LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » LEGGERENZA (a cura di Gianni Bonina) http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 LE ANIME MORTE di Nikolàj Vasìl’evič Gogol’ (Leggerenza n. 23) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/05/08/le-anime-morte-di-gogol/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/05/08/le-anime-morte-di-gogol/#comments Sat, 08 May 2021 12:35:36 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8787 imagedi Gianni Bonina

Delle Anime morte di Nikolàj Vasìl’evič Gogol’ non c’è epoca che manchi di parlare di capolavoro e che però sia concorde sul perché della sua grandezza. Sin dalla pubblicazione, il libro fu già in patria oggetto di dispute per via soprattutto dell’immagine che della Russia veniva offerta tra dileggio e denigrazione, fino al lapidario giudizio espresso dal potente critico Vissarion Grigor’evič Belinskij che ne negò – sbagliando clamorosamente – le possibilità di successo fuori dal Paese e ne vide le potenzialità solo in un contesto nazionale unicamente entro il quale fossero comprensibili logiche politiche e dinamiche di un tempo circoscritto e di una società chiusa: proprio alla quale in verità Gogol’ intese rivolgersi chiamandola allo specchio nei modi di un appello alla rinascenza, implicandosi personalmente con l’insistere per esempio in espressioni del tipo “da noi in Russia” e con l’assumere un ricorrente e persino rutilante tono moralista e tirtaico culminante al termine della prima parte nella figura della Russia trasfigurata in un “uccello trojka” che spicca un nuovo volo nel cielo nazionale. Volendo mostrare ai suoi connazionali la Russia messa a nudo, Gogol’ guadagnò invece l’attenzione dell’Europa rivelando all’estero non tanto un mondo poco conosciuto e tenuto in sospetto quanto uno stato sociale e una condizione storica appartenenti all’uomo nuovo nato dopo lo smaltimento della febbre napoleonica.
La polemica riguardò anche la determinazione del genere letterario, che lo stesso Gogol’ contribuì invero a confondere scegliendo di chiamare “poema” quello che nei fatti è un romanzo: naturalista, si è detto, realista, ma anche picaresco, odeporico, allegorico, di denuncia, satirico, omerico, simbolista. Forse è tutto questo insieme, trattandosi di un libro mainstream che non si accontenta di una sola chiave, pretendendo di fornire ogni risposta alle domande del suo tempo e ponendo una questione relativa anche alle nuove forme narrative da adottare circa il superamento delle remore classiciste e la strada migliore da intraprendere nel percorso romantico appena inaugurato.
Soltanto quando quasi un secolo dopo il connazionale Marc Chagall, illustrandone l’edizione francese, realizza acqueforti che stabiliscono a mezzo tra sogno e verità, evanescenza e concretezza, la prevalente natura delle Anime morte, l’opera gogoliana acquisisce finalmente il senso di apologo morale senza più pastoie naturalistiche e può liberarsi dell’egida russa che ancora oggi però continua a ipotecare il testo nel quale, contro davvero ogni prassi, tutte le traduzioni preferiscono mantenere le accezioni originali, cosicché abbondano termini come mužìk, kopejka, brička, bàtjuška, činovnik e molti altri che pure vantano congrui corrispettivi stranieri. Gogol’ continua perciò a pagare alla madrelingua (proprio lui che si diceva convinto di potere scrivere della Russia solo standone lontano) un pegno che più tardi nemmeno Tolstoj e Dostoevskij saranno chiamati a tributare, rimanendo nondimeno profondamente russi ma facendosi tuttavia universali: originalità di un autore che subito dopo Puskin apre la grande stagione letteraria russa e pur influenza anche la cultura europea, facendo proprie le principali istanze e le questioni che nel Vecchio continente aprono a metà dell’Ottocento orizzonti nuovi e inquietanti nel quadro di una contrapposizione di classe che presto il nascente socialismo esalterà in scontro. Ma l’idea di realismo di cui Gogol’ è portatore non ha nulla di drammatico, dal momento che attinge dai modi classici di Aristofane gli strumenti per stingere nella commedia le tensioni di una realtà che ha certamente tutti i motivi per apparire tragica. Una realtà che guardiamo come russa e vediamo come europea.
Si prenda in questa prospettiva un tema centrale nella ricerca gogoliana: l’arricchimento quale sinonimo di accaparramento e avidità materiale, che è l’odioso effetto del sistema di divisioni di classe in Russia ma anche il fomite della ribollente insorgenza proletaria. I possidenti che lo spregiudicato Pavel Ivànovič Čìčikov avvicina per avere in proprietà le loro “anime morte” (ovvero i nomi dei contadini che sebbene defunti risultano ancora iscritti nel registro del censimento da rinnovare e come tali provento di vantaggi da richiedere allo Stato in termini di finanziamenti e assegnazione di terre) integrano il modello di proprietario che è comune all’intero continente e che si ritrova anche in Italia. Nella novella di Verga “La roba” vediamo infatti ripetersi in Sicilia la stessa identica scena delle ampie terre coltivate, dei giardini e dei boschi che nella campagna russa vengono incontro a chi viaggia in carrozza e si chiede di chi siano. “Di Tentètnikov” è la pronta e replicante risposta in Gogol’, uguale a quella che in Verga rimanda più volte a Mazzarò, valendo a entrambe le latitudini e per tutt’e due gli autori così distanti la stessa cultura della proprietà latifondista cresciuta sul sacrificio innanzitutto dei contadini, servi della gleba in Russia e servi dei baroni in Sicilia.
E come Verga guarda la povera gente dall’alto della sua condizione sociale di privilegiato, concedendosi tutt’al più quell’“artificio della regressione” con il quale mutua il linguaggio dei “vinti” senza andare oltre l’umana commiserazione, anche Gogol’ si mantiene bene a distanza dai mužìki cui mai dà intenzionalmente e deliberatamente voce o offre una speranza di emancipazione, non indulgendo che a mera pietà nella sola occasione in cui Čìčikov presta loro attenzione ricordandoli in vita come essere umani. Ben lontano è allora il realismo russo prima maniera, auspice Gogol’, tutto votato alla conservazione dell’assetto sociale assolutista, da quello che in Francia e in Inghilterra, con Balzac, Zola e Dickens, dà nello stesso tempo tutt’altra prova sceverando in maniera sentita e partecipe il “ventre” delle città in mano capitalista: con la differenza che Gogol’, da buon raznočincy qual è, intellettuale non aristocratico della generazione anti-integralista ma filo-zarista pronta ad assumere il controllo culturale del Paese, non è ai nobili di Pietroburgo e Mosca che si unisce, bensì ai signorotti borghesi della sterminata steppa russa, i proprietari dei capoluoghi di governatorato che scimmiottano sì le mode delle grandi città ma si guardano bene dal rinunciare alla propria identità e diversità. Per Gogol’, non indifferente ai suoi natali di ucraino appartenente a una famiglia di nobili minori della “Piccola Russia”, la grande e santa Russia è nella sua campagna popolata di villaggi ognuno con un proprietario a capo di una corte di povere isbà traboccanti di braccianti al suo servizio. Nel confronto tra città e campagna sul quale Gogol’ prende posizione a favore della vita appartata, contemplativa e laboriosa, grazie alla quale il Paese prospera, la scelta coraggiosissima di ambientare una tale scomoda storia nell’entroterra depone da un lato per la prevalenza della tradizione ma da un altro per l’equivalenza di due sistemi sociali entrambi marci.
Di fatto è proprio nella sterminata pianura che la monarchia zarista cui Gogol’ è votato, tanto da predire l’inevitabile declino degli Stati Uniti d’America perché retti su basi democratiche, perpetua i fondamenti del proprio regime reazionario, sicché è solo nella sua dimensione storica e sociale che Čìčikov può mettere a segno lo stolido progetto di farsi dal niente anch’egli proprietario di un villaggio, lontano dall’ipotizzare un ideale programma di miglioramento della qualità della vita rurale che non sia finalizzato a un ulteriore incremento della propria ricchezza. In un romanzo realista francese, dove il lieto fine assicura l’espiazione delle colpe commesse, così ristabilendo l’ordine sociale turbato dall’ingiustizia, Čìčikov avrebbe pagato duramente le sue scellerate ambizioni, ma Gogol’ alla fine del primo volume lo lascia scappare perché in altre piccole città di provincia possa ancora reiterare i suoi misfatti, mentre al termine del secondo, nel superstite capitolo conclusivo, lascia che sfugga a una condanna già comminata alla deportazione in Siberia avvalendosi dei buoni uffici umanitari di galantuomini animati da un malposto spirito di redenzione non meno che delle brighe corruttive di un manigoldo della sua stessa pasta.
Gogol’ dunque insegna a Dostoevskij che un romanzo non deve essere edificante ed educativo e che, proprio come fa lui, un individuo losco come Čìčikov può assumere il ruolo di “nostro eroe” al di là di ogni significato antifrastico. Per Gogol’ l’eroe del suo poema è proprio un delinquente incallito e impunito, senza famiglia e senza scrupoli, proposto non come modello emulativo ma perché protagonista di “avventure” – secondo il titolo originario – chiamate a offrire una mappa dal vivo della Russia interna, dedita all’affarismo e preda della corruttela, attraverso la vicenda di un furfante (di qui l’elemento picaresco) che può realizzare il suo piano truffaldino solo perché si trova a che fare con autorità pubbliche e personalità private disposte ad essere gabbate, compiacenti e corrive. Non è dunque “l’eroe” del romanzo a profilare dei segni del decadimento una Russia che nessuno vuole vedere osservandola dalle grandi città, perché responsabile di esso è la classe provinciale al potere, così cinica, ottusa, perbenista e connivente.
La facilità (tutt’altro che verosimile e perciò voluta come mezzo di contrasto) con la quale Čìčikov avvicina i notabili, i cosiddetti činovniki, guadagnandone in molti casi l’amicizia e la collaborazione, è la volta dove Gogol’ associa lo sconosciuto forestiero alla cerchia dei migliori nomi dell’enigmatica città di N., salvo poi isolarlo e inimicargli l’intera società dabbene non perché smascherato dalla giustizia ma perché finito – ed ecco tutto Gogol’ – sulla bocca delle gentildonne che prima lo blandiscono e poi lo dileggiano avendolo visto in fregola per una ragazzina da collegio. Tra le due accuse che serpeggiano in città e consigliano infine Čìčikov a prendere il largo, quella falsa del rapimento della giovane fiamma sostenuta dalle dame e l’altra vera del malaffare delle anime morte ventilata dai gentiluomini, è la prima ad avere maggiore credito, mostrandoci così il Gogol’ dell’impresagito e del paradossale che nella sua interezza si fa riconoscere grazie a precisi elementi: il tagliente misoginismo (quello che spinge le donne «a mettere in subbuglio la città», riuscendo nell’impresa «in poco più di mezz’ora»); la caustica osservazione del provincialismo frutto del chiacchiericcio più pettegolo; l’invettiva contro il perbenismo ipocrita che induce certa società a preferire non conoscere la verità piuttosto che doverci fare i conti; il gusto dell’astrazione e l’iperbole nel quale anche i cavalli possono esprimere pensieri; la licenza della digressione che arriva ad accogliere il dettaglio anche irrilevante di una scena, come vista in un film (estremamente gogoliana la penna di gallina sulla schiena del registratore di collegio e statutiva l’enunciazione «L’autore ama essere circostanziato in ogni cosa»); l’uso del racconto onnisciente che permette di dominare i personaggi penetrandone la coscienza; e soprattutto il gioco combinatorio delle strutture narrative che fa delle Anime morte un metaromanzo direttamente riconducibile alla tradizione settecentesca di Fielding, Sterne e prima ancora di Rabelais e meglio di Cervantes.
Col Don Chisciotte i debiti sono più che scoperti: l’incastro ad episodi dell’intreccio, il viaggio senza meta lungo terre di periferia, il legame stretto tra narratore e lettori, sempre chiamati in essere, la sospensione del racconto a vantaggio della divagazione in occasione di un evento da compiersi e inutile da riportare, come nel caso in cui Čìčikov e Malanov percorrono un andito e Gogol’ ne approfitta per tracciare la figura del nuovo personaggio, la trasposizione dello scudiero Sancho Panza nel cocchiere altrettanto sciocco Selifàn, l’infatuazione inverosimile per la piccola figlia del governatore che ricorda Dulcinea e non ultima l’idea di comporre un poema in più volumi con spirito faceto, propositi cosmogonici e supponenza documentaristica, laddove Gogol’ si presenta come «storico degli eventi qui presentati».
Gioco tipicamente gogoliano di inganni è anche la commistione tra sincerità e motteggio, cosicché da un alto leggiamo che «l’autore si fa gran scrupolo di tenere occupati così a lungo i lettori con persone appartenenti a una classe bassa, sapendo per esperienza con quanta poca voglia essi facciano conoscenza coi ceti inferiori», così da spiegare l’attenzione indebita posta sui servi della gleba, e da un altro troviamo che «il giudizio contemporaneo non riconosce che sono egualmente meravigliose le lenti che contemplano gli astri e quelle che restituiscono i movimenti di invisibili insetti», affermazione che vuole giustificare la descrizione di scene riprovevoli e figure esecrabili come Čìčikov: prima preterisce l’argomento tabù della gleba e poi nobilita la stessa infima materia della miseria umana azionando uno spettro nel quale è difficile trovare il centro.
Nondimeno Gogol’ non può evitare il problema di coscienza che la figura di Čìčikov gli pone, dal momento che si chiede se fa bene a rivelarne ogni recesso più torbido dell’animo anziché limitarsi a raccontarne le azioni, in base alle quali in realtà apparirebbe a tutti un gentiluomo senza alcuna macchia, un vero eroe da romanzo romantico. Il problema lo risolve quando, alla fine del primo volume, si decide a raccontare la vita di Čìčikov e rivelare le ragioni per le quali compra anime morte, interrogativo che rimane per tutto il tempo sospeso tanto che lo solleva anche Anna Grigor’evna, moglie del procuratore. La decisione di Gogol’ è drastica: «È tempo alfine di attaccare al carro anche la canaglia. E dunque attacchiamola, questa canaglia».
La teoria per cui anche l’essere più abbietto merita il titolo di “eroe” e la sua dignità letteraria, ciò che significa che il brutto è artisticamente e aristotelicamente comunque bello, consente a Gogol’ di affrontare di petto un tema di fronte al quale la censura russa interviene con mano incerta, cassando per esempio l’intera storia del capitano Kopejkin, poi rifatta e recuperata dall’autore, epperò permettendo che sia reso pubblico un malcostume, quello della truffa allo Stato sui contadini censiti, che costituisce una grave colpa dello zar e mette la Russia sotto la peggiore luce. Gogol’ se ne rende conto giacché si chiede nello stesso romanzo cosa diranno gli stranieri, ma rimane fermo nel principio rousseauiano che la verità va detta tutta e non va fatta credere o taciuta. Quel che fa è di edificare un vasto e complesso teorema sulla natura dell’uomo virtuoso servendosi di elementi che conosciamo come pirandelliani nella differenza tra essere e apparire, vita e forma, maschera e nudità. Ma lo fa prima, scegliendo gli stessi strumenti dell’ironia e del paradosso, volgendo la tragedia in commedia e indicando la vis comica come rimedio contro i mali del mondo.

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ARGO IL CIECO di Gesualdo Bufalino (Leggerenza n. 22) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/22/argo-il-cieco-di-gesualdo-bufalino/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/22/argo-il-cieco-di-gesualdo-bufalino/#comments Wed, 22 Jul 2020 05:45:48 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8545 imagedi Gianni Bonina

Insieme con i temi della malattia, della morte, dell’amore fatale, della memoria, della guerra, già frequentati in Diceria dell’untore (il romanzo inaugurale considerato il suo capolavoro, ma da molti ritenuto inferiore ad Argo il cieco), motivo centrale della ricerca di Bufalino è il tempo. Ed è il tempo che profila Argo il cieco come mezzo di contrasto dei cambiamenti che produce intus et in cute e come carico di mal-aimé. Un terreno questo sul quale ha particolarmente indugiato la cultura decadentista alla quale Bufalino fortemente ha voluto richiamarsi, sottraendosi a quella che Maria Corti chiamava “glaciazione neorealista” e alle illecebre del naturalismo per porsi in assoluto afelio rispetto al mainstream guidato da un suo confrére qual è Sciascia.
Entro questa prospettiva, Argo il cieco segna certamente un maggiore distacco dal realismo rispetto a Diceria dell’untore di cui pure non costituisce che un seguito in termini autobiografici ma soprattutto uno sviluppo in ambito letterario. E ne è superiore non perché accentua i primi ma perché accresce il secondo in una poetica più pura e spirituale. Del resto fu lo stesso Bufalino, richiesto di rivelare il suo titolo preferito, a indicare Argo il cieco, romanzo più decandestico a motivo proprio del ruolo che il tempo vi svolge.
imageCome sacerdote del tempo, Bufalino va senza esitazioni accostato a Thomas Mann, voce supremantica del decandentismo europeo, che concepì La montagna incantata giustappunto in guisa di romanzo del tempo, come pure della malattia, così facendo da pendant tra Diceria dell’untore e Argo il cieco. A ben vedere La montagna e Diceria, pubblicati a distanza di oltre mezzo secolo l’uno dall’altro, osservano un andamento omologo costellato di diffuse analogie sui temi della tubercolosi e del sanatorio, epperò portano a un epilogo contrapposto, giacché entrambi i protagonisti guariscono, ma mentre Giovanni Castorp lascia il sanatorio per andare in guerra e probabilmente incontro alla morte, il protagonista di Diceria, reduce invece dalla guerra, lascia il sanatorio per tornare alla vita, portando con sé quella «educazione alla catastrofe» che se Mann ha inteso trasfondere nella «festa mondiale della morte» che è la guerra, Bufalino ha assimilato nella condizione di minorità esistenziale di cui Argo è prova valendosi del transeunte del tempo.
Ma è possibile raccontare il tempo? Per Baudelaire «siamo schiacciati dall’idea del tempo», che però «si può dimenticare servendosene». Cosa significa «servirsi» del tempo? Mann, da tenere come il più vicino modello di riferimento, assegna al tempo letterario la stessa funzione che riveste nella musica e può quindi dire che «la narrazione assomiglia alla musica in quanto riempie il tempo».
Il tempo (di cui quindi in tal senso ci si «serve») diventa elemento della narrazione come lo è della musica. Narrazione e musica possono allora fondersi assumendo il tempo al proprio «servizio». Ma per fare questo devono eludere la realtà, diventare evanescenza, in una parola onirismo. Coerentemente Argo il cieco porta come sottotitolo “I sogni della memoria”, perché in senso decadente il tempo integra il sogno ma anche la memoria e quindi il ricordo. Proust ha insegnato come raccontare il tempo, meglio come «riempire» il tempo passato: con la narrazione. È ciò che ha fatto Bufalino ricordandosi però di Mann, per il quale la narrazione del tempo è musica. In questo senso Argo il cieco è un testo carico di una musicalità talmente esorbitante da confinare in secondo piano la narrazione.
imageLa trama, come ha notato a suo tempo la critica, non riesce infatti a stare al passo dello stile, tenuto com’è sui toni alti e lirici del Bufalino più baroccheggiante e versato nella sovrabbondanza lessicale. Correttamente è stato perciò osservato che «in questo sogno della memoria la trama va per conto suo mentre quel che conta, come all’opera, è la musica»: la musica, anzi la musicalità del tempo che passa, scandisce i tempi del romanzo e trasmuta la memoria non solo in sogno ma anche in malattia: «Coi minuti la memoria procede come il corpo davanti alle invasioni dei microbi. Appena l’infezione avvenga, saltano subito al contrattacco miliardi di globuli. Una forza di difesa isola i ricordi più micidiali».
A questo punto il tempo invale come corruzione del corpo nonché, come dice Bufalino, degli «eventi» e quindi della vita, diventando vulnus dell’esistenza e perciò malattia, e involgendo un altro tema caro ad Argo: «Erano miliardi di miliardi le cellule nostre in marcia verso lo sfacelo finale, la cinerea perfezione del niente».
Nel solco della migliore tradizione decadentista e primonovecentesca, Bufalino aggancia, così come Mann, come Proust, come Svevo, il tema del tempo a quello della malattia e quindi reitera l’istanza esistenzialista. Il senso di caducità dell’esistenza, ciò che è «il deperibile Qui e l’effimero Ora», il sentimento eracliteo del panta rei, la consonanza della vita con il carpe diem («Minuto d’oro non te ne andare» sono le ultime parole di Argo il cieco in un desinit che richiama quello dell’Educazione sentimentale di Flaubert: «Non abbiamo avuto tempo migliore dopo»), l’ineluttabilità senechiana della morte, sono tutti cabs che conducono Bufalino a un nichilismo senza speranza e baudelairianamente inteso.
Ma come Ivan Ill’Ic, che va serenamente incontro alla morte («Finita la morte, non c’è più la morte») sostituendo il suo originario sentimento di odio verso la famiglia indifferente alla sua malattia con l’affermazione del primato dell’amore non egoistico, così Bufalino rintraccia negli amori della sua gioventù il prodromo e il contrappunto all’incombente senso di finis vitae che lo aduggia. Il Gesasim di Tolstoj echeggia Maria Venera, Isolina e Cecilia, modelli di sanità e di bellezza tanto più bramati quanto meno sensibili si mostrano alla sua malattia di giovane fatto vecchio. Non c’è fede nel futuro in Bufalino, non c’è speranza ultraterrena: per modo che finirà per dettare il noto epitaffio “Hic situs, luce finita”. Di ricordi si ammala e di ricordi si cura, ha già detto delle proprie sindromi lo scrittore che cerca linfa vitale (scrivendo Argo come «medicina geriatrica») nel suo solo passato, avallando il Dostoevskij delle Memorie dal sottosuolo per il quale l’uomo è impotente di fronte alla vita e alla realtà e per purificarsi ha bisogno di umiliarsi.
E la strada dell’umiliazione Bufalino l’ha percorsa tutta gabellandola, seppur barando con la «vita nova» di un’estate felice a Modica. Un’estate detta felice che felice però non è, perché a quell’estate del 1951 il «povero Gesualdo detto il Meschino», chiuso in un albergo romano in attesa di visite mediche, ripensa come a un antidoto contro la morte mentre ne fa uso di viatico. Dei tanti episodi di quell’estate non ce n’è infatti uno che possa dirsi davvero felice: Bufalino o il suo alter ego, come un Rubè, passa da un fallimento a un altro, da un amore non corrisposto (per Maria Venera) a un altro ottenuto di contrabbando (da Cecilia) a un terzo non compreso (con Isolina). Ed è sempre solo, i suoi amici Iaccarino, Licausi, Sasà Trubia, Liborio Galfo essendo preda di un amor fati che insegna loro che «vivere significa qualcosa» mentre egli rimane in balia di un cupio dissolvi che lo spinge a vedere nella vita una «bambolina truccata, che nulla ha fatto per persuaderlo di essere vera».
La vita come complesso di valori irrisolti, dove l’amore nulla dà a chi vive ma molto aiuta chi aspira invece a morire, evoca il principe Andrej di Guerra e pace che solo nell’agonia pone l’amore per Nastasa sotto una luce contemplativa, cioè eterna, o meglio ancora in una linea di superamento di ogni relatività. Così Bufalino, «nel canovaccio dell’inevitabile vita», scopre di aver recitato l’amore e di poter guardare alle sue donne amate e innamorate come «compagne di una stagione di giro». La rivelazione in Andrej e nel giovane Bufalino matura a seguito della reciproca presa di coscienza di essere estranei al loro ambiente e di non sapere più comunicare con esso. E per questa via il principe Andrej, sospeso tra due mondi in successione, porta con mano Bufalino in casa del principe di Salina. Sicché Argo il cieco è romanzo sorprendentemente consentaneo al Gattopardo in ciò che soprattutto è il progressivo esaurimento del «fluido vitale» e l’inclinazione a «essere per la morte».
L’ineludibile fluire e morire delle cose e della vita, giocato tra rimpianto del passato e rifiuto del presente, visto con lirica contemplazione, ma anche con ironia consolatoria, l’assunzione del tema dell’amore a paradigma della vita consociano Lampedusa e Bufalino e fanno di don Alvise Salabba un altro don Fabrizio Corbera e di don Nitto Barreca il doppio di Calogero Sedara. Come don Fabrizio, don Alvise muore al culmine di un ballo di gala, che nel Gattopardo come in Argo il cieco costituisce la spannung dove le due fabulae si sciolgono e a cui appropriatamente è dedicata una parte preponderante. Alla loro morte un senso di sopravvivenza intride le figlie di Salina e la nipote di don Alvise mentre segna la rottura in Lampedusa di due epoche storiche e in Bufalino di una vita in due. E infatti è solo dopo la morte di don Alvise, proprio durante il suo funerale, che Bufalino scopre di non aver amato Maria Venera ma di averla voluta amare. Il senso di sfacelo che intrama Il Gattopardo non è soltanto lo sgretolamento di un’era che prepara quella nuova ma sottende anche quella «compiaciuta attesa del nulla» che è la sigla sotto la quale va inscritto Argo il cieco. Dove il tema della Sicilia abbandonata «alla deriva nei meandri del lento fiume pragmatistico» è non meno presente che nel Gattopardo.
Bufalino fa allora dire a Iaccarino quanto Lampedusa ha fatto dire con altre parole a Salina: «Venera è una parossistica, come tanti siciliani sono. Noi amiamo fabbricarci valori e onorarli al posto di Dio. Valori e controvalori. Quando un valore ci fa cilecca, ci buttiamo su quello contrario, ne facciamo idolo e merce. Così in ogni coppia d’estremi il mezzo non ci sta bene, ci piacciono l’uno e l’altro: la devozione e il rancore, la fede e il sospetto, la chiacchiera e l’omertà, la norma e lo scandalo, l’onore e il disonore». Che è la logica ossimorica che scalda – o raffredda – la cultura siciliana la cui spinta parossistica Lampedusa ha rappresentato con la superba figura retorica dei siciliani come sale della terra.
Ma opera ben diversa del Gattopardo è Argo il cieco nell’accostamento al lettore che Bufalino stabilisce servendosi da un lato del dettato baudelairiano con i suoi capitoli «a parte» e da un altro del monologo interiore di derivazione sveviana che, sconfinando nel flusso di coscienza di richiamo jocyano, conferisce al romanzo un carattere di sperimentalismo e di maturo novecentismo che risponde al gusto emergente ponendolo al fianco di libri riconducibili all’insegnamento calviniano molto sentito negli anni Settanta e Ottanta.
Ma come romanzo di amori, laddove Diceria dell’untore è stato romanzo di un amore, Argo il cieco ha una sua struttura che ne fa anche romanzo di un paese. La dépense che attraversa carsicamente le storie d’amore del Bufalino trentenne (in gran parte placcate di fantasia com’è nel costume del Bufalino conteur) si amalgama con la città barocca colta nel momento storico in cui esprime il massimo struggimento e forse la maggiore bellezza, quasi che l’estate del ’51 sia stata felice per Modica anziché per Bufalino. Una Modica che sa di «mostarda calda», che evoca l’attimo «caldo e buono» del minuto di gioventù, che rimanda il «tepore dei suoi cortili», i «carrubi affettuosi, i muri di sasso lampanti come verbi di Dio». Un luogo dell’anima insomma, sicché il Circolo dei civili, via Carreri, il Caffé Buonaiuto, «il Salone», la Sorda sono estenuati topoi di bellezza; ma anche un luogo estraneo, dove è impossibile a un forestiero non sentire «alitare attorno un’aura di sottile incorporea alienità» e non essere toccato dalla «macchia innocente» dell’inconterraneità, che come tiene lontana Maria Venera così tiene a distanza Modica, l’una e l’altra essendo per Bufalino oggetto d’amore e quindi preclusi a un cuore refoulé e déraciné. Un cuore che pulsa seguendo le cadenze d’inganno della coazione a fare della propria vita un reperto di studio sociopsicopedagogico, perché Bufalino è narratore di sé stesso e spalma il proprio io sulla propria circostanza per risalire a una teoria della condizione umana vista come universale e senza tempo.
Il tempo infatti, il cronotopo bachtiniano che stabilisce le distanze, che misura i mutamenti diacronici sia corporali che mentali, che trasmuta le epoche in nuove stagioni, che accende e spegne amori e che illude e delude.  Il tempo per Bufalino è un corruttore. «Questo è ora – scrive perciò in chiusura in un lamento da Comiso – guardatelo, il ragazzo di cento pagine fa». Per poi rivolgere alla vita una finale ed esiziale “Preghiera, dietro le quinte”. Sono le ultime righe di Argo, il cieco reso tale dal tempo: «Vita, il tuo fuoco langue più l’amo. Gocciola di miele, non cadere. Minuto d’oro, non te ne andare». D’oro sì, ma effimero il tempo di Bufalino.
Il tempo, soprattutto quello minimo, è stato decisivo anche nella vita dello scrittore che diceva sempre: «Basta un minuto in più o in meno e si prende l’appuntamento con la morte». Lui lo prese un giorno per strada su un’auto che doveva percorrere, in un altro momento, una provinciale e non una statale, un’auto che venne investita da un’altra auto guidata da una donna il cui nome era lo stesso di una figura del suo primo libro intitolato Il tempo in posa. Avvenne in un giorno di pioggia, il tempo meteo che aveva sempre amato, tanto da avere appena scritto così all’inizio del suo ultimo Tommaso e il fotografo cieco (altro sogno della memoria e altro stato di cecità): «Da ragazzo mi piaceva il rumore della pioggia».
Bufalino ha raccontato il tempo calcolandolo dentro di sé e ne ha fatto uno strumento per rilevare la propria entropia e confrontarla con quella dell’umanità. Argo il cieco è dunque il rilevatore di questo processo di derelizione e costituisce il libro che contiene tutti gli altri o li richiama. Persino Diceria dell’untore può essere visto alla stregua di una prova in vista di esso, talché Bufalino non vede più il mondo in sé stesso ma sé stesso nel mondo, “gettato” heideggerianamente nel mondo.

