LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Daniela Sessa http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 DI-VERSI IRREQUIETI: Il volo di Franco Battiato http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/05/18/di-versi-irrequieti-il-volo-di-franco-battiato/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/05/18/di-versi-irrequieti-il-volo-di-franco-battiato/#comments Tue, 18 May 2021 17:00:52 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8798 La nuova puntata di “Di-versi irrequieti“, spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine, è dedicata a Franco Battiato (che ci ha lasciati oggi, 18 maggio 2021)

* * *

Il volo di Franco Battiato

di Daniela Sessa

All’alba Franco Battiato ha lasciato la vita. Nell’ora in cui la natura si risveglia: il cielo assiste alla fuga del buio e al primo canto e volo degli uccelli. E me lo immagino, Battiato, con la sua esile figura, il naso adunco, le braccia lunghe come ali, il sorriso evanescente e beffardo che si perde nell’infinito. Alla ricerca della sua nuova casa o di una forma diversa.

Volano gli uccelli volano
Nello spazio tra le nuvole
Con le regole assegnate
A questa parte di universo
Al nostro sistema solare

Aprono le ali
Scendono in picchiata, atterrano
Meglio di aeroplani
Cambiano le prospettive al mondo
Voli imprevedibili ed ascese velocissime
Traiettorie impercettibili
Codici di geometria esistenziale

Ha aperto le ali ed è salito in picchiata. La metafisica di Battiato è geometria esistenziale. Se l’universo è il tutto quanto, se è l’infinito che abbraccia il finito, il pensiero e il pentagramma e la parola di Franco Battiato sono quell’abbraccio. Nella sua vicenda di musicista e di poeta, Battiato ha tracciato linee dritte tra il qui e l’altrove.

Questo sentimento popolare
Nasce da meccaniche divine
Un rapimento mistico e sensuale
Mi imprigiona a te.
Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri
Non accontentarmi di piccole gioie quotidiane
Fare come un eremita
Che rinuncia a sé.

Emanciparmi dall’incubo delle passioni
Cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male
Essere un’immagine divina
Di questa realtà.

La morte come passaggio. La ricerca della Luce come desiderio. La musica come armonia cosmica e intima. Il vertice della sua poesia cosmica

Ne abbiamo attraversate di tempeste
E quante prove antiche e dure
Ed un aiuto chiaro da un’invisibile carezza
Di un custode.
Degna é la vita di colui che é sveglio
Ma ancor di più di chi diventa saggio
E alla Sua gioia poi si ricongiunge
Sia Lode, Lode all’Inviolato.
E quanti personaggi inutili ho indossato
Io e la mia persona quanti ne ha subiti
Arido é l’inferno
Sterile la sua via.
Quanti miracoli, disegni e ispirazioni…
E poi la sofferenza che ti rende cieco
Nelle cadute c’é il perché della Sua Assenza
Le nuvole non possono annientare il Sole
E lo sapeva bene Paganini
Che il diavolo é mancino e subdolo
E suona il violino
.

Il violino che gli insegnò Giusto Pio. Misticismo non ascetismo: farsi carico della vita come sacralità. Ecco perché il sufismo, la corrente mistica che incantò Francesco nel suo viaggio in Medio Oriente e lo incatenò alla lana ruvida del suo saio. La stessa lana che ruota intorno al corpo dei dervisci, che ruotando celebrano l’unione con Dio.

Voglio vederti danzare
Come le zingare del deserto
Con candelabri in testa
O come le balinesi nei giorni di festa

Voglio vederti danzare
Come i Dervisci Tourners
Che girano sulle spine dorsali
O al suono di cavigliere del Katakali

E gira tutt’intorno la stanza
Mentre si danza, danza
E gira tutt’intorno la stanza
Mentre si danza

Gira la stanza, e girano le note. Da questa mattina girano nella testa e nelle orecchie di una generazione che di Battiato ha amato il cinghiale bianco e la paloma, che ha sventolato la bandiera bianca arrendendosi a questa povera patria. Che ha raggiunto la prospettiva Nevski e quel maestro “che ha insegnato l’alba dentro l’imbrunire”: lo svelamento della Bellezza (Arte ed Eterno) che come Battiato l’ha detto solo Dante di Brunetto Latini.

C’è un Battiato che ha viaggiato dentro la musica nobilitando il pop con la sperimentazione elettronica e dentro la musica classica e sinfonica. Un eclettismo cui non sfuggivano i testi in cui l’ironia si condensava nelle immagini evocative e ardite negli accostamenti, fino all’affastellarsi di concetti filosofici. L’incontro con Manlio Sgalambro arricchì un’ispirazione poetica di eco fortemente leopardiana e della poesia francese, senza dimenticare i versi del proemio dell’Iliade impastati a quell’inglese, che non ci servirà il giorno della fine. Sgalambro, Baudelaire e Battiato:

Ti invito al viaggio
In quel paese che ti somiglia tanto
I soli languidi dei suoi cieli annebbiati
Hanno per il mio spirito l’incanto dei tuoi occhi
Quando brillano offuscati
Laggiù tutto è ordine e bellezza
Calma e voluttà
Il mondo s’addormenta in una calda luce
Di giacinto e d’oro
Dormono pigramente i vascelli vagabondi
Arrivati da ogni confine
Per soddisfare i tuoi desideri

Forse laggiù è davvero luce e bellezza, calma e voluttà. Quaggiù oggi resta solo la nostalgia.

