passa su di loro. Passando su di loro, inchiodandoli nel ghiaccio, li restituisce immortali. Si chiamano Scott, Wilson, Bowers, Oates, Evans. Dal gennaio 1911 al marzo 1912, insieme a un’altra quindicina di uomini si sono trasferiti a Sud, all’estremo Sud, in Antartide, per cercare di conquistare il Polo. Ma come si può conquistare il nulla? E infatti è il nulla a conquistare loro, se li prende e li trascina con sé.Robert Falcon Scott è l’inglese arrivato il mese dopo, il 17 gennaio 1912. Prima di lui, il 15 dicembre 1911, nel centro del nulla aveva piantato tenda e bandiera il norvegese Roald Amundsen, e gli aveva lasciato anche una lettera personale. Anche Scott lascia una lettera, ma è una Lettera al pubblico. La scrive nella tenda in cui muore di freddo e di fame. Sulla via del ritorno. Stremato dai ricordi e dagli errori.Di freddo, di fame e di stenti sono già morti i quattro compagni che hanno provato l’ultimo attacco al Polo, i prescelti, dopo che tutti gli altri, a poco a poco, in varie occasioni, sono stati rimandati al campo base: Edward Adrian Wilson, dolce sguardo misuratore, esperto di alambicchi e pozioni; Henry Bowers, capitano della Indian Navy, che sapeva fare quasi tutto; Lawrence Oates, capitano dei dragoni, zoppo, costruttore di pessimismo; Edgard Evans, marinaio, il gigante che sembrava indistruttibile. Gli altri compagni si sono salvati – se ci può essere salvezza, in fondo.La Lettera di Scott è il resoconto di un viaggio solitario durante il quale gli esploratori si perdettero. Queste parole, così come le stringate definizioni degli uomini della spedizione, così come una straordinaria poesia che ha forza epica e narrativa, le trovi nell’Ultimo parallelo di Filippo Tuena: non un romanzo, non un saggio, non un’indagine storica, ma un bel modo per non fare passare il tempo e viverlo, non spenderlo, ma guadagnarlo attraverso una storia emozionante e una scrittura alta.Quasi prendi gli occhi di colui che procede incappucciato avvolto in un mantello bruno, l’uomo in più, quello che gli esploratori, al limite insopportabile della fatica, credono di scorgere al proprio fianco, la loro ombra silenziosa. Che è poi la voce narrante di questa storia.
Quasi diventi gli occhi di Edward Atkinson, chirurgo di marina, che ha raggiunto i cadaveri degli amici e per primo ha letto i loro diari. Come lui, l’uomo della riserva, tu leggi per primo i loro diari attraverso l’Ultimo parallelo. Sono le parole e la storia dei vinti, ma non sconfitti, di quelli che stanno sempre sulla battigia fra oblio e memoria. Ma quando ci arrivi anche solo una volta, alle loro imprese, al loro destino, non li dimentichi più. È il miglior regalo che ti possa fare un libro: dare la struggente sensazione di essere scritto per te.

Gian Luca Favetto 

da Diario 

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