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LA PESTE di Albert Camus (Leggerenza n. 21) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/06/04/la-peste-di-albert-camus/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/06/04/la-peste-di-albert-camus/#comments Thu, 04 Jun 2020 12:55:06 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8501 imagedi Gianni Bonina

Rileggere La peste dopo il coronavirus è come farlo per la prima volta. Pur ammirando la forte precisione del quadro generale quanto soprattutto agli effetti psicologici sia individuali che collettivi, tali da far sembrare che Camus abbia vissuto una vera epidemia, mentre non si è che documentato su quelle passate, se ne colgono tuttavia lacune che prima sarebbe stato difficile trovare: non tanto le inesattezze scientifiche circa la differenza tra peste bubbonica e polmonare, da Camus confuse nelle manifestazioni fisiche e la seconda posta come complicanza della prima, quanto le misure di contenimento che abbiamo imparato oggi a comprendere in termini di “lockdown”. Benché la peste polmonare si diffonda attraverso saliva, sudore e particelle di sternuto e tosse, le autorità prefettizie di Orano (la città algerina di Camus dove la pestilenza divampa) non prescrivono alcuna quarantena, ma al culmine dei contagi e del conseguente pericolo per l’ordine pubblico ordinano il coprifuoco dopo le ventitré (provvedimento esorbitante dopo aver parlato di semplice febbre perniciosa sui manifesti affissi nelle sole strade secondarie) e intanto dispongono che la città sia chiusa e considerata una “zona rossa” dalla quale non si possa uscire e nella quale sia proibito entrare.
Ma dentro la città blindata “i prigionieri della peste” sono liberi durante il giorno di frequentare bar e ristoranti senza alcun distanziamento, affollare autobus con la sola cautela di darsi le spalle, andare a teatro e magari assistere alla morte sulla scena dell’attore protagonista, gremire i cinema solo per vedere lo stesso film ripetuto ogni giorno. L’isolamento non è degli abitanti di Orano ma della città in sé, priva anche di approvvigionamenti che non siano provento del mercato nero, dove però i giornali continuano ad uscire, i tipografi stampano testi di maghi e santi della Chiesa, le persone circolano senza mascherine sterili né tantomeno guanti, i preti possono evocare dai pulpiti la punizione divina su centinaia di fedeli assembrati al chiuso e la gente può toccarsi, stringersi la mano, accarezzare infettati e abbracciarsi senza  precauzione alcuna.
imageQueste dissonanze che Camus forse nemmeno immaginò, perché la storia della peste non indugia sulla profilassi, conferiscono al romanzo un senso di quella “astrazione” dal reale che in diversa cotta Camus indica come il fondamento del modello di vita collettiva cui cinicamente costringe la peste in contrasto con la felicità personale ricercata da ogni individuo. È questo il punctum individuationis del romanzo. Mentre noi oggi lo rileggiamo come un apologo sociale e non come un rapporto realistico, l’autore lo intese in guisa di un dostoevskjano dissidio psicomachico, del singolo come della società, tra la ragione dei propri sentimenti e l’obbligo del dovere morale che diviene etico: l’astrazione integra dunque il sacrificio che ogni individuo fa dei propri bisogni e dunque della realtà del proprio essere a favore di una condizione generale che assurge – astrattamente, astrusamente – a prioritaria. Tutti i personaggi possono invero tirarsi fuori e salvarsi, ma nessuno lascia gli appestati: non lo fa il giornalista Raymond Rambert che come forestiero progetta di scappare ma poi si sente chiamato da quella astrazione dal cuore a scegliere di restare piuttosto che riabbracciare la fidanzata, né lo fa il misterioso e anch’egli non oranese Jean Tarrou che di peste finisce pure per morire proprio quando l’epidemia è quasi cessata, così come muore padre Paneloux, impotente testimone di centinaia di morti e quaresimalista di una teodicea affranta. Neppure Bernard Rieux, il medico più impegnato sul fronte sanitario, pensa mai di lasciare la città per raggiungere la moglie andata in un lontano sanatorio dove morirà di tubercolosi (il morbo di cui già da ragazzo è affetto Camus), convinto che ci sia un solo modo per essere santi senza Dio ed è quello di fare il proprio dovere.
Si delinea qui un aspetto dell’“uomo in rivolta” che costituirà presto il tema del pensiero camusiano fondato sulla coscienza contro ogni dogma o imperativo politico e religioso. Sicché la peste sottende il banco di prova che misura la vera natura umana e mette di fronte alla scelta tra la ricerca della felicità, che vuol dire scappare, e il richiamo del dovere, che vuol dire restare, anche a morire come in una guerra. Scrive Camus: «Così non c’erano più destini individuali, ma una storia comune costituita dalla peste e sentimenti condivisi da tutti. Il più forte era quello della separazione e dell’esilio, con tutto ciò che comportava in termini di paura e di rivolta». E allora quando Rambert, in procinto di andare via, dice a Rieux che il bene comune è fatto della felicità di ognuno, appare evidente nella condotta di Rieux come degli altri che, sebbene il giornalista dica il vero, è la rinuncia ad essa a formare quel bene. Di qui l’astrazione, che è cinica perché involge un rovescio della verità e una rivolta morale: se Rambert vuole che gli uomini vivano e muoiano per ciò che amano, la peste (dalla quale per Rieux l’uomo può uscire elevato) dimostra invece, ribaltando il teorema, che si debba vivere e morire per ciò in cui si crede, per un ideale dunque e non per un amore. Se il pubblico viene prima del privato, è la sfera pubblica che la peste colpisce, giuste le ultime parole del romanzo, che sono pari a una preconizzazione: «La peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice». Per renderla infelice. Ecco allora l’equazione camusiana: il dovere morale è un imperativo kantiano che è in contrasto con la felicità, per modo che lo si può adempiere a costo dell’infelicità.
imageMa, detto tutto ciò, La peste non manca di predittività: i “campi di isolamento” dove concentrare contagiati e primi sintomatici, le “formazioni sanitarie” di volontari simili a “guardie civiche” di assistenza e di controllo, l’idea di immunità di gregge che forse può spiegare la libertà di movimento in città, la fase di plateau uguale al picco, il calcolo quotidiano di contagi e decessi (che la prefettura sceglie di divulgare quotidianamente e non più ogni settimana così da fornire numeri più bassi), la presenza di uomini come gli infermieri e i seppellitori sempre disposti a sfidare la morte, gli autobus trasformati in mezzi per trasportare all’incenerimento i cadaveri, i funerali di fretta e di massa con la sola benedizione del prete nelle fosse comuni, le maggiori preoccupazioni per il calo dell’economia per cui «la miseria si dimostrò sempre più forte della paura», la comune sensazione che sotto il flagello dell’epidemia si viva confinati nel passato e che immaginare il futuro significhi infliggersi ferite – sono tutti elementi che l’esperienza del coronavirus ha riproposto all’umanità.
Insieme con essi abbiamo anche fatto prova di alcune grandi intuizioni avute da Camus: il progressivo contrasto tra l’incalzare della tragedia e l’interesse per le singole vite quotidiane, l’evenienza di una bella giornata per suscitare ottimismo, il pensiero più di galleggiare che di vivere, l’angustia dell’isolamento, l’indifferenza di fronte al sentimento della morte e l’incapacità di concepire un’ecatombe, tale da indurre Camus a suggerire di immaginare, perché si comprenda quanti siano diecimila cadaveri, una piazza piena di persone che escano da cinque cinema e che vengano uccise tutte insieme. E poi la più grande di tutte le intuizioni: la monotonia della peste, le cui “terribili giornate” sono simili a un “interminabile scalpiccio che annientava tutto al suo passaggio” e non a “fiammate sontuose e crudeli”, giornate fatte non di eroi né di fatti straordinari ma di un continuum senza storia, perché privo di vita, del quale non si vuole parlare né durante né soprattutto dopo, troppo acuto essendo il trauma da doverlo solo esorcizzare.
Ecco allora che uno dei personaggi centrali, Cottard il rentier, il solo contento della peste perché si arricchisce con il contrabbando, dice a Tarrou che la peste non viene a chi è già malato: «Supponga di avere un cancro serio o una bella tubercolosi, è impossibile che si prenda anche la peste o il tifo», per poi aggiungere: «Non si è mai visto un malato di cancro morire in un incidente d’auto». Uno scongiuro divinatorio e un paradosso elucubratorio: sennonché proprio Camus, malato di tubercolosi, morirà giusto in un incidente automobilistico, caso di cui per tutta la vita ha avuto angoscioso timore, laddove scrive che il caso (sul quale i suoi oranesi scommettono per scongiurare la peste) non appartiene a nessuno perché può colpire chiunque.
Gli oranesi sono quelli che Camus chiama “concittadini”, residenti di una città di cui egli non perde occasione per dire il male possibile e che sceglie come unico teatro della pestilenza, giacché nulla si sa di quanto accade nel mondo. Ma la “cronaca”, come la chiama, dei mesi dell’epidemia è riferita da un autore che è Camus, il quale affida il racconto a un secondo narratore solo alla fine rivelato in Rieux e indicato come la propria fonte. Un virtuosismo letterario quello di Camus: che si esprime in veste di autore rivolto ai suoi concittadini per riportare loro quanto il narratore ha lasciato scritto servendosi a sua volta di un’altra fonte, costituita dai taccuini lasciati da Tarrou (carnets che per conto suo Camus va da oltre dieci anni riempiendo di note e appunti destinati a essere pubblicati postumi), necessari perché Rieux possa dare conto di avvenimenti di cui non ha contezza diretta.
Il farraginoso espediente torna utile a Camus per sottrarsi a un’accusa di anticampanilismo che forse sente per i cattivi giudizi espressi sulla città e soprattutto dopo avere scritto un romanzo come Lo straniero dove certamente Orano non è apparsa neanche allora sotto una buona luce, avendo un narratore fittizio raccontato in prima persona di aver ucciso un arabo senza alcuna ragione, così allargando polemicamente il divario tra le due razze costrette a dividersi la stessa città. In La peste gli arabi non ci sono se non nel vago proposito di Rambert di descrivere la loro condizione sociale, perché evidente indice di una minorità o di una diversità. Ma c’è ancor meglio Orano, topograficamente più definita e richiamata intatta negli stessi atteggiamenti culturali come quello, proprio anche di Camus, di stare per lunghe ore affacciati al balcone per vedere la vita in strada. In La peste ci sono anche le terrazze panoramiche da dove osservare l’intera città anziché uno scorcio sotto casa, con in più l’immagine di un Rieux che si affaccia per verificare se la peste ha stravolto anche l’aspetto della città come ha cambiato i suoi abitanti. Quel che vede e sente è quanto Camus ha più volte vissuto da sé: Orano raggiunge Rieux «con i suoi mormorii, sentori di carne alla griglia, il brusio allegro e odoroso della libertà che piano piano riempiva la strada invasa da una gioventù chiassosa». La propria città si conosce quindi dal balcone di casa, sentimento che è di Rieux come è stato di Meursault, l’io narrante di Lo straniero, libro uscito cinque anni prima, nel 1942, e che con La peste forma un dittico oranese.
Lo stesso Camus li collega esplicitamente. Come autore rivolto ai suoi concittadini scrive infatti della peste avvenuta settant’anni prima a Canton e indica la data del 1871. Settant’anni dopo si arriva al 1941, l’anno che precede l’uscita de Lo straniero. Benché completato nel 1946 durante un viaggio negli Stati Uniti, La peste può essere stato dunque iniziato a ridosso del precedente romanzo, ma quel che è certo è la sua ambientazione nella Orano dello stesso anno. C’è il riscontro nella tabaccaia che parla di «un recente arresto che aveva fatto scalpore ad Algeri. Si trattava di un giovane impiegato che aveva ucciso un arabo in spiaggia». L’impiegato è Meursault, che è stato arrestato ma non ancora giustiziato, segno che nella finzione narrativa la peste si ha a Orano poco tempo dopo il delitto, tra l’arresto e la condanna a morte. La tabaccaia parla infatti di “recente arresto”, cosa che fa pensare che il processo (cioè la seconda parte de Lo straniero) non si è ancora aperto. Non può esserlo, perché comincia dopo undici mesi di istruttoria. Camus è stato molto attento nel rendere coerenti i due romanzi, ciò che porta a supporre che la peste appaia ad Orano nella primavera successiva al delitto sulla spiaggia (il quale cade in estate) ed esploda con il nuovo caldo. Da un’estate all’altra allora e da una canicola all’altra.
E come il caldo è stato il movente addotto da Meursault per spiegare l’”assurdo” delitto commesso, ancora il caldo è il propellente che scatena l’epidemia nel gioco di effetti del “pensiero meridiano” che regge la visione camusiana del mondo entro la quale ogni cosa succede, principalmente se negativa, per colpa del solleone. «Tutta colpa del clima» stabilisce il commissario de La peste per spiegare l’epidemia. E l’autore gli fa eco: «Il sole inseguiva i nostri concittadini ovunque e, se solo si fermavano, li colpiva». Il “sole della peste” alimenta «un fiume di caldo che scorre inarrestabile lungo gli alti edifici grigi» e «alle quattro del pomeriggio la città cuoceva a fuoco lento sotto un cielo opprimente. Era una di quelle ore in cui la peste diventava invisibile. Il silenzio, la morte dei colori e dei movimenti potevano essere quelli dell’estate come del flagello. Non si capiva se l’aria era densa di minacce o di polvere e di calore».
E forse a contrario è il caldo che culmina con l’epidemia in una sinestesia tragica, estenuante e ossessiva che non offre spiragli se non uno, quasi miracoloso: è il caso di Joseph Grand, il vecchio impiegato del Comune, sofferente di cuore e incaricato di tenere il conto dei decessi, che trascorre le sue sere solitarie provando a scrivere un libro e riscrivendone l’inizio come una Penelope alla tela, insoddisfatto delle parole. Il “narratore” lo elegge unico eroe della “cronaca”, perché pur a contatto con gli appestati e faccia a faccia con la peste non ha pensiero che per il suo romanzo e chiede consigli a tutti sui migliori termini da trovare perché un giorno i critici possano fargli “tanto di cappello”. Nel mondo che va in rovina, nel trionfo della morte, il vecchio Grand pensa alla letteratura ed è fermo alle prime parole. Camus non poteva immaginare antidoto migliore o vaccino più efficace: perché quando si ammala e Rieux lo dà per spacciato, il buon Grand è tra i pochi a guarire spontaneamente e torna al suo incipit. Ha vissuto l’infelicità per dare il suo contributo alla lotta contro la peste e rinunciato alla felicità perché vicino alla morte chiede che il manoscritto sia buttato nelle fiamme, ma la forza in un amore che è anche un ideale lo salva. Forse la scena più bella del romanzo è quella nella quale Grand legge a Riuex il suo manoscritto di una sola frase, quasi solfeggiando, mentre il dottore presta anche «orecchio a una specie di vago ronzio che in città sembrava rispondere al fischio del flagello». Il rumore di fondo e terrificante della peste che si alza contro il suono ispirato di un romanzo che nasce.

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[il nuovo romanzo di Gianni Bonina è: "Ammatula" (Castelvecchi) - di recente in libreria anche il volume: "Fatti di mafia" (Theoria)]

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MOBY DICK di Herman Melville (Leggerenza n. 20) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/04/30/moby-dick-di-herman-melville/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/04/30/moby-dick-di-herman-melville/#comments Thu, 30 Apr 2020 12:00:54 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8475 imagedi Gianni Bonina

Dopo l’esperienza fatta dieci anni prima come baleniere, Herman Melville scrive Moby Dick perché scopre – e lo precisa nel romanzo – che la caccia ai cetacei ne minaccia l’estinzione, sebbene a metà dell’Ottocento l’illuminazione pubblica e domestica vada sempre più servendosi non più dell’olio di balena ma del gas e presto a New York arriverà anche l’elettricità: ma specifica che la balena “non avrà una fine ingloriosa come i bufali dell’Illinois e del Missouri”, essendo essa immortale. Deificando così quello che pure molte volte chiama “mostro” e “Leviatano”, Melville lascia supporre che il suo capolavoro (tale verrà considerato però solo nel Novecento giacché all’uscita non riscuote il successo di Taipi e delude il mercato americano e inglese) nasca nell’intento non tanto di ricordare la disgrazia nel 1820 dell’Essex, affondato da un capodoglio, quanto soprattutto di affermare il primato della balena sull’uomo con l’esaltarne lo spirito di specie e dotandola di un’intelligenza non diversa da quella dei suoi cacciatori, se non maggiore.
imageEra per esempio opinione anche di Melville, ignaro del sonar naturale di cui è dotata sulla testa, che la balena andasse affrontata frontalmente perché cieca avendo gli occhi molto distanti sui fianchi. E nella sua particolareggiata notomizzazione di ogni cetaceo descrive anche gli occhi (argomentando ingenuamente che è per l’impossibilità di vedere nello stesso momento due oggetti che la balena cade nel panico e si confonde), ma è poi costretto a lasciare senza spiegazione la circostanza per cui Moby Dick attacca proprio con la testa la nave colpendola nella prua, lasciandone semmai implicitamente immaginare la grande intelligenza. Qualità alla quale l’opinione pubblica in realtà si rifiuta di credere, tanto che il primo ufficiale Startbuck rimprovera al comandante l’infondatezza della sua vendetta contro “un bruto senza parola che ti ha colpito semplicemente per l’istinto più cieco! Pazzia! Essere adirato con una cosa muta! Sembra una bestemmia!”. Ma la ferocia, l’astuzia e la malignità mostrate nei secoli dal capodoglio rispetto alla balena, costate la vita a moltissimi marinai, sono le proprietà naturali che convincono Melville a supporre una capacità raziocinante nell’essere vivente più grande del mondo. Di qui un romanzo che è una sfida sul filo della volontà che si serve della forza, perciò con tutti gli ingredienti per riuscire emozionante e avvincente.
Moby Dick viene infatti ritenuto per ragazzi perché d’avventura, ma è notoriamente più citato che letto perché ostico per la sua struttura che ne fa anche uno specialistico trattato di cetologia. Più precisamente è un libro di storia che sembra scritto per conto delle balene da un suo cantore, che in particolare ne racconta una esemplare, protagonista un capodoglio di smisurata forza e bellezza, peraltro raro perché bianco, imbattibile in ogni mare, che nella sfida vittoriosa lanciata al suo nemico più acerrimo, il capitano Ahab, riscatta e vendica il martirio di milioni di esemplari. Al termine di tre giorni di furiosa battaglia, Moby Dick va via seppur ferita “con la velocità del fuoco” dopo avere squarciato la nave che affonderà mentre Ahab, strangolato dalla sua lenza, sparisce nelle onde come un fuscello davanti ai suoi uomini impotenti sulla lancia. Il contrasto è tra un’indomabile forza della natura colta nella sua grandezza e l’esile pochezza di un’umanità proterva e ostinata che nel creato vede il saccheggio e la sopraffazione.
Ahab (o anche Acab e Achab) è trasposizione del sovrano biblico che ripudiò il dio di Israele e perseguitò i suoi profeti per poi morire ucciso in battaglia. Simboleggia la violazione dell’ordine costituito, la perseveranza in una folle idea che si traduce in un progetto che non è possibile condividere, tuttavia portato a compimento in forza del proprio potere fino a un epilogo che appare allo stesso Ahab già segnato e funesto, ma come voluto e ricercato: esitando un finale tragico, in rottura con il genere letterario dell’avventura, giacché il lieto fine è solo quello del capodoglio trionfatore e sopravvissuto. “Io sono il luogotenente del Fato, agisco perché ho ricevuto degli ordini” declama Ahab contro gli inviti dei suoi ufficiali a desistere, dopo aver gridato “Dio vuole che io sia qui”, ma aver nondimeno domandato al cielo, come il Cristo morente sulla croce e in un momento di sconforto “Quale nascosto e ingannatore signore e padrone mi comanda contro tutti gli affetti e i desideri naturali?”. Ahab è un predestinato alla morte nella quale celebra il compimento di una profezia cui non vuole affatto sfuggire. Non è il Bene chiamato a combattere il Male incarnato nel “mostro” della balena bianca, perché in lui Melville vede il sembiante del vero mostro destinato a portare la propria opera alla distruzione, camminando contemporaneamente “sulla vita e sulla morte”, per modo che compie una trasgressione inattesa e sgradita come autore già di successo nel genere esotico che si è fatto un nome per il sostegno dato alla teoria della superiorità dell’uomo sulla wilderness.
imageIl pubblico americano si aspetta perciò che Ahab uccida la balena al culmine di peripezie fatte per nobilitarne e magnificarne le gesta eroiche e intrepide, magari a risarcimento della disgrazia dell’Essex e della recentissima sventura capitata nel 1850 a un’altra baleniera attaccata da un capodoglio, ma trova piuttosto – dopo ripetuti segnali più infernali che divini (la caduta in acqua del primo marinaio che da una testa d’albero deve avvistare Moby Dick, gli aghi della bussola invertiti, il cadavere gettato in mare dalla Delizia che lancia spruzzi d’acqua contro la ciglia del Pequod, il falco marino che strappa il berretto ad Ahab e lo getta in acqua, lo stridio delle foche creduto grida di naufraghi…) e un’aria di ineluttabilità incombente sin dall’inizio – le spoglie irredenti di un uomo sconfitto nel quale riconoscere quell’America del progresso e del benessere votata dall’avamposto quacchero di Nantucket a dominare i quattro oceani e i suoi paurosi mostri mentre è invece costretta a fare i conti con un proclama di cui nel Novecento si farà tenace paladino Greenpeace fino a guidare il fronte “No whale” al divieto mondiale della caccia ai cetacei. Lo sconcerto decreta il disfavore comminato al romanzo, il più irriverente della letteratura americana dell’Ottocento nei confronti del sorgivo mito della frontiera tutto volto alla gloria dell’esplorazione, così nel Far West come nei lontani e altrettanto selvaggi Mari del Sud.
Melville tradisce tali attese e il senso patriottico della nazione invincibile, candidandosi ad ambientalista e animalista senza però averne coscienza essendo questo sentimento estraneo al suo tempo: nel rapporto uomo-natura parteggia infatti per la seconda non in risposta a uno spirito protezionistico ma nel proposito di denunciare l’ambizione del primo circa la smodatezza di un sogno che diventa delirio. Niente e nessuno può fermare Ahab o distoglierlo dalla sua “ossessione monomaniaca” nella quale trascina il Pequod, la baleniera eburnea che è del colore grevemente uniformante della sua gamba finta e del capodoglio d’avorio dal quale sarà inabbissato in circostanze apocalittiche ed escatologiche: l’ultimo uomo di vedetta sulla testa d’albero più alta, incaricato da Ahab di riattaccare la bandiera all’albero maestro, adempie infatti all’ordine conficcando col martello il chiodo nel momento in cui uno sparviero passa e rimane trafitto, affondando anch’esso negli abissi con il marinaio e la nave, restituendo in questo modo la scena più gravida di significati nel solo beffardo contentino di supremazia che l’uomo ottiene sulla natura. La rovina del Pequod si consuma per voluto contrasto in un mare azzurro e calmo sul quale “una giornata più bella non avrebbe potuto albeggiare”, contro dunque ogni più scontata disposizione di intemperie mosse in sintono dalla furia degli elementi naturali, bensì in una “quiete come rivestimento di uragani”, quiete che all’esagitazione di Ahab e dell’equipaggio oppone la maestosa serenità della balena, quasi che essa sia a conoscenza dell’esito della mortale battaglia, giacché “spande seduzioni” mentre dà prova della sua “malvagia intelligenza”, quella che la induce a colpire non più le lance più insidiose e vicine già duramente danneggiate ma direttamente la nave nella quale apre una falla fatale; quella che le fa sfiatare notte dopo notte spruzzi argentei come indicazioni alla nave perché prosegua la navigazione per attirarla nel suo mare; la stessa che, rivelandone il desiderio di vendetta, fa dire ad Ahab di non essere più il cacciatore ma la preda; quella ancora per cui “ogni morte e mutilazione che la balena provocava non veniva interamente considerata come inflitta da un essere irrazionale”.
Il destino del Pequod si compie a ben vedere nel segno dell’inesplicabile, aggettivo che fa da basso continuo al romanzo e molte volte ripetuto, a designare un clima dichiaratamente trascendentalista che mutua a piene mani le atmosfere del Vecchio Testamento, dal quale rimbalzano Ahab ma anche Elia, “lo strano profeta dei moli” che predice sventure ai marinai che si imbarcano, e poi Ismaele, l’io narrante e in parte alter ego dì Melville, metafora dell’uomo di scarto quale doppio del figlio della schiava di Abramo, come rimbalza pure la vasta planoplia di evocazioni mistiche, invocazioni soprannaturali, presagi di derelizione e dannazione, superstizioni del tipo di quella che ai marinai fanno credere Moby Dick dotata dei poteri dell’ubiquità e dell’immortalità: tutti fattori che connotano il romanzo in senso spiritualista perché fortemente pervaso di animosità religiosa, ma trovando più credenza che credo, più puritanesimo che cristianesimo.
Ismaele è la figura centrale nella quale Melville si confà e compiace, a volte agendo come autore e strappandogli quindi la parola e a volte lasciando che sia lui il narratore nella veste di io narrante. Questo è però un altro grosso limite dell’opera, rilevato già nell’Ottocento, insieme a uno stato di discontinuità e di sproporzioni che aduggia il testo, troppo insistito su scene irrilevanti ai fini della trama, come il sermone di padre Mapple o il racconto improbabile del Town-ho, nonché troppo accademico e scientifico nell’intento di descrivere la baleneria e ogni suo dettaglio, tanto da rischiare seriamente di togliere di mano al lettore il romanzo e metterci un trattato. In realtà il romanzo risente del suo allestimento a brani, dovuto alla fretta di Melville di consegnare al tipografo ogni capitolo appena completato, e proseguito abbandonando, perché non più dovute allo svolgimento, quelle parti concepite in un primo momento come prodromiche in vista di sviluppi poi in realtà mancati.
Delle preveggenze misteriose di Elia nessuna infatti si concretizza e il personaggio rimane “uno straccione sconosciuto” che sparisce con la partenza della nave, così come dileguano gli armatori Bildad e Peleg, figure solo di terra; allo stesso modo si perde sulla nave il rapporto di stretta amicizia nato a Nantucket tra Ismaele e Queenqueg e tale da fare pensare all’inizio a un fitto dipanarsi di vicissitudini in comune. Una volta che il Pequod prende il largo, altri diventano invece i comprimari: i tre ufficiali Stabuck, Stubb e Flask, alcuni ramponieri, il negretto Pip, il vecchio cuoco, il carpentiere e soprattutto il misterioso Felladah, che profetizza ad Ahab la morte in mare ma non prima che abbia visto due carri funebri, che si riveleranno il suo cadavere catafratto su un fianco della balena e la nave che affonda, scena questa che in verità nel racconto segue la morte meschina e niente affatto eroica dello stesso Ahab. Il quale appare sulla scena tardi, come in un film con un protagonista sovrastante, dopo che più voci si sono pronunciate sul suo conto volendone delineare il carattere e dopo che delle balene e delle baleniere Melville ci ha messo a parte di molti aspetti. Alta è la sua attesa da parte del lettore che si aspetta di vedere un gigante e sentirlo tuonare alla ciurma, mentre la prima cosa che il comandante dice, appena l’autore gli dà la parola sul ponte della nave, è una mesta prefigurazione della propria morte: “A un vecchio capitano come me dà l’impressione di calarsi nella propria tomba discendere per questo stretto boccaporto verso la cuccetta scavata come in un avello”.
Ahab rimarrà fino alla fine una figura che osserviamo indirettamente con gli occhi di Ismaele e che appare alquanto indistinta anche quando l’autore lo impegna in serrati e farneticanti monologhi interiori che, come gli altri, introducono inopinatamente il teatro nel romanzo contaminando i generi con trovate, come addirittura le didascalie, che lasciano non poco perplessi: i personaggi si mutano allora in attori e adottano da un lato un linguaggio ricercatamente scescipirano e da un altro un modello di racconto tipico della tragedia greca così facendosi essi stessi narratori di eventi che diventano di terza mano. Fatto è che Ismaele lascia spesso e senza avvertimento il posto a Melville che imbastisce siparietti grotteschi e fuori luogo, si profonde in dissertazioni erudite su ogni campo, incrocia in dialoghi muti i pensieri dei personaggi facendo metaletteratura, sperimenta approcci diretti con il lettore qui e là ammiccando, ammonendo, istruendo.
Insomma Moby Dick non poteva piacere al pubblico del suo tempo, sprovvisto com’era di quegli elementi di giudizio che soltanto il Novecento fornirà al lettore. Il trascendentalismo è negli Stati Uniti quello che in Europa è il romanticismo e richiede perciò che il romanzo sia realistico e analogico e che soprattutto sia davvero romanzo e non anche un manuale addirittura di frenologia e fisiognomica. Da Ismaele che si presenta subito nei panni dell’io narrante ci si aspetta dunque che racconti una storia avvincente di mare nella quale sia egli stesso quantomeno coprotagonista mentre, quando riesce a tenere la parola, si rende semplice testimone di fatti che osserva peraltro a distanza mostrandosi soltanto in un’occasione artefice di una propria azione non però esattamente edificante, quando al timone è preda di un disorientamento e minaccia di portare la nave fuori rotta dopo essersi addormentato.
Ma dal trascendentalismo di Melville non discende un modello romantico, quanto piuttosto un tono predicatorio, quasi quaresimalista, che ricopre il romanzo di una guazza nella quale la narrazione soccombe alla descrizione, lo spirito che aleggia è lo stesso dell’amico Hawthorne preso dalle Scritture, tutto divinazioni e maledizioni. Sennonché una volta fatta la tara al rivestimento rimane il miracolo della rappresentazione di un titanico scontro tra esseri remoti e irreali, entrambi bruti e copia uno dell’altro, l’uomo e la balena, soggetti espressi nella loro massima potenza e tale da far dire a Melville: “Per produrre un libro possente dovete scegliere una trama possente. Nessuna grande e durevole opera potrà mai essere scritta sulla pulce”.
Ha avuto ragione lui, se Moby Dick è oggi più che possente, la forza e la grandezza fatte libro, un libro nel quale le parti trattastiche, forse perché superate dalle nuove conoscenze cetologiche e assumendo ormai un interesse storico, si integrano sempre più con la narrazione a costituire il portato di un’epoca mirabolante, l’epica di una generazione e di una stagione votate al mare, il quadro di una guerra secolare combattuta da entrambi gli eserciti in campo con valore e sacrificio. Sicché più passa il tempo e più Moby Dick si avvicina all’Iliade tanto più che Melville ne ebbe qualche presentimento se della baleneria, comprendendo anche le balene, parlò nei termini di “una confraternita blasonata fatta di eroi e semidei”.

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I PROMESSI SPOSI di Alessandro Manzoni (Leggerenza n. 19) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/04/11/i-promessi-sposi-di-alessandro-manzoni/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/04/11/i-promessi-sposi-di-alessandro-manzoni/#comments Sat, 11 Apr 2020 14:01:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8458 imagedi Gianni Bonina