Questa piccola rubrica di poesia rende omaggio a Franco Battiato

* * *

[I versi sono tratti nell’ordine da “Gli uccelli”, “E ti vengo a cercare”, “Lode all’Inviolato”. “Voglio vederti danzare”, “Invito al viaggio”]

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DI-VERSI IRREQUIETI: Amelia Rosselli, poeta libellula http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/21/di-versi-irrequieti-amelia-rosselli-poeta-libellula/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/21/di-versi-irrequieti-amelia-rosselli-poeta-libellula/#comments Wed, 21 Apr 2021 06:00:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8768 La nuova puntata di “Di-versi irrequieti“, spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine, è dedicata ad Amelia Rosselli

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Amelia Rosselli, poeta libellula

di Daniela Sessa

Non ne vogliano i pasdaran della grammatica, se questa rubrica chiama Amelia Rosselli (e lo farà con tutte le altre scrittrici di versi che deciderà di raccontare) poeta e non poetessa. Nella fragile e burbera Amelia la poesia s’accampò come assoluto declinare dell’esistenza. Amelia Rosselli fu un’apolide del verso: lo incarnò nella musica (era una studiosa di musicologia) in un mutuo simbolismo dei metri, lo dispiegò tra i gangli della sua malattia (la diversità del suo stare al mondo tra depressione e schizofrenia fu di-versità), lo rese materico e incorporeo assieme quasi per eludere il destino.  “La libellula” è il poema che la rese celebre e cui affidò la metafora biografica e intellettuale. Libertà ed equilibrio, evocati dal leggendario insetto, sono i due confini entro cui si mosse la vita di Amelia Rosselli. Nata a Parigi nel 1930 da Carlo Rosselli e dall’inglese Marion Cave, Amelia assume su di sé una tragedia familiare (l’assassinio del padre e dello zio Nello per ordine di Mussolini nel 1937) senza una precisa consapevolezza della tragedia politica, assente nelle sue poesie. Il piglio di Montale è anche qui, nel metabolizzare la storia dentro la condizione umana. Le sedute di psicoanalisi, l’identificazione con la madre, l’ingombro forse della figura volitiva della nonna (quell’Amelia Rosselli con cui l’adolescente Moravia tenne un carteggio interessante e da riscoprire), la ricerca del padre negli uomini che volle – Carlo Levi e Renato Guttuso -, l’amicizia imberbe con Rocco Scotellaro, la specularità con Sylvia Plath che ne detta forse anche il suicidio a soli 66 anni. Un movimento sperimentale intorno a se stessa che Amelia Rosselli riprende proprio nell’opera “La libellula”, cominciata nel 1958 e poi inserita in “Scritti ospedalieri” del 1966.  Sperimentale se Amelia Rosselli, prima di abdicare al verso libero, senza poi contrapporvi un verso nuovo né tornare al metro classico, lo adottò nel poema come elemento fisico costruito sulle parole e non sulle sillabe (il cubo teorizzato in “Spazi metrici”) e sull’immagine del giro.

“La libellula (Panegirico della libertà)”

Fluisce tra me e te nel subacqueo un chiarore
che deforma, un chiarore che deforma ogni passata
esperienza e la distorce in un fraseggiare mobile,
distorto, inesperto, espertissimo linguaggio
dell’adolescenza! Difficilissima lingua del povero!
rovente muro del solitario! strappanti intenti
cannibaleschi, oh la serie delle divisioni fuori
del tempo. Dissipa tu se tu vuoi questa debole
vita che non si lagna. Che ci resta. Dissipa
tu il pudore della mia verginità; dissipa tu
la resa del corpo al nemico. Dissipa tu la mia effige,
dissipa il remo che batte sul ramo in disparte.
Dissipa tu se tu vuoi questa dissipata vita dissipa
tu le mie cangianti ragioni, dissipa il numero
troppo elevato di richieste che m’agonizzano:
dissipa l’orrore, sposta l’orrore al bene. Dissipa
tu se tu vuoi questa debole vita che si lagna,
ma io non ti trovo e non so dissiparmi. Dissipa
tu, se tu puoi, se tu sai, se ne hai il tempo
e la voglia, se è il caso, se è possibile, se
non debolmente ti lagni, questa mia vita che
non si lagna. Dissipa tu la montagna che m’impedisce
di vederti o di avanzare; nulla si può dissipare
che già non sia sfiaccato. Dissipa tu se tu
vuoi questa mia debole vita che s’incanta ad
ogni passaggio di debole bellezza; dissipa tu
se tu vuoi questo mio incantarsi, – dissipa tu
se tu vuoi la mia eterna ricerca del bello e
del buono e dei parassiti. Dissipa tu se tu puoi
la mia fanciullaggine; dissipa tu se tu vuoi,
o puoi, il mio incanto di te, che non è finito:
il mio sogno di te che tu devi per forza assecondare,
per diminuire. Dissipa se tu puoi la forza che
mi congiunge a te: dissipa l’orrore che mi ritorna
a te. Lascia che l’ardore si faccia misericordia,
lascia che il coraggio si smonti in minuscole
parti, lascia l’inverno stirarsi importante nelle
sue celle, lascia la primavera portare via il
seme dell’indolenza, lascia l’estate bruciare
violenta e incauta; lascia l’inverno tornare
disfatto e squillante, lascia tutto – ritorna
a me; lascia l’inverno riposare sul suo letto
di fiume secco; lascia tutto, e ritorna alla
notte delicata delle mie mani. Lascia il sapore
della gloria ad altri, lascia l’uragano sfogarsi.
Lascia l’innocenza e ritorna al buio, lascia
l’incontro e ritorna alla luce. Lascia le maniglie
che coprono il sacramento, lascia il ritardo
che rovina il pomeriggio. Lascia, ritorna, paga,
disfa la luce, disfa la notte e l’incontro, lascia
nidi di speranze, e ritorna al buio, lascia credere
che la luce sia un eterno paragone.

Nella poesia lo spostamento della posizione anaforica crea il giro come vortice sonoro ed esistenziale al tempo stesso, esaltato da una punteggiatura immeditata come un singhiozzo dell’anima. Una poesia d’amore dove ancora una volta si sente l’eco del secondo e terzo Montale, quello dell’anguilla e del visiting angel.

E se il mare che
fu quella lontana bestia nascosta mi dicesse
cos’è che fa quel gran ansare, gli risponderei
ma lasciami tranquilla, non ne posso più della
tua lungaggine. Ma lui sa meglio di me quali
sono le virtù dell’uomo. Io gli dico che è più
felice la tarantola nel suo privato giardino,
lui risponde ma tu non sai prendere. Le redini
si staccano se non mi attengo al potere della
razionalità lo so tu lo sai lo sanno alcuni ma
ugualmente la cara tenda degli scontenti a volte
perfora anche i miei sogni. E tu lo sai. E io
lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su
de le mie spalle e ride e sputa come una vecchia
fattucchiera, e nemmeno io so dove è che debbo
prendere il tram per arricchire i tuoi sogni,
e le mie stelle. Ma tu vedi allora che ho perso
anche io le leggiadre risplendenti capacità di
chi sa fregarsene. Debbo mangiare. Tu devi correre.
Io debbo alzar. Tu devi correre con la coda penzoloni.

Qui le immagini “della tarantola nel suo privato giardino” e dell’insoffribile “lungaggine” del mare sono variazioni musicali camuffate e nello stesso tempo confliggenti stati emotivi: “io non so se io rimo per incanto o per travagliata/pena” scriverà più avanti Amelia Rosselli. Ed è questa una dichiarazione di poetica che tanto dovette piacere a Pier Paolo Pasolini poeta. Pasolini che definì il linguaggio di Rosselli “così potentemente amorfo, così oggettivamente superbo”, Pasolini che ispirò con “Le ceneri di Gramsci” la forma poema di “La libellula”, Pasolini che c’è in questi versi:

E tu sedevi sicuro sul tuo ponte da falegname,
sicuro di ritrovarti nell’infinito. Io ne ho
perso le vie. Tu ancora ti dibatti: io non posso
più ricordare d’esistere. La miscela è troppo
fine: il ricordo è troppo tagliente: l’incastro
è troppo vivido. La luna (ed ora oso vederla)
è troppo triste. La luna pende. Io muoio. Gli
uccelli si dibattono. La malattia non ha diritto
d’esistere. L’uccellaccio ti rincorre. Io vomito.
Io, tu – no. Ed enormi pinete attendono, in riva,
ed enormi flutti di mare; ed enormi stesure di
sabbie, stancate e scoperte, calanti al di fuori
della città che le ricorda. Topo d’inferno, topo
tropicale, topo d’incontentabile seduzione; topo
orizzontale topo sbiancato nella memoria, impadronitosi
delle mie forze. Topo arcigno e spietato. Sapiente
topo; mercato di topi. Lunga notte di topi. Mercato
di topi e di ferramenta. Io sono grande e piccola
insieme: le vostre furie mi toccano e non mi
toccano. La mia malattia è diversa dalla vostra,
il mio santuario non è quello di Cristo, e lo
è anche, forse, se troppo insidia la spada alle
mie spalle.

Come ci sono gli “spasmodici trucchi di radianza” di Sylvia Plath tradotti da Amelia Rosselli (la poesia è Black Rook in Rainy Weather).

La vita poetica di Amelia Rosselli può essere letta in mille modi, come esige un classico della letteratura (per quanto valga – ahimè – ancora la categoria di classico) passando, oltre ai legami con Montale e  Dino Campana,  dalla produzione in lingua francese e inglese che riflette anche la babele linguistica della sua famiglia, alle frequentazioni con il Gruppo ’63 fino a Dario Bellezza, poeta erotico e turbante, cui Rosselli fu legata, nella vita e nella morte e nel destino di poeti trascurati in vita e celebrati dopo la morte.

E sulle loro labbra come per ragazzi ride
la beffa, la noia e l’angoscia. La noia, la beffa!
L’orrendo macinare grano tra spighe smorte

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DI-VERSI IRREQUIETI: Lucio Piccolo – poeta http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/21/di-versi-irrequieti-lucio-piccolo-poeta/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/21/di-versi-irrequieti-lucio-piccolo-poeta/#comments Sun, 21 Mar 2021 09:24:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8742 La prima puntata di “Di-versi irrequieti“, spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine, è dedicata a Lucio Piccolo

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di Daniela Sessa

Il Novecento in poesia è il luogo della rarefazione della parola. L’osso di seppia montaliano non è solo scarnificazione del verbum ma condensa in sé ogni rivolgimento e stravolgimento del rapporto suono e senso, verità e simbolo. La lirica novecentesca fu antilirica e liricissima assieme: sferzò il tempo con parole crude e fissò il tempo nella ungarettiana “quiete accesa”. Un poeta del ‘900 fu Lucio Piccolo. Poeta riservato e coltissimo, relegato in una nicchia fatta di diffidenza verso i suoi spettri e le sue manie, mai davvero entrato nel consesso dei letterati con la maiuscola. Seppure pare lo desiderasse. Di Lucio Piccolo si raccontano la stirpe nobiliare, le ironie del cugino Tomasi di Lampedusa verso quel poeta strambo e filosofo, la passione per lo spiritismo (condiviso con il fratello Casimiro) e per la relatività di Einstein. Lucio Piccolo si rifugiò nel Barocco (Villa Piccolo è assieme scrigno e materia di quella scelta) quando esplodevano le avanguardie e rievocò un crepuscolarismo di ritorno. Lo studio della musica si riversò nei suoi versi come attenzione alle pause e agli inarcamenti, a una sonorità che mai si mischiò con la tradizione del fonosimbolismo. Perché i suoi simboli, arcaici e ancestrali, scaturivano dall’oscurità e così si consegnavano alla pagina.