È in quella età “lurida e sfarzosa” del Seicento in cui nascevano le prime versioni di fiabe quali La bella addormentata e Cenerentola, dove un nobile si innamora di una bella popolana, invertendo così l’ordine sociale costituito, che Alessandro Manzoni pensò di adattare una storia che quell’ordine restaurava nel suo pieno regime: la storia, che egli chiamava “cantafavola” nelle lettere agli amici, di un signorotto tanto gentiluomo quanto prepotente che pretende di mettere letteralmente le mani su una povera villanella non perché invaghito di lei ma per via di una scommessa stabilita con un cugino della stessa pasta, perpetrando perciò un sopruso e affermando il primato medievale del signore padrone di terre e terricoli.
Come Verga mezzo secolo dopo nei Malavoglia e come presto faranno in Francia Balzac, Dumas e Zola, in Inghilterra Dickens, l’autore dei Promessi sposi, portando in Italia il romanzo moderno, non è delle classi dominanti che intende rappresentare la dispettosa condizione di superiorità, volta pure a giustificare una volgare scommessa tra il conte Attilio e don Rodrigo sulle sorti di Lucia Mondella, perché è a quelle più umili che volge lo sguardo, volendo esplorare per primo il “ventre” di una società che però, a differenza che in tutti gli altri autori di interessi sociali, non è la sua, né lo è il tempo narrato. Sua è invece la città che fa da sfondo, insieme con il territorio del ducato di Milano e parte della repubblica veneziana, a una vicenda che è “un misto di storia e invenzione” e che sostiene un romanzo storico ma nello stesso tempo sociale e anche intimo, così soddisfacendo i tre principali generi letterari dell’Ottocento romantico.
imageUn pregio questo ma anche un difetto, perché, attratto dalla storia che sappia coniugare la letteratura, Manzoni guarda all’esempio di Walter Scott (di cui legge il solo Ivanhoe) e si addice, con l’espediente del manoscritto ritrovato, a rinverdire il Seicento milanese, dimentico però che si trova in una stagione letteraria, il primo Romanticismo, che inoca in Italia il perseguimento di ideali anche patriottici, scenari risorgimentali di rivendicazioni e guerre, ribalte di eroi e bandiere, non certo svenevoli ed estenuati amori plebei implicati con capricci di nobili perdigiorno e piantagrane figli di un periodo storico che semmai, per lo stesso clima di dominazione straniera, dovrebbe suggerire tutt’altri rivolgimenti tirtaici. Deludendo le aspettative politiche del momento, Manzoni dà allora, con molto coraggio e sorvolando il suo presente, un romanzo che per il suo contenuto privato è al secondo Romanticismo che piuttosto protende le cime, quello flaccido e lacrimoso dei Prati e degli Aleardi nel quale il pietismo fa da crisma invalente, forbito nella rassegnazione e nella sottomissione contro ogni rigurgito di rivolta, talché velleitarie risultano le stizze e i propositi di vendetta di Renzo, che finisce cristianamente anche per perdonare don Rodrigo.
Tuttavia, nel tempo del Fermo e Lucia e poi nel 1840 del testo definitivo, rivisto in funzione di una maggiore aderenza al modello linguistico nazionale con l’uso accentuato di toscanismi in sostituzione dei dialettali lombardismi della Ventisettana, il romanzo si salva e viene apprezzato (assurgendo nei decenni a capolavoro assoluto della letteratura italiana, ma solo italiana): e ciò grazie alla sperimentazione proprio di uno stile lessicale del tutto nuovo, di grande suggestione, sorvegliatissimo e fatto soprattutto per essere inteso da una vasta platea popolare di lettori che stia in consentaneità con la stessa narrazione, lontano da salotti e palazzi, anche ricorrendo a un colloquio diretto col pubblico – i cosiddetti “cantucci lirici” – che fa del romanzo un racconto pseudo-orale e innanzitutto semplice nella sua struttura fino a essere elementare. Espunte infatti le parti più precisamente storiche, volute dall’autore anche nell’intento moralistico ed erudito proprio della sua epoca – ricordandosi di Giusti che diceva che “il fare un libro è meno di niente se il libro fatto non rifà la gente” – di educare la coscienza collettiva, l’intreccio risponde a un principio non solo di onniscienza ma anche di onnipresenza in forza del quale l’autore appare avvertito di ogni umore individuale e sempre vicino ai personaggi, che se lascia per raccontare di altri poi riprende per riportarli a pari del racconto – mirabile prodotto narratologico di un romanzo che eccelle per lo splendore dello stile e della costruzione diegetica, ma che pure tradisce difetti, ingenuità e incongruenze di fondo.
Quanto ai primi fa specie come la minuziosa acribia nel descrivere i fatti lasci poi posto, dopo la lunga dissertazione sulla peste, a un’accelerazione del racconto che diventa sbrigativo e superficiale. Appena accennate sono le circostanze della morte di Perpetua, del Griso, del conte zio e persino quelle del contagio di Renzo; di padre Cristoforo esiliato a Rimini scrive che la sua storia dal punto è in cui è stato lasciato “sarà raccontata in due parole” e di Renzo diretto a trovare Agnese scrive che “non aveva meno fretta e voglia di finire di quel che possa averne il lettore”, al quale poi promette che in un momento gli farà passare tutto il tempo prima del ritorno di Lucia dal lazzaretto. Il risultato è una sensazione di disequilibrio che, nella fretta dell’autore di arrivare al termine, induce a supporre il prioritario interesse ormai soddisfatto di fungere da storico e raccontare i giorni della peste nonché una perdita di interesse circa l’epilogo della storia d’amore di Renzo e Lucia una volta superati tutti gli ostacoli.
Quanto alle ingenuità e alle incongruenze si pongono alcuni interrogativi e una riflessione sulla natura del romanzo stesso. Quale sarebbe stato se il cuore di Lucia fosse stato piuttosto conteso ad armi pari da Renzo e Rodrigo e lei avesse dovuto scegliere, attratta da due mondi contrapposti? Ma soprattutto, che tipo di interesse ha il baldanzoso e scioperato signorotto nei confronti proprio di quella giovane filatrice, che alla fine i bergamaschi immiseriranno, indispettendo Renzo, non trovandola affatto bella come presagiva la sua fama? Solo lui oltre Renzo la trova attraente da metterle gli occhi addosso tra le tante compagne della filanda con cui lei si conduce? Manzoni non lo precisa, perché ha scelto la prospettiva più “romanzesca” rendendo Renzo quanto più buono e amabile e don Rodrigo il più odioso e cattivo degli uomini, opponendo così bene e male nella canonica e facile dicotomia che non lascia dubbi al lettore circa il favore da accordare.
Spiega Manzoni che l’incaponimento del giovin signore, spinto al punto da ordire addirittura il rapimento della ragazza, è legato più che alla scommessa ai contraccolpi che gli deriverebbero nell’alta società dall’onta della reazione di un frate, padre Cristoforo, e di un villano, Renzo Tramaglino, senonché del suo colloquio con il cappuccino nessuno viene a conoscenza mentre Renzo non ha preso iniziativa alcuna nei suoi confronti, nemmeno privata. Anzi, a dispetto dell’ordine impartito ai suoi “bravi” da don Rodrigo di “sorvegliarlo e incontrarlo”, cioè di provocarlo, alla taverna Renzo “non gli dà nell’unghie”, cioè non li provoca, e loro non ottemperano alle disposizioni.
L’incontro alla taverna capita la stessa notte in cui sono programmati il rapimento di Lucia e il matrimonio strappato mercé la dichiarazione da rendere davanti al curato, presenti due testimoni. Una coincidenza da ‘helzapoppin: Lucia sfugge al rapimento perché è con il suo promesso sposo in casa di don Abbondio per tentare con un blitz il matrimonio dichiarato, circostanza nella quale una parte della critica ha voluto vedere l’intervento del Caso nella forma della Provvidenza, mentre è più facile pensare a una trovata romanzesca che peraltro coincide con una grossa falla della trama relativa ai tempi di svolgimento: il “vecchio servitore” di don Rodrigo va dopo il tramonto da padre Cristoforo per avvertirlo del progetto di sequestro per quella notte (quando il giorno prima, ancora ignaro del disegno che nasce solo la sera, dice al cappuccino che l’indomani mattina andrà a trovarlo per rivelargli le molte cose che sa: quali?) mentre il piccolo Menico, mandato la mattina da Agnese dal cappuccino al posto di Renzo, atteso dal frate per ragioni rimaste nella penna, solo a tarda sera torna al villaggio appena in tempo per fare scappare Agnese, Renzo e Lucia. Tutto ciò è romanzescamente imbastito per rendere rocambolesca e concitata la notte, giocata sul filo della suspence e del brivido ancor più perché decisiva per le conseguenze che si determinano in avanti.
Eppure in una lettera del 1822, quando ha da poco cominciato a scrivere il romanzo, Manzoni sembra avere le idee chiarissime circa l’intreccio, giacché scrive: “Io credo che il miglior modo di non fare come gli altri sia quello di considerare nella sua realtà la maniera di agire degli uomini e soprattutto di considerarla in ciò che essa ha di opposto allo spirito romanzesco”. Lo statuto dell’autore è fondato sul rigetto di ogni forma di artificio, di trovata e di costruzione. “In tutti i romanzi che ho letto” continua “mi par di vedere uno sforzo per stabilire rapporti interessanti e inattesi tra i vari personaggi, per ricondurli insieme sulla scena, per trovare vicende che contemporaneamente e in modi differenti influiscano sul destino di tutti, insomma un’unità artificiale che nella vita reale non si trova”.
Il modo di non fare come gli altri Manzoni lo trova però solo nella lingua, perché nel contenuto I promessi sposi involge una prova sfacciata del dominio anzichenò dello spirito romanzesco. E siamo alle altre incongruenze. Quando Lucia, prigioniera dell’innominato, si risveglia e parla con la vecchia sorvegliante, l’arrivo di don Abbondio non può avvenire in quel frangente perché nel frattempo si è avuto il lungo incontro dell’innominato con il cardinale, seguito dai preparativi per il viaggio e la liberazione della fanciulla. E ancora: romanzesco è certamente il comportamento di Renzo che si trova coinvolto nell’assalto ai forni e poi arrestato e ricercato solo per volere soddisfare la curiosità di vedere cosa sta succedendo, arrivando persino a ubriacarsi pur essendo astemio, quando il suo carattere posato e responsabile, la gravità del momento e l’urgenza di raggiungere il convento di padre Bonaventura tutt’altri pensieri che gozzoviglie dovrebbero ispirargli.
Romanzeschi, invalendo meccanismi fatti per incrementare l’intreccio e renderlo più vicino al gusto popolare, sono senza dubbio anche la fuga di Agnese con don Abbondio e la Perpetua, che pure ha ingannato e dai quali ha ricevuto il torto che sta alla base della disgrazia della figlia; l’avversione del governatore in persona nei confronti di Renzo, tale da rendere spasmodica la sua latitanza; il ritrovamento da parte di Renzo di un campanello di monatti che gli serve per incontrare casualmente Lucia nel campo femminile del lazzaretto; la conversione dell’innominato che si accende giust’appunto subito dopo che don Rodrigo gli chiede di rapire Lucia e lui accetta; la reticenza di Renzo di rivolgersi egli stesso all’innominato che pure è già andato in soccorso di un “debole oppresso” da gentiluomini, non essendolo nemmeno lui; la circostanza per cui né Renzo né Lucia si ammalino di peste pur contraendola; la curiosa anagrafe di Renzo che sappiamo proprietario di una casetta e di un orto, ma che non ha genitori né parenti stretti, sebbene al cugino Bortolo dica che si farà mandare dai parenti il denaro che tiene conservato; ma soprattutto romanzesco è il guasto di fondo del romanzo: dal momento che padre Cristoforo è pronto a sciogliere Lucia dal voto di verginità, giacché le dice al lazzaretto “Sappiate che noi, deputati alla cura dell’anime in questo luogo, abbiamo, per tutti quelli che ricorrono a noi, le più ampie facoltà della Chiesa”, perché non ha trovato subito un altro parroco che celebrasse il matrimonio se non addirittura provveduto egli stesso, essendo chiamato “padre” e dunque è sacerdote? Se l’avesse fatto non ci sarebbe stato romanzo. Che dunque appare costruito senz’altro a tavolino, ma non come portato di una ricerca storica documentatissima, al punto da riuscire molte volte stucchevole, bensì come frutto di invenzione letteraria, che come tale può ben essere del genere della favola immaginata dall’autore, dal momento che il lieto fine corona un vortice di peripezie e complicazioni presieduto nondimeno da una Provvidenza che però non rimanda all’Aldilà la ricompensa celeste alle tribolazioni subite ma l’assicura copiosamente in quella terrena, cosicché i promessi sposi possono godere di generosissime elargizioni da parte di quegli stessi appartenenti al blocco di potere che, smessa la veste di aguzzini, vestono quella dei benefattori.
Né più e né meno che una favola appunto, dove lo scrupolo di Manzoni di attenersi alla realtà della vita quanto ai caratteri e alla verità sottesa al manoscritto secentesco quanto ai fatti deve fare i conti con l’improbabilità di certe volute narrative e di certi personaggi, primo fra tutti l’innominato. A questa figura, tra le più intriganti del romanzo, disegnata sull’archetipo del futuro boss mafioso, al quale fanno capo tutti i malandrini e viene ricondotta ogni malefatta nell’assoluto dispregio della giustizia, che anzi amministra per conto proprio, Manzoni assegna il ruolo proprio di Paolo di Tarso mutato dal cielo da persecutore in protettore. La sua apparizione, improvvisa e potente, produce però l’effetto di deporre don Rodrigo dal rango di malvagio assoluto, per mostrarlo succube del suo dominio, tanto da scomparire dalla scena per tornare alla fine appestato e morente. L’autore non ci dice nemmeno come reagisce alla conversione dell’innominato né qual è il suo umore dovendo rinunciare a Lucia e perdendo la scommessa e la faccia. Con l’innominato si manifesta la Provvidenza e per Lucia e Renzo si apre la via della felicità terrena.
È una Provvidenza sotto la specie della Grazia che non può avere macchie, per modo che i delitti della monaca di Monza riportati nella Ventisettana non compaiono più nella Quarantana dove Manzoni si ferma oscuramente a dire, dopo la scomparsa misteriosa di una conversa, che “il lettore può avere inteso che quella volta non fu l’ultima, non fu che un primo passo in una strada d’abbominazione e di sangue”. La sua preoccupazione, pensando a un’edizione destinata a un pubblico non più solo milanese e magari a non contrariare le autorità ecclesiastiche che si sono mostrate tiepide fino a ordinare a Roma il sequestro del libro, è di non rappresentare i disegni divini nel segno della cognizione del male, motivo per il quale l’eccelsa figura del cardinale Federigo Borromeo, il salvatore dell’innominato e il caritatevole protettore di Lucia, non viene ricordata quale fu storicamente tra i responsabili dell’autodafé al quale è condannata una ragazza ingiustamente accusata di spargere la peste.
Romanzo scritto nell’Ottocento, ambientato nel Seicento e che noi continuiamo a leggere nel Duemila con immutato trasporto, per la carica dei suoi valori spirituali e umani nonché cristiani, I promessi sposi è un romanzo che dimostra quanto la letteratura possa essere universale e atemporale indipendentemente dall’ambito di svolgimento del racconto. Anche nella revisione toscaneggiata del 1840, il capolavoro manzoniano è un libro decisamente milanese, topograficamente concepito anche come beadeker della città secentesca colta nei mutamenti intervenuti fino all’Ottocento. È infatti ai suoi concittadini che Manzoni parla quando dice “qui” per indicare Milano, quando del Castellaccio diroccato scrive che “forse dieci de’ miei lettori possono ancor rammentarsi d’aver veduto in piedi” oppure quando ritiene di dover presentare il lazzaretto “se per caso questa storia capitasse nelle mani di qualcheduno che non lo conoscesse né di vista né per descrizione”. Romanzo milanese dunque, ma divenuto italiano, spaccato del carattere nazionale, celebrazione del Divino amore, testo di brillantezza linguistica, libro che è anche manuale di scrittura e documento delle possibilità del romanzo come mezzo di espressione delle vicende umane.

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[il nuovo romanzo di Gianni Bonina è: "Ammatula" (Castelvecchi) - di recente in libreria anche il volume: "Fatti di mafia" (Theoria)]

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CENT’ANNI DI SOLITUDINE di Gabriel García Márquez (Leggerenza n. 18) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/03/17/centanni-di-solitudine-di-gabriel-garcia-marquez/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/03/17/centanni-di-solitudine-di-gabriel-garcia-marquez/#comments Tue, 17 Mar 2020 08:12:40 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8436 imagedi Gianni Bonina

L’incipit di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez è oggi un crisma della letteratura di ogni tempo: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. Un repentino balzo temporale in avanti seguito da un vertiginoso salto nel passato tra prolessi e analessi entro un’antinomia di sorpresa e nonsenso che accosta inopinatamente il plotone di esecuzione e il ghiaccio.
Una delle tante sorprese, in un romanzo nato in stato di grazia nella sola culla possibile, il Sudamerica del realismo magico, arriva quando l’autore dapprima rivela che Aureliano Buendia sarebbe morto di vecchiaia e successivamente narra come il colonnello fosse invece riuscito a scampare alla fucilazione. Si tratta di un andamento attentamente e argutamente studiato. In tutto il romanzo infatti l’ordine cronologico degli avvenimenti lascia sempre il posto a quello diacronico in un vorticoso rovesciamento diegetico nel quale non solo l’esito di una vicenda anticipa anche di molto il suo svolgimento, ma la stessa successione degli eventi risponde agli scarti propri di una mossa del cavallo, favorendo svolte impresagite e risultati d’effetto. Quando per esempio Aureliano Buendia dichiara che non sono tempi per pensare ai matrimoni, il lettore non immagina quali siano i tempi certamente drammatici che facciano da impedimento agli eventi più lieti fin quando García Márquez non dà conto dell’adesione di Aureliano al partito dei liberali in guerra contro i conservatori: ponendo peraltro in questo modo la questione pubblica come prioritaria rispetto a quella privata e offrendo altresì una ulteriore bipolarità che sotto traccia lega la storia di una famiglia e di una comunità che cresce attorno ad essa ai destini di un Paese travagliato dai torbidi della guerra civile.
In questa prospettiva Macondo si trasforma da posto paradisiaco, teatro fiabesco di avvenimenti straordinari e meta di figure oltremodo stravaganti, in un inferno di guerra, piazzaforte della rivolta liberale e campo di sterminio di tremila lavoratori, fra cui anche donne e bambini, buttati cadaveri a mare da un treno di duecento vagoni, a stare almeno alla testimonianza di José Arcadio Secondo al quale nessuno però crede, come non sarà creduto Aureliano, l’ultimo dei Buendia, quando molto tempo dopo, esattamente cento anni, narrerà del colonnello Aureliano Buendia e delle sue trentadue guerre tutte perse o anche della presenza a Macondo della compagnia bananiera yankee: quasi ad affidare a una palinodia l’intero ciclo di generazioni e vicissitudini di una famiglia che vive e scompare in simbiosi con il villaggio cui ha dato vita, dividendone l’astrazione col fare del tempo una dimensione metafisica, un piano di assorbimento e concentrazione di fatti che sembrano avvicendarsi più che succedersi in un continuo presente. Cosicché le escursioni tra passato e futuro sono non a caso funzionali all’uso prevalente di un tempo, l’imperfetto, che è il più narrativo e il più appropriato per fissare un’esperienza in un’epoca indistinta dove il passato diventa un tapis roulant dagli effetti di un cosmorama.
Tale è appunto la funzione del ghiaccio, che più volte l’autore evoca per ricordare un’epifania remota vista come un’illusione o un sogno, tanto che José Arcadio Buendia, il primo dei “ventuno intrepidi” decisi a trovare il mare sviscerando la sierra verso ovest e arrivati a fondare Macondo, tiene sopra il ghiaccio portato da Melquiades la mano “per diversi minuti, mentre il cuore gli si gonfiava di timore e di giubilo al contatto col mistero”. Il ghiaccio, di cui l’ecista fa la sconcertante ed entusiastica scoperta, è il correlato della scienza che via via arriva anche in un villaggio sperduto nella palude del nord della Colombia caraibica dove non si muore neppure di morte naturale, sicché manca pure il cimitero: nel segno di un credo per il quale non si è di nessun luogo fino a quando non si ha qualcuno sottoterra.
Lo stupore di mistero che strega José Arcadio Buendia alla vista del ghiaccio e che tanto colmerà il figlio Aureliano da essere il suo ultimo pensiero davanti ai fucili puntati, si trasmetterà a tutti gli abitanti di Macondo nel tempo a venire, con il progresso delle invenzioni scientifiche e il loro arrivo nel villaggio, al punto che cinema, grammofono e telefono susciteranno come una malìa collettiva, giacché “nessuno poteva sapere con cognizione di causa dove erano i limiti della realtà”, trattandosi di “un guazzabuglio di verità e di miraggi”. Gli abitanti si sentono persino presi in giro quando al cinema vedono storie che credono vere ma poi scoprono che un personaggio morto e sepolto in un film torna vivo e da arabo in un altro.
L’insieme di verità e irrealtà, che integra il misto manzoniano di storia e invenzione, è appunto la cifra che regge dalle fondamenta questo poema in prosa al quale l’ultima cosa da chiedere è la rispondenza al principio di verosimiglianza, perché anche questo elemento è un inganno di fronte a personaggi che si muovono seguiti da farfalle gialle, tengono corrispondenze con medici invisibili, vivono fino a centoquarant’anni, si incielano trasfigurandosi, nascono con la coda di maiale per venire in fasce portati via da enormi formiche rosse e resuscitano addirittura.
La sospensione dell’incredulità è il requisito necessario per godere di un romanzo che allo stesso tempo è storico, perché richiama dal vero la storia della Colombia, ma è anche sociale, fantasy, saga familiare, bildungsroman e d’avventura. Racconta gli immaginifici rivolgimenti di una casa nella quale sette generazioni si susseguono nell’arco di un secolo, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fino ad arrivare a metà Novecento, a ridosso dell’uscita del libro nel 1961. Da José Arcadio Buendia al neonato Aureliano, mangiato dalle formiche secondo la predizione di Melquiades, che ha scritto l’intera storia dei Buendia prima che essa si compiesse, la casa dove Aureliano Babilonia trova opprimente il peso di un passato tanto pesante e che nessuno ormai conoscerà o ricorderà è lo spazio nel quale il tempo si svolge in vista di una dimensione unificata e giustappunto spaziotemporale, deformazione che è proprio l’obiettivo perseguito da García Márquez. Un disegno ordito con la maestria di un grande conoscitore dei mezzi espressivi.
imageLo scrittore premio Nobel sa bene che per dare al tempo la necessaria inconsistenza capace di rendere il solo modo dell’indicativo presente deve ricorrere al minor numero possibile di scene dove descriva ambienti o dia la parola ai personaggi, per modo che la riduzione quasi al grado zero dei dialoghi, perlopiù epigrammatici, sentenziali, apodittici, insieme con la descrizione limitata al senso di una definizione, conferisce alla narrazione una rilevanza decisiva che dota il racconto di una voce sola, quella del narratore, libero e arbitro non solo dei fatti ma anche dei criteri con cui riferirli. Il lungo e improvviso monologo interiore di Fernanda che assume i toni di un vero stream of consciousness, unico caso di rottura di un impianto stilistico coerente e continuo, sempre tenuto sui toni alti di una voce narrante accordata al più consapevole sentimento lirico, sta proprio a comprovare uno spirito di libertà che può fare apparire lo scrittore anche un constatorie e volgere il testo in un racconto orale. García Márquez vuole in sostanza attestare la sua precedenza sui personaggi e affermare il modello della saga, dove più è lungo il tempo della narrazione e più scorciate si fanno le scene quanto allo spazio e al tempo concessi ai personaggi. Ma c’è dell’altro.
Una sequenza analogica dei fatti compresi nella fabula avrebbe reso il romanzo non più che un rapporto tutto sommato arido quando l’avere scelto un intreccio versicolare e ricco di salti e rimandi giustifica ed esalta l’aria di fiaba che il romanzo vuole senz’altro privilegiare. Prova ne sia lo scioglimento finale che si costituisce come una ipocatastasi che richiama tutti i personaggi facendoli rivivere nella casa, destinata a essere distrutta da un uragano insieme con Macondo, col riepilogare cent’anni di una storia indivisibile nel segno di un precetto: la solitudine. Ma a ben vedere si tratta piuttosto del precetto di un segno, quello che denota il carattere dei Buendia. Aureliano fra tutti: alla nascita si riconosce subito per “i suoi zigomi alti, il suo sguardo di stupore e la sua aria di solitudine”. Il “deserto della solitudine”, come l’autore chiama quello nel quale Remedios la bella “rimane a vagare”, designa invece più precisamente uno stato di desolazione e di derelizione che pesa sul destino dei Buendia, come sulla loro casa e lo stesso villaggio, al pari di una entropica rovina che porta alla perdita soprattutto della memoria futura e della propria identità. Entro questa chiave il contrario dei “privilegi della solitudine”, da conquistare dopo “molti anni di sofferenze e di miseria”, come capita a Rebeca, è visto nella misericordia con i suoi incanti, che sono tuttavia falsi e dunque non preferibili.
imageE tanto più solitudine significa desolazione, non solo del mondo circostante ma anche di quello interiore, che la fuga e l’isolamento dei Buendia non è vocazione al romitaggio e al ritiro ma abbandono e cedimento al proprio destino: Ursula ultracentenaria si apparta nella sua stanza, così anche Rebeca si mura viva dentro una casa in disfacimento, il colonnello Aureliano lascia ogni ideale liberale e si rinchiude a costruire pesciolini d’oro, José Arcadio Buendia si isola sotto il castagno, José Arcadio Secondo si segrega per anni per studiare le pergamene lasciate da Melquiades in una stanza che comincia a disfarsi solo quando egli ne esce, Santa Sofia de la Piedad abbandona dopo tutta la vita Macondo e si perde nel deserto della sua desolazione. Tutti muoiono soli e nel convincimento che “il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto con la solitudine”, quella soledad la cui accezione migliore evoca un’altra suggestione tutta latino-americana, la saudade, che molto ricorda la dimenticanza e la malinconia. La stessa nuance che come un sortilegio García Márquez imputa alle vicende politiche del suo Paese, preda della violenza di Stato come della natura equatoriale, una natura del tutto speciale.
Quando a Macondo arriva la peste dell’insonnia, per cui tutti rimangono svegli senza però essere per niente stanchi, il male maggiore degli abitanti è la mancanza non del sonno ma dei sogni, ragione per cui si riuniscono per raccontarsi storie, allo stesso modo che nei campi di concentramento nazisti i detenuti si affideranno all’invenzione letteraria, vista come il solo mezzo di evasione. Un “giocattolo” chiama l’autore la letteratura, “il migliore che si fosse inventato per burlarsi della gente”: proprio ciò che egli stesso si propone in linea con un gusto tutto latino-americano di dire il vero e di confutarlo subito dopo, lasciando di crederci o riderci: quello che è appunto il realismo magico il cui maggiore risultato è di gran lunga proprio Cent’anni di solitudine, valso non a caso il Nobel.
García Márquez gioca come un funambolo con la letteratura, abbandonandosi alle volute della fantasia e della memoria infantile ereditata dai racconti sempre effervescenti ed icastici che formano il patrimonio più cospicuo della tradizione sudamericana. Ci gioca per fare profetare a Melquiades il futuro di Internet quando ancora nemmeno lui può averne un’idea: “La scienza ha eliminato le distanze. Fra poco l’uomo potrà vedere quello che succede in qualsiasi luogo della Terra senza muoversi da casa sua”. Ci gioca quando il colonnello Aureliano Buendia sentenzia che “non si muore quando si deve, ma quando si può”, quando stabilisce che la saggezza a Macondo “non valeva la pena se non era possibile servirsene per inventare un nuovo modo di cuocere i ceci”, quando ancora José Arcadio Buendia non sfida a dama padre Nicanor “perché non capisce come due avversari possano ingaggiare una contesa se sono d’accordo sui principi”, quando Aureliano non capisce “come si potesse arrivare all’estremo di fare una guerra per cose che non si potevano toccare con mano”.
La letteratura è allora per García Márquez un gioco di scomposizione della realtà e di ricomposizione del mondo nei modi di un incantamento dei sensi che rende a Macondo possibile ogni cosa. Macondo è dunque la Mekone della mitologia classica, la città aurea dell’armonia, della convivenza irenica tra uomini e dèi, della felicità incondizionata. Ma come Mekone, spazzata per gli effetti della violenza insorta tra Titani e Olimpici, anche Macondo è destinato a sparire per le conseguenze di una violenza non diversa, sia naturale che umana. Come nelle fiabe, nasce dal nulla e nel nulla muore, edificata solo per misurare le possibilità della letteratura quando viene portata al massimo grado di ebollizione dove diventa una sfera di cristallo o uno speculum in aenigmate, un nuovo modo non tanto per cuocere i ceci ma per attraversare lo specchio dell’umano divenire e scoprire una dimensione nella quale persone e cose sembrano reali ma sono frutto di uno sogno da non potersi ripetere, giacché “le stirpi – conclude il romanzo – condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla Terra”.
Nemmeno Cent’anni di solitudine, nonostante le decine di tentativi di imitazione, è più ripetibile. Rimane il solo caso nel quale un autore ha raccontato una lunga storia di uomini soli e desolati facendo di tutto per farla credere vera e al contempo dimostrare che non può esserci nulla di vero. È la prima e unica fiaba per adulti cui sia dato di rimanere attoniti di fronte alla chiusura del romanzo: Aureliano Buendia, persa la moglie e il figlio con la coda di maiale, finalmente decifra le pergamene che Melquiades ha scritto cent’anni prima e scopre qual è il suo destino mentre un uragano biblico comincia a devastare Macondo. Legge freneticamente l’intera storia dei Buendia e salta undici pagine per arrivare al momento della propria morte “come se si stesse vedendo in uno specchio parlante”, ma si rende conto che non potrà leggere mai il verso finale “perché era previsto che la città degli specchi (o degli specchietti) sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell’istante in cui Aureliano Buendia avesse terminato di decifrare le pergamene; e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre”.

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SE QUESTO È UN UOMO di Primo Levi (Leggerenza n. 17) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/02/24/se-questo-e-un-uomo-di-primo-levi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/02/24/se-questo-e-un-uomo-di-primo-levi/#comments Mon, 24 Feb 2020 17:35:00 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8414 imagedi Gianni Bonina

Scomparsi quasi tutti i sopravvissuti della Shoah, non resta che la memoria scritta a ricordare lo sterminio nazista, per modo che Se questo è un uomo di Primo Levi appare sempre più quello che il suo autore voleva che fosse: una testimonianza documentale di denuncia degli orrori dell’olocausto, un libro di storia dal vivo del Lager che, inteso a far conoscere al mondo il suo inferno, risulta autonomo rispetto al secondo titolo di venti anni dopo, La tregua, che contiene il racconto del ritorno e ne costituisce il seguito, quando il Lager è ormai alle spalle: giacché è proprio il Lager il motivo di interesse di Levi, che rivelandone le atrocità combatte la sola battaglia che il popolo ebraico abbia ingaggiato contro il Reich. Vincendola e continuando tutt’oggi a vincerla.
In un recidivante clima di negazionismo qual è quello attuale, questo libro così poco saggio e così poco romanzo, originale per l’estemporaneità del dettato che narra e riflette allo stesso tempo, adduce infatti una tale mole di dati di fatto da formare l’atto di prova più inattaccabile circa l’esistenza dei forni crematori e l’atto di accusa più granitico sulla vita quotidiana all’interno della Buna, il campo di concentramento nazista di Monowitz sorto da una fabbrica di gomma dove Levi fu tenuto prigioniero per un anno prima della liberazione. Scritto a brani scuciti già durante la prigionia e ripreso subito dopo il ritorno in Italia, dunque a ridosso di fatti ancora vividissimi, mosso senz’altro dall’urgenza di propalarli, Se questo è un uomo è il memoir che in Europa, nella temperie della memorialistica post-bellica che vede Savinio lanciare l’appello “Raccontate uomini la vostra storia”, ha con maggiore forza osteggiato il proposito dei nazisti di non lasciare traccia della verità dei Lager quanto allo sterminio di ebrei, zingari e slavi e alle disumane condizioni di internamento.
Invero il testo paga il prezzo di un tempo della scrittura che scorre tra diario quotidiano e racconto memoriale, ora scritto al presente e ora al passato (lacuna che, avvertita dallo stesso Levi, adombra una sfera di frammentarietà che induce un senso di sospensione tra narrazione e scrittura), e – benché l’autore riporti solo quanto ha visto e vissuto, avendo scelto di addirsi al più rigoroso principio di verità e solo a quello – i fatti narrati tendono a stingere nell’inverosimiglianza.  Si prenda l’attività delle camere a gas: Levi le dà per certe quando scrive a Torino e quasi frutto di voci quando invece compila il suo diario seduto alla scrivania del laboratorio di chimica come detenuto, Häftling, numero 174517. Ed è in effetti ciò che gli avviene di vivere, avendo certezza della loro esistenza solo quando tutto il mondo ne è informato, mentre al tempo dei fatti egli è solo con la sua circostanza fondata su rapporti di gomito.
L’indeterminazione tra il tempo della scrittura e quello della narrazione finisce così per rendere incerti i fatti, ma unicamente quanto al momento della conoscenza che di essi fa l’autore, cosicché il Levi che scrive fuori dal Lager sa per esempio che le selezioni periodiche, disposte per fare spazio nel campo ai nuovi arrivati, prevedono il trasferimento dei detenuti meno capaci al lavoro dalle baracche alle camere a gas di Birkenau, mentre il Levi che scrive dentro il Lager può credere come gli altri, anche per darsi un minimo di speranza, che gli inabili siano diretti a un campo di convalescenza. Questo doppio piano di scrittura integra un duplice narratore ma non anche un doppio dell’autore, che nulla o poco concede a cedimenti moralistici, a toni predicatori e alla retorica della riprovazione. I fatti bastano da soli, senza aggettivazioni e accentazioni, a cogliere appieno lo spirito profondo del Lager e identificarsi con i quarantamila internati della Buna, vivendone le spietate leggi non solo di sopravvivenza ma anche di sopraffazione di un detenuto sull’altro.
imageRiportando la vita del campo osservata dalla sua condizione di ebreo italiano (benché a Torino scriva “Oggi io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente avvenute”), Levi consegna alla storia il rapporto più drammatico e circostanziato di quella che egli definisce «una gigantesca esperienza biologica e sociale», ovvero la prova che l’uomo comune, al di là di lingua e religione, viene costretto ad affrontare come essere vivente: da un lato spinto a soddisfare i suoi bisogni, primo tra tutti la conservazione della vita, una volta ridotto al pari di un animale indotto ad agire secondo l’istinto più immediato, e da un altro sottoposto a verificare nella convivenza con i suoi simili la sua natura di persona civile e il suo bagaglio di valori umani, allo scopo di determinare appunto se questo individuo è un uomo. Non lo è, come non può esserlo nemmeno il suo carnefice, quelle famigerate Schutzstaffel alla cui responsabilità Levi associa anche il popolo tedesco che giudica colpevole di non aver preso le distanze dal nazismo e dunque di averlo sostenuto col volere non sapere la verità più che non volendo saperla, esercitando quindi un deliberato atto di volontà piuttosto che una coazione a distrarsi.
E del resto nei tanti episodi rivelati da Levi appare chiaro che la singola SS era libera di assumere comportamenti tali, cioè umanitari, da non apparire insubordinato alle gerarchie. Ma non l’ha fatto nessuna di esse. Significativo il caso di un manipolo di SS allo sbando che, dopo l’abbandono precipitoso del campo, vi tornano e sorprendono nel loro refettorio dei prigionieri francesi che vi hanno trovato da mangiare e più caldo che nelle baracche. I sovietici sono a un passo, la guerra è ormai persa, ma le SS decidono di uccidere tutti i prigionieri sparando loro alla nuca e lasciando poi i cadaveri allineati nella neve a monito per gli altri ottocento prigionieri rimasti, fra cui Levi, lasciati in vita perché tutti malati e prossimi alla morte.
Ma Levi non tradisce mai alcun sentimento di odio nei confronti dei nazisti, perché indulgere a ciò comporterebbe provare a comprendere, mentre la disumanità di quanto avviene nel campo è tale che comprendere è fuori dalla portata della mente umana, al punto che non è possibile neppure odiare, perché anche l’odio è un sentimento che implica la comprensione. Nel fondo delle loro gamelle molti detenuti incidevano proprio queste parole da ricordare come un imperativo: “Non cercare di comprendere”. Incomprensibili sono anche le parole che vengono usate per descrivere stati d’essere sortendo accezioni che non rendono il significato reale di esse: parole come “fame”, “freddo” o “stanchezza” non indicano alcuni pasti saltati, alcune ore all’addiaccio o alcune notti da svegli ma ben altro di inimmaginabile e appunto di incomprensibile: una fame irrimediabile e sconosciuta, un freddo che, a venti gradi sotto zero e nudi con i piedi per ore nella neve, è un ambulacro della morte, una stanchezza che porta per risparmiare ogni energia residua a non muoversi nemmeno nella cuccetta. Levi si rende conto di non riuscire a trovare le parole che esprimano le cose e si limita a dire che “sono altre cose” quelle sensazioni corporali che vuole rappresentare. La mancanza di termini appropriati spiega anche il fomite del negazionismo: il quale secondo Levi è fondato sulla brevità temporale dei Lager, perché se fossero durati più a lungo sarebbe nata una terminologia ad hoc e a quel punto la presenza di termini che indicassero “cose” precise sarebbe stata la migliore arma contro quanti negano la Shoah.
imageMancando le parole per designare condizioni fisiche e mentali vissute per la prima volta, Levi ricorre alla distinzione dei detenuti in “sommersi” e “salvati” per definire le due categorie nelle quali “la gigantesca esperienza biologica e sociale” del Lager si realizza. Sommersi sono quelli che muoiono per primi, il nerbo del campo: sono ligi ai regolamenti fino al maniacale, sempre obbedienti e proni, convinti che piegarsi alla volontà di SS e Kapos sia il miglior modo per sopravvivere. Non conoscono la “Kombinacje”, l’arte dell’espediente per la quale anche curare al meglio il proprio aspetto equivale a una garanzia di maggior rispetto. Sono quelli che rinunciano alla camicia, accettando di incorrere in severe punizioni, in cambio di una razione di pane o di una porzione di zuppa, le “monete” elementari di scambio e di baratto; quelli che guardano il filo spinato ad alta tensione da correre a toccare come unica via di fuga non dal Lager ma dalla vita non più sopportabile; quelli che sapendo di essere stati selezionati per il gas pretendono il rispetto del regolamento, nell’assurdità della logica nazista, che prevede per loro triplice razione. Sono i non-uomini, disprezzati da tutti e da nessuno commiserati. Salvati sono invece i “prominenti”, quanti cioè hanno assunto qualche carica o incarico: dai cuochi alle guardie notturne, dagli infermieri ai Kapos, ma anche coloro che si sono guadagnati il rispetto o la simpatia addirittura di qualche SS o come Levi, che è un chimico, risultano utili a un progetto nazista.
Levi non lo nega: è stato fortunato, ma nemmeno per un momento ha mai pensato, come tutti del resto, di uscire dal Lager se non dal camino. Guadagnata nel laboratorio chimico una certa posizione di minore patimento e di maggiore sicurezza, non si è ritenuto per questo un “salvato” e mai un uomo, perché nel campo gli uomini hanno un nome mentre lui ha solo una matricola: quella dal 170 mila in poi che per alcune migliaia di deportati indica gli ebrei italiani. Ma volendo a tutti i costi conservarsi uomo, si sente un sommerso salvato dalla fortuna, finché scopre che un suo sogno ricorrente è lo stesso di moltissimi altri: tornare a casa per raccontare il Lager e non essere creduti. A differenza della stragrande maggioranza dei sopravvissuti, che per decenni o fino alla morte si sono chiusi nel silenzio, Levi sin dai giorni della prigionia decide di scrivere ogni dettaglio della “eccezionale condizione umana” in cui è costretto a vivere e dunque accumula dati, anche trascurabili, episodi marginali, evoca figure di secondo piano, descrive con precisione gli ambienti, tutto ciò al solo scopo di essere creduto. Molte volte scrive infatti “Bisogna sapere che…” più nell’intento di dire la verità che di raccontare una storia. Il romanzo recede e paga qualcosa ogni volta che diventa necessario denunciare una realtà difficile da credere vera.
Ma non è solo il timore di non essere creduti a chiudere le bocche a tutti una volta liberi. La vera riluttanza a raccontare il Lager nasce dalla vergogna, una sensazione che Levi legge negli occhi spenti dei “sommersi” e che analizza non in Se questo è un uomo ma nei primi capitoli de La tregua, che bene avrebbero potuto far parte del titolo più noto perché relativi anch’essi al Lager, ma con dentro i russi e non più i tedeschi. La vergogna che il detenuto sente non è solo quella che prova nel sapersi ridotto al più basso grado di dignità (la stessa che Levi prova quando, lercio e puzzolente, è a contatto nel laboratorio di chimica con delle floride ed eleganti ragazze tedesche che parlano di gite e di feste), ma quella che solo il Lager può instillare di chi si vergogna delle colpe commesse dagli altri: è talmente esacerbato l’abominio nazista che a vergognarsi non sono i carnefici ma le vittime, nella chiave di una variante della sindrome di Stoccolma. Scrive Levi – ma solo vent’anni dopo: anche questo un segno della vergogna vissuta – raccontando l’arrivo a Monowitz dei russi, attoniti e sgomenti: “Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui; e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”.
La storia dimostrerà che in base a quel rovesciamento del senso di vergogna, i tedeschi diventeranno un popolo senza rossore primeggiante in Europa e gli ebrei continueranno a subire la cultura dell’antisemitismo. E a vergognarsi di sé stessi per colpa degli altri. Quel che fa Levi sin dal primo momento, dando al mondo un esempio unico di cosa significhi essere uomini (ciò che spiega il successo del suo libro persino in Germania), è di rompere la tela di succube sottomissione, di vergogna collettiva e di indicibilità dell’ignominia che si stende sulla coscienza dei sopravvissuti. Non aspetta che sia la storia a dire la verità, perché comincia per primo a narrare la sua stagione all’inferno. Dove porta anche la bellezza, ovvero l’uomo nella sua dignità. Lo fa quando nel freddo gelido, affamato e stremato, portando pesanti carichi da un posto a un altro, spiega a un compagno francese La divina commedia e gli recita versi che si sforza di ricordare, scoprendo col ripeterli di non aver mai notato che in due occasioni Dante non usa l’espressione “mettersi” ma “mettere se stesso” che ha maggiore forza. Poi, al momento di recitare i versi sugli uomini nati non “per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”, il compagno francese, anch’egli devastato dalla sofferenza, gli chiede di ripeterli non perché gli faccia bene sentire verità così solenni ma perché capisce che fanno bene a Levi.
Anche questo succede nel Lager, dove una poesia può valere un momento di benessere e dove Levi si dice pronto a rinunciare alla zuppa del giorno pur di ricordare il seguito di alcuni versi: un modo per sfuggire la realtà cercando riparo nella letteratura, ancor più significativo perché il giovane Levi è un chimico e non un letterato. L’urgenza principale che a un certo punto avverte è di spiegare al compagno i versi “come altrui piacque”, perché l’indomani avrebbero potuto essere morti e perché in quelle parole (“Alla quarta levar la poppa in suso / E la prora ire in giù, come altrui piacque”) egli scopre il senso della sua gigantesca esperienza biologica e sociale, sicché scrive: “Devo dirgli […] qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui”.

© Gianni Bonina

(È vietata la riproduzione anche parziale)

[il nuovo romanzo di Gianni Bonina è: "Ammatula" (Castelvecchi) - di recente in libreria anche il volume: "Fatti di mafia" (Theoria)]

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LE AVVENTURE DI PINOCCHIO di Carlo Collodi (Leggerenza n. 16) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/01/17/le-avventure-di-pinocchio-di-carlo-collodi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/01/17/le-avventure-di-pinocchio-di-carlo-collodi/#comments Fri, 17 Jan 2020 15:48:08 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8384 imagedi Gianni Bonina

La storia di un burattino (primo titolo delle Avventure di Pinocchio) appare a puntate sul supplemento per bambini del “Fanfulla” nel biennio in cui, tra il 1881 e il 1882, è ambientata l’altra storia scolaresca a sfondo pedagogico raccontata anni dopo da Edmondo De Amicis in Cuore. Il periodo è quello della deprecatio temporum che coglie la cultura nazionale di fronte all’Italietta postunitaria chiamata a darsi un futuro e ad offrirlo innanzitutto alle generazioni più giovani ammaestrandole al bene e istruendole al rispetto della legge e dello Stato. Carlo Lorenzini (che una distorsione storica ha mutato, benché fiorentino dalla nascita, in Carlo Collodi, derivando il cognome dal paese della madre alla quale era morbosamente legato) scrisse quelle che in volume sarebbero diventate nel 1883 Le avventure di Pinocchio in preda a un doppio risentimento: generale per le deludenti sorti dell’Italia ben poco magnifiche e progressive, nonché di Firenze non più capitale da dieci anni, e personale per la misera vita solitaria condotta da celibe a stecchetto, tra grandi ubriacature, insuccessi di scrittore e sfortunate serate al tavolo di gioco.
Ma mentre Cuore è il libro dell’Italia povera e della Torino industriosa che guarda alla nazione con fiducia e ottimismo, il Pinocchio di Collodi, imbevuto regionalisticamente e culturalmente nella limpidissima lingua dell’Arno, prospetta un Paese al nero, funestato dalla presenza ricorsiva della morte e da un pessimismo che sembra accanirsi come un destino inesorabile. Il romanzo considerato il capolavoro italiano in prosa dopo I promessi sposi e le Operette morali (giudizio espresso da Pietro Citati), il più tradotto e il più venduto in Italia, fu concepito come una mortifera favola prosopopeica, tale per il gran numero di animali parlanti, che della favola non avesse però né l’incipit canonico dato dall’apostrofeico “C’era una volta” né il desinit assicurato dall’irenico “e vissero felici e contenti”. Apologo morale più che favola banausica, il Pinocchio di Collodi non comincia con un re né con chi in effetti avvia l’azione, cioè mastro Ciliegia, ma con l’oggetto dell’azione stessa, un pezzo di legno che si anima solo dopo essere sollecitato, mettendo così in essere un tipo di racconto fantastico che non muove da un uomo o un animale, ma dalla materia grezza. Sull’effetto di questa sorpresa, dove una cosa subentra a un ente, l’autore sciorina tableaux vivants addotti a dimostrare il rovescio della favola, nel senso che essa può sortire anche un fine tragico.
La prima versione del romanzo si chiudeva infatti con l’impiccagione di Pinocchio alla “Quercia grande”, dunque determinando nei giovanissimi lettori un trauma inatteso e del tutto immotivato, se non supponendo il proposito dell’autore di aduggiare, perché arrabbiato, la più imberbe coscienza nazionale. Collodi si rivolge sin dall’inizio ai suoi «piccoli lettori» nell’intento di raccontare loro in favola le peripezie di un burattino, sicché definisce la sua opera “una bambinata”, perché destinata appunto ai bambini, né si prefigge di fare della sua marionetta un ragazzino vero, per modo che li conduce poi, quasi a tradimento, non a un lieto fine bensì a una specie di golgota nel quale Pinocchio, impiccato dagli Assassini, «chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dando un grande scrollone, rimase come intirizzito». E di golgota si può ben parlare giacché le sue ultime parole riecheggiano il sospiro di Cristo sulla Croce, l’invocazione «Oh babbo mio! Se tu fossi qui!» richiamando da vicino il grido di dolore “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Epperò una favola a fondo tragico non s’era mai vista, apparendo inconcepibile anche al più dissacratorio degli scrittori, motivo per cui Collodi fu sollecitato dall’editore e dal pubblico a dare seguito alla storia del burattino, ciò che l’autore fece senza tuttavia virare verso un percorso soterico, anzi inasprendo la linea noir del romanzo e solo alla fine presagendo la “resurrezione” del burattino nelle forme di un “bambino perbene”. In continuità con la prima parte e nello stesso spirito tenebroso e opprimente, di lotta per la sopravvivenza più che per l’affermazione di qualche ideale, Collodi non fa che reiterare atmosfere cupe e in taccia di morte.
Si pensi solo all’impressionante teoria di morti che costellano il romanzo per convenire con ogni lettore circa il suo fondo terribilistico e il senso di paura che ha sempre instillato in chiunque. Muore schiacciato il grillo parlante, il merlo finisce mangiato, il gatto ha la zampetta tranciata, la bambina dai capelli turchini dice che sono tutti morti nella casa dove lei si dichiara anch’essa morta, il serpente muore di convulsioni, muore la fatina, il bambino sulla spiaggia è dato per morto, il cane quasi annega, Pinocchio stesso finisce quasi fritto dopo aver rischiato di rinfocolare il camino di Mangiafoco, il ciuco muore in fondo al mare, Lucignolo muore asino; senza contare il Pesce-cane che divora bastimenti ed esseri umani, mastro Geppetto che affoga, i conigli con la cassa da morto, il cane e l’asino che muoiono a due contadini, la rappresentazione del “paese dei morti”: non c’è sole che splende sulle vicende rocambolesche di Pinocchio, protagonista di fughe e di viaggi quasi sempre notturni, tantalizzato da esseri viventi mostruosi e malvagi, tuttavia soccorso da animali di tutt’altro animo come il Tonno, il Colombo, la Lumaca, il Delfino, la Lucciola.
Riprendendo il romanzo sospeso, Collodi adotta il mezzo peggiore per educare i bambini a diventare cittadini esemplari: invece di indicare i vantaggi che la scuola offre per la vita, ne mostra le nefaste conseguenze a volere fare a meno di essa e anziché illustrare le possibilità di successo conseguibile nella società grazie a un titolo di studio annette all’istruzione il beneficio primario di essere buoni o di diventarlo. Il bene che coincide col buono e non con l’utile integra il modello pedagogico proposto nella stessa stagione da don Bosco e teso a salvare i ragazzi dalla strada prima che sia loro prospettato un avvenire. Onorare i genitori e ubbidire ai maestri, crescendo nel timore di Dio, sono per Collodi gli imperativi di cui i ragazzi del suo tempo devono farsi carico, prefigurando una meta di rettitudine alla quale Collodi vuol fare giungere il suo burattino perché diventi giustappunto non tanto un bambino “vero” quanto un bambino “perbene”.
Il lieto fine della favola assume quindi il significato di ricompensa, da guadagnare attraverso le opere di buona condotta, al di là di valori individuali e di merito quali la competenza, l’abilità, l’attitudine, la fortuna. Figlio della sua epoca, sia pure insofferente, Collodi non si sottrasse perciò al compito affidato alle classi dirigenti della nuova Italia di educare il popolo nel segno del premio e del castigo, pur con l’indulgenza suggerita dal Verbo cattolico e la comprensione umanitaria che faceva da leva alla pietà laica verso le classi povere, che fossero in Sicilia i Malavoglia e in Toscana i mastri Geppetto. Ma lo fece con mano severa. Al punto da affrontare una questione come quella della giustizia, fortemente sentita nel secondo Ottocento, con un atteggiamento antifrastico ed enigmatico: quando Geppetto acciuffa Pinocchio andato via di casa, il carabiniere arresta lui e non il burattino perché dà credito alla voce della gente che è sfavorevole al falegname; allo stesso modo il giudice di Acchiappacitrulli ordina la carcerazione di Pinocchio anziché accogliere la sua denuncia per essere stato depredato di quattro zecchini d’oro dal Gatto e dalla Volpe.
Queste interpretazioni di legge sembrano divergere dalla morale che pervade la favola, tutta rivolta com’è alla tutela della patria potestà e alla salvaguardia della proprietà, ma rispondono a un criterio che funge da fondamento all’etica collodiana: il riconoscimento della colpa a prescindere dall’accertamento del reato, preludio kafkiano e presidio del canone di giustizia ottocentesca retaggio dei regimi di tipo borbonico anche nel Granducato di Toscana. Se ne ha prova nel momento in cui il giovane imperatore di Acchiappacitrulli dispone la liberazione di tutti i carcerati colpevoli di un reato, beneficio che non può però riguardare anche Pinocchio perché non è considerato dal carceriere un detenuto «del bel numero». Pur avendo provato a protestare alla sentenza di condanna che gli è stata inflitta a quattro mesi di carcere, Pinocchio dichiara allora di essere anch’egli malandrino, confessione che gli consente di tornare libero e che opera un rovesciamento della precettistica giuridica per cui si è rei se confessi e non se colpevoli. Se ne ricava un codice secondo cui la voce popolare fa stato, valendo come prova testimoniale ai fini di un giudizio, e vige la regola che intentare accuse additando rispettabili cittadini costa la condanna per calunnia. Se ne ricava anche che l’accettazione della pena e della veste di trasgressore dell’ordinamento comune può favorire la clemenza dello Stato, risultato che ogni probo cittadino deve traguardare allo stesso modo di come ogni bravo scolaro deve ottenere il beneplacito del maestro.
Era tale esempio di educazione civica repressiva che Collodi offriva agli scolari che fossero in vena di qualche licenza proibita, compresa quella di rubare per fame. La Lucciola dice infatti a Pinocchio che «la fame non è una buona ragione per poter appropriarsi la roba che non è nostra», deliberazione che spinge il burattino sbarcato in un’isola a chiedere al Delfino «se vi sono dei paesi dove si possa mangiare senza pericolo di essere mangiati», il rischio essendo di venire sopraffatti invece che sostenuti. Nel mondo di Pinocchio i bisogni materiali sono dunque da soddisfare con l’uso della diligenza necessaria all’adempimento dei doveri, senza che siano accampati diritti che riguardino né il necessario né il dilettevole. Il premio assicurato allo scolaro che vuole seguire un percorso di formazione conforme all’attesa generale non è la salvezza dell’anima o la pace interiore ma è tutto materiale: il riconoscimento dello stato di bambino perbene, la dotazione di quaranta zecchini d’oro e il possesso di una casa confortevole. Morale della favola: il reprobo diventa provetto se si conduce secondo l’ordine voluto dallo Stato.
Ma benché tipica della ristretta cultura ottocentesca nella quale l’Italia si è formata tra incertezze e perplessità, la dottrina collodiana è giustificatoria: Pinocchio è sostanzialmente buono, consegue brillanti risultati a scuola quando si impegna, ha pensieri amorevoli verso il babbo e la fatina, ringrazia con un bacio il Tonno fino a farlo arrossire, è paziente con la Lumaca, grato con la Lucciola, generoso persino con il Gatto e la Volpe, altruista con Arlecchino, compassionevole con Lucignolo, solidale con il compagno dato per morto, coraggioso nel salvare il cane che sta per annegare, sennonché è vittima continua delle tentazioni di darsi al divertimento e alle quali trova come Oscar Wilde più facile cedere che resistere. è il male del mondo a sviare Pinocchio, male che per Collodi è rappresentato dalle “cattive compagnie”, al suo tempo identificate nella figura del monello, cui si contrappongono quelle dell’orfanello, del poverello e del trovatello, da correggere il primo e da compatire gli altri.
Entro questa retorica non è il male del mondo a dover essere combattuto ma chi ne rimane preda. A Pinocchio è richiesto di essere buono e di vincere le tentazioni con il suo solo discernimento, quello che piuttosto dovrebbe inculcargli la scuola: al posto della quale la funzione educativa e formativa è svolta invece dalla fatina, ipostasi della Provvidenza, che destina i mortali all’inferno o al paradiso, sfere queste rappresentate per Pinocchio dalla scelta se restare burattino o diventare ragazzino. In questa lotta tra salvezza e perdizione Pinocchio è solo, perché non c’è alcun bambino né un adulto pronto ad aiutarlo, anzi da tutti è sfruttato e oppresso, eppure vuole essere umano anch’egli. Collodi lo fa felice dando alla sua odissea un lieto fine edificante e didattico, forse contro i suoi reali proponimenti giacché chiude la favola facendo dire al suo Pinocchio di carne e non più di legno: «Com’ero buffo quand’ero un burattino e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!». A colpirlo è l’aspetto e non il nerbo delle vicissitudini trascorse, quasi che la sua natura di burattino discolo possa apparire normale e nell’ordine naturale delle cose: il ragazzino perbene diventa così l’antitesi e il rimedio non di una sventura ma di una goffaggine. In realtà è il frutto di una serie di prove che Pinocchio è chiamato a superare alla maniera delle figure del mito greco e dell’epica cavalleresca, il guiderdone al termine delle fatiche sostenute.
In questa chiave Collodi non ha che compendiato elementi della cultura occidentale facendo un tout de même del patrimonio letterario comune. Pinocchio trasformato in asino è in debito con L’asino d’oro di Apuleio e con la maga Circe di Omero, il Gatto e la Volpe sono riproposizioni che vanno dai fratelli Grimm a La Fontaine ma risalgono fino a Esopo, Pinocchio che salva il padre portandolo sulle spalle ricorda Enea che soccorre il padre Anchise, il Pesce-cane che divora Geppetto e poi Pinocchio evoca la balena che inghiotte Giona, il bastimento nel ventre del Pesce-cane che serve a Geppetto per nutrirsi del suo carico di alimentari è un doppio di quello arenato in mare e al quale si approvvigiona Robinson Crusoe, e ancora l’icona più nota della genealogia collodiana, il naso che si allunga a ogni bugia, è presa dal romanzo di un autore inglese, Edward Lear, pressoché contemporaneo di Collodi.
Le avventure di Pinocchio sintetizzano insomma un immaginario sparso in più luoghi ed epoche che Collodi ha ricomposto creando un capolavoro immortale cui non nuocciono affatto le tante incongruenze che avrebbero invero affossato qualsiasi altro romanzo: Pinocchio che non sa leggere l’insegna del teatrino delle marionette ma poi legge benissimo la lapide per la morte della fatina; Pinocchio che parla alla bambina dai capelli turchini tenendo gli zecchini d’oro sotto la lingua; Pinocchio che trovandosi nell’isola sconosciuta va tuttavia a scuola e si dimentica del padre disperso in mare; Pinocchio che dice a se stesso di avere sempre ricevuto dal babbo buoni insegnamenti quando col padre non trascorre che poche ore; Pinocchio che riesce il più bravo della scuola, ma poi segue Lucignolo nel paese dei balocchi come avrebbe fatto il più somaro della classe; la fatina morta che poi torna viva e quindi si ammala ma infine guarisce; mastro Ciliegia che si terrorizza alla vocina emanata dal pezzo di legno mentre mastro Geppetto discute serafico col burattino che lo guarda e gli parla.
A nessun lettore, grande e piccolo, è mai importato niente di lacune e superficialità, perché Pinocchio è innanzitutto una fuga dalla realtà come anche dalla plausibilità. Quanto Collodi dice del pezzo di legno, misteriosamente apparso nella bottega di mastro Ciliegia e del quale deve ammettere di non sapere niente, può ripetersi in epigrafe per tutto il libro: «Non so come andasse». Non lo sappiamo neanche noi e non ci importa saperlo. È l’ultima cosa che conta davvero.

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L’ULTIMO DEI MOHICANI di James Fenimore Cooper (Leggerenza n. 15) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/12/21/lultimo-dei-mohicani-di-james-fenimore-cooper/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/12/21/lultimo-dei-mohicani-di-james-fenimore-cooper/#comments Sat, 21 Dec 2019 12:13:01 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8378 imagedi Gianni Bonina

All’origine del western c’è James Fenimore Cooper, che non inventò il Far West né il mito della frontiera ma inaugurò un’epopea, quella dei pellirossa e dei visi pallidi, durata fino a quando il politically correct non ha equiparato quelli a questi e decretato il tramonto non solo dei film spaghetti western ma di un modello culturale ispirato a un mondo wilderness figlio dell’uomo di natura rousseauiano. Cooper (del tutto ignorato da Elio Vittorini nella sua antologia Americana, disprezzato da Mark Twain e considerato tutto sommato un malriuscito Walter Scott americano frammisto al più facilone Honoré de Balzac) pubblica il suo principale romanzo nel 1826, quando nessun autore si è ancora accorto in America dei pellirossa se non chi, come Washington Irving, ne ha tratteggiato i costumi osservandoli però con gli occhi antropologici dei coloni europei, olandesi in particolare. Quando Cooper scrive L’ultimo dei Mohicani, il West è ancora una frontiera non molto lontana dal Mississippi, una terra fatta di trail per carovane guidate da settlers puritani ancora poco addentro alle sconfinate praterie dell’Ovest. Eppure – ed ecco il fatto veramente nuovo – in Cooper il West c’è già come oggi lo conosciamo, ma innestato nell’Est, lungo l’Hudson, tra lo Stato di New York e il Canada.
In questa vasta regione a metà del Settecento vivono due popoli pellirossa, grossomodo riconducibili agli Irochesi e ai Delaware, una cui tribù è quella costituita dai Mohicani, la più antica della nazione indiana e, secondo Cooper, quasi del tutto estinta al tempo del romanzo, ma non è vero perché ancora oggi ne sopravvive un ceppo nel Wisconsin. Cooper ne scrive le gesta tenendosi a ridosso dei fatti, dunque quasi contemporaneo ad essi e testimone degli avvenimenti del 1757, capitati nel mezzo della Guerra dei sette anni tra Inglesi e Francesi per il controllo delle colonie. Sicché può scrivere di una fonte d’acqua sorgiva vicina al “lago salato”: «Entro cinquant’anni la ricchezza, la bellezza e i talenti di tutto un emisfero si sarebbero radunati in massa alla ricerca di salute e di piacere», così indicando come ai suoi giorni quella sorgente fosse diventata già una stazione termale. Ma quel che Cooper scrive riguarda un mondo che vede ancora immacolato, dove le impronte a terra e gli arbusti divelti sono tracce sicure del passaggio di esseri umani e la natura si presenta nei modi di una presenza inesplorata quale la descrive proprio in apertura: «Una caratteristica delle guerre coloniali del Nordamerica era che ancor prima di poter incontrare il nemico si dovevano affrontare le fatiche e i pericoli della foresta» – la natura dunque essendo ostile allo stesso grado, proprio perché sconosciuta. Giusto quel mondo costituirà l’immaginario che nutrirà generazioni di giovani lettori in particolare di fumetti, il genere che più degli altri recepirà le suggestioni del West. Sennonché non ci sono ancora i ranger ma i trapper e quindi, per intenderci, c’è il Grande Blek e non Capitan Miki. Non c’è il vero West, ma il suo cartone preparatorio, il suo introibo.
Appunto da L’ultimo dei Mohicani (terzo episodio di una serie di cinque romanzi con protagonista il cacciatore di cervi Natty Bumppo, qui “Occhio di falco”) il fumetto, almeno in Italia, mutua termini come squaw, hugh!, wigwam, tomawak, totem, Manitù ed espressioni quali disotterrare l’ascia da guerra, sedere al fuoco del consiglio, scendere sul sentiero di guerra, conquistare lo scalpo, scotennare, fumare il calumet: modi verbali tutti ben familiari al genere western e ai suoi appassionati. Proprio Blek Macigno è una riconosciuta trasposizione di Occhio di falco ed è la figura immaginaria più vicina a quella storica di Kit Carson, che è appartenente all’Ottocento ed è fatta poi propria dalla fumettistica. Fenimore Cooper è dunque l’autore che non solo ha inventato il western ma ha anche portato i pellirossa in letteratura e trasferito nella foresta il senso dell’avventura che prima, anche da lui stesso, era rivolto al mare. Anziché solcare oceani, i personaggi della narrativa del Nuovo mondo si addicono con lui a scoprire quello nel quale vivono, scoprendo così i nativi, cioè l’altro da sé che non è negro ma rosso e non sta nei Mari del Sud ma attorno ai Grandi laghi, la cosiddetta “lunga casa”. L’America esiste non ancora come confederazione di Stati Uniti ed è ancora lontana la Guerra di secessione, ma come realtà politica fatta di terre proprietà di Stati europei colonialisti che hanno insediato popolazioni bianche.
imageCosa fa allora Cooper? Si pone nella prospettiva di un Conrad americano che va alla ricerca dell’ignoto intendendo conciliare un incontro interrazziale, per modo che crea la figura di Natty Bumppo, ora esploratore, ora cacciatore, “americano del re” inglese, ma amico fraterno degli indiani, fra cui Chingachgook e il figlio Uncas, così da plasmare l’uomo nuovo del mondo nuovo, un bianco che non tanto partecipi della natura indiana ma ne assimili alcune proprietà primitivistiche confacenti al tipo di società invalente: l’identificazione con la natura e il mantenimento di essa allo stato primigenio, la sacralità della morte, lo spirito religioso, il rispetto per le persone malate o deboli di mente, la saggezza denotata anche dal silenzio, il valore umano segnato dal coraggio e dalla lealtà. Il tentativo che compie Cooper è di riuscire a risolvere il conflitto, noto a tutti gli autori d’oltreoceano, tra le due anime della coscienza americana, quella del pellerossa e quella del viso pallido. Fallisce anch’egli perché Natty Bumppo (il mohicano adottivo che presterà non poche caratteristiche anche a Tex Willer, l’“Aquila della notte” dei Navajos, e che farà da incunabolo all’insorgenza di figure quali il cow boy prima e il fuorilegge dopo) rimane un bianco che, seppur non veda negli americani quanto trova negli indiani, tale vuole essere, interpretando un sentimento che è di Cooper, il quale è bene attento a parlare di “natura indiana” contrapposta a “natura umana” e non ha difficoltà a distinguere i pellirossa secondo la loro vicinanza non ai Francesi ma agli Inglesi, per cui gli Irochesi, ai quali appartengono gli Uroni del malvagio Magua amici dei Francesi sono “selvaggi” che mangiano carne cruda, “canaglie affamate”, quando i Delaware e quindi i Mohicani, alleati degli Inglesi, sono guerrieri e nobili. Il buon proposito iniziale di Cooper di trovare in Occhio di falco il collante tra bianchi e rossi soccombe quindi davanti al convincimento che le ragioni britanniche prevalgano su quelle francesi e debbano essere sostenute sulla base quantomeno di una lingua comune e di una reciproca cointeressenza.
Ma cosa frena Cooper dall’accedere pienamente a un ideale di integrazione razziale che appare sempre sul punto di essere adottato ma mai viene intrapreso? Potrebbe bastare a spiegare tale inadempimento il vincolo del romanzo storico al quale egli guarda nel narrare una storia che comunque è di invenzione ma che pure riprende fatti reali quale per esempio il massacro del forte William Henry, ovviamente a opera degli Uroni? Non può bastare perché non si tratta in realtà di un romanzo storico. Benché nel titolo Cooper provi ad accreditarlo come tale, la vicenda non riguarda Uncas o il padre, dati come ultimi sopravvissuti di una tribù, quanto il protagonista della serie Natty Bumppo mentre, a maggior causa, la trama segue andamenti teatrali che sono propri del romanzo, in particolare di un certo tipo di romanzo americano dell’Ottocento che assorbe elementi di carattere comico, con richiamo per esempio a tipizzazioni come  Davy Crockett o Pecos Bill.
imageE tanto più L’ultimo dei mohicani è un romanzo perché appare soggetto a errori e improbabilità che sono propri del romanzo. Quando il maggiore Duncan Heyward, per raggiungere Alice prigioniera degli Uroni, si traveste da sciamano e viene pitturato per ingannare i parenti di una moribonda che è chiamato a guarire (trovata con esiti più comici che drammatici), mentre l’inappuntabile e sempre composto Occhio di falco si camuffa addirittura da orso e tale lo credono gli stessi pellirossa, al momento di apparire alla ragazza si ripulisce della pittura perché lei non si spaventi (sic!), ma poi nella fuga dimentica di ritingersi senza che però gli indiani lo smascherino. Il romanzo è anche in un’altra scelta che solo il genere può consentire: Mangua vuole Cora come moglie e rapisce lei e la sorella Alice, sennonché la prima la consegna in custodia a una tribù di Delaware, con i quali i suoi Uroni si scaglieranno in una battaglia dove lui stesso rimarrà ucciso, e rinchiude nel suo accampamento Alice. Dovrebbe semmai fare al contrario, ma l’autore spiega che l’indiano «trattenendo Alice possedeva un più efficace controllo di Cora». Chissà perché poi. In realtà, se Duncan accetta di rischiare la vita e si concia da sciamano per penetrare nel campo irochese, ciò fa perché è Alice che è tenuta prigioniera e intende liberare, mentre ai fini della trama è necessario che Cora sia nel campo, peraltro vicino, degli “alleati sospetti” che sono i Delaware. Insomma sono ragioni di adattamento diegetico a portare Cooper a lasciare la storia per il romanzo, pur restando nella logica da saggio della prima giacché si serve di ripetute note esplicative a piè pagina di carattere enciclopedico che sono tipiche di un trattato di storia e del tutto estranee in un romanzo.
Se non è dunque un romanzo storico, perché Cooper non persegue a fondo l’ideale di parità tra bianchi e rossi? Perché L’ultimo dei mohicani è un romanzo che gronda integralismo religioso nella specie di un puritanesimo che ancora negli anni Venti del XIX secolo è fortemente sentito anche come elemento di discrimine sociale per l’imposizione di un credo nel quale è compreso un rigore che è anche etico, morale e razziale. L’immanenza divina nelle forme più severe del verbo calvinista è spinta alla conseguenza di dividere con il bianco e il rosso – e presto con il nero – anche il bene e il male. Per questa via è facile porre una serie di equivalenze distinguendo tra barbarie e civiltà, primitivismo e modernità, selvaggio e civile, pellerossa e bianco.
Cooper accoglie senza esitazioni i precetti puritani e incarica anche Occhio di falco di farsene portatore, insieme con il maggiore Heyward, le sorelle Cora e Alice, il loro padre colonnello Munro (Monroe nella realtà storica), cosicché onnipresenti risultano i richiami alla Provvidenza sotto la forma dell’Antico testamento, senza tuttavia che mai questo slancio mistico trascenda nel tentativo classicamente cattolico di evangelizzazione degli “indigeni”: anzi il romanzo si chiude con la descrizione di un funerale indiano nei suoi riti più barbarici, il seppellimento di Cora in un campo non cristiano e le parole ecumeniche di invocazione di Occhio di falco a “Colui che ci ha creati tutti, qualunque sia il nostro colore”.
Anche rischiando di aprire le maglie non solo al comico più sfacciato ma pure al ridicolo, Cooper fa di più per irrorare la vena puritana: inventa un personaggio ad hoc. Il maestro di canto David Gumat, dalla figura esageratamente alta, come elevata al Cielo, l’ingenuo buontempone allampanato che nemmeno gli Uroni maltrattano tanto da lasciarlo circolare liberamente nel loro campo, si unisce inopinatamente sin dall’inizio al gruppo militare che da un forte inglese va ad un altro per scortare le figlie del colonnello Munro (canovaccio che nutrirà una sterminata produzione soprattutto cinematografica), facendosi conoscere per il suo canto melodioso di salmi biblici. Vuole addirittura portare alla ragione gli Uroni (che seppure selvaggi lo ascoltano rimanendo ammaliati dalla voce angelica) e più volte si propone, da “discepolo del re d’Israele”, di affrontare “i pagani” brandendo la parola del Signore. David Gumat, inteso a favorire l’integrazione e la pacificazione, è piuttosto il deterrente che Cooper pone e oppone: un missionario grottesco dai piedi enormi e dalle gambe lunghissime che non è proprio possibile immaginare nelle vesti dell’apostolo del verbo divino in partibus infidelium. La sua invalitudine è un signum individuationis non diverso da quello che venticinque anni dopo si tradurrà in La lettera scarlatta di Hawthorne in un marchio di riconoscimento e di respingimento, agendo in Cooper nei confronti degli indiani, inattingibili, e in Hawthorne nei confronti dei puritani, inavvicinabili. Il puritanesimo che pervade Cooper è peraltro tale da bandire drasticamente ogni forma non solo di eros ma anche di trasporto amoroso. Quando Duncan si dichiara ad Alice, proprio nel momento in cui dovrebbe pensare solo a liberarla, cioè nella sua prigione, la ragazza gli risponde che prima di ascoltarlo vuole da lui concessa la «sacra presenza» del padre. Quanto alla sorella Cora (sorellastra in verità perché nata da una mulatta caraibica), il suo interesse per Uncas è solo adombrato, ma diventa in qualche modo esplicito quando muoiono nella stessa circostanza e vengono nel funerale indiano uniti in un matrimonio virtuale. In sostanza si comprende che Cooper ha voluto che Cora non fosse una bianca purosangue così da poter sposare, benché solo in spirito, un pellerossa.
Come si vede, le implicazioni che sottendono il romanzo sono tante e così complesse da impedire che si possa parlare di romanzo d’avventura come anche di libro per ragazzi. Alla fine nessuno infatti visse felice e contento: Cora e Uncas vengono barbaramente uccisi e quelli che restano in vita, compreso il vecchio capo delaware, vivranno nel lutto e nel dolore. L’ultimo dei Mohicani vuole rappresentare un’epoca in forma epica ma sortisce una etopea dove confluiscono più elementi sociali, religiosi e politici. Sul piano letterario è un romanzo che da un lato segna una linea tutta americana incentrata sul modello narrativo cronologico progressivo, senza quindi metalessi, prolessi e analessi, senza focalizzazioni e con una forte dominanza della descrizione sulla narrazione, da un altro lato consolida negli Stati Uniti un genere, quello del romanzo, che nell’Ottocento veniva di gran lunga dopo il racconto, visto come più congeniale alla sensibilità americana, nel presupposto che il romanzo richiede memoria storica e una società consolidata, come notava Francesco Mei, che l’America non aveva: tanto che anche capolavori romanzeschi quali Moby Dick, La lettera scarlatta e Huckleberry Finn tradiscono un’articolazione per episodi e fasi isolate, come racconti cuciti. Quello di Cooper è invece un vero romanzo, non disunito e coerente, forse il primo di quella che sarà una lunga galleria. Con i suoi difetti stilistici, dovuti a cadute di stile, ammiccamenti al gusto più popolare, momenti di eccessiva enfasi. Mark Twain diceva che le scene da lui descritte erano più immaginate che viste, cioè false e non realistiche.
Certamente lasciano perplessi, quanto all’espressione stilistica nella traduzione di Nico Orengo, proposizioni come queste: «Una fiammata partì dalla roccia sottostante e un feroce urlo, seguito da un rantolo di agonia, annunciarono che il messaggero di morte inviato dall’arma fatale di Occhio di falco aveva trovato una vittima»; «I rapidi lampeggiamenti dei fucili colpivano a raffiche le rocce con i loro messaggeri di piombo, come se gli attaccanti volessero in tal modo riversare la loro furia impotente sull’insensibile scena della fatale contesa». Il gusto per l’iperbole e l’icastico, la spinta a rendere poetiche le scene entro una retorica tuttavia elementare nuocciono in realtà a Cooper come quando, mosso a mettersi in mezzo tra il fatto descritto e il lettore in un altro romanzo della serie, scrive di Natty Bumppo che guarda gli indiani descrivendo un quadro che a Salvator Rosa sarebbe piaciuto dipingere, non pensando che il buon Natty mai avrebbe potuto sentire parlare del pittore napoletano. Sono limiti che si possono perdonare a Cooper per i meriti che di gran lunga appaiono maggiori. Il più grande è stato quello di aver dato un’identità letteraria ai pellirossa e un’origine al West.