Dedico la Giornata mondiale alla poesia a Lucio Piccolo. Ecco alcune delle sue liriche. Che come tutte le liriche vanno lette e non spiegate, ascoltate e non analizzate. Ogni esercizio diverso dal viaggio sensoriale, snatura la poesia invece di celebrarla.  Le liriche sono tratte da “Canti barocchi”, la raccolta del 1956 in cui Piccolo voleva “rievocare un mondo siciliano sulla soglia della propria scomparsa…e anime adeguate a questi luoghi” e da “Plumelia” del 1967 la raccolta del viaggio iniziatico, tranne “La notte” tratta da “Gioco a nascondere”

Mobile universo di folate

Mobile universo di folate
di raggi, d’ore senza colore, di perenni
transiti, di sfarzo
di nubi: un attimo ed ecco mutate
splendon le forme, ondeggian millenni.
E l’arco della porta bassa e il gradino liso
di troppi inverni, favola sono nell’improvviso
raggiare del sole di marzo.

Il raggio verde

Da torri e balconi protesi
incontro alle brezze vedemmo
l’ultimo sguardo del sole
farsi cristallo marino
d’abissi… Poi venne la notte
sfiorarono immense ali
di farfalle: senso dell’ombra.
Ma il raggio che sembrò perduto
nel turbinio della terra
accese di verde il profondo
di noi dove canta perenne
una favola, fu voce
che sentimmo nei giorni, fiorì
di selve tremanti il mattino.

Voce umile e perenne

Voce umile e perenne
sommesso cantico
del dolore nei tempi,
che ovunque ci giungi
e ovunque ci tocchi,
la nostra musica è vana
troppo grave, la spezzi;
per te solo vorremmo
il balsamo ignoto, le bende…
ma sono inchiodate
dinnanzi al tuo pianto le braccia
non possiamo che darti
la preghiera e l’angoscia.

La notte

La notte si fa dolce talvolta,
se dalla cerchia oscura
dei monti non leva alito di frescura
perché non sòffochi, ai muri vicini apre corimbo di canti,
sale coi rampicanti pei lunghi archi,
alle terrazze alte, ai pergolati, al traforo
dei mobili rami segna garofani d’oro,
segreti fievoli coglie ai fili d’acqua sui greti
o muove i passi stanchi
dove l’onde buje si frangono ai moli bianchi.
Subito allo schermo dei sogni
soffia in vene vive volti già cenere, parole àfone…
muove la girandola d’ombre:
sulla soglia, in alto, ogni dove
vacuo vano, andito grande tende a forme,
sguardo che muove le prende,
sguardo che ferma le annulla.
Riverberi d’echi, frantumi, memorie insaziate,
riflusso di vita svanita che trabocca
dall’urna del Tempo, la nemica clessidra che spezza,
è bocca d’aria che cerca bacio, ira,
è mano di vento che vuole carezza.
Alle scale di pietra, al gradino di lavagna,
alla porta che si fende per secchezza
è solo lume l’olio quieto;
spento il rigore dei versetti a poco a poco
il buio è più denso – sembra riposo ma è febbre;
l’ombra pende al segreto
battere d’un immenso
Cuore
di fuoco.

PLUMELIA

L’arbusto che fu salvo dalla guazza
dell’invernata scialba
sul davanzale innanzi al monte
crespo di pini e rupi – più tardi, tempo
d’estate, entra l’aria pastorale
e le rapisce il fresco la creta
grave di fonte – nelle notti
di polvere e calura
ventosa, quando non ha più voce
il canale riverso, smania
la fiamma del fanale
nel carcere di vetro e l’apertura
sconnessa – la plumelia bianca
e avorio, il fiore
serbato a gusci d’uovo su lo stecco,
lascia che lo prenda
furia sitibonda
di raffica cui manca
dono di pioggia,
pure il rovo ebbe le sue piegature
di dolcezza, anche il pruno il suo candore.

Scirocco

E sovra i monti, lontano sugli orizzonti
è lunga striscia color zafferano:
irrompe la torma moresca dei venti,
d’assalto prende le porte grandi
gli osservatori sui tetti di smalto,
batte alle facciate da mezzogiorno,
agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni,
schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate,
i pergolati scuote, le tegole vive
ove acqua di sorgive posa in orci iridati,
polloni brucia, di virgulti fra sterpi,
in tromba cangia androni,
piomba su le crescenze incerte
dei giardini, ghermisce le foglie deserte
e i gelsomini puerili – poi vien più mite
batte tamburini; fiocchi nastri…

Ma quando ad occidente chiude l’ale
d’incendio il selvaggio pontificale
e l’ultima gora rossa si sfalda
d’ogni lato sale la notte calda in agguato.

Fu Montale a scoprire Lucio Piccolo.  Vincenzo Consolo lo chiamò il barone magico. Natale Tedesco lo raccontò meglio di chiunque altro quando scrisse che la poesia di Lucio Piccolo era “un sogno ancora caldo della vita, ma che vita non è più”.

* * *

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DI-VERSI IRREQUIETI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/21/di-versi-irrequieti/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/21/di-versi-irrequieti/#comments Sun, 21 Mar 2021 09:21:28 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8740

Inauguriamo questo nuovo spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine. Si intitola “Di-versi irrequieti” e sarà curato da Daniela Sessa: «la rubrica si intitola così perché vuole raccontare la poesia come forma diversa ossia varia per autori, ispirazione e forme. La poesia è irrequieta come lo sciame di un verso di Montale (il mio poeta preferito) e sarà irrequieta questa rubrica che a volte ospiterà recensioni, a volte versi e basta, a volte darà la parola ai poeti. Seguiteci e siate irrequieti con noi».