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[il nuovo romanzo di Gianni Bonina è: "Ammatula" (Castelvecchi) - di recente in libreria anche il volume: "Fatti di mafia" (Theoria)]

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I TRE MOSCHETTIERI di Alexandre Dumas (Leggerenza n. 14) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/12/02/i-tre-moschettieri-di-alexandre-dumas/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/12/02/i-tre-moschettieri-di-alexandre-dumas/#comments Mon, 02 Dec 2019 14:50:41 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8360 imagedi Gianni Bonina

Il più tradotto romanzo francese di sempre, del genere cappa e spada ma prima ancora storico e sociale, costituisce il migliore modello sul quale misurare il feuilleton, che nell’Ottocento serviva gli scopi dell’attuale serie Tv e che in Alexandre Dumas toccava anche punte spaghetti western. Capolavoro di ingegno letterario e di superficialità narrativa, I tre moschettieri è l’esempio di romanzo di consumo e intrattenimento che oggi diremmo del tipo di Camilleri. Diverte, annoia, emoziona, spinge ad abbandonarlo e poi a riprenderlo, ma di certo non lascia indifferenti. È un libro che letterati del passato e del presente, da Massimo Bontempelli a Benedetto Croce, da Umberto Eco a Pietro Citati, per restare in Italia, hanno amato rileggere anche a distanza di molti anni, attratti dal suo mistero che generazioni di critici di tutto il mondo non sono riusciti a svelare e che fonda forse la sua grandezza.
Il feuilleton dunque, prima del mistero. Come oggi le serie Tv, anche nell’Ottocento della prima metà i romanzi a puntate che uscivano sui giornali venivano costruiti seguendo il successo di pubblico: conformando al suo gusto il prolungamento della trama e la partecipazione di nuovi personaggi, badando che ogni episodio avesse la sua giusta dose di suspense e il suo numero congruo di colpi di scena (possibilmente a fine puntata per creare l’attesa) e sciorinando lunghi dialoghi e descrizioni ora serrate ora dilavate secondo la misura di parole da raggiungere. E, come nelle nostre serie Tv, era inevitabile incorrere, non potendo rifare le puntate precedenti, in incongruità, ripetitività e contraddizioni, un po’ per disattenzioni dovute alla fretta produttiva e un po’ per la scelta di adattare i fatti da narrare agli ultimi sviluppi diegetici piuttosto che rendere coerenti questi a quelli passati. In questa chiave, I tre moschettieri si offrono a un tale festival di mende e zeppe da incoraggiare in ogni lettore, quasi per gioco, la loro ricerca. Vale lo sforzo di richiamarli, almeno in parte, per capire come anche la loro stessa gravità non abbia per nulla minato un gradimento che nei secoli è arrivato a noi intatto, a riprova di quanto i pregi superino di gran lunga i difetti.
imageIl primo sfaglio, il più segnalato, è già nel titolo, dove sono indicati tre moschettieri, che in realtà sono quattro, sennonché il quarto, D’Artagnan, solo alla fine viene nominato moschettiere perché è una guardia di una diversa compagnia d’armi: gustoso a proposito è l’errore di Dumas quando descrive D’Artagnan che, scese delle scale, “si trova davanti Athos e i quattro moschettieri”. I quali tuttavia non sono i protagonisti ma fanno da comprimari o al massimo da deuteragonisti, giacché la scena è sempre dominata e la trama condotta dal solo D’Artagnan, il vero eroe sul quale ruota il romanzo, arrivato a Dumas da un supposto manoscritto opera di uno dei moschettieri il quale racconta le sue e le avventure degli altri alla corte di Luigi XIII nella Francia del primo Seicento e nel pieno della Guerra dei trent’anni. Dumas ne rifà la pianta e in qualche modo anche la storia, oltre a riscrivere il manoscritto: che posa in dubbio, dal momento che di un personaggio secondario, il cancelliere Guitaut, Dumas dice che “è meglio che i lettori facciano conoscenza con lui, siccome lo ritroveremo probabilmente nel corso di quest’opera”, probabilità davvero insussistente se è vero che lo scrittore ha già letto, come dice in prefazione di aver fatto, l’intero manoscritto. E quanto alla storia tradita, l’autore del Conte di Montecristo, stesso anno di pubblicazione in volume, svaria quando per esempio fa morire il duca di Buckingham per mano di John Felton, personaggio storico e reale omicida, ma perché istigato da Milady, figura di fantasia e conturbante femme fatale o dark lady, a dare credito alla sua doppia nazionalità francese e inglese. Milady è forse più originale di D’Artagnan.
Il fatto nuovo introdotto da Dumas nel romanzo d’appendice fu di fatto proprio l’elevazione della donna, nella taccia appunto di Milady, al grado dell’uomo, come lui (se non peggio) capace di ogni bassezza, di ogni intrigo e scelleratezza, pur non essendo una regina ma solo una impenitente lestofante. Per il pubblico dell’epoca dovette essere perciò uno choc vedere in azione nei quartieri alti di Parigi e Londra una donna tanto bella quanto diabolica, dotata di sofisticate abilità intellettive e capacità anche fisiche, che parte come cameriera e diventa la spalla del cardinale Richelieu, come lui capace di uccidere e ordire congiure di palazzo e trame eversive. A Dumas piacque così tanto questo personaggio oltremodo dissonante, nominato solo “Milady” ad antifrasi sulla sua natura, che, nel momento in cui al rendez-vous la mantide maliarda viene consegnata al boia, è il suo nemico giurato, cioè D’Artagnan, che ne implora la grazia, benché abbia solo da un’ora perso la donna amata per mano proprio della spietata spia bionda. E in lacrime il fiero guascone – che è innamorato di Constance Bonacieux, ma perde la testa pure per Milady – si adduce probabilmente in rappresentanza di tutto il pubblico di lettori, morbosamente conquistato da quel talento in sottana di perfidia e maliscenza, dal corpo angelico epperò marchiato a fuoco dal “giglio dell’infamia” che ne prova l’anima criminale.
Ma nonostante la truculenza, le spade sempre sguainate, i moschetti fumanti e il contenuto splatter, il romanzo è più il tono della commedia che seconda anziché del dramma. A parte il tono ironico, la battuta salace, il ripetuto ammiccamento al lettore, se ne coglie lo spirito leggero e giocoso, da divertissement, nelle sciarade e pantomine in ‘helzapoppin che sostengono non poche scene: il ritrovamento che D’Artagnan fa dei moschettieri persi lungo il viaggio per l’Inghilterra, i cavalli inglesi avuti in dono da Buckingham e venduti o perduti al gioco (chiara satira antibritannica di Dumas) fatti salvi i soli finimenti, l’equipaggiamento di cui i moschettieri devono dotarsi, la colazione scanzonata sul bastione de La Rochelle inframezzata da scontri a fuoco con gli assediati e la salvietta usata come bandiera, la ricerca continua di denari e le trovate picaresche per procurarli. Ma è anche nel contrasto che si crea a ogni nemico morto con il contesto in cui egli è battuto che vediamo la commedia. Il sangue che ogni caduto versa sembra finto, come a teatro e come nel Don Chisciotte, del quale I tre moschettieri non è che la parodia. Dumas lo cita più di una volta e gli rende un esplicito tributo quando parla di “epoca cavalleresca” riferendosi al Seicento e soprattutto quando scrive dei moschettieri del re in guisa di nobili cavalieri: “Era in tal modo che parlavano e operavano i prodi del tempo di Carlo Magno sui quali ogni cavaliere dovrebbe cercare di modellarsi”. Ma c’è di più. I servi dei quattro valenti amici ostentano una deliberata aria di fedeli scudieri, ghiotti di luigi e buoni piatti, avvezzi all’avventura, al vino e al rischio, ma con maggiore destrezza e più attitudine di Sancho Panza, tanto che l’aiutante spiccicato di Don Chisciotte appare il Planchet che nottetempo cavalca al fianco del suo padrone D’Artagnan imbastendo ameni discorsi che sembrano ricalcati da Cervantes. E Aramis non a caso intrattiene disquisizioni con un gesuita e un curato nei quali è facile intravedere il farmacista e il curato della foggia cervantina.
imageNon c’è solo Cervantes in Dumas. C’è anche Manzoni con il suo Seicento milanese, le disavventure rocambolesche, la descrizione della città e dei costumi di piazza e di palazzo, i contrasti con un Innominato che in Dumas è Richelieu, il manoscritto ritrovato e ancora quello stesso spirito disincantato di commedia sociale dove chi parte dal basso aspira a conseguire posizioni di fortuna attraverso mille peripezie e dove un episodio privato e banale, come un matrimonio tra poveri che diventa uno scontro di poteri, innesca una reazione a catena di eventi pubblici. E I tre moschettieri giusto questo sviluppo integra, di una disfida che rasenta le stanze del re e tocca quelle della regina alla quale culmina una elementare lettera di raccomandazione sottratta a un ragazzino di provincia in cerca di fortuna a Parigi che porta infine ai re d’Europa, alla guerra agli ugonotti e agli intrighi di Stato. Il genio di Dumas traluce nel racconto che fa di una parte della Guerra dei trent’anni e della disputa a corte tra realisti e ministeriali servendosi della storia di un ragazzo di venti, nella proposizione del tutto inverosimile che anche questa sia vera come quella, con ciò cucendo un “misto di storia e invenzione” che già Manzoni ha confezionato nei suoi Promessi sposi. La differenza è che Dumas conosce molto meglio i lettori ai quali il bello stile non suscita le stesse emozioni di una bella trama fatta di uniformi, cavalli, corti regali e mani femminili, ma conosce molto meno la coerenza e l’esattezza. I tre moschettieri tradisce infatti disattenzioni impensabili in Manzoni, legato com’è a una tradizione italiana che non ammette sciatterie né nello stile né nella trama.
Giudicando veniali quelle che riguardano il caso dell’uomo col mantello nel quale D’Artagnan riconosce “l’uomo di Meung” che subito dopo però diventa “lo sconosciuto”; il fatto che di ritorno dall’Inghilterra D’Artagnan incontra Tréville, comandante dei moschettieri, dà appuntamento a Constanza, va alla festa del re e non si preoccupa dei moschettieri che non sono più con lui e non sa se sono ancora vivi; il momento in cui Ketty aspetta da Aramis la lettera di raccomandazione per Tours che però lui ha già scritto e le ha pure consegnato da giorni; il caso che pur essendo all’assedio de La Rochelle i quattro  moschettieri si ritrovano la sera a Parigi in casa di Athos; l’incongruenza per cui D’Artagnan dice di non sapere dove è tenuta prigioniera Constanza ma sa che suo marito ne è informato, però non va da lui per farselo dire; l’altra incongruenza per la quale Constanza anziché D’Artagnan, che è ben più capace del marito, incarica il pavido consorte e non il coraggioso soldato che peraltro la ama per recapitare una lettera a Londra; tolte tutte queste, le sviste più clamorose sono due.
La prima si ha per la nomina di D’Artagnan a moschettiere. Dumas scrive che Tréville gli comunica il provvedimento preso dal re e lo rende felice perché è «la cosa che desiderava più di ogni altra al mondo», ma poco dopo, sfidando a duello un gentiluomo inglese, D’Artagnan si presenta ancora come guardia della compagnia Des Essarts e tale rimane, tanto che Dumas più avanti scrive che egli era molto familiare tra i moschettieri nel cui corpo “era noto che un giorno avrebbe preso posto” e ancora: “Come sappiamo bene, D’Artagnan era tutto preso dall’ambizione di entrare nel corpo dei moschettieri”. In realtà il lettore quel che sa bene è che già fa parte dei moschettieri del re. Lo diventa nondimeno un’altra volta a La Rochelle quando ancora Trèville gli comunica che il cardinale Richelieu – e non più il re – lo ha nominato moschettiere, sicché D’Artagnan “non stava in sé dalla gioia”, essendo “noto che il sogno di tutta la sua vita era d’essere moschettiere”. Siamo quasi alle comiche.
La seconda svista è forse la numero uno in assoluto, un portento di superficialità. Riguarda il viaggio di D’Artagnan a Londra. Il valoroso cavaliere arriva in Inghilterra con il suo servo Planchet e deve raggiungere Buckingham che è impegnato in una battuta di caccia al falcone a Windsor. Planchet rimane a casa del duca a riposare perché “lo avevano tirato giù dal suo cavallo rigido come un pezzo di legno”, non si capisce perché mai, mentre D’Artagnan corre a Windsor e torna a Londra con il duca, dopodiché riparte trascorsi alcuni giorni  e lo fa da solo: percorre il tragitto fino a Parigi, una volta sbarcato in Francia, servendosi di cavalli che il duca gli fa trovare a ogni stazione di posta, quattro cavalli che poi D’Artagnan riceve in regalo e cede ai tre moschettieri. Ma di Planchet non si sa nulla. Lo ritroviamo a Parigi quando Dumas si accorge forse del grosso errore commesso e gli fa dire a D’Artagnan quasi a propria maldestra giustificazione: “Sembra che il nostro viaggio sia stato un viaggio di rimonta”, come se anche lui sia stato di stazione in stazione e sia passato di cavallo in cavallo, ipotesi nella quale però i cavalli avrebbero dovuto essere otto e non quattro. E dire che Dumas è particolarmente attento al ruolo dei cavalli se dice che l’epoca era quella “in cui gli uomini si riconoscevano dai loro cavalli”. Ma ne perde il controllo, preso dalla brama di impressionare il lettore con racconti icastici e mozzafiato, anche se a discapito della sua stessa parola.
Significativo il gioco che tende al lettore nel tentativo di fargli trattenere il fiato, rischiando di mettere in essere un altro errore della collezione. Vi troviamo tutto il Dumas che pensa a come dare alla scena il massimo dell’attesa. L’abbadessa del convento dove ripara Milady, che è a caccia di Constanza Bonacieux, ospite proprio del convento, dice alla nuova arrivata che un’altra donna è sotto la sua protezione e le fa il nome di Ketty, la cameriera di Milady diventata anch’ella sua nemica. Il lettore si aspetta che la vendetta cada sulla testa di Ketty, ma poi si scopre che la donna che le diventa amica e compagna nel progetto comune di fuga non è Ketty, ma Constanza Bonacieux. Un paradosso. Una gimmick letteraria vera e propria che non trova spiegazione se non nel suo scopo, giacché l’abbadessa fa il nome di Ketty non perché lei la conosca ma perché la conosce il lettore, il quale scopre chi è soltanto quando lo scopre anche Milady al termine di una lunga conversazione che tiene il lettore sospeso: come quando D’Artagnan non fa che chiedere dove sia Athos e l’albergatore continua imperterrito e indisponente a raccontare cosa gli è successo senza dire se è vivo o meno.
Dumas è in questo gioco a nascondere e sospendere, nelle coincidenze improbabili, nelle agnizioni a sorpresa, negli incontri impossibili. Il mistero de I tre moschettieri sta in un segreto: quello di rendere tutto possibile in un mondo estremamente reale, anche a costo di forzare la stessa realtà e di rivolgere tutto in favola. La scena più bella del romanzo è forse quella che unisce vero e falso attraverso una tenda: la regina Anna d’Austria che allunga una mano oltre la tenda e consegna in quella di D’Artagnan, suo salvatore, un prezioso anello in segno di ringraziamento. Nella mano vellutata e bianca, così regale, che appare da un mondo irraggiungibile e inconoscibile il giovane guascone riconosce una realtà che gli appare favolosa. E a tenere la tenda socchiusa è proprio Dumas.

© Gianni Bonina

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IL PROCESSO di Franz Kafka (Leggerenza n. 13) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/11/25/il-processo-di-franz-kafka/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/11/25/il-processo-di-franz-kafka/#comments Mon, 25 Nov 2019 15:09:27 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8354 imagedi Gianni Bonina

Sorprende come nel 1915 un giovane praghese di 32 anni possa sentire più urgente la questione della giustizia che non l’orrore della guerra e scrivere un romanzo che non completa e non pubblica a ridosso di un altro appena uscito su un motivo ancora più elusivo qual è la perdita d’identità fino alla mutazione genetica. Il processo, uscito solo nel 1925, è un romanzo più escapista che disforico: l’autore sfugge il suo presente per sottrarsi alla realtà ma si ferma nei dintorni inestricabili e omologhi di un tema che tuttavia sottende un significato di giustizia da intendersi anche nel senso di giustizia umana, quindi di pace sociale. Nell’arresto immotivato e senza un perché di Josef K. (dove l’iniziale adombrerebbe l’autore) traluce l’insensatezza di una “guerra europea” che viene sostenuta e combattuta con lo stesso animo dell’accusato sottoposto a un processo privo di un’accusa, da vincere ma senza chiedersi il motivo per cui battersi e le cause che lo hanno determinato. Epperò invece della vittoria prevale via via la rassegnazione nel cui ambito la lotta contro la sopraffazione non è che una volontaria discesa agli inferi, tra disperazione e disumanità, non diversamente dal corso degli eventi bellici che culminano nella perdita di venti milioni di vite umane.
Il tisico Franz Kafka ingaggia la sua guerra personale e solitaria contro l’ingiustizia nel mondo immaginando non più un uomo che improvvisamente e irrazionalmente si trasforma una mattina in un ragno come Gregor Samsa in La metamorfosi, metafora delle incognite della vita e delle prospettive angoscianti che essa tende, ma supponendo un uomo – l’uomo contemporaneo messo di fronte all’assurdità di una guerra mondiale – al quale una mattina qualunque viene notificato un ordine di arresto (dunque, nel traslato, di sequestro della coscienza) per una colpa che però gli è taciuta, per modo che il fatto nuovo che cambia di colpo la vita non arriva più da un fenomeno naturale, quanto si voglia metafisico, bensì da una volontà umana ispirata a un criterio altrettanto stocastico di sorte funesta ma da comprendere anch’essa nell’ordine degli accadimenti possibili e quindi fisici.
imagePer rappresentare la visione dell’uomo alla mercé delle forze cosmiche, ineluttabili quanto incoercibili e indecifrabili, Kafka eleva la questione della giustizia a paradigma del destino umano e indica una regola di fondo: la determinazione di qual è l’accusa è di ordine secondario rispetto al titolare di essa, contando di più chi la muove che non il suo contenuto. Quello che Sciascia chiamerà “ingranaggio” nel quale chiunque può cadere e che si preciserà nella transustanziazione della legge per cui la giustizia si compie sempre, a dispetto del suo amministratore e celebrante, in Kafka la troviamo anticipata in un’idea di giustizia che si muove su automatismi immodificabili che riconoscono la forma e non la sostanza: così come non vale la fattispecie di reato, a sconfessione del principio romano “nulla pena sine lege”, ma solo il laticlavio di giudice, allo stesso modo per l’imputato rileva la sua veste di accusato e non la qualificazione della colpa, sicché la difesa non può esercitarsi che sulla persona e la sua condotta, né si ha un’inversione dell’onere della prova per la quale spetti all’imputato dimostrare la propria innocenza, giacché a rilevare non è il fatto in sé, se commesso o meno, ma la vita nel suo insieme.
Josef K. pensa dunque di presentare una memoria difensiva che, dando conto di ogni suo comportamento, non potrà che essere necessariamente lunghissima, un memoriale “che sarebbe stato infinito, riguardando tutta quanta la propria vita, con le azioni e gli avvenimenti più insignificanti”: e su di esso lavora anche il suo avvocato, nella certezza tuttavia che non solo non verrà letto dai giudici ma che è del tutto inutile, visto che gli atti del processo e l’atto d’accusa sono inaccessibili sia alla difesa che all’imputato. K. allora esonera l’avvocato per dedicarsi egli stesso alla stesura del memoriale, ma non sappiamo se lo deposita in tribunale mancando la parte che Kafka avrebbe dovuto scrivere a seguito dell’incontro con il suo legale. Sappiamo invece che non gli gioverà perché l’esito del processo è segnato, tanto che K. alla fine si ritrova in mano ai suoi carnefici nell’accettazione di una condanna che ritiene inevitabile e alla quale non può sfuggire perché, come gli dice Leni, la segretaria dell’avvocato, solo quando si è confessata la colpa si ha la possibilità di scongiurare la pena, colpa che però non può essere ammessa perché l’accusa è sconosciuta.
K. finisce perciò giustiziato, preda per giunta di una esiziale e prototipica sindrome di Stoccolma, senza alcun dibattimento, interrogatorio in aula, confronto tra le parti, deposito di atti ed escussione di testi. Quel che K. sa è solo che il suo non è un processo comune ma speciale, il che postulerebbe un’accusa più grave e un collegio giudicante più autorevole, sennonché il solo giudice al quale viene chiamato a presentarsi è il giudice istruttore, un quadro di base nel novero di figure giudiziarie che comprende i “guardiani”, “l’ispettore”, “la commissione d’inchiesta” e imprecisati “impiegati”, tutti anch’essi di grado minore, ma fondamentali nel merito del processo, perché “il valore principale della difesa” è costituito non dagli argomenti di prova ma dai “rapporti personali” che gli avvocati riescono a instaurare proprio con giudici e impiegati, cui provano a riuscire graditi in un canonico tentativo di captatio benevolentiae dando loro anche consigli peraltro richiesti e intramando contatti fuori dal processo, nei corridoi, negli studi legali e persino negli atelier dei pittori: come capita infatti a K. che viene indirizzato da un artista dal nome d’arte italiano (omaggio dell’autore all’arte italiana, ripetuto nella figura del corrispondente di banca italiano in visita per conoscere i monumenti della città, che è sicuramente Praga), Titorelli, ritrattista ufficiale dei giudici anche più elevati, il quale si dice pronto ad aiutarlo come confidente del tribunale solo se è innocente e se è concreta la possibilità di un’assoluzione, condizioni queste che sono piuttosto tutte da verificare appunto nel processo.
In base agli intrecci extra ordinem delle relazioni personali, Josef K. può aspirare come tutti gli imputati a una delle tre forme di assoluzione possibili: quella reale, quella apparente e quella che comporta il rinvio. La prima è impossibile perché una vera assoluzione richiede di essere innocenti e l’innocenza non può essere provata, né può essere riconosciuta senza un vero processo e nel rispetto di quel sistema che Josef K. richiama quando al momento dell’arresto dice a se stesso di vivere in uno Stato di diritto dove la pace regna ovunque e tutte le leggi sono in vigore; la seconda forma di assoluzione porta di fatto a uno stato permanente di libertà interrotto solo da periodici arresti formali e riprese apparenti del processo senza mai arrivare alla sentenza; la terza consente di tenere con cavilli e sottigliezze il processo sempre allo stadio iniziale.
imageMa Josef K., procuratore di una grande banca e prossimo vicedirettore, scapolo e affittuario di una stanza ammobiliata in un pensionato misto, non ha speranza di ottenere alcuna delle tre assoluzioni. Affronta il processo partendo da logiche realistiche e chiede perché sia dichiarato in arresto, senza però avere risposta dall’ispettore se non che in realtà rimane a piede libero, ma poi si conforma allo spirito del processo che diventa per lui uno stato esistenziale entro il quale assumere un nuovo modo d’essere fino a ragionare nei modi degli impiegati e degli avvocati, ammettendo di trovarsi sotto accusa e riconoscendo che essa è grave. Alla speranza iniziale, fatta anche di volitiva reazione al processo e scontri pubblici per cambiarne la procedura, segue la disperazione di chi è prossimo alla confessione, ormai annichilito e reso un automa: nel rifiuto a incontrarlo che la signorina Bürstner, compagna di pensionato, gli fa notificare da una compagna di stanza, K. vede la propria sconfitta, uguale al declino che la sua posizione di prestigio registra in banca, segno di un decadimento che da un supposto e oscuro singolo atto illegale si estende all’isterilimento della vita e alla mortificazione della propria personalità.
Lo zio che, appresa la notizia dell’arresto, accorre trafelato e preoccupato in aiuto a K., è in pensiero più per le ricadute negative del processo sulla famiglia e dice al nipote che non vorrebbe che dall’essere stato un loro punto di orgoglio diventasse la loro vergogna, ma quel che vuole sapere è il tipo di processo cui è sottoposto e non l’accusa di cui deve rispondere. Guardando K. dimagrito e come assente, gli dice che forse è vero il proverbio secondo cui essere accusati è già una condanna, perciò lo incita a difendersi e lo accompagna in casa dell’avvocato Huld, malato ma attivo al punto da ricevere clienti persino di notte e di farli aspettare anche tre giorni dietro la porta. La giustizia per Huld è uno scontro di forze e un incontro di sforzi intesi a compromessi basati sui soli “rapporti personali” che possono nascere da simpatie, opportunismi, giochi di potere, avversioni di pancia. I giudici hanno licenza assoluta e occupano gerarchie che sono in correlato con quelle degli avvocati, distinti in “grandi avvocati”, pochi e pressoché irraggiungibili, “piccoli avvocati”, la gran parte, e “legulei”, tenuti in disprezzo anche dagli impiegati. In questo assetto nel quale i gradi giudiziari bassi non conoscono gli sviluppi di un processo e gli avvocati non vi hanno accesso se non in relazione allo stadio cui il processo è giunto e al giudice che lo istruisce, “la legge non va in cerca della colpa, ma è attratta da essa”. È questo il principio fondante dell’intero sistema immaginato da Kafka: l’azione penale non è né obbligatoria né necessaria, perché non è la polizia che va a caccia dei colpevoli ma sono i colpevoli che sono attratti come falene dalla polizia e cadono nella sua rete. Quando una domenica mattina Josef k. deve raggiungere il tribunale per il primo interrogatorio davanti alla commissione d’inchiesta e si trova in un complesso residenziale dove si aprono più scale interne senza sapere quale porta agli uffici giudiziari, ne prende una a caso sapendo che è quella giusta, perché è attratto da essa e dunque si riconosce già in partenza colpevole.
La rassegnazione alla condanna arriva nel duomo dove incontra un predicatore membro del tribunale col quale finisce per convenire circa l’interpretazione della storia che egli gli racconta, il famoso apologo già pubblicato da Kafka in precedenti occasioni e intitolato “Davanti alla legge”: è il guardiano posto davanti alla porta della legge e non “l’uomo di campagna” a essere ingannato e ad avere ragione. La storia viene presentata sotto la definizione di “scritti introduttivi alla legge”, al pari di un testo sacro soggetto a interpretazioni varie da parte dei commentatori che si riferiscono alla “Scrittura” quale fonte esegetica: l’uomo di campagna vuole entrare nella legge ma il guardiano gli dice che deve aspettare. Nell’attesa trascorre tutta la vita fin quando in punto di morte l’uomo chiede al guardiano perché nessun altro ha chiesto come lui di entrare e si sente rispondere che la porta della legge è stata aperta solo per lui e che, dopo la sua morte, sarà chiusa.
Il processo si sostanzia in questo lungo e articolato teorema, dove Kafka dimostra di avere della legge una concezione relazionale ispirata al paradosso dell’inattingibilità: al servizio e appannaggio di ogni uomo, non può tuttavia essere fruita personalmente, valendo come regola generale astratta ma non come mezzo per ottenere giustizia. Il guardiano posto a sua custodia, anzi a suo servizio, è un rappresentante dello Stato che a sua volta non ha neppure lui la libertà di entrare nella legge dentro la quale altri guardiani, sconosciuti e irraggiungibili, si ergono a sua difesa. Una legge autoreferenziale e apodittica dunque, imperscrutabile e insindacabile, un totem che onora una Giustizia ingiudicabile cui impetrare solo grazie e pietà. Quando Josef K. si reca in casa di Titorelli e vede il ritratto di un giudice al quale il pittore sta lavorando, ha l’impressione che la raffigurazione vada assumendo “un risalto particolare” non ricordando più la dea della Giustizia ma nemmeno quella della Vittoria, perché assomiglia sempre più alla dea della Caccia. La preda è lui stesso e invece di scappare si addice ad andarle incontro, attratto dalla legge come un colpevole. Allo stesso modo l’uomo del tempo di Kafka è attratto dal demone della guerra nelle cui spire si getta in nome di ideali che come le porte della legge sono astratti e inaccessibili. Kafka ha lasciato il suo capolavoro deliberatamente incompleto, pur essendo vissuto altri nove anni. Voleva che il manoscritto fosse bruciato, prova di un probabile ripensamento circa le teorie espresse sulla giustizia. Forse, terminata la Grande guerra, ha visto venire meno le ragioni alla base della sua visione allegorica, guardando a un futuro non più popolato di mostri, senza però immaginare che il peggio sarebbe arrivato di lì a presto. Non a caso infatti il romanzo è assurto ad archetipo del nostro tempo dopo la Seconda guerra mondiale, diventando anzi più attuale e vero.
Lo scrittore ceco ha lasciato il libro incompiuto, ma anche sei brani chiamati successivamente “Frammenti” che avrebbero dovuto essere integrati nel corpo del testo. Troviamo dunque nomi di personaggi come Wolfahrt, accostato a Titorelli, e “il signor Kühne” che segnalano come il romanzo fosse più esteso almeno nelle intenzioni dell’autore e nei suoi cartoni preparatori. Chiedendone la distruzione, Kafka non pensò a rifinire il testo, che presenta non poche contraddizioni e avrebbe richiesto un editing accurato per eliminare ripetizioni, cadute di stile e incongruenze. Una si ha quando leggiamo: “Meglio non rivelare per il momento particolari che potrebbero avere un’influenza sfavorevole su K. ispirandogli troppa speranza o troppa paura”. A scrivere è l’autore in persona e lo fa per la prima e unica volta in un romanzo che appare rigorosamente eterodiegetico e privo di concessioni e ammiccamenti al lettore, entro un tono alto di solennità e puntiglio. È solo una menda in un’opera che sottende un antivangelo laico, un appello civile all’uomo e alla sua coscienza che oggi sentiamo quanto mai forte e ravvicinato. Kafka senza saperlo è a noi che parlava più che ai suoi contemporanei.

© Gianni Bonina

(È vietata la riproduzione anche parziale)

[è appena uscito il nuovo romanzo di Gianni Bonina: "Ammatula" (Castelvecchi) - di recente in libreria anche il volume: "Fatti di mafia" (Theoria)]

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LA COSCIENZA DI ZENO di Italo Svevo (Leggerenza n. 12) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/11/05/la-coscienza-di-zeno-di-italo-svevo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/11/05/la-coscienza-di-zeno-di-italo-svevo/#comments Tue, 05 Nov 2019 14:45:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8313 imagedi Gianni Bonina

Si potrebbe per La coscienza di Zeno ripetere il famoso incipit di Giovanni Macchia nel commento alla Recherche, definita «la grande opera di un malato». Come Proust, anche Italo Svevo appartiene infatti a quella temperie primonovecentesca che scopre la malattia come tema letterario assieme alla morte, al mito dell’adolescenza, alla memoria, al transeunte del tempo, all’introspezione psicologica. Sono questi tutti motivi presenti nel romanzo triestino che con l’Ulisse di Joyce e appunto Alla ricerca del tempo perduto ha introdotto il “monologo interiore” e nel caso dello scrittore irlandese (amico peraltro di Svevo) il “flusso di coscienza”, quali mezzi stilistici ed espressivi più aggiornati per portare l’uomo del nuovo secolo al superamento del realismo ottocentesco e porlo davanti a se stesso dove scoprirsi preda di un mal-aimé da indurlo al cupio dissolvi e all’amor fati, sull’orlo dell’abisso aperto dalla perdita dell’identità personale e dell’aderenza alla realtà e davanti ai mostri della Grande guerra e alle illecebre freudiane dell’inconscio.
E La coscienza di Zeno è certamente l’opera di un malato: immaginario, si crede il narratore autodiegetico e tuttavia reale negli effetti, non tanto corporali quanto psicologici, che conseguono a uno stato di déracinément. Nel 1923, quando il libro esce, Joyce ha pubblicato da un anno il suo capolavoro mentre Proust è giunto al quinto volume della Recherche: è il tempo pieno in cui l’autore europeo del nuovo credo lascia al narratore di esprimersi in prima persona come se fosse sdraiato sul lettino dello psico-analista, la figura di medico che la nuova scienza ha proposto come deputata a indagare il lato sconosciuto della mente umana, seguendo la lezione di Freud che invita il paziente a non osservare, com’è stato in passato, nessi di causalità e regole di autocontrollo ma a dare libero corso al flusso dei pensieri affidandosi al precetto della spontaneità. Lo stream of consciousness nasce dunque in medicina e arriva in letteratura, dove La coscienza di Zeno si costituisce come un diario autobiografico che lo psico-analista prescrive al cinquantasettenne Zeno Cosini quale terapia al suo “male oscuro” (forse la depressione, la nuova malattia del secolo), rivolgendogli la famosa frase «Scriva! Vedrà come riuscirà a vedersi intero». Non gli chiede espressamente di fare uno sforzo di memoria per recuperare i ricordi dell’adolescenza e metterli per iscritto in salvo – la scrittura servendo nel nuovo clima culturale proprio a salvaguardia della memoria -, ma soltanto di scrivere liberamente di sé: cosa che Zeno fa cominciando da una tara inopinata e a confessare i tanti tentativi di liberarsi del fumo che giudica non un vizio ma una malattia.
Non è una iperbole, ma una scelta, che non a caso occupa l’intero capitolo iniziale, a designare una sorta di statuto programmatico: Svevo giudica infatti la sigaretta causa di un’impotenza psicologica che sottende l’incapacità ad assicurarsi la salute e diventa dunque prova di una malattia invalidante sotto l’aspetto sia fisico che morale. Il motivo dominante dell’invalente spirito letterario è figlio della ricerca scientifica e si precisa nell’incapacità dell’uomo di governare se stesso e a maggior ragione il mondo. Sono gli anni in cui l’astrofisica scopre che il determinismo non spiega il cosmo e che la natura non risponde a ragioni di causa ed effetto ma a principi di statistica su basi probabilistiche. Nasce la meccanica quantistica e l’uomo è costretto a mettere ogni conoscenza acquisita in dubbio adottando criteri di incertezza per muoversi in un mondo che è sempre in forse e sempre più ignoto. Questa nuova condizione che è propria dell’intero Occidente induce impotenza. Il positivismo deve lasciare spazio a concezioni fondate su singolarità che non sono solo scientifiche ma congenite anche a un’umanità privata di capisaldi sicuri. In letteratura il naturalismo cede al decadentismo e apre le porte al novecentismo e al futuro postmoderno instillando nell’uomo un senso di inguaribile inettitudine. Il desein, l’heidegerriano “essere gettati nel mondo”, evolve nella rassegnazione alle riscoperte forze naturali del mondo e della vita, che non offre la felicità ma solo miseria e dolore, come scrive Cosini.
L’inetto è la figura principale della scena europea novecentesca, ma appare già a metà dell’Ottocento, proposta da Goncarov con Oblomov e poi da Huysmans con il Des Esseintes di Controcorrente. La psicopatia è la fonte primaria dell’inettitudine e integra una condizione di disturbo mentale che nel Novecento esplode nelle forme acute di pazzia e malattia che da Svevo, Proust e Pirandello arriveranno fino a Bufalino. Ma il primo è Svevo a cogliere in Italia questa allure e lo fa partendo innanzitutto da Freud, ma anche da Darwin e da Maltius, cooperando in parte a mettere in essere i prodromi degli orrori che insanguineranno il secolo mercé le teorie della selezione naturale, della distinzione di classe e del superomismo, della lotta al sovrappopolamento. Le sue origini semitiche, come nota Giacomo Debenedetti, fanno premio sui suoi personaggi, a cominciare da Zeno, uomo irrisolto e irrequieto perché ebreo ma soprattutto perché figlio del suo tempo.
Benché Svevo trovi la psico-analisi, disciplina di doppia natura da indicare agli inizi del secolo con un trattino di congiunzione, «non difficile da intendersi» ma noiosa e dunque finisca per bocciarla, nondimeno presenta Zeno Cosini come un incapace cosciente di essere tale, ma non rassegnato a rimanerlo. Impegnato a smettere di fumare, Zeno scrive nel diario destinato al dottor S. (probabile iniziale di Svevo) che il suo stato è l’incapacità ma la sua speranza quella di diventare un uomo nuovo: «Chissà se cessando di fumare io sarei diventato l’uomo ideale e forte che mi aspettavo»; e ancora: «Che io abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la mia incapacità?». Durante la relazione con Carla, Zeno ammette il proprio deficit: «Se non procedevo, ciò era dovuto ai dubbii su me stesso. Io mi aspettavo di divenire più nobile, più forte, più degno della mia divina fanciulla». Quando immagina di uccidere Guido si rammarica e giustifica: «Non era colpa mia se non avevo saputo farlo. Tutto era colpa della mia malattia». La malattia appunto: quella che gli procura dolori fisici alle gambe e al fianco, ma la stessa che egli chiama con un nome preciso, «la mia inerzia», e definisce “dolente” perché, pur essendo di tipo morale, gli provoca «una quantità di sensazioni fisiche sgradevoli» da renderlo infelice. Per causa di essa, quando progetta di fidanzarsi con Ada, è costretto a sospirare: «Doveva divenire oltre che la mia compagna anche la mia seconda madre che mi avrebbe addotto a una vita intera, virile, di lotta e di vittoria». Si tratta di un sogno, come gli otto che fa e che confessa al dottore nel suo diario e ai quali dà interpretazioni mantiche, giustappunto freudiane. Nella realtà egli si dichiara non altro che un “baggeo” (babbeo e baggiano), un “timido”, un “vile”, «un tipo strambo», come Svevo lo definisce in una lettera a un amico.
Molto strambo, a dire il vero. Lascia che la sua fabbrica rimanga nella gestione di un estraneo che in sostanza lo esautora, ma intanto si impegna come contabile gratuito nel negozio di un altro estraneo, al quale è peraltro pronto a offrire grosse somme per liberarlo dai debiti; scopre l’amore per il padre solo quando lo sta perdendo perché malato; corteggia una bella ragazza che lo respinge, poi la sorellina minore alla quale chiede di sposarlo avendone un rifiuto, infine si fidanza ufficialmente – la stessa sera delle due delusioni: per potere dormire, dice, bene quella notte – con la terza sorella, quella brutta che comunque sposerà e che vorrà amare; nutre un’ossessione compulsiva per il sesso, al punto che in età matura va dietro una contadinella che lo sbeffeggia perché vecchio e per due anni intrattiene una preossoché quotidiana relazione con una giovane che mantiene economicamente e dalla quale viene lasciato dopo che lei conosce la moglie, che però è la cognata, da lui indicata come la consorte solo perché più bella; si crede e dichiara malato, ma è solo ipocondriaco, eppure si rallegra quando teme di avere il diabete, malattia dolce; non va al funerale del cognato per salvare il quale dalla bancarotta ha pur sfidato la moglie e la famiglia di lei perché contrarie, a differenza di lui, a coprirne i debiti.
Tanta originalità di modi e di carattere dell’io narrante è intesa da Svevo come un deterrente per scongiurare di essere identificato con il suo personaggio, al quale però la sovrapposizione di gran parte dell’autobiografia finisce per accostarlo tanto da far parlare della Coscienza come di “romanzo del doppio”. Svevo non è Zeno e nondimeno vive un transfert che genera un alter ego, nel significato di una trasposizione che fa di Zeno quello che Svevo avrebbe voluto essere per vivere le stesse vicende, che sono sì pruriginose ma anche fatte di grande nobiltà d’animo, di generosità e di scrupoli morali.
Di qui l’adozione di strumenti psicoanalitici che consentono all’autore non di studiare se stesso ma un proprio personaggio nella visione di essere al suo posto. Freud serve allora a Svevo per concepire un gioco di specchi utili a esercitare la sua più torbida e immaginifica fantasia, sempreché La coscienza non sia piuttosto una confessione resa dall’autore (che però avverte: «una confessione per iscritto è sempre menzognera») per interposto personaggio e che dunque siano almeno in parte vere le sue ubbie, i tradimenti coniugali, i reali rapporti con l’amministratore della ditta ereditata dal padre. Ma non ci sono indizi per suffragare simile ipotesi, benché talune considerazioni di Zeno non possano che essere di Svevo: non solo quella che lo spinge ad augurarsi di avere figli dai quali farsi amare di meno per non farli poi soffrire molto alla sua morte – come se i figli debbano amare ad ogni costo i genitori, ma anche l’altra più caustica che gli fa scrivere elevandolo a insospettabile libertino: «Mi pareva [che l’ordine sociale] avrebbe dovuto essere tale da permettere di tempo in tempo (non sempre) di fare all’amore, senza aver a temerne le conseguenze, anche con le donne che non si amano affatto». Un’affermazione questa che ha tutta l’aria di una proibita e intima fantasticheria, ma anche il senso di una misoginia e di un sessismo, più volte palesato, che pone Svevo-Cosini nell’area equivoca della discriminazione di genere e della preterizione, dove si può dire delle sue reali e recondite intenzioni quanto Zeno scrive di sé: «”Non sono io che sono tanto bestia!”. E chi allora?».
Il romanzo appartiene chiaramente alla sua epoca ed è quello che di più, rispetto agli altri due risalenti a oltre venticinque anni prima e legati ancora all’Ottocento, connota il suo autore. Quando Svevo lo scrive, Trieste è ancora austriaca ma diventa italiana lungo la sua stesura. La storia narrata è interamente inscenata nella città asburgica, senonché Svevo si sente italiano, cambia il suo cognome austriaco in uno decisamente peninsulare e compone il suo romanzo nella lingua che parla, ma che scrive male. Lo stile è considerato infatti l’elemento più debole, ma per paradosso riesce molto letterario proprio perché fuori dal canone, come inventato e ricercato. Non conosciamo le varianti al manoscritto perché è proprio il manoscritto a mancare, ma si sa di profondi interventi operati con il consenso di Svevo sul testo prima della pubblicazione da Cappelli. Né, volendo cercare la mano genuina dell’autore, si può raffrontare La coscienza con Una vita e Senilità perché troppo remoti e molto diversi nell’impianto e nell’idea costitutiva, ma ci sono le cosiddette “Continuazioni”, opera senz’altro di Svevo, a testimoniare come La coscienza di Zeno sia un romanzo non interpolato nella sostanza e nemmeno nella forma se non per contaminazioni circoscritte.
Di sicuro non è stata manomessa la fabula, quantunque lasci non poco perplessi l’ultimo degli otto capitoli intitolato “Psico-analisi”. Zeno il narratore lo scrive nel 1915 (ma sappiamo che Svevo scrive a partire dal 1919), a ridosso della guerra e a distanza di venti anni dai fatti resi in confidenza al dottor S. fino all’addio dal piroscafo di Ada alla volta di Buenos Aires. L’ultimo capitolo non fa parte della “autobiografia” che il dottore ha deciso per dispetto di rendere pubblica e appare aggiunto dal narratore non al diario quanto al romanzo, quello che all’inizio lo stesso dottor S. chiama “novella” e che è opera dell’autore. Svevo non ha risolto questa incongruenza né spiegato il senso dell’ultimo capitolo o come questo, nella finzione, sia finito a completamento del diario che possedeva solo il dottore. Ma altri punti l’autore ha lasciato in evidenti contraddizioni: date che non coincidono, tempi della scrittura che si sovrappongono a quelli della narrazione, fatti che vengono poi smentiti.
Pesa anche la drastica distinzione che Svevo fa degli avvenimenti distinguendoli per capitoli benché avvengano contestualmente e meritino un trattamento d’insieme. Legato a un modello di tipo scientifico – un rapporto personale che valga pure come trattato specialistico – Svevo si preoccupa di dare conto degli effetti sperimentati quanto alla sua malattia e dunque si posiziona al centro di un panopticon dal quale osserva separatamente prima se stesso alle prese col fumo, poi la morte del padre, quindi le vicende del suo matrimonio, la relazione adulterina con Carla e infine la conduzione del negozio di Guido. Ma così facendo apprendiamo per esempio che le sue giornate trascorse nell’ozio e nell’attesa di vedere Carla non sono quelle del nullafacente, perché nello stesso tempo è duramente impegnato a fianco di Guido: salvo capire dove appunto trovi il tempo per dedicarsi a entrambe le attività.
Eppure, nonostante i tanti difetti di fabbrica, La coscienza di Zeno è un autentico capolavoro della nostra letteratura, come anche di quella europea. Ha avuto la fortuna di incontrare il gradimento di Montale che lo lanciò, ma ha anche il merito di essere il solo romanzo italiano che agli albori del nuovo gusto letterario di primo Novecento poté essere, come oggi ancora è, ritenuto alla stessa stregua della Recherche e dell’Ulisse joyciano: a segnare una direzione che la narrativa continentale ha seguito e in qualche modo, con forme rinnovate, continua a seguire.

© Gianni Bonina

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I FRATELLI KARAMAZOV di Fedor Dostoevskij (Leggerenza n. 11) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/10/02/i-fratelli-karamazov-di-fedor-dostoevskij/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/10/02/i-fratelli-karamazov-di-fedor-dostoevskij/#comments Wed, 02 Oct 2019 14:22:34 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8283 imagedi Gianni Bonina

L’ultimo grande romanzo di Fedor Dostoevskij, il più ambizioso, il più ricco e articolato, I fratelli Karamazov, richiede un lettore molto esperto e preparato, che sia il perfetto “lettore modello” immaginato da Umberto Eco. La complessità è tale che anche un’autrice avvertita come Elena Ferrante in L’amica geniale commette l’errore di considerare la parte relativa al processo la più avvincente perché aperta a entrambe le ipotesi di colpevolezza e innocenza, secondo se parli la pubblica accusa o la difesa dell’imputato, mentre in realtà il lettore sa già che l’assassino è stato Smerdjakov il cuoco e arriva al processo solo per aspettare il verdetto dei giurati. Che peraltro lo stesso Dostoesvkij anticipa quando all’inizio del dibattimento parla di «esito doloroso e fatale».
A ben vedere Dostoevskij non ha voluto un giallo, dove il responsabile si scopra canonicamente alla fine, ma un romanzo sociale e pure intimistico che poi diventa nella seconda parte, dopo l’arresto e con l’interrogatorio preliminare nella taverna di Mokroe, un legal thriller psicologico. Anziché il whodunit Dostoevskij ha cercato il whydunit, il perché del delitto invece di chi lo ha commesso. Il romanzo è di fatto una lunga interrogazione sul perché delle cose. Il giallo non c’è, altrimenti non si sarebbe avuta la confessione di reità del cuoco di Fedor Pavlovic, il padre ucciso, resa a Ivan Karamazov e soltanto a lui due giorni prima che metta in atto il proposito di suicidarsi. Morto il vero colpevole, Smerdjakov, rimane come unico testimone e depositario della verità il solo Ivan Fedorovic, dapprima convinto come la gran parte della responsabilità del fratello Dimitrj, ma poi pronto a riferire ai giurati quanto ha appreso da Smerdjakov, tanto da consegnare loro come prova i tremila rubli rubati in casa della vittima. Sarebbe il colpo di scena decisivo e tutto lo presagisce perché la ricostruzione che ha fatto Dostoevskij della sera del delitto, tenuta volutamente su una indistinta superficie dei fatti, si presta invero a creare la suspence, ma Ivan non è creduto attendibile dal tribunale giacché è preda di una febbre cerebrale che lo fa delirare al punto da riferire di avere avuto addirittura un incontro con il diavolo. Perché Dostoevskij fa questo? Prima crea l’attesa, poi la scioglie rendendo noto il colpevole, quindi non vuole che la verità si manifesti improvvisamente in pubblico con lo stesso effetto dirompente della lettera depositata da Katja nella quale Dimitrj le annunciava la decisione di uccidere il padre. La risposta è nello spirito del romanzo: la febbre di Ivan è dovuta a un rimorso, lo stesso che spinge Smerdjakov a impiccarsi, la consapevolezza cioè di essere il colpevole morale dell’omicidio, il vero parridica, colui che ha istigato il cuoco a uccidere il padre.
Se Dostoevskij avesse voluto il giallo, avrebbe evitato l’incontro rivelatore tra Ivan e Smerdjakov e lasciato che la verità emergesse spettacolosa nell’aula giudiziaria. Ma Dostoevskij non voleva la verità, bensì la consacrazione dell’errore giudiziario (com’è intitolato il dodicesimo libro), così da mettere in capo alla giustizia umana la stessa colpa attribuita a quella divina, in confutazione dell’una e dell’altra per opera dello stesso Ivan, autore del poema “La leggenda del grande inquisitore” (che è un sofisticato apparato requisitorio sul tema della teodicea) e artefice della verità portata in tribunale e qui rigettata.
Fosse stato del resto un giallo, il principale elemento accusatorio, costituito dalla porta del giardino che il servo Grigorj ricorda aperta (segno che Dimitrj è entrato in casa del padre per ucciderlo e derubarlo) mentre l’imputato afferma di averla trovata chiusa, non sarebbe stato liquidato con una inopportuna battuta da parte di Smerdjakov a colloquio con Ivan: richiesto di spiegare come fosse stato possibile che Grigorj l’avesse vista aperta dal momento che Fedor Pavlovic l’aveva aperta solo a lui, ma dopo che Grigorj era stato colpito da Dimitrj in fuga, risponde che al servo è sembrato di vedere la porta aperta ma non l’ha vista. Certamente una spiegazione non all’altezza dell’immaginazione dostoevskijana, ma tale da relegare in secondo piano un dato che in un giallo sarebbe stato invece fondamentale.
Dostoevskij è mosso da altri intenti. Pensa al seguito della sua saga familiare e sociale (ma morirà pochi mesi dopo) e lascia dunque il romanzo pressoché incompiuto. Nulla sappiamo infatti della progettata fuga di Dimitrj dopo la condanna ventennale ai lavori forzati in Siberia, né se Ivan sopravvivrà alla malattia. Nulla sappiamo di cosa farà Aleksej, il fratello minore che sin dal prologo è indicato come l’eroe protagonista mentre il romanzo è presentato come sua biografia, proposito questo confermato alla fine dall’hurrà lanciato a suo nome dai ragazzi di Kolja. E ancora, niente si sa del futuro di Gresun’ka e della rivale Katja, entrambe innamorate di Dimitrj, il quale lo è però solo della prima, che è pretesa pure dal padre, mentre la seconda lo è anche di Ivan: in un giro di vagheggiamenti e sospiri amorosi che in realtà isteriliscono e rendono non poco improbabile un romanzo che tuttavia vale non per le passioni incrociate, in omaggio dopotutto alla voga romantica del tempo, ma per le questioni esistenziali sollevate circa le molteplici e complesse trame della condizione umana. Si capisce dunque il finale, certamente piuttosto melodrammatico per l’incontro davanti a Dimitrj in ospedale di Gresun’ka e Katja – scena madre teatrale e plateale che sente della sotie - e quanto mai dissonante perché Dostoevskij preferisce dedicare l’epilogo al funerale del piccolo Iljusa anziché agli sviluppi postprocessuali: e ciò fa di proposito per riportare Aleksej sulla ribalta e calare le tende su di lui.
Il processo, con l’arresto a Mokroe e il primo interrogatorio notturno, occupa quasi metà del romanzo e Dostoevskij ne racconta lo svolgimento operando in due sensi: da un lato riepilogando i fatti già narrati nei dettagli, ma sottoposti ora al vaglio del giudice istruttore e del sostituto procuratore, con la raccolta delle testimonianze e delle diverse versioni, e da un altro ricostruendo la stessa istruzione preliminare da narratore onnisciente e terzo, così come ha fatto in precedenza, salvo riferire l’intera vicenda dei Karamazov a una storia ben nota nella cittadina dove immagina di vivere, chiamata Skotoprigonevsk, termine che in russo indica un mercato delle bestie. Ma arrivati al dibattimento, con l’inizio del dodicesimo libro, Dostoevskij cambia improvvisamente veste: da narratore estraneo si fa testimone diretto del processo e prende posto tra il pubblico. E come osservatore più volte scrive di poter riportare solo per stralci quanto ricorda di aver visto e sentito (ma poi trascrive accuratamente lunghissime parti della requisitoria e dell’arringa), rinunciando a raccontare «per filo e per segno» ciò che avviene in aula, e in questo modo sembra perciò valersi di una inopinata trovata ad effetto per rendere più vivida e suggestiva la scena. In realtà risponde a un preciso progetto di grande narratologia.
Avendo raccontato tutti i fatti per filo e per segno, sceverando il più profondo recesso di ogni coscienza, tanto da aver rasentato lo stucchevole per le tante divagazioni, le digressioni e le descrizioni minute che sono sembrate superflue e buone solo per i romanzi d’appendice a puntate, come in effetti I fratelli Karamazov fu conosciuto essendo uscito su una rivista prima che in volume, Dostoevskij si viene a trovare di fronte a una seria impasse: non può lasciare che l’accusatore e il difensore indulgano in alcuna congettura perché dovrebbe subito zittirli, conoscendo nei particolari la realtà dei fatti, né può sconfessare se stesso e quanto ha scritto nel rischio di apparire nei panni di chi deliberatamente inganni il lettore raccontando il falso quando ha ripetutamente dato i fatti per realmente avvenuti. La soluzione la trova in un colpo d’ala, un’autentica mossa del cavallo: si spoglia da romanziere e si veste da cittadino confuso nella folla che assiste al dibattimento – un dibattimento che curiosamente si svolge in un’unica udienza che comincia la mattina e termina, nello sfinimento generale, a notte inoltrata con il verdetto di colpevolezza dei giurati e le opposte reazioni del pubblico di cui egli si fa mero portavoce. Alla certezza dei fatti sostituisce dunque il dubbio, che assale lo spettatore e lascia fuori dall’aula il narratore. Per essere più chiaro scrive così quando si addice a narrare: «Non posso continuare in questo modo, in parte perché molte cose non riuscii a sentirle, altre non riuscii ad approfondirle, altre ancora le ho dimenticate, ma soprattutto perché, come ho detto prima, non ho letteralmente né spazio né tempo per menzionare tutto quello che fu detto e fatto». Dostoevskij finge di essere un altro, uno del pubblico, peraltro piuttosto disattento. Atteggiamento utile per evitare di dover prendere posizione di fronte a una sentenza di condanna ingiusta e sbagliata. Ma ciò è noto solo al lettore, perché il pubblico l’accetta come espressione della sovrana volontà statale. E Dostoevskij non spende una parola a favore di Dimitrj. Al pronunciamento del verdetto, il dodicesimo libro si chiude infatti con questo brano:

Condussero via Mitja [diminutivo di Dimitrj]. La lettura della sentenza fu rimandata al giorno successivo. Nell’aula si sollevò un trambusto indicibile, ma io non restai a sentire quello che si diceva. Ricordo soltanto alcune battute ad alta voce che udii all’uscita. «Si beccherà una ventina d’anni di miniera». «Non meno». «E così, i contadinotti [i giurati] hanno tenuto duro». «E hanno bell’e sistemato il nostro Miten’ka [vezzeggiato di Dimitrj]».

Nessuna indulgenza e l’accoglimento del giudizio popolare. Dostoevskij non ha comprensione né per lui, un «mascalzone» a sua stessa detta, dalla vita disordinata e biasimevole, né per Ivan, il vero parricida, l’ateo irriducibile. Il suo favore è tutto per Alesha, il ragazzo di ogni pregio e virtù che voleva farsi monaco e per il quale una parte abbondantissima del romanzo viene impegnata per edificarne la statura morale attraverso la figura dello starec Zosima, il suo padre spirituale in odore di santità – benché il suo cadavere alla fine puzzi come ogni mortale e contrariamente a ogni santo. Attorno a Zosima è costruito un romanzo nel romanzo che è una colossale digressione rispetto al caso del padre ucciso. Ma di digressioni è formato I fratelli Karamazov, un esercizio narrativo che può essere studiato come prova delle possibilità del romanzo di non esaurirsi mai, perché dimostra la teoria secondo cui ogni personaggio introduce un nuovo romanzo che comincia con la storia di quel personaggio. I continui rimandi che Dostoevskij fa di un racconto ad un altro momento («Ne parleremo in seguito») rivelano una eterogenesi di fini che mutua l’effettiva realtà della quale l’autore moscovita non coglie, senza farsi alcuno scrupolo di apparire logorroico e per amore della circostanza, che la sostanza – ciò che costituisce uno dei motivi per cui I fratelli Karamazov richiedono un lettore forte e forgiato, disposto anche a sostenere un cerebralismo che a volte sottende una materia cervellotica, una trama confusa e poco coerente, personaggi ondivaghi.
In questo quadro la figura di Smerdjakov è la meno riuscita: ritenuto da tutti un idiota, succube anche dell’irritamento di Ivan che lo plagia, è tuttavia capace di strategie di intelligenza sopraffina, come l’idea della busta con i soldi lasciata a terra strappata, così da far credere che non è stato lui l’omicida, giacché ne conosceva il contenuto per cui non l’avrebbe aperta, e l’astuzia di indurre, ma senza esprimersi chiaramente, sia il procuratore che l’avvocato a valutare proprio questa circostanza per scagionarlo. Mostra anche la grande lucidità che gli fa gridare a Ivan: «L’assassino principale siete voi». Ma pure il delitto che compie appare confuso: da un lato è premeditato, come fa capire a Ivan, e da un altro appare come istintivo e deciso al momento in cui sente Grigorj urlare a Ivan «parricida». Anche il personaggio di Katja Ivanovna è incerto: ama e odia Mitja contemporaneamente e mentre fornisce prove della sua colpevolezza si dichiara poi pronta a rischiare per farlo evadere. Agrafena Aleksandrovna, la Grusen’ka, non è da meno: opportunista, di costumi leggeri, alquanto svampita, ama tutti e tutti prende in giro, Mitja compreso, ma poi chiede di poter andare in Siberia per stargli vicina. Quanto alla trama, essa ruota anche attorno a tremila fatidici rubli, che costituiscono la somma conservata da Fedor Pavlovic in una busta, la somma che Katja consegna a Mitja perché la spedisca a dei parenti a Mosca, la somma che Mitja ritiene necessario trovare per potere fuggire con Grusen’ka. In realtà una diversa cifra avrebbe svuotato l’apparato accusatorio, cosicché Dostoevskij trova preferibile una vistosa incongruenza a un diverso indirizzo diegetico.
E trova anche, molto stranamente, di non doversi mai pronunciare sul tema centrale, il parricidio. In tribunale l’accusatore è il solo a stigmatizzare il reato invitando i giurati a non giustificare l’assassinio di un padre da parte del proprio figlio, ma il difensore appresta argomenti proprio per giustificare l’assassinio di un genitore abbietto commesso da un figlio non trattato come tale. Dostoevskij si limita a riportare entrambe le opinioni, ma per il resto evita di affrontare il tema, il più scottante e importante tra i tantissimi che pure ha analizzato. Solo una volta Ivan dice a sé stesso di odiare Mitja non perché Katja vada a trovarlo in carcere ma «per il fatto che aveva ucciso il padre», parole che Dostoevskij ritiene di dover scrivere in corsivo. Ma subito dopo Ivan parla a Mitja del piano di fuga cui ha pensato mentre ha già cominciato a maturare la consapevolezza di essere stato il mandante del parricidio e si appresta al terzo e ultimo incontro con Smerdjakov che gli rivelerà l’innocenza del fratello.
Dostoevskij, che chiama «punti romantici» gli aspetti della vita privata individuale, quella che Mitja vuole preservare durante l’interrogatorio preliminare, si dimostra allo stesso tempo il più percussivo esploratore dell’animo umano e nello stesso tempo vuole essere uno scrittore realista, che racconta ai suoi soli concittadini una storia privata che essi conoscono bene essendo loro la sua fonte principale più volte richiamata. Una storia data per vera che però è difficile immaginare che sia mai avvenuta, gravida com’è di inverosimiglianze e contraddizioni. Tuttavia, nonostante i difetti a volte strutturali, I fratelli Karamazov rimane un capolavoro assoluto della letteratura di tutti i tempi. Tolstoj, al quale Dostoevskij pure guardò con attenzione per scrivere il suo romanzo, come ha dimostrato George Steiner in Tolstoj e Dostoevskij, lo volle sul comodino del suo letto di morte e la filosofia ha sempre ammirato il libro per le sue coraggiose tesi circa i rapporti tra uomo e Dio. In Ivan, che crede in Cristo ma non in Dio, che a volte è ateo e a volte credente, si è voluto vedere lo stesso Dostoevskij il quale per tutta la vita si è interrogato in effetti sull’esistenza di Dio. Come osserva Vladimir Laksin nel saggio introduttivo a un’edizione Einaudi, il mirabile di questo romanzo è nell’atteggiamento del suo autore che non lo ha scritto per offrire risposte a domande universali ma per cercarle. Il fatto che quasi tutti i personaggi mutino comportamenti e idee, che in gran parte non sono descritti fisicamente se non per vaghi cenni (Ivan non lo è per niente), è spia di una ricerca frenetica dell’essere. E forse, cercando e non trovando l’uomo e con esso Dio, Dostoevskij ha dato in esso la più febbrile prova della loro indeterminabile natura.

© Gianni Bonina

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[è appena uscito il nuovo romanzo di Gianni Bonina: "Ammatula" (Castelvecchi) - di recente in libreria anche il volume: "Fatti di mafia" (Theoria)]

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DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA di Miguel de Cervantes (Leggerenza n. 10) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/09/21/don-chisciotte-di-cervantes/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/09/21/don-chisciotte-di-cervantes/#comments Sat, 21 Sep 2019 06:00:24 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8270 imagedi Gianni Bonina

Nel proposito di beffeggiare e irridere i libri di cavalleria, Cervantes ne rilanciò in realtà il gusto sostenendone anche il successo a teatro, dove l’epopea dei cavalieri erranti riebbe nel Seicento vigore soprattutto in Spagna. Contrario a quella vena letteraria che dal dodicesimo secolo e almeno per quattro secoli fino all’Orlando furioso aveva soggiogato il pubblico europeo con uno smisurato profluvio di opere su celate e velate, Cervantes si rivelò piuttosto il più accanito lettore del genere post-stilnovistico in un’epoca in cui quella svenevolezza per la cavalleria medievale era però cessata e da almeno centocinquant’anni non si vedevano cavalieri armati e ancor meno erranti: ciò dopo la diffusione delle armi da fuoco il cui uso in battaglia metteva fine al coraggio e all’ardore del singolo combattente, tale che don Chisciotte, come lo stesso Orlando ariostesco, trova che possa essere abbattuto anche da una palla sparata da un codardo e biasima il proprio tempo per «la spaventevole furia di queste indemoniate macchine dell’artiglieria».
Occorre partire da qui per guardare alle suggestioni del Don Chisciotte: il cavaliere “dalla Triste figura”, poi ribattezzato “dei Leoni”, che depreca il presente e si vanta di aver riportato in vita «l’esercizio della cavalleria di ventura ormai dimenticato» e il suo autore che condanna il lungo passato credulo e ingenuo ma dà un’opera che infiamma il tempo in cui vive proprio della seduzione per un genere letterario che con lui risorge anziché tramontare. Tuttavia il trasporto di Cervantes per le storie di fantasia, picaresche e di cappa e spada, non è tanto rivolto a un genere quanto alla letteratura in sé nel cui spirito parteggia dunque per le ragioni di don Chisciotte che, rendendo vera e reale l’epica romanzesca, si dichiara convinto della storicità dei cavalieri erranti esaltati nei libri di cavalleria e perciò della verità della letteratura. In un vertiginoso gioco combinatorio, in sostanza, Cervantes dà credito e fondamento alla letteratura, come mimesi aristotelica e fonte di riproduzione della realtà, immaginando un personaggio convinto dell’esistenza dei cavalieri romanzeschi di ventura, da Lancillotto ad Amadigi di Gaula, e quindi pazzo: di quella pazzia che è però epifanica della verità.
Naturalmente Cervantes gioca quando insistentemente tiene a ricordare che sta raccontando una storia non solo grande ma anche veritiera, epperò costruisce la falotica impresa dell’hidalgo della Mancia secondo un procedimento che dalla fantasia va alla realtà: via via che gli episodi si succedono perdono infatti, molto più nella seconda parte, il fondo di irrealtà e il senso dell’assurdo che li forbiscono per acquisire verosimiglianza e tangibilità finché il cavaliere dei Leoni non rinsavisce e torna a essere Alonso Chisciano il Buono dismettendo del tutto la taccia del funambolico eroe a cavallo e lancia in resta. E allora, adottando la distinzione proposta da uno dei massimi cervantisti, Martin de Riquer, secondo cui un conto sono i libri di cavalleria, ispirati a un criterio di astrazione di luoghi e tempi, con meraviglie, incantesimi e magie, frutto della cosiddetta “materia di Bretagna”, e un altro conto sono i romanzi cavallereschi, più aderenti ai fatti reali, ai costumi sociali e privi di fughe verso l’immaginifico (la stessa differenza che la classicità faceva tra tragedia e commedia), il Don Chisciotte comincia come un libro di cavalleria e termina come un romanzo cavalleresco, facendo alla fine pensare che Cervantes voglia proprio il romanzo di denuncia: non tanto della vieta e corriva passione collettiva per la letteratura cavalleresca, oltretutto démodé – passione innanzitutto sua, perché li conosce tutti e bene i libri che il curato e il barbiere danno alle fiamme – quanto di alcune questioni che stanno a cuore alla coscienza spagnola e di cui si fa egli interprete quando nel 1614 scrive la seconda parte, nove anni dopo la pubblicazione della prima: il fenomeno del banditismo catalano, composto anche da gasconi e legato agli ugonotti francesi, e la minaccia turca.
Tutto lo scenario diventa di colpo reale: don Chisciotte va a Barcellona (su salvacondotto di un vero bandito conosciuto in vita e riportato nel romanzo) perché è lì che imperversa l’insorgenza criminale ed è attesa la flotta mora, proprio dove il cavaliere finisce di inseguire i suoi fantasmi e deve scontrarsi con la realtà. Sennonché Cervantes lo fa uscire di scena in occasione della battaglia navale, così come nella prima parte ha avuto sempre motivo per allontanarlo dai convivi creati per ascoltare e raccontare storie serie e anche drammatiche, mandandolo magari a dormire o a montare la guardia. L’autore non vuole infatti che il suo eroe diventi mai reale e perda la sua carica farsesca e grottesca non facendo più ridere: quindi lo isola ed estranea; ma non vuole neppure che il suo romanzo tenga sempre il tono del comico, per modo che fa morire don Chisciotte una volta riacquistato il senno: non solo perché un altro Avellaneda non riprenda il personaggio e ne continui a raccontare le gesta, sia pure apocrife, ma anche perché un Alonso il Buono restituito al mondo che non legga più libri di cavalleria non può tornare in groppa a un Ronzinante e andare in giro a raddrizzare torti e divertire villaggi e lettori, giacché non è contro la cavalleria come ordine nobiliare in sé che Cervantes polemizza ma sono i libri di cavalleria che lo tengono in fazione, cosicché il canonico può sostenere che non si tratta che di “favole milesie”, racconti stravaganti buoni per divertirsi e non per imparare com’è nel caso dei racconti apologhi, cioè dei romanzi storici.
Pur di imprimere al suo romanzo un andamento dunque progressivamente realistico, Cervantes non esita a introdurre una delle più vistose contraddizioni (peraltro disseminate in abbondanza in tutta l’opera: famoso il caso dell’asino di Sancho Panza che scompare e poi ricompare, motivo sul quale lo stesso autore trova motivo per scherzare nel secondo tomo) laddove da un lato immagina che la terza uscita di don Chisciotte che occupa l’intero secondo tomo si abbia dopo un mese di riposo mentre da un altro riporta circostanze e date che comprovano come siano trascorsi quasi dieci anni: quando vuole che la prima parte sia stata letta, come in realtà è avvenuto, in tutta la Spagna, cosa impossibile in trenta giorni, e quando in calce alla lettera di Sancho alla moglie appone la data del 20 luglio 1614, così da tenersi aderente ai fatti di maggior momento politico e sociale che più lo interessano. Partito dunque per divertire, Miguel de Cervantes non si diverte più dopo che don Chisciotte e Sancho lasciano i duchi e intraprendono la via della realtà sulla quale la figura del cavaliere errante diventa sempre più evanescente fino a lasciare la scena alla storia vera e ritirarsi. Il romanzo è finito da duecento pagine, o almeno è finito il libro di cavalleria, che si è andato mutando piuttosto in un romanzo cavalleresco, ma senza più il suo cavaliere a fare da protagonista, perché messo definitivamente da parte quando le battaglie sono vere e il sangue scorre reale.
Cervantes può fare quel che gli pare della sua creatura perché don Chisciotte, pur essendo accostabile agli altri cavalieri da romanzo dell’epica medievale, anzi detenendo tra essi ancora oggi una posizione di assoluto rilievo, non fa parte della tradizione iconografica alla quale ogni autore poteva attingere per riplasmare a piacimento i vari eroi, da Artù a Merlino, ma appartiene al suo unico autore: che a buon motivo si decide a scrivere la seconda parte, pur malato e in gravi condizioni di povertà, dopo aver visto che il suo cavaliere è stato riportato in attività da Avellaneda come fosse stato un mito greco. Ma attenzione: non è un arbitrio quello che Cervantes si prende imprimendo al romanzo una direzione verso la realtà contro la linea dell’Ariosto intesa a cantare «le donne, i cavalier, l’arme e gli amori», non dunque la storia ufficiale e prorompente ma quella minima ed estenuata. Come ha notato il più grande, insieme con Jorge Luis Borges, esegeta cervantino, Miguel de Unamuno, autore della Vita di don Chisciotte e Sancho Panza (libro oltremodo appassionato che sin dal titolo dà come per vere e realmente esistite le due figure), la follia individuale finisce di essere tale quando diventa collettiva e cioè si addice a costituire una regola di costume o di legge. Sicché cosa fa Cervantes? Relega nell’ombra don Chisciotte negandogli avventure e pazzie mentre sulla ribalta porta gli eventi del suo tempo, facendosi portatore delle preoccupazioni dei suoi contemporanei per le follie della storia: dalla pirateria alla cacciata dei mori, dal banditismo alla Mezzaluna incombente ai fantasmi di Lepanto.
E occorre che sulla follia, tema portante del romanzo che inaugura la narrativa moderna europea riprendendolo dai versi ariosteschi, sia fatta ancora più attenzione, perché don Chisciotte è sì pazzo, ma non sciocco, dal momento che quanto dice è «coerente, elegante e ben esposto» mentre è ciò che fa che appare «assurdo, temerario e stupido». Con la sagace precisazione che «il personaggio più intelligente in una commedia è quello dello sciocco perché non può esserlo colui che deve far credere di esserlo».
Cervantes prende tanto sul serio don Chisciotte da far sì che col tempo, di avventura in avventura, anche Sancho si chisciottizzi, manifestando arguzia e stoltezza nonché mostrandosi nella specie di quel tipo di follia della quale, osserva Unamuno, anche Gesù fu bollato come folle dalla madre e dai fratelli che dissero «E’ fuor di sé» vedendolo tra la folla compiere stravaganze, che in realtà erano prodigi: a significare che sono i più vicini, compresi i familiari, a vedere la pazzia in quanti non osservano la maggioranza dei comportamenti.
Saggio pazzo o pazzo che tira a fare il saggio, come lo vede Sancho, l’hidalgo diventa trasposizione di Cervantes quando per esempio parla, sia pure con una punta antifrastica, ai cavalieri della locanda e ai caprai del primato delle armi sulle lettere ma si fa poi suo misirizzi quando prende un bacile per l’elmo di Mambrino e vede eserciti di mori nelle mandrie. Non c’è figura da romanzo più irreale e nello stesso tempo reale, una bipolarità questa che ne ha segnato l’eterna fortuna, perché molto richiama la personalità comune e ricava forza dall’uso eccessivo di un certo tipo di lettura fantastica ma fatta per essere creduta vera, come la ritiene anche l’oste quando al curato fornisce la prova del loro fondamento storico data dal fatto che tutti i libri di cavalleria erano stati pubblicati su autorizzazione delle autorità statali.
È perciò l’eterogeneità dei libri, il loro mistero, a determinare la salute mentale, sia individuale che collettiva. Il Don Chisciotte arriva tra l’Orlando furioso e La tempesta di Shakespeare, a cavallo di due secoli nei quali il libro, soprattutto finzionale, è visto come una oscura minaccia e un oggetto misterioso. Nel poema italiano del Cinquecento Bradamante affronta Atlante e gli strappa il libro con il quale lui la colpisce leggendone dei brani e suscitando in lei la meraviglia che possa costituire un’arma; nel dramma seicentesco inglese alla meraviglia si è sostituita la certezza circa la forza del libro: Calibano esorta a strappare di mano a Prospero il libro per privarlo dei suoi poteri. In mezzo c’è Don Chisciotte, perlomeno il tomo del 1605, dove il libro è motivo di disputa circa i suoi effetti: che sono quelli riscontrati nel cavaliere della Mancia, ora del tutto folle e ora uomo di grande acume intellettivo.
Per don Chisciotte il libro di cavalleria è “il solito rimedio” cui ricorrere di fronte a una decisione da prendere, ovvero un manuale di comportamento con tutte le risposte sulla vita. Che Cervantes conosce benissimo per averle anche lui lette, esattamente come don Chisciotte. Ma, per non apparire nella stessa veste, escogita una trovata molto in uso nel suo tempo, quella del manoscritto ritrovato. Al culmine del primo duello cavalleresco del suo cavaliere mancego con il biscaglino della signora della carrozza, Cervantes si ferma e rivela che tutta la storia dell’ingegnoso hidalgo l’ha letta in una traduzione dall’arabo commissionata a un volenteroso moro convertito dopo aver acquistato da un ragazzino tutti i fogli che narravano le imprese di don Chisciotte scritte dall’arabo Cite Hamete Benengeli. Da quel momento in poi il romanzo arabo tradotto in castigliano diventa una epitome a opera di Cervantes, che così può attribuire a Benengeli la passione per i libri di cavalleria che ha letto in abbondanza come don Chisciotte. Un infingimento, è chiaro, che ogni tanto Cervantes però dimentica  riportando quanto legge in traduzione, dove è davvero implausibile che il “vero autore” si esprima in termini dispregiativi nei confronti dell’islam, scrivendo in celia di «una storia non più vera dei miracoli di Maometto» o «del precetto del suo falso profeta Maometto» o ancora parlando del «nostro don Chisciotte», né è credibile che Benengeli immagini che una musulmana ricca come Zoraida voglia lasciare la terra dei mori per andare in Occidente e farsi cristiana.
Zoraida è una delle tante figure che, come Carminio, Anselmo, Lotario, Camilla, Fernando, Marcela, Crisostomo e tante altre, sfiorano don Chisciotte che perlopiù è loro estraneo perché le loro storie non sono ridanciane e rispondono a una tecnica che, mutuata da Boccaccio, nella seconda parte viene tuttavia abbandonata perché il protagonista assoluto non lasci mai la scena, se non alla fine. Si tratta di storie che formano novelle probabilmente già scritte dall’autore e qui riportate in una sorta di mise en abyme che vuole celebrare l’amore travagliato e le sue pene, giacché si assomigliano tutte fino a ripetersi come anche a ritrovarsi, giusto il fatto che quasi tutte le coppie finalmente rappacificate e unite dopo le tribolazioni si incontrano in una locanda che è un po’ il palcoscenico centrale dell’intera rappresentazione e dove capita anche don Chisciotte per dichiararsi cavalier servente a una delle donzelle vista come una regina e in vena di farsi beffe di lui. Il quale dal canto suo mai si prende gioco degli altri, ma lo fa di sé.
Succede quando ride per la prima e unica volta: Sancho Panza, al momento di assumere l’attributo di “cavaliere dalla triste figura”, coniato dal «sapiente che ha il compito – dice l’hidalgo – di scrivere la storia delle mie imprese», ovvero Benengeli in astratto, gli dice che basta la sua faccia per identificarlo, non occorrendo disegnarne sullo scudo il simbolo, ed egli si lascia andare a una risata divertita. Può mai essere stupida una persona dotata di tanta autoironia? Ma soprattutto: un uomo che ad ogni sconfitta si rifugia nei libri può essere considerato folle? Tale non lo ritenne Unamuno che lanciò come un papa una santa crociata per la liberazione del sepolcro di don Chisciotte. Che è sempre stato libero invero e lo vediamo ogni giorno in mille persone che incontriamo e molte volte guardandoci allo specchio.

© Gianni Bonina

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ROBINSON CRUSOE di Daniel Defoe (Leggerenza n. 9) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/09/02/robinson-crusoe-di-daniel-defoe/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/09/02/robinson-crusoe-di-daniel-defoe/#comments Mon, 02 Sep 2019 05:00:00 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8249 imagedi Gianni Bonina

Il naufragio di Robinson Crusoe è il più desiderabile, tale da poter essere considerato l’antecedente storico delle odierne trasmissioni Tv di survival dove i concorrenti sono chiamati ad affrontare prove di sopravvivenza nella certezza di ogni comfort. Robinson capita in un’isola lussureggiante, ricca di acqua e di risorse, priva di belve feroci e di ogni tipo di insidia naturale, dotata di un clima tropicale che la preserva dal freddo, tanto grande da potere essere percorsa a piedi e comodissima per le numerose opportunità che offre, compreso un terreno dove coltivare addirittura il grano. Non solo: ha l’impagabile fortuna che la nave naufragata si areni con tutto il suo carico a portata di zattera e che una seconda nave faccia la stessa fine e gli consenta così nuovi approvvigionamenti. Ha armi e polveri con cui cacciare, derrate alimentari, conserve, liquori, utensili, tessuti, vestiti e ogni altro mezzo necessario a chi debba vivere in un luogo non antropizzato: ciò che non riesce ai naufraghi spagnoli finiti in un’isola vicina e, perché privi di tutto, soggetti al dominio dei selvaggi in un impronosticato rovesciamento di poteri.
Un naufragio tipicamente inglese quello di Robinson che piacque infatti molto ai connazionali di Daniel Defoe, determinato a mettere i lettori di fronte alla natura meno minacciosa e oscura, anzi la più irenica ed edenica, testimoniale della creazione divina. L’autore che, esattamente trecento anni fa, inaugurò il romanzo moderno come oggi lo conosciamo intese non terrorizzare i lettori britannici rappresentando l’incubo di una morte lenta e inesorabile che giungesse per le privazioni indotte dalla forza primordiale della natura, ma al contrario volle dimostrare loro quanto la stessa natura risulti benigna all’uomo che si affidi alla Provvidenza. Il tema al centro del dibattito filosofico settecentesco circa lo “stato di natura” nel quale l’uomo sia visto agire senza i condizionamenti moderni viene da Defoe affrontato con un romanzo che, indulgendo a un tono a volte predicatorio e un po’ quaresimalista, più esattamente intriso di quel puritanesimo che l’autore professò in atteggiamento anti-cattolico, dà una risposta soterica nella prospettiva di una salvezza celeste e di una regolazione cosmica del destino umano che guarda non allo stato di natura illuministico come esperimento teista delle qualità innate nell’uomo, ma alla natura dell’uomo nel rapporto di scambio con Dio. «Invocami nel giorno del dolore e io ti libererò e tu mi glorificherai» è il passo biblico che Robinson assume come un credo nelle proprie azioni e motivo della sua condizione.
Defoe dota il suo eroe di tutti i caratteri necessari alla redenzione entro una linea ascensionale che lo porta da uno stato di disinteresse verso Dio alla sua progressiva scoperta e accettazione fino a una totale immedesimazione in esso: e ciò in una chiave spinoziana, dello Spinoza cioè che nell’invocazione dell’uomo a Dio vede il soccorso nel momento del bisogno, tant’è che Crusoe pensa per la prima volta a Dio e ne chiede l’aiuto quando si ammala e teme di morire. Sennonché quella che per Spinoza è sola superstizione, per Defoe diventa Provvidenza, prova ontologica. Non si può invero leggere il romanzo fuori dalla vena trascendentalistica che lo irrora e lo giustifica, ignorando il fondo teofanico che lo sostiene insieme con la polemica anti-cattolica.
Alla fine del suo lunghissimo naufragio, Crusoe rinuncia infatti a vivere in Brasile dove pure possiede una ricca piantagione, che finisce anche per vendere, solo perché non è cattolico, sicché sceglie di stabilirsi nella sua “dissenziente” Inghilterra. Si intestardisce a convertire al cristianesimo Venerdì, il selvaggio che adotta e che obbliga a chiamarlo “padrone”, ma in direzione del suo protestantesimo. E senz’altro è lo spirito calvinista a fondare La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di York, marinaio, nell’ottica severissima di una distinzione di classe, di una vita retta sulla laboriosità, l’operatività, i meriti, l’attività industre e ogni negazione di qualsivoglia idea di politcal correcteness. Quando si decide ad attaccare i cannibali, che sulla spiaggia si preparano a uccidere e mangiare un prigioniero, prima ci ripensa in nome di una libertà di costumi che riconosce ai selvaggi incolpevoli per cui affida a Dio il compito di punirli, ma poi diventa una furia alla scoperta che il prigioniero è un bianco come lui e compie una strage di indigeni.
Romanzo perciò calvinista fino all’approvazione dello schiavismo e del razzismo, Robinson Crusoe è tutt’altro che un libro per ragazzi. Insegna a non usare eufemismi (mai “eliminare” o “abbattere” ma sempre “ammazzare”), a sterminare gatti, a uccidere animali secondo la loro commestibilità e non seguendo principi ecologici – dunque capretti cacciati a volontà e testuggini sparate per avere le loro uova) – a chiamare “selvaggi” gli indigeni, a vituperare le scelleratezze dei conquistadores spagnoli anche perché “cattolicissimi”, a vedere il cristianesimo nelle forme di una religione messianica ed epifanica della Rivelazione, senza Chiesa né santi né Madonne di cui impetrare l’intercessione. Nei ventotto anni che trascorre sull’isola caraibica, arcipelago oggi meta di un turismo d’élite che esalta quelle bellezze paesaggistiche e naturalistiche da Robinson del tutto ignorate (dalle spiagge dorate al mare cristallino, dai tramonti infuocati alle albe radiose: fenomeni che Defoe non poteva descrivere non avendoli visti, ma che non si sforzò nemmeno di immaginare), il naufrago inglese dà prova che l’uomo allo stato di natura («Io ero ridotto a uno vero stato di natura» scrive a un certo punto il narratore, ovvero lo stesso Robinson una volta salvo) può riuscire a realizzare forme di vita accettabili e surrogato di quelle civili, ma può farcela solo con l’assistenza di Dio: proprio alla cui opera Crusoe attribuisce il miracolo del germoglio del grano dopo che accidentalmente, ovvero guidato da Dio, aveva gettato via dei semi. Robinson definisce la sua vita «un mosaico della Provvidenza» e non esita mai a parlare di miracoli, a vedere in ogni gesto e in ogni evento la mano del Signore e a professare una dottrina della fede che è nel suo caso anche di salvezza fisica.
A una coscienza illuminista questa ottica non può piacere che a metà, per la parte che rende l’uomo capace di ricostruire da solo il mondo, ma a una cultura protestante fa da fertilizzante perché riecheggia le predicazioni dei pastori che indicano nell’affidamento a Dio il solo mezzo dato all’uomo per salvarsi. Defoe soddisfa entrambe le istanze e coglie perciò il gradimento degli ambienti più avvertiti della società del suo tempo, ma la sua azione è dimezzata: quanto all’aspetto religioso accende un’avversione del tutto indebita contro il cattolicesimo (dopotutto è nelle acque brasiliane che trova la sua isola ed è in Brasile che porta Crusoe a fare fortuna) e quanto all’uomo primitivo di tipo rousseauiano, riportato allo stato di natura, il mondo che ricrea Robinson è un analogon di quello che ha lasciato: sin dal primo momento è l’apparato della civiltà europea, particolarmente inglese, che il naufrago vuole rifare, procedendo secondo un criterio che è alla base della cultura economica: parte dal provvedersi del necessario, quindi passa a dotarsi dell’utile e infine pensa al voluttuario.
Invece di dedicarsi a una vita contemplativa, fatta magari di raccoglimento e di riflessione, scrivendo magari un libro (ma il giornale che compila, fino a quando ha inchiostro disponibile, è pressoché un diario), si dà a determinare condizioni di vita che non siano quelle dell’isola: anziché confarsi ad essa assimilandosi alla natura, è l’isola che si impegna morfologicamente a modificare costringendola ad assumere un modello di cultura occidentale. Del quale conserva sia i giudizi che i pregiudizi. Sa per esempio che quelle regioni sono infestate di selvaggi e ne ha dunque il terrore, dichiarandoli nemici mortali. Quando dopo quindici anni scopre sulla sabbia un’impronta umana e capisce che non è solo nell’isola, la sua placida esistenza cambia. In peggio anziché in meglio. Se non fosse gravido di preconcetti verso i nativi, andrebbe alla loro ricerca con animo fiducioso, come farebbe certamente al suo posto uno dei tanti missionari cattolici che percorrono il continente per evangelizzare, invece scappa e si prepara alla guerra: che farà eccome, esattamente come il più brutale armigero spagnolo. Piuttosto che cercare di conoscere anche quel dato di natura costituito dalla presenza umana, si rintana nella sua condizione di occidentale prevenuto, pronto a una sortita nella tribù dei selvaggi al solo scopo di catturarne qualcuno e farlo proprio schiavo, cosa che gli riuscirà salvando Venerdì dall’essere arrostito, senza però renderlo libero né tantomeno farselo amico.
Si ricrederà quando Venerdì lo rassicurerà che il suo popolo non lo divorerà, scoprendo nello stesso tempo che anche i selvaggi hanno sentimenti, emozioni, idee e una loro cultura: ma ciò non basterà a Defoe per fare del suo eroe un uomo nuovo, aperto al Terzo mondo. Non può dopotutto perché tempus regit actum. Il romanzo va infatti giudicato in base al tempo in cui fu scritto e non a quello in cui viene letto. E tuttavia oggi continua tutt’oggi ad essere ritenuto un apologo della simbiosi tra uomo e natura che in verità non c’è nell’avventura di Robinson, il quale da occidentale irriducibile il problema che si pone e che risolve è quello di assoggettare la natura al suo servizio.
Privo di ogni ideale ambientalista, Robinson appare dunque a noi nel sembiante di un selvaggio non diverso da quelli che egli disdegna, un uomo del suo tempo, fatto di sortilegi e inquisizioni, barbarie e divisioni razziali, nulla affatto “ridotto in un vero stato di natura” perché non inventa alcunché di quanto appartenga al suo arsenale di mezzi materiali e al patrimonio di manufatti, ma tutto rifà ricordando come procedere o intuendone il modo. E lo fa come un vero uomo primitivo, sia pure privilegiato: comincia come raccoglitore-cacciatore e poi si muta in allevatore-agricoltore, evoluzione documentata nell’uomo delle caverne ma del tutto improbabile in un uomo del Settecento che, trovandosi in un’isola deserta sapendo di doverci rimanere, non fa trascorrere una decina di anni prima di pensare di addomesticare le capre e di coltivare un terreno certamente ubertoso. Si è che Defoe vuole vedere all’opera il borghese del suo tempo, rappresentante della classe media mercantile ed emergente, perché possa dimostrare di sapere padroneggiare anche un mondo ostile qual è quello a trazione aristocratica in cui si dibatte e che nel romanzo prende i contorni di un’isola selvaggia e “orribile”.
Anche Robinson è dunque un “civilizzatore”, meglio un conquistatore, tant’è che si dichiara “governatore” dell’isola e si atteggia a suo signore anche quando la lascia in circostanze fatte perché sia restaurato il sistema dominante occidentale, ovvero in occasione dell’ammutinamento di una nave ovviamente inglese e della battaglia per riconquistarla al fianco del comandante, come sarà del resto per L’isola del tesoro. Va via e abbandona il gruppo di spagnoli nonché il padre di Venerdì cui ha pur promesso la liberazione, i primi perché spagnoli e l’altro perché selvaggio, tornando così ad essere il tipico europeo, peraltro ricco, che altri obiettivi non persegue se non i propri, per nulla pentito in ventotto anni di avere accettato di guidare una spedizione per nave in Africa, causa del naufragio, nel proposito di comprare schiavi per il Sudamerica.
Ma prima di essere il padrone dell’isola, comando che conquista negli ultimi tre anni dopo l’incontro con Venerdì, Robinson è per un quarto di secolo un costruttore, anzi un ricostruttore del mondo che ha perduto. Quando scopre l’impronta umana che gli cambia la vita, perché dal vagheggiare progetti voluttuari, per ultimo la produzione di birra dopo aver appena finito di costruire un tavolo e una sedia per mangiare e scrivere comodamente, passa a concepire solo disegni che riguardino la sua sicurezza dallo straniero (ancorché il vero straniero sia proprio lui), Crusoe è un uomo per nulla contrario a vivere per sempre nella sua isola, se solo riuscisse ad avere con sé un altro essere umano con cui parlare. Lo trova, ma è un selvaggio, che schiavizza e porterà con sé al momento in cui ha l’opportunità di tornare nel mondo civile, dimentico del progetto di rimanere nel suo regno. Che fa conoscere, anche nelle fasi della sua realizzazione, ai soli signori connazionali e non anche al mercante spagnolo che pure ha salvato, perché è agli occhi inglesi che vuole brillare, che è quanto in fondo lo stesso autore si prefigge nella sua vorticosa e chiacchierata vita politicamente ondivaga e moralmente spregiudicata. Defoe incassa a questo modo il plauso anche di Virginia Woolf che parla di capolavoro e di capostipite e che pure coglie gli aspetti materiali del romanzo giacché propone di Robinson e dunque di Defoe l’immagine di un avventuriero cui interessa solo “la pignatta di terracotta”, per dire dell’intento tutto concreto e realistico posto alla base di ogni intrapresa.
È stata questa natura sospesa tra Dio e Satana, bene e male, un po’ gnostica e molto puritana, ad avere conquistato i lettori di ogni tempo, non solo illuministico ma anche romantico: per ogni stagione il romanzo si offre infatti nella sua veste congeniale, pur con le sue incognite e le perplessità. Visto il successo, nello stesso 1719 Defoe pubblica currenti calamo il seguito che intitola “Ulteriori avventure”, ma il pubblico non vuole più sapere di Crusoe tornato per mare, perché era la sua condizione di naufrago solo e remoto che lo aveva entusiasmato e non quella di ricco borghese appassionato di viaggi. Il primo romanzo non termina infatti con il ritorno a Londra, il rocambolesco attraversamento dei Pirenei innevati e la battaglia con i lupi, ma con la partenza dall’isola. Non c’è stato lettore che in ogni epoca non sia rimasto tra le “pignatte di terracotta”, la “casa di campagna”, il recinto delle capre, il muro di cinta, e non abbia visto Robinson prendere il largo. Chiunque ha sognato di essere non lui ma al suo posto, magari per fare tutto il contrario.

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IL GRANDE GATSBY di Francis Scott Fitzgerald (Leggerenza n. 8) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/08/13/il-grande-gatsby-di-francis-scott-fitzgerald/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/08/13/il-grande-gatsby-di-francis-scott-fitzgerald/#comments Tue, 13 Aug 2019 17:22:45 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8241 image di Gianni Bonina

Considerato, secondo i diversi aspetti, un romanzo sentimentale (dell’amore inesausto e inappagato), utilitaristico (del bene individuale che si ottiene col successo economico), fatalistico (del caso che decide il destino comune), sociale (degli scontri di classe in un tempo di insorgenza del socialismo), oblomoviano (dell’inettitudine esistenziale), libertario (della licenza dei costumi e della permissività etica), Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald è tutto questo insieme, ma la sua vera natura letteraria rimane un rebus. Trattandosi anche di un poliziesco, giacché conta un suicidio, due morti ammazzati e qualche altro solo ipotizzato (l’omicidio misterioso imputato a Gatsby), il romanzo uscito nel 1925 – con un modesto riscontro di pubblico invero, a motivo forse della sua poliedricità – sembra echeggiare un genere americano, l’hard boiled, che è di largo seguito negli anni Venti, e nello stesso tempo evoca il gusto per l’introspezione interiore, retaggio del Primo Novecento europeo e modello portato alla massima espressione da Henry James, del quale infatti Fitzgerald è ritenuto il legittimo successore, anche per la sua vita divisa tra un continente e l’altro.
Sospeso perciò tra psicologismo e crudo realismo, Il grande Gatsby si serve di un fondo evanescente e ancipite che è forse il suo elemento costitutivo e nel quale si riconoscono, in un’epoca che ha appena superato i traumi della Grande guerra, da un lato l’amor fati proprio della coscienza europea di inizio secolo e da un altro, in un ben diverso spirito, l’età del jazz e dei telefoni bianchi, del benessere sociale e del banausismo sfrenato di un’America che corre ignara verso la crisi del ’29. Il romanzo si situa a metà e sembra tenersi come in bilico tra due crinali, sottendendo uno stato di precarietà nel quale va anzichenò visto un miracolo di equilibrismo.
Gatsby è detto “grande” (“magnifico” nelle prime edizioni) perché ha affrontato la titanica impasse che postula, oltre che due culture, anche due condizioni sociali storiche e di gran momento, povertà e ricchezza, le stesse sperimentate da Fitzgerald, il quale nel suo capolavoro presagisce la crisi che metterà in ginocchio l’America quando nel ’22, l’anno di ambientazione del libro, comincia a scriverlo nella sua villetta di Long Island (teatro anche della vicenda romanzesca), dove tiene feste sontuose e dispendiose, proprio come Jay Gatsby. Due anni dopo andrà a Parigi con la sua Zelda Sayre, che lo tradirà non diversamente dalla facilità dei protagonisti del romanzo, e in Francia completerà e pubblicherà il libro nel quale la décadence europea integrerà la toughness americana, non soddisfacendo tuttavia appieno né l’una né l’altra temperie, ma realizzando un tout de même (più o meno riuscito) nel quale la propensione tutta americana ad ipostatizzare una vicenda collettiva reificandola in un personaggio che diventa eroe si fonde con la spinta all’ipertrofia dell’io che in Europa rende l’uomo invece un inetto, un heidegerriano essere “gettato nel mondo”.
Fitzgerald plasma allora in Jay Gatsby un doppio di sé, una personalità scissa sia interiormente che dal mondo, un americano-europeo che nella derelizione del suo protagonista vede la rovina che anch’egli prefigura per sé: Gatsby viene ucciso per una colpa che non ha avuto, mentre Fitzgerald muore a soli quarantacinque anni dopo una vita di eccessi, vorticosa ma breve. Il romanzo che perciò leggiamo è un’autobiografia per preveggenze di un autore che se si serve di un narratore è proprio per non ammettere che il romanzo è ispirato a fatti realmente avvenuti e che in parte devono avvenire. A lui.
Nick Carraway è un io narrante che a Fitzgerald dà in prestito la sua villetta di Long Island con la quale la villona di Gatsby è appena confinante e nel romanzo assolve al compito di fare, essendone il cugino, da esca a Daisy Buchanan invitandola a casa perché Gatsby possa rivederla dopo cinque anni di distacco. Il caso (che non è mai un buon ingrediente in un romanzo) ha qui molta parte nel decidere le sorti umane e Fitzgerald non ne fa mistero quando imputa a «una questione di coincidenze» l’affitto di una casa a Long Island. Un caso è anche la morte di Myrtle Wilson, travolta dall’auto guidata giustappunto da Daisy. Martly è la moglie di George Wilson che, prima di suicidarsi, uccide Gatsby raggiungendolo inspiegabilmente e liberamente dentro casa perché sa che è sua l’auto che ha ucciso la moglie. La quale è a sua volta l’amante di Tom Buchanan, il marito di Daisy, segreto questo che George però non conosce, per cui non agisce anche contro di lui: lasciando così non compiuto un intreccio di coincidenze che molto sente della formula mantico-divinatoria della tragedia greca e del dramma di agnizione moderno in una prospettiva teatrale che è forse rivelatrice di una vicenda tutta tenuta nel raggio corto di qualche chilometro e su una stessa ribalta con pochi personaggi e dentro una trama a circuito chiuso, circolare, per un romanzo di poche cose e di molte parole, ricco di inessenzialità e accidentalità, esorbitante di descrizioni e dialoghi più che di narrazione e di fatti.
Perché allora Il grande Gatsby si offre a continue ristampe e a trasposizioni cinematografiche anche di forte richiamo? E perché piace così tanto anche in Italia? Probabilmente perché è molto europeo e poco americano, godendo innanzitutto di uno stile che non ha niente della prolissità e del moralismo di Henry James, perché anticipa semmai canoni di scrittura elegante e briosa – profilata anche di riflessioni non banali e di una epistemologia epigrammatica passata nel citazionismo degli aforismi celebri – di cui il principale interprete si rivelerà Albert Camus. Ma al di là dello stile, è la struttura del romanzo che si raccomanda a un giudizio di eccellenza, giacché premia un cespite del Novecento europeo, il Doppelgänger, che è il mito del doppio già proposto da Pirandello in Il fu Mattia Pascal, reso patrimonio della coscienza comune anche come fattore sociale di inquietudine e di disturbo.
Lo sdoppiamento della personalità, l’assunzione di una seconda identità, il camuffamento da alter ego sono anche temi cari alla ricerca scientifica di quel Primo Novecento che nel Vecchio continente si è in letteratura precisato in forme espressive quali il monologo interiore e il flusso di coscienza, da Svevo a Proust a Joyce. In Il grande Gatsby un doppio è già Gatsby rispetto a Fitzgerald, ma anche Nick Carraway lo è riguardo all’autore. Il quale ha costruito un abile gioco di scambi e di mascheramenti: Tom Buchanan ha l’amante, la quale è sposata e tiene all’oscuro il marito; Daisy ha un marito ma non dimentica il precedente amore di Gatsby, che a sua volta ha un passato avvolto nel mistero e invece di una doppia personalità ha una molteplicità di identità, se il suo vero nome è James Gatz; anche Nick Carraway nasconde la parte di sè che riguarda una relazione sentimentale lasciata nel Midwest da dove è venuto, mentre una seconda personalità, ma cieca, possiede pure l’enigmatico mercante ebreo Meyer Wolfshiem, amico e sodale di Gatsby; allo stesso modo doppia è la sfuggente Jordan Baker, anche lei con un passato nelle nebbie e come tutti gli altri attratta dal lusso e dunque con una «voce piena di soldi» al pari di Daisy.
Fitzgerald ha inteso ricreare un milieu nel quale nessun personaggio è fatto per essere amato. La lunga lista di tipo omerico degli ospiti di casa Gatsby, citati estenuamente per nome, non è che esempio di un disegno moltiplicatore perché, accrescendo il numero degli individui della stessa genia, venga incrementato un risentimento di ordine generale da rivolgere verso i pochi personaggi sulla scena, quello che Nick Carraway chiama “disprezzo spontaneo” nei riguardi di Gatsby. Sennonché è proprio l’antipatia nutrita per tutti che porta ad amarli in blocco, motivo questo che conferisce al romanzo un merito stavolta molto americano, ovvero l’inclinazione ad ammirare i duri, apprezzandone il carattere negativo, propensione che Hammett e Chandler si preparano ad esaltare e fare propria. Questo mix di opposte istanze, proprie di due culture continentali differenti e distanti, fa del romanzo un unicum non solo del suo tempo ma anche del nostro, giacché pochi altri autori hanno saputo dare una sola voce ai due mondi e parlare a entrambi con lo stesso timbro di Fitzgerald.
Fitzgerald fa più che una veronica di doppi: aumenta in Il grande Gatsby la singolarità con un virtuosismo che al gioco degli scambi di personalità aggiunge quello dei passaggi di centralità, motivo per il quale è facile ritenere che il romanzo manchi di un reale protagonista e che, in forme diverse, lo siano tutti i personaggi in pari grado. Quando Nick comincia il suo racconto, reso subito dopo la conclusione degli avvenimenti narrati, l’interesse che all’inizio suscita è verso di sé, perché ci parla della sua vita dopo un sommario e vago cenno a Gatsby, necessario per indicare «l’uomo che dà il nome a questo libro». Poi l’attenzione di Nick si sposta su Tom Buchanan, trattato con tale cura descrittiva da farlo supporre l’oggetto della narrazione, sennonché la presenza in salotto di Daisy al suo fianco ne illumina il ruolo, principalmente come moglie tradita, sicché subito dopo Nick si ritrova in un altro salotto dove con Tom gongola la “sua ragazza”, Martly Wilson, adultera senza rimorsi. Gatsby è ancora lontano e quando appare lo fa sotto vesti che Nick non riconosce: crede di parlare con un ex compagno di armi finché non apprende di essere davanti al suo vicino di casa che lo incuriosiva e che lo ha invitato per irretirlo.
L’andamento è del romanzo borghese: di una classe che si crede in paradiso e che si crogiola di festa in festa e di salotto in salotto, in un’aria rutilante di opulenza, frivolezza, condiscendenza e parvenza di impunità e inestinguibilità che non sembra possa essere minata se non da una vecchia tresca che Gatsby e Daisy provano a ristabilire. Il gioco che Fitzgerald innesca di scambi di centralità è condotto di personaggio in personaggio fino a Dan Cody, l’uomo della fortuna di Gatsby, come in un passaggio di testimone e in un processo di preparazione alla spannung finale innescato dalla gita serale in macchina a New York che vede partecipi i coniugi Buchanan, Nick Carraway, Jordan Baker e Jay Gatsby in una rappresentazione corale che funge da scioglimento (lo scontro tra Tom e Jay sull’appartenenza di Daisy) ma anche da prodromo all’inatteso esito culminante in una raccapricciante sarabanda di eventi entro la quale la love story si muta in crime story e tutto il romanzo prende l’aspetto di un sepolcro imbiancato.
La sensazione è che ogni personaggio sia appunto un testimone, a cominciare da Nick Carraway, il primo a non sapere niente della reale identità degli altri. Fitzgerald è proprio questa l’aria che vuole e sceglie un narratore al suo posto allo scopo di eliminare l’onniscienza autorale e rendere ogni fatto relativo, incerto e aperto a più interpretazioni. Nulla si sa del suo stesso passato, né di quello di Gatsby, oggetto di ripetute e contraddittorie vociferazioni, e poco sappiamo degli altri, da Daisy a Martly. Fitzgerald vuole in verità che il lettore non sappia più di Nick, ma almeno in due occasioni è costretto a trovare espedienti per potere dare seguito all’intreccio, non trovando come farlo condurre a Nick: quando introduce la figura di un giornalista che scrive del passato di Gatsby e quando lascia che l’io narrante divenga Jordan Baker incaricata di raccontare a Nick (riportando addirittura i dialoghi e dunque parlando in realtà al lettore) come Daisy aveva conosciuto Gatsby ma sposato poi Tom. E dei resoconti di stampa Fitzgerald si serve anche per fare raccontare a Nick dell’incidente automobilistico e poi dell’omicidio di Gatsby. Che muore solo e dimenticato, dando al romanzo il senso di un cupio dissolvi dove il forte desiderio di vivere si traduce – entro un contrasto di thanatos ed eros – in un irredimibile sentimento di morte.
A dissolversi davanti agli occhi sgomenti di Nick che abbandona alla fine Long Island sono le case della costa sullo Stretto, come a cancellarsi volutamente al compimento di un’estate vissuta in un inferno creduto un paradiso: che è perduto per colpa di una sbadataggine. Una svista, non più di una distrazione, è posta infatti a giustificazione della fine di un’epoca che nutre un sogno d’amore e il progetto di fare rivivere il passato: ragioni che possono essere addotte solo dai ricchi che mai parlano di colpe ma solo di distrazioni. «Erano persone sbadate, Tom e Daisy. Rovinavano le cose e le persone e poi si rintanavano nel loro denaro o nella loro enorme sbadataggine» scrive Fitzgerald.
Tom ha detto a Wilson che era Gatsby alla guida della sua auto gialla istigandolo così al delitto e Daisy accetta la versione data e con essa la morte dell’uomo che non aveva sposato perché povero ma che poi aveva amato perché divenuto ricco. Tom ha perso la “sua ragazza” ma ha riguadagnato sua moglie e può spiegare a Nick che a morire è stato un uomo violento che «se l’è cercata». Può allora andare in gioielleria per un regalo a Daisy in segno di un ricominciamento e a suggello di un teorema secondo il quale il potere, soprattutto economico, si rigenera e ricompone, mantenendo sempre e comunque uno stato di assoluta immunità. E in Gatsby, nel quale si compie la parabola del povero arrivista alla Balzac e alla Maupassant e che per amore dice a Nick che affermerà di essere stato lui al volante così da salvare Daisy, vediamo piuttosto l’innamorato idealista che approfitta delle opportunità materiali per coronare il sogno spirituale e impossibile di essere amato da chi ama. È grande per antifrasi, essendo in realtà piccolo. Ma Fitzgerald lo magnifica confessando di parteggiare per lui e in fondo riconoscendosi nelle sue tribolazioni. Dopo la sua morte, delle centinaia di ospiti che affollavano le sue feste, pur’anche non invitati, nessuno va al funerale. Si presenta un solo personaggio anonimo e anch’egli oscuro, chiamato “Occhi da civetta”. «Andiamo, che diamine! Si presentavano a frotte» dice a Nick. Per poi concludere, come dettando un epitaffio: «Povero figlio di puttana».

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CONVERSAZIONE IN SICILIA di Elio Vittorini (Leggerenza n. 7) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/05/26/conversazione-in-sicilia-di-elio-vittorini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/05/26/conversazione-in-sicilia-di-elio-vittorini/#comments Sun, 26 May 2019 06:00:09 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8160 imagedi Gianni Bonina

Non si comprende oggi Conversazione in Sicilia se non si torna al 1937 quando Elio Vittorini comincia a scrivere il suo capolavoro che dall’anno dopo uscirà a puntate su “Letteratura” e nel 1941 in volume, costituendo con il concomitante Don Giovanni in Sicilia di Brancati il primo romanzo che mira al cuore del fascismo. Sono gli anni ruggenti del consenso di massa al regime, sebbene all’orizzonte comincino a profilarsi nubi di guerra, e in Spagna è appena cessata la guerra civile. Vittorini ha 29 anni ed ha interamente completato quello “scarico di coscienza” avviato nel ’29 e durato fino al ’36, quando rompe con il fascismo e viene espulso dal partito, decisiva rivelandosi proprio la guerra franchista.
Il 1936 è l’anno nel quale Vittorini ripudia Il garofano rosso, romanzo ispirato a un sentimento del “fascismo di sinistra” – del fascismo inteso come aggettivo e non ancora come sostantivo – che lo ha portato, attraverso Alessio Mainardi, a sentirsi rivoluzionario, ma anche a vagheggiare di essere màs hombre. Scaricata finalmente la coscienza anche delle influenze strapaesane di Malaparte, dal quale era rimasto soggiogato, non si libera però da una febbre che lo smania. Sente di essere chiamato a “nuovi doveri”, diversi da quelli che hanno infiammato la sua adolescenza, e avverte l’aria di un’offesa portata al mondo alla quale si addice a dare riparo scrivendo appunto Conversazione in Sicilia, il libro che su tutti gli altri riconoscerà come il suo più proprio. imageLa genesi del romanzo riflette anche implicazioni esistenziali, oltre che civili e ideologiche. Vittorini vive a Milano dove lavora come correttore di bozze e, sentendosi lontano da casa, si trova a comprendere negli “astratti furori” che lo ghermiscono anche la mancanza della Sicilia, vista come la terra impareggiabile e smarrita che diventa metafora della perdita della patria con i suoi valori di libertà e democrazia. Il furore che nutre contro il suo tempo si trasforma in rabbia per se stesso avendo inseguito chimere sbagliate (l’aquilone che alla fine del romanzo vede volteggiare è il simbolo della libertà che non c’è) e sentendo di dovere nuovamente entrare in azione, stavolta contro il “dolore del mondo” che imputa al fascismo. In questa chiave la Sicilia e il fascismo sottendono i poli complementari e simultanei sui quali Vittorini esercita il suo magistero di scrittore rinato agli ideali democratici. Lo fa sfidando il regime con un’opera chiamata a superare la censura, nelle cui maglie è già incappato Il garofano rosso. Per riuscire in questo sforzo sa di dovere alzare al massimo l’asticella del realismo mitico fino anche all’astratto e all’astruso: ciò che tuttavia non impedirà a Italo Calvino di iscrivere Conversazione in Sicilia nel triangolo realistico, insieme con Paesi tuoi di Pavese e I Malavoglia di Verga, che scalderà il neorealismo postbellico.
L’allegorismo che pervade il romanzo nasce dunque non tanto da una scelta di tipo letterario, che comunque è chiaramente ricercata e consapevole, quanto dall’esigenza di non consegnare il romanzo alla censura. L’impresa è allora affidata a uno stile che, ricco com’è di iterazioni, polisindeti e antifrasi, assurge al rango di orazione civile qui e là imbevuta di risonanze linguistiche che evocano il racconto biblico. Lo sviluppo integra un’escalation che, partendo da basi analogiche, fatte di un linguaggio piano e di un fondo quasi mimetico, diventa via via sempre più elitario e simbolico fino a punte di estremo surrealismo. E in questo andamento è curioso notare come lo sviluppo stilistico si accompagni fedelmente allo spostamento dell’interesse tematico dalla Sicilia al fascismo, ovvero dal viaggio reale da Milano a Neve – e dentro Neve tra le case nel “giro delle iniezioni” e negli incontri con i “compagni di strada” – al viaggio onirico che finisce per assumere forme anche paranormali. Di più: i personaggi cambiano natura man mano che il viaggio da reale si fa spirituale, sicché dall’Uomo coi baffi, dal venditore di arance e dal Gran lombardo si arriva a Calogero, Porfirio, Ezechiele che sono maschere virtuali, evanescenze che culminano nell’incontro di Silvestro al cimitero con il fratello morto in guerra.
Il viaggio allegorico e tutto mentale di Silvestro che torna in Sicilia perché preda di astratti furori, per metabolizzarli o scoprirne la causa, è dunque «un intermezzo d’anima», scrive l’autore, un «trovarsi in un punto della memoria» dove il ricordo diventa «l’in più di ora», un modo cioè per superare il varco che nel fatale 1936 lo conduce dal passato vissuto in taccia di fascista a un futuro di redenzione del «dolore del mondo offeso». Benché nella nota finale Vittorini neghi – per gabbare la censura e non rischiare di esporsi in prima persona – che si tratti di un romanzo autobiografico e che la Sicilia «solo per avventura», per il migliore suono della parola, «inquadra e accompagna» il protagonista, molti sono i riferimenti che provano come Conversazione in Sicilia integri piuttosto un viaggio testimoniale e sostenga una denuncia a nome proprio.
imageApprendiamo infatti che Silvestro, come dice alla madre, è partito dalla Sicilia quindici anni prima e che ha quasi trent’anni. Nella realtà quando Vittorini comincia a scrivere il romanzo è il settembre 1937 e quindici anni prima, nel 1922, era fuggito per la prima volta da Siracusa per poi nel 1924 trasferirsi a Gorizia. Sappiamo inoltre dalla sua biografia che all’età di tre anni vide a Scicli la Cavalcata di San Giuseppe. Dopo che nel Garofano rosso, l’autore rinverdisce il ricordo anche in Conversazione dove la madre dice a Silvestro che aveva solo tre anni l’unica volta in cui l’ha vista. E ancora: la madre ricorda al figlio che aveva sette anni nel 1915 e Vittorini ha proprio questa età nel primo anno di guerra. Inoltre il padre di Silvestro è un ferroviere e un attore dilettante oltre che un autore, proprio come il padre di Vittorini. La personalizzazione è decisamente voluta.
Viene allora fatto di chiedersi perché mai l’autore nega di essere Silvestro, pur assomigliandogli nella discrezione romanzesca anche fisicamente, quando poi cosparge il testo di espliciti rimandi alla sua anagrafe. La risposta è nell’atteggiamento che lo scrittore siracusano terrà ancora per molto tempo sugli anni giovanili, circonfusi nella nebulosa da lui stesso creata quanto al passaggio dagli ambienti anarchici e dei comunisti a quelli dei fascisti. Soltanto nel ’46 scriverà sul “Politecnico”: «Avevo già quattordici anni l’anno della Marcia su Roma. Avevo sentito parlare di come era nato il fascismo. Eppure (dopo una prima diffidenza dovuta al fatto di essere stato iscritto d’ufficio, come studente di scuola, nelle organizzazioni giovanili fasciste) anch’io “mi agitai” su fogli fascisti più o meno di provincia». Poi nel ’49 aggiungerà, dimenticandosi del ‘46: «Ero stato iscritto d’ufficio nel 1926, mentre frequentavo ancora la scuola, come accadeva ad ogni studente».
Sennonché nel 1926 Vittorini non ha quattordici anni, età in cui ha detto di essere stato iscritto d’ufficio nelle organizzazioni giovanili, bensì diciotto. Probabilmente dunque l’iscrizione a quattordici anni nelle organizzazioni giovanili si ha realmente d’ufficio (benché egli dica di averla nello stesso anno richiesta al partito) mentre quella a diciotto segue a una sua formale domanda. Dopotutto nel 1926 Vittorini ha già abbandonato la scuola ed ha appena conosciuto Curzio Malaparte dal quale rimane affascinato e che comincia a farlo pubblicare su “La fiera letteraria” e “Solaria”. È a questo punto che lo scrittore prende la tessera del partito, due anni dopo Brancati e Pirandello, quando dice – altra menzogna – di aver scoperto, alla prima leva fascista, di essere stato nel ’22 burlato dopo aver fatto richiesta di iscrizione al Pnf.
L’infatuazione fascista dura dieci anni esatti, dal ’26 al ’36, periodo all’inizio del quale dirà di essersi «accorto della realtà meravigliosa di questi ragazzi in camicia nera che rivoltavano il fondo melmoso della quiete provinciale»: sentimento questo che nel ’33 alimenta il tirtaico Garofano rosso, uscito a puntate su “Solaria”, e che tre anni dopo si muterà nel risentimento posto alla base di Conversazione in Sicilia.
Nell’intento primario di non ripetere l’esperienza censoria fatta con Il garofano rosso, Vittorini non scombina solo la storia personale consegnando Silvestro alla sfera del personaggio da romanzo, pur non rinunciando alla prima persona narrante, ma disordina anche la geografia: elenca con pignoleria località reali che si snodano lungo la Ferrovia secondaria e nel percorso per arrivare a Sciacca in treno, cita luoghi come Messina, Enna, Piazza Armerina attenendosi al vero, ma quando si tratta di indicare il paese dove vive la madre, che elegge a teatro dell’insorgenza dei nuovi doveri, sceglie non solo di dargli un nome fittizio, chiamandolo Neve, ma anche di situarlo a cinquanta chilometri da Enna e non lontano da Piazza Armerina, in quella Sicilia lombarda che lo ha stregato al punto – lui milanese di adozione – da convincersi dell’esistenza proprio in quella zona di una comunità di discendenti di popolazioni lombarde che vivessero in isolamento.
Ma Neve non fa pensare a nessun paese dell’Ennese perché risponde anche nei particolari a Scicli, la città dove, all’età di tre anni, il padre vi si ferma solo pochi mesi, che sono però sufficienti al piccolo Elio per prendere il morbillo e contrarre un grande amore per il paese. A Scicli nel 1912 nasce la sorella Jole, che ricorderà come il fratello non mancasse mai di andare a Scicli ogniqualvolta tornava a Siracusa: «Non faceva che parlare di Scicli, sempre di Scicli. Ci andava sempre e portava pure noi. Era particolarmente attratto dalle sue feste. Debbo dire che era come se ci fosse nato».
Come in Garofano rosso, anche in Conversazione in Sicilia il viaggio che Silvestro Ferrauto intraprende porta in un paese e non in una città. Giunto a Siracusa, Silvestro prende infatti un treno fino a Vizzini e, dopo una notte passata nell’odore dei carrubi (che è un tipico albero degli Iblei) parte in pullman per Neve, posta a tre ore di distanza, sulle montagne innevate: un’indicazione falsa perché non ci sono montagne innevate a tre ore da Vizzini né linee di trasporto che coprano tanta distanza.
Che Neve sia perciò Scicli non v’è dubbio. Se non bastasse la Cavalcata di San Giuseppe, valgano i riferimenti agli «anditi di abitazioni scavate nella roccia» che sono le grotte di Chiafura dove la madre porta Silvestro nel “giro delle iniezioni”. Ma la prova d’identificazione viene dal raffronto con un altro romanzo, Le città del mondo, dove Scicli, finalmente chiamata col suo nome, viene descritta «all’incrocio di tre valloni». I tre valloni sono gli stessi che troviamo nella Conversazione di vent’anni prima, attraversati da Silvestro nel pullman diretto a Neve. Dove il romanzo perde sempre più aderenza con la realtà e si sciolgono tutti i nodi che sottendono il libro. Ma è Scicli che Vittorini ha presente, il paese nel quale finirà per vedere Gerusalemme, la città per eccellenza, il paese che vale come luogo dell’anima che diventa mito.
Non a caso Scicli ricorre nei soli romanzi di Vittorini che evocano l’idea del viaggio. Viaggia Silvestro da Milano a Neve, viaggia Alessio da Siracusa fino al paese delle fornaci, viaggia Rosario con il padre ne Le città del mondo. Ma, a ben vedere, più che viaggiare essi ritornano. Per Vittorini l’idea del viaggio integra due aspetti che involgono altrettanti valori mitici: può significare fuga («Si nasce assuefatti a fuggire in Sicilia») e può significare ritorno. Quando assume il senso del nostos ecco comparire Scicli, pur se in figura di un paese innominato. Il mito del ritorno a casa, cioè a Scicli, ha però in Garofano rosso e in Conversazione in Sicilia il senso di una discesa agli inferi mentre in Le città del mondo assume una forza redentrice. Ed è soltanto nel suo ultimo e incompiuto romanzo che Vittorini nomina Scicli, decisamente posta in cima all’elenco delle «città belle» dove vivere e dove salvarsi.
Ma Scicli appare nei tre romanzi di viaggio-ritorno sotto forme diverse. Quando scrive Conversazione, Vittorini ha già pubblicato da poco e in parte Il garofano rosso, romanzo dove Scicli è intramata in forma ambivalente come scoperta del male sociale e come salvezza da esso. Scicli non è nominata, ma i riferimenti sono espliciti: il paese con le tre torri delle fornaci è il paese che «sarebbe stato il più bello del mondo», «attraversato da un fiume tutto sassi», lo stesso che nella Conversazione corre come un torrente da Vizzini a Neve e che nelle Città del mondo è la fiumara sul cui letto sta a cavallo la grande piazza di Scicli. Le Ferrovie secondarie sono le Ferrovie associate del Garofano rosso ed entrambe portano al paese natale, che è di Silvestro come di Alessio Mainardi. Di questo paese Vittorini dice: «Non l’ho più dimenticato» e ne definisce il ricordo «tagliente» per l’impressione che da bambino gli ha lasciato la Madonna a cavallo sciclitana, all’esistenza della quale né la sorella Menta né la donna fatata Zobeida vogliono nel Garofano credere. «Io pensavo di sposare una donna a quel modo», dice Alessio a Zobeida, alla quale finisce per confessare il suo amore: «Sei tu la Madonna a cavallo».
L’accostamento ha un significato soterico e rappresenta uno dei tanti piani di lettura di un romanzo nel quale (per quanto riguarda i più rilevanti significati ideologici e politici e il senso di condanna che il ritorno in paese postula) «l’offesa del mondo» della Conversazione è «il fossato dell’offesa» che divide gli operai dai figli del padrone della fornace in Garofano. E sarà pour cause un operaio a compiere in Conversazione il viaggio di conoscenza in Sicilia «in preda ad astratti furori».
Ma dicendo di Scicli che «avrebbe potuto essere il paese più bello del mondo», Vittorini si impone una epoché che in qualche modo troverà chiarimento nel ’59 quando di Le città del mondo preparerà una sceneggiatura per un film che proporrà una Scicli colta nella sua cruda condizione di paese sottosviluppato. Nell’opera vittoriniana Scicli appare un oeil de boeuf attraverso il quale Vittorini guarda a una realtà che gli appare trascodificata, più precisamente mitica. È a Scicli che nel 1950 viene per prendere gran parte delle fotografie per un’edizione illustrata di Conversazione. Sono fotografie che arieggiano quelle di Americana, come quelle capaci di rappresentare ossimoricamente una realtà vista con «gli occhi della mente», che è appunto lo specimen del realismo mitico quale massima espressione artistica di Vittorini. Che in Conversazione in Sicilia raduna tutti i suoi temi e si mostra nella veste più riconoscibile e identitaria. Nella celebre prefazione al Garofano rosso dirà che il suo libro ce l’aveva già ed era Conversazione: nato per aduggiare il fascismo, il romanzo si rivela un mezzo autoscopico, non più di denuncia ma di introspezione, non più realistico ma psicomachico, di conoscenza di sé e della propria circostanza: nella prima parte la Sicilia e nella seconda, entro un processo di progressivo ampliamento, del mondo. Cosicché il viaggio aristotelico che parte dalla terra, dalla propria terra, diventa un viaggio platonico nella sfera delle idee universali dove i “nuovi doveri”, tutti civili, si trasfondono nel dolore del mondo che è tutto il genere umano.

© Gianni Bonina

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[è da poco uscito il nuovo libro di Gianni Bonina: "Fatti di mafia" (Theoria)]

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L’ISOLA DEL TESORO di Robert Louis Stevenson (Leggerenza n. 6) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/05/05/lisola-del-tesoro-di-robert-louis-stevenson/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/05/05/lisola-del-tesoro-di-robert-louis-stevenson/#comments Sun, 05 May 2019 06:00:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8145 imagedi Gianni Bonina

Per essere un romanzo destinato ai ragazzi, L’isola del tesoro conta troppi morti ammazzati e molti in circostanze volute per suscitare impressione. Il fondo splatter non aduggia tuttavia un libro che, come gli omologhi ambientati in un Settecento aperto alla conoscenza e alla Wilderness (da Robinson Crusoe a I viaggi di Gulliver a L’isola misteriosa, tutti intesi a esplorare il mondo, trovare terre nuove e isolate, mettere alla prova il coraggio e lo spirito di avventura), è un classico che offre ad ogni età e ad ogni rilettura nuove suggestioni. Letto da ragazzi, ci si identifica con Jim Hawkins, il giovane protagonista e io narrante, impavido e simpatico, mentre da adulti sono altri i motivi di interesse: i rapporti di forza tra il “partito della cabina” e quello della tolda, i rovesciamenti di ruolo, la condotta dei pirati, la caccia al tesoro sepolto, la morfologia dell’isola che Robert Louis Stevenson descrive nei dettagli, in ogni anfratto e ansa, nelle caverne e nelle colline, tanto da farsi a volte dispersivo e stucchevole solo per riuscire più credibile.

Nondimeno chi non ha voluto essere su quell’isola, provando magari a immaginare dove sia, e trovarsi nella locanda dell’Admiral Benbow sulla costa inglese vicino Bristol, ancor più perché entrambe frutto della fantasia dell’autore, eppure così realistiche? Il segreto del romanzo è nella miscela che suggerisce di elementi spirituali e materiali: l’esplorazione del mistero terracqueo ai confini del mondo in un viaggio di tipo conradiano e la scoperta di una fortuna che cambia la vita. La prima è condotta nel segno dell’unità e del concorso di forze, sicché Long John Silver, il capo dei rivoltosi, può contenere l’ammutinamento fino all’approdo sull’isola, mentre la seconda si dipana in una corsa mortale e feroce alla ricerca del tesoro: al punto che alla fine il piccolo Jim, benché divenuto ricco e avuta la sua parte di oro, chiama maledetta l’isola e giura che non ci tornerà «nemmeno trascinato da un carro di buoi»: un modo piuttosto maldestro per deplorare la cupidigia umana, una volta che è stata soddisfatta.
La differenza con i romanzi di Defoe e di Swift di un secolo prima e con quello pressoché concomitante di Verne, tutti legati a navi che salpano e arrivano in isole sconosciute affrontando peripezie nell’ignoto, è nella natura del nemico da fronteggiare. In L’isola del tesoro il nemico non è un estraneo – l’arcano naturalistico trovato da Crusoe, l’immaginifica popolazione di lillipuziani, gli enigmi nascosti ai coloni dell’isola Lincoln – ma il lato oscuro della stessa comunità, la parte rovesciata dell’uomo che si ribella alla coscienza civile, al patto sociale, alla legge, per perseguire un vantaggio terreno, il fine della ricchezza.
Questo dissidio pone la lotta sottesa al viaggio di ricerca o di scoperta non tra civilizzazione e primitivismo ma tra bene e male, all’interno quindi della stessa condizione umana, vista come teatro di lacerazioni e fonte del Doppelgänger in presenza di un’utilità da fare propria. Il romanzo d’avventura destinato ai ragazzi, capace di spronare le migliori intenzioni e fortificare il carattere, diventa così un testo di riflessione e di denuncia circa il divenire umano e il progresso civile in un’epoca segnata da grandi conquiste scientifiche, alle quali non a caso Jules Verne ha appena dedicato la trilogia del capitano Nemo culminata ne L’isola misteriosa; diventa cioè un mezzo d’indagine che da vicino richiama il romanzo forse maggiore di Stevenson e di qualche anno successivo, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, dove lo sdoppiamento di personalità costituisce l’estrema ratio dell’infingardaggine del capitano Silver, cuoco e pirata, e della sua ciurma viscida e malfidata.
Probabilmente Stevenson, recuperando racconti di mare del padre e trovandosi a vivere a Bristol, mitico porto per grandi traversate, non si rese nemmeno conto – visto lo stile elementare del romanzo – di scrivere un libro che, narrando una storia di pirati e gentiluomini tutti assetati di ricchezza, in realtà componeva un apologo morale e filosofico sulle bassezze dell’uomo di ogni ceto attratto dall’oro e pronto a sopraffare il suo simile pur di averlo. Il pirata è per Stevenson il lupo di Hobbes, il predatore che il lusso rende incivile. Forse per questo, pur scrivendo quasi alla fine dell’Ottocento, Stevenson sceglie il Settecento più esotico e selvaggio dei corsari e dei filibustieri e non tiene conto di alcuna political correcteness nella sua visione manichea che divide buoni e cattivi: da un lato i pirati che tali si rivelano in vista del tesoro e da un altro i gentiluomini che, pur motivati dalla stessa bramosia e in viaggio per dissotterrare il tesoro di capitan Flint, sembrano mossi da intenti fatti per realizzare ideali edificanti di affermazione sociale mentre non rispondono in verità che agli stessi infimi istinti dei bucanieri da loro assoldati.
Il cavaliere Trelawney, il dottor Livesey e il comandante Smollet formano il partito al potere, del tutto legittimati perciò a mettere le mani sulla “cassa del morto”, contrariamente ai pirati che pure sono stati al servizio di Flint, il capo che ha nascosto il tesoro sull’isola: e legittimati perché quella che compiono in nome della società civilizzata è una confisca di beni rapinati alla stessa società dabbene da manigoldi buoni per la forca e indegni di qualsiasi considerazione. Alla fine, quando John Silver si consegna e poi sparisce con una manciata di oro, quel che Jim scrive è che tutti furono «contenti di essersi sbarazzati di lui così a buon mercato». Il patto sarebbe stato di non consegnarlo al carnefice ma di lasciarlo andare libero, cosicché per non mantenerlo e non votarsi all’impunità del misfatto scellerato Stevenson lo fa scappare di soppiatto, non mancando però di sottolineare, a sua definitiva condanna morale, che avrebbe avuto «poche probabilità di trovare la felicità in un altro mondo».
L’autore non vuole minimamente derogare al codice vigente della supremazia della classe borghese ispirata alla migliore coscienza perbenista e dà al suo romanzo “per ragazzi” uno svolgimento che oggi definiremmo diseducativo e che non ritroveremmo in nessun film né in un racconto: anziché fallire nell’intento di trovare il tesoro e arricchirsi, così da mostrare vano ogni misero tentativo di trovare facile e rapace fortuna nella vita, i gentiluomini tornano straricchi e, quel che è peggio, incassando e dividendo tra loro fino all’ultima moneta, mentre di «una abbondante parte del tesoro» gode anche Jim Hawkins che però non ci dice l’uso che ne farà. Il giovane lettore, nell’ottica stevensoniana, è chiamato perciò a rallegrarsi del “lieto fine” dell’avventura ed è autorizzato a sognare di viverla quando una buona formazione lo indurrebbe a imparare come rifuggire occasioni propizie accaparrando refurtiva.
Quando Stevenson si addice ad esaltare le nobili gesta dei gentiluomini di Bristol – un armatore, un medico-magistrato e un probo comandante di golette – si pone la questione di chi debba essere il narratore che racconti l’avventura. Pensando a un romanzo per ragazzi, com’è chiaro nella dedicatoria iniziale al “saggio giovanetto”, trova che la voce narrante debba essere quella del più piccolo della compagine, il figlio dei locandieri dell’Admiral Benbow che viene imbarcato come mozzo quando, dopo la morte del padre, la sua presenza nella locanda sarebbe indispensabile alla madre frastornata. Scelta astuta: l’io narrante libera l’autore da ogni responsabilità diretta e i fatti sono affidati a un diario terzo; inoltre la testimonianza bianca rende non solo più vera la storia ma soprattutto la legittima, sebbene appaia evidente che l’avventura sia narrata a distanza di tempo da un Jim probabilmente diventato adulto e resipiscente, giacché per giustificare gli spropositi commessi scrive: «Ero soltanto un ragazzo e avevo preso la mia decisione» e ancora: «Ero sciocco e stavo per compiere un gesto stolto e imprudente».
Tuttavia non è al tempo della scrittura che rifacciamo la nostra immedesimazione di lettori giovani, ma a quello della narrazione, così da condividere le emozioni dello spericolato adolescente, mentre da lettori maturi siamo attenti a cogliere imperfezioni e superficialità che ci pongono in un atteggiamento critico nei confronti di Stevenson e delle sue ingenue trovate narrative. Quelle che da ragazzi ci erano infatti sembrate scene mozzafiato, tali da impedirci di condividere con l’autore l’opinione che si trattasse di “idee pazze”, in realtà si mostrano negli anni della rilettura come grossolane banalità: il piccolo Jim che scopre il complotto solo perché si trova nel fondo del barile delle mele e poi nella radura ascolta per caso quanto a distanza si dicono Silver e Tom, finché da solo sulla piroga finisce in balia della marea che lo porta nottetempo alla goletta di cui riesce persino a impossessarsi, nonché il Jim delle altre circostanze fortuite (il possesso della mappa, l’incontro con Ben Gunn, il rientro nel fortino occupato dai pirati, la rocambolesca salvezza…) che lo vedono ammirabile protagonista, non esita che ingenuità narrative di cui lo stesso Stevenson si rende ben conto se parla di “idee non del tutto sane” riferendosi alle intraprese del mozzo. Ma non può fare diversamente dopo aver deciso di raccontare l’avventura tenendo Jim sempre sulla scena. Sennonché a un certo punto si trova nell’impasse: Jim ha lasciato la nave e si trova sull’isola dove incontra Ben Gunn, un pirata abbandonato da Flint e sopravvissuto per tre anni. Non può dunque conoscere i rivolgimenti a bordo, lo sbarco a terra e il riparo nel vecchio fortino, ma Stevenson ha bisogno di raccontarli, anche per preparare la sorpresa che nel finale attende proprio Jim, ignaro degli sviluppi circa l’accordo con i pirati, la cessione a loro della mappa, il recupero già avvenuto del tesoro. E allora cosa fa? Cambia voce narrante e per i primi tre capitoli della quarta parte lascia che il narratore non sia più Jim ma il dottore Livesey. Il quale non si capisce quando scrive, né sappiamo come il suo racconto finisca per integrare quello del mozzo che pure proprio all’inizio è stato chiaro: «Richiesto dal cavalier Trelawney, dal dottor Livesey e dal resto della compagnia di narrare dal principio alla fine tutto ciò che si riferisce all’isola del tesoro…». Non siamo quindi nell’ambito del manoscritto ritrovato che può prestarsi a più voci, ma del diario di bordo a voce unica per modo che non si spiega come quanto narrato dal principio alla fine da Jim comprenda anche il testo di Livesey, annunciato nondimeno da epigrafi del tipo “Il racconto è proseguito dal dottore” e “Continua il racconto del dottore”. In realtà il racconto non continua perché il dottore ne comincia un altro, complementare al primo.
A Stevenson viene concessa simile incongruenza in forza del genere per ragazzi cui appartiene il romanzo. Che però si espone a un severo sindacato di coerenza e verosimiglianza. Così acribitico nella descrizione della nave tra ombrinali e impavesata, altrettanto dell’isola di baie e paludi, l’autore si fa del tutto superficiale nella strutturazione del romanzo, ciò che suppone una stesura estemporanea non organizzata né fondata su una sinossi stabilita. Robinson scrive a vista di scena e quel che in realtà richiede al suo lettore-modello è di esercitare la sospensione dell’incredulità, che cioè si renda credulo e insieme con le inverosimiglianze di fatto consideri romanzesche anche quelle di forma, da accettare al pari di altrettante “idee pazze”. Il procedimento invenzionale di scena dopo scena risponde comunque a una composizione che tiene conto di due sfere: quella di terra e l’altra di mare. L’avventura parte, secondo il canone, dai preparativi della spedizione e ancor prima dalle movimentate schermaglie attorno alla locanda dell’Admiral Benbow per il recupero della mappa del tesoro, dopodiché continua sulla Hispaniola per svolgersi poi nuovamente sulla terraferma entro il perimetro dell’isola. Nel passaggio da un teatro all’altro Stevenson è attento a dosare gli sviluppi nella logica dell’