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MARCO TULLIO GIORDANA. UNA POETICA CIVILE IN FORMA DI CINEMA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/07/12/marco-tullio-giordana-una-poetica-civile-in-forma-di-cinema/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/07/12/marco-tullio-giordana-una-poetica-civile-in-forma-di-cinema/#comments Thu, 12 Jul 2018 17:14:03 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7871 Nella nuova puntata di Letteratitudine Cinema ci occupiamo del volume “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” di Marco Olivieri e Anna Paparcone (Rubettino). Di seguito, un’intervista all’autore

* * *

L’intervista. Fare cinema, fare letteratura. Intervista a Marco Olivieri sul libro Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema

di Daniela Sessa

Marco Olivieri scrive di cinema, quello cosiddetto d’impegno civile e, se è concesso, anche estetico. Di Roberto Andò il cui cinema incarna il mistero di esistenze e di memorie risolte da una macchina da presa raffinata e suggestiva. Di Marco Tullio Giordana che ritrae “Pezzi di storia densi di ambiguità e dal fascino perverso, spesso rimossi da una realtà nazionale che tende a rifiutare ciò che appare sgradevole o non pacificato”. Un giudizio, questo, su “Sangue pazzo” da estendere a tutta la concezione della scrittura e della regia di Giordana. Marco Olivieri ha pubblicato un saggio sul cinema di Roberto Andò, “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” ora in ristampa per Kaplan, ed è in libreria con “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino), scritto con Anna Paparcone della Bucknell University negli Stati Uniti (ha scritto saggi anche su Pasolini, Garrone, Pif e Quatriglio) e con i suggerimenti di Christian Uva, direttore della Collana Cinema di Rubbettino. Il libro di Olivieri ripercorre la cinematografia di Giordana dagli esordi nel 1980 con “Maledetti vi amerò” fino a “Lea” -film per la televisione-, passando attraverso i capolavori del cinema d’impegno: “I cento passi”, “Romanzo di una strage”, “La meglio gioventù”, “Sanguepazzo”, “Quando sei nato non puoi più nasconderti”, solo per citarne alcuni. Dal lavoro di Olivieri e Paparcone emerge tutta la cifra del cinema di Giordana teso tra memoria e letteratura, volto a indagare i misteri della storia italiana, a filmare la storia di una nazione molto spesso racchiusa dentro conformismo e ideologie asfittiche, un Paese (come si legge nella premessa) “condannato all’incompiutezza”. Al centro Pasolini, un personaggio che portava in sé il dramma: di uomo, di poeta, di regista, di intellettuale. Interessante nel libro è il rapporto tra il regista e Pasolini, un rapporto ambivalente fatto anche di tensioni e prese di distanza. Non è solo l’analisi su “Pasolini, un delitto italiano”, il film del 1995 che ricostruisce le indagini sul delitto e la risonanza mediatica dello stesso come “scatenamento dell’interpretazione”. Pasolini è il coprotagonista del libro: recuperarne la memoria è per Giordana, e forse per gli stessi autori, “una forma di resistenza…rispetto a un clima di anestesia politica e morale”, è riflettere sulla morte come “montaggio della vita”. Il libro di Olivieri e Paparcone ha il pregio di una scrittura lucida, talvolta didascalica come si addice a un lavoro saggistico, rigorosamente analitica e precisa nell’idea di fondo che il cinema di Giordana -come quello di Andò- sia letteratura per immagine, storia per immagine. Due citazioni letterarie per tutte: la bambina pascoliana del film di esordio e la citazione di “Supplica a mia madre” di Pasolini. Le immagini della storia sono quelle dalla Resistenza di “Notti e nebbie” (da un romanzo di Carlo Castellaneta) alle mafie e ai  testimoni di giustizia. E’ qui che il cinema di Giordana rivela il significato del suo impegno “dar voce non tanto alla Storia, ma alle storie, quelle dei vincitori ma anche dei vinti, perché è solo in questo modo che si può rimettere in moto la possibilità della convivenza”. Abbiamo posto a Marco Olivieri alcune domande sul libro.

-Il libro su Giordana è scritto a quattro mani. Racconta la genesi del libro?
Ho conosciuto Marco Tullio Giordana in occasione della presentazione del mio volume dedicato alla filmografia di Roberto Andò. Subito maturò in me l’idea di avviare un nuovo progetto che esplorasse i capitoli più noti e quelli meno conosciuti realizzati. È stato proprio lui a segnalarmi una studiosa che stimava, Anna Paparcone, che insegna alla Bucknell University negli Stati Uniti, era in procinto di dedicarsi a un’analisi approfondita delle sue opere. Ci siamo trovati d’accordo di scrivere un libro sul cinema di Giordana che ne esplorasse gli aspetti tecnici, estetici e tematici e capace di diventare punto di riferimento sia in Italia sia negli Stati Uniti. Il lavoro insieme, grazie ai continui confronti via Skype, è stato proficuo e ci siamo avvalsi dei suggerimenti di Christian Uva, direttore della Collana Cinema di Rubbettino.

-Tra le tante definizioni e riflessioni sul cinema di Marco Tullio Giordana vi è quella di Giovanni Grazzini che sul modo di esporre la storia da parte di Giordana afferma “Giordana non vuole scordarsi di essere un cinefilo”. Concorda con quest’affermazione? Chi è il cinefilo Giordana?
Giordana è un regista che s’inserisce in una tradizione significativa, non a caso abbiamo dedicato il libro alla memoria di Francesco Rosi. Possiamo definire la sua una vera cinefilia, con passioni che si estendono da Rossellini e De Sica a Loach e i Dardenne, senza dimenticare Bellocchio e Amelio. Da qui la nostra analisi serrata delle componenti tecniche e filmiche che caratterizzano il suo mondo per immagini: dall’amore iniziale per la pittura all’apporto di elementi melodrammatici e a una ricerca creativa sull’essenza di ogni inquadratura.

-Cinema e Letteratura, Giordana e Pier Paolo Pasolini. Cosa è stato questo connubio o cosa sarà?
Sin dal titolo, evochiamo Pasolini e, nel libro, s’indaga in profondità sulla dialettica che investe il cinema di Giordana e la letteratura e sul suo rapporto costante con i vari aspetti della personalità di Pasolini, anche del regista Pasolini, con il quale Marco Tullio si confronta a volte direttamente e a tratti in maniera implicita. Scriviamo «la sua poetica civile in forma di cinema contempla le dimensioni familiari e affettive, consce e inconsce, fondendole in una relazione vitale con la collettività, la storia, la politica, la letteratura, la poesia e la musica».  Così ci siamo sforzati di analizzare le relazioni fra immagine e scrittura e il continuo richiamo alla figura pasoliniana, vista non in modo agiografico ma funzionale a sollecitare pensieri e interrogativi sull’Italia e le sue irresolutezze.

-Il cinema di Giordana, e quello di Andò, è oggetto del suo studio. Quanto sono diversi i due registi nell’uso della macchina da presa? Sebbene nel modo di illuminare i primi piani appaiono simili…
Sì, sono due autori profondamente differenti e, di conseguenza, il loro uso della macchina da presa, come del montaggio e delle musiche o della sceneggiatura, corrisponde a suggestioni e ispirazioni, se non antitetiche, comunque davvero diverse. Nei primi e primissimi piani, potremmo cogliere, pur nelle differenze già evidenziate, vicinanze con l’idea di Bergman sui volti come rivelazione dell’anima, oltre alle affinità nel rapporto tra scrittura e cinema che possono vantare, sul piano delle radici, punti in comune con autori quali Truffaut, ad esempio. In relazione al cinema di Andò, ho approfondito gli elementi romanzeschi delle sue storie per immagini: romanzesco come «opzione dell’immaginazione che insegue l’aspetto congetturale della vita, quella zona che si colloca tra i fantasmi del passato e il non detto», come ricorda il regista palermitano. Nel libro sul cinema di Giordana, invece, io e Anna Paparcone abbiamo analizzato altre sfaccettature, come il rapporto dialettico che mette in gioco realtà e ricostruzione filmica. Crediamo che il cinema di Giordana adotti un approccio di tipo “realista” ma che allo stesso tempo non si astenga dal proporre momenti in cui emerge un certo cinema di genere, di intrattenimento o di metanarrazione sul cinema stesso. Non mancano, nei suoi film, scene di pura invenzione e di finzione che non trovano riscontri nella realtà storica analizzata. In questo senso, come si legge nel libro, si accolgono con favore le riflessioni di studiosi come Millicent Marcus e Pierpaolo Antonello che, in recenti dibattiti, hanno sostenuto la possibilità di coesistenza nello stesso prodotto artistico di categorie antitetiche come quella del realismo e del postmodernismo.”

-Il cinema di Giordana è d’impegno civile, dove l’impegno, come affermate nel saggio, coincide con la capacità di porre domande e non di dare soluzioni, un cinema non timido né reticente. Si pensa soprattutto a “I cento passi” e “Lea”, e anche il lavoro per la televisione che è mezzo generalista per eccellenza. Questo investe in un certo senso il ruolo dell’intellettuale?
Questo elemento investe decisamente il ruolo dell’intellettuale e la sua capacità, questa sì pasoliniana, di porre domande scomode e analisi non convenzionali e di alimentare un dubbio utile per interrogare la realtà. Non a caso citiamo Gustavo Zagrebelsky quando osserva che «al di là delle apparenze, il dubbio non è affatto il contrario della verità. In certo senso ne è la riaffermazione, è un omaggio alla verità». Il dubbio contiene un elogio della verità, ma di una verità che ha sempre di nuovo da essere esaminata e riscoperta. Così l’etica del dubbio non è contro la verità, ma contro la verità dogmatica, che è quella che vuole fissare le cose una volta per tutte e impedire o squalificare quella cruciale domanda: di questo si occupa pure il cinema di Giordana, compresa l’assenza di un atteggiamento snobistico nei confronti del mezzo televisivo, fondamentale per incidere sulla realtà.

-Scrivere di cinema. Si nota, anche nel suo saggio su Roberto Andò, come la scrittura riesca a far vedere il film…
Prima di tutto credo che la mia scrittura risenta della passione per letteratura e cinema e sono felice se sono riuscito a far percepire sensazioni legate alla visione e alla mia interpretazione di questi film. I due saggi, su Andò e su Giordana, manifestano l’intenzione di coniugare passione e competenza scientifica con una scrittura che possa coinvolgere anche i non addetti ai lavori. Se l’esperimento è riuscito, sono soddisfatto.

-Gli elementi cinematografici di Giordana: la fotografia e le musiche
Considerando la fotografia, si può sostenere che Giordana valorizzi il ruolo del cinema stesso come strumento di potenziale accesso all’anima dei suoi spettatori, coinvolti da una storia che investe l’interiorità e i destini umani e sentimentali di personaggi ai quali in molti si sono affezionati. Questo riguarda La meglio gioventù ma, in generale, la sua filmografia. Ogni scelta cromatica, pensiamo alla fotografia di Roberto Forza, è frutto di intuizioni e ispirazioni artistiche e non manca un confronto intenso che coinvolge immagini e motivi musicali. L’elemento sonoro rappresenta una lente deformante e a volte ingrandente, che mette in contatto con una dimensione altra, lirica o astratta, nei suoi film, musiche non originali e composizioni originali, dal melodramma alle canzoni.

-Una provocazione: Andò e Giordana, quale cinema preferisce e quale dei due racconta meglio la contemporaneità?
In forma esplicita o implicita, ogni autore si confronta con la contemporaneità. Da parte mia, sono grato a entrambi per lo scambio intellettuale che si è creato e penso che, esplorando il loro cinema, possano emergere dettagli e chiavi di lettura preziosi per esaminare questo presente inquieto, in un ponte che lega Storia, passato, memoria (spesso non elaborata o rimossa), presente, individui e massa, interiorità e inconscio collettivo. In generale apprezzo come Andò e Giordana si pongano nel solco della tradizione di Luchino Visconti.

-“Nome di donna” è l’ultimo film di Giordana, uscito nelle sale a marzo e non compreso nel vostro saggio, è stato un insuccesso di critica e botteghino. Quando l’impegno civile diventa retorica?
In una futura edizione aggiornata, analizzeremo Nome di donna e l’inedito Due soldati, girato per la Rai. Nella storia di ogni regista, ci sono film accolti meglio e altri meno bene. Noi, nel volume, ci siamo confrontati ad esempio con il mondo accademico anglosassone e statunitense, che ha sempre riservato attenzioni al suo cinema, e a volte ci siamo discostati da certe letture e interpretazioni. Nel complesso, direi che un antidoto alla retorica sia l’intenzione da parte di Giordana di tenersi lontano dall’agiografia e dalla narrazione didascalica. Il desiderio artistico è quello d’interrogare lo spettatore senza imporre presunte verità elargite dall’alto.

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L’autore. Giornalista professionista e dottore di ricerca, Marco Olivieri è autore della monografia “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” (Edizioni Kaplan 2013 e 2017), curatore del volume “Le confessioni” (Skira 2016) e, con Anna Paparcone, autore del libro “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino 2017). Critico cinematografico e teatrale, collabora con «la Repubblica» – edizione di Palermo e con il sito www.outsidernews.net, è componente del comitato scientifico di “Carteggi letterari le edizioni”, direttore responsabile del sito www.carteggiletterari.it e ha scritto saggi per la casa editrice Leo S. Olschki e articoli per «Cinema e Storia» di Rubbettino, «il venerdì di Repubblica», «Ciak» e «Doppiozero».

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LADRI DI BICICLETTE di Vittorio De Sica http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/05/15/ladri-di-biciclette-di-vittorio-de-sica/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/05/15/ladri-di-biciclette-di-vittorio-de-sica/#comments Tue, 15 May 2018 17:00:41 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7790 Dedichiamo questa nuova puntata di Letteratitudine Cinema al film “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica: un grande classico del cinema italiano restaurato per la presentazione nella sezione Classici del festival di Cannes (71° edizione dall’8 al 19 maggio)

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LADRI DI BICICLETTE di Vittorio De Sica: se il restauro è memoria  del presente

di Daniela Sessa

Pedinamento: con questa parola il grande Cesare Zavattini sintetizzò il senso dei movimenti della macchina da presa del cinema del Neorealismo e così anche di “Ladri di Biciclette” (1948), il film di Vittorio De Sica, vincitore di un Oscar e restaurato per la presentazione nella sezione Classici del festival di Cannes  (71° edizione dall’8 al 19 maggio).
Risultati immagini per festival cannes 2018 ladri di bicicletteIn “Ladri di biciclette” avviene un pedinamento cioè il rincorrere a piedi, seguire i passi di un altro, cercare di catturarlo.  Nel film chi rincorre sono un padre e un figlioletto che cercano di recuperare la loro bicicletta. Il film è esile nella trama ma complesso nelle suggestioni, di temi e di soluzioni di regia. Quel pedinare quando si parla di cinema del Neorealismo (ancora considerato dai cinefili l’espressione massima e irraggiungibile del cinema italiano: a torto o a ragione?) è metaletteratura o metacinema. È stare alle calcagna dell’oggetto di rappresentazione, è farlo muovere in uno spazio proprio e ristretto (dalla miseria, dall’infelicità, dall’inadeguatezza all’etica del boom economico che il prestito americano pareva garantire oltre che promettere), è preferire la panoramica dal basso nelle scene d’insieme o indietreggiare col carrello fino a cogliere lo scoramento e la disperazione nel piano americano dell’imbianchino Antonio Ricci e del piccolo Bruno, cui De Sica concede più di un primissimo piano, e dettagli sugli occhi, sulle sue lacrime di vergogna asciugate con la manica della giacchetta da finto uomo o dettagli sulle mani che rabbiosamente spolverano il berretto da vero monello, fino a quel taglio sulla mano che stringe d’avvilita alleanza proletaria quella del padre.
Maestro indiscusso del Neorealismo, Vittorio De Sica, che aveva fatto il cinema dei telefoni bianchi, scende per strada e trova Lamberto Maggiorani (Antonio) e Enzo Stajola (Bruno), affida loro il ruolo di coppia drammatica, ammiccando a quell’altra coppia malinconicamente comica che furono Charlie Chaplin e Jackie Coogan in “Il monello”. Non è il furto (lì di un’automobile, qui di una bicicletta), non il girovagare per la città, non l’irrigidimento dei sentimenti tra pietà e affetto né la rappresentazione della povertà, tantomeno l’approccio al tema – un sogno quello di Charlot, la cronaca quella di De Sica –  ma è quel bambino, quei suoi occhi bagnati, spalancati, pudichi, adulti, mortificati su cui i due registi hanno stretto il patto con il pubblico e con la cinepresa.  Appartiene all’aneddotica la cura del montaggio di Chaplin che ridusse 120mila metri di pellicola in poco più di 2mila per incollare la drammaticità del film nella velocità del comico: solo la faccia birbante del suo giovanissimo attore poté permettergli di farlo.  La realtà cinematografica, diremmo. Il cinema che non abbellisce la realtà che anzi è il famoso “spaccato di vita quotidiana” spesso con un sole dell’avvenire rivelatosi nel tempo latitante. Lo stesso realismo letterario che già la narrativa verista, verghiana soprattutto, aveva consegnato alla staticità di una Sicilia irredimibile, arcaica o di più atemporale.  De Sica sostiene che quella realtà bassa, minima, troppo comune anche nei sentimenti abbia “nella macchina da presa il mezzo più adatto per captarla. La sua sensibilità è di questa natura, e io stesso intendo così il tanto dibattuto realismo“. Per questo senso del reale De Sica crea un film in cui il ritmo è alternato tra la velocità di corse e rincorse e di scene di massa alla lentezza dei primi piani sui personaggi.
Risultati immagini per ladri di biciclette locandinaNon solo dei protagonisti, fotografie in bianco e nero di un’umanità disgraziata: il malore del ladro con quella faccia che sarà dei borgatari pasoliniani, la piena figura della santona (una Sibilla rovesciata, esempio di quella cultura ancestrale cui il cinema del neorealismo non fu assolutamente scevro), le dame di carità (le beghine crepuscolari) sono impressioni di pellicola e brandelli di letteratura.  “Ladri di biciclette” è un film di oggetti.  I manifesti cinematografici di Antonio, le gavette dei poveri alla mensa di carità, le lenzuola impegnate al Monte di Pietà, la mozzarella in carrozza che fa il filo, i ricambi ammassati nelle bancarelle di Piazza Vittorio (il film è ambientato a Roma) sembrano feticci. Come la bicicletta, feticcio di un riscatto impossibile. In bicicletta sono andati tanti personaggi in celluloide da Audrey Hepburn in “Vacanze romane” (prima di salire per l’indimenticabile gita in vespa con Gregory Peck) a E.T. del film di Spielberg, da Silvana Pampanini di “Bellezze in bicicletta” alla piccola saudita Wadjda di “La bicicletta verde” di Haifaa Al-Mansour, dal commediografo Molière in un film del 2013 fino all’emozionante “Le biciclette di Pechino” diretto da Wang Xiaoshuai che è un tributo al film di De Sica: schietto realismo per fare il ritratto alla gioventù cinese e alle contraddizioni della Cina. La bicicletta come oggetto magico che si deve riscattare e trovare, come simbolo di una condizione sociale. Così, il film di De Sica ritorna nelle sale e il restauro acquista una valenza maggiore della contingenza artistica. Il restauro è a cura della Cineteca (che si è avvalsa della collaborazione tra gli altri dell’Istituto Luce- Cinecittà  e di Compass Film) ed è stato realizzato dal laboratorio bolognese “L’Immagine Ritrovata”. Un’operazione costosa (intorno ai 100mila euro) e necessaria per salvare uno dei film cult del nostro cinema (in agosto è già stato presentato a Venezia). Ma cult non è una parola granché significativa per dire cosa sia “Ladri di biciclette”, che è l’elegia in chiaroscuro del popolo. Per questa ragione riportare “Ladri di biciclette” alla sua origine (il restauro è in digitale e recupera il bianco e nero) sembra avere il valore di un’operazione culturale di grande attualità. Realistica se per realismo s’intende un meccanismo di verosimiglianza in cui l’oggetto d’arte riflette l’oggetto del mondo. Il mondo di “Ladri di biciclette” è il popolo, lo sguardo di Zavattini e De Sica è disincantato, non ha artificio (la scelta degli attori non professionisti è una scelta di pensiero e di poetica), muove anzi una denuncia. Come fu per il verismo, come è nel suo figlio meticcio, il Neorealismo. Le accuse di paternalismo mosse al cinema di Visconti, Rossellini, De Sica giungono oggi come l’eco falsata e roca del populismo. La bicicletta da materia di straniamento diventa il cane di Pavlov. La bicicletta è il sogno di una stabilità nel lavoro che è stata rubata o ha preso una via di fuga, il sogno del benessere che fu della classe operaia e piccolo borghese degli anni del secondo dopoguerra si è infranto anche adesso. Oggi riguarda tutta la classe media mentre la povertà aumenta, malcelata dietro un astruso entusiasmo verso il futuro dell’economia globale.  Commentando il suo film De Sica chiedeva “Che cos’è infatti il furto di una bicicletta, tutt’altro che nuova e fiammante per giunta? A Roma ne rubano ogni giorno un bel numero e nessuno se ne occupa”.  Se nessuno se ne occupa, ci si arrangia, come nell’amaro finale di questo film e la battuta “nun voglio ‘mpicci, lascialo sta’. Bongiorno a tutti e grazie” con cui si chiude la parentesi da delinquente di Antonio Ricci più che compatimento sembra la consapevolezza della perdita d’innocenza, che è la cifra di “Ladri di biciclette” come fu di “Sciuscià ”la necessità dell’arte di arrangiarsi. L’arte e l’innocenza della povera gente cui manca oggi un cinema che ne sappia davvero raccontare la vita. Ora che anche Ermanno Olmi, l’erede di quel cinema, ci ha lasciato.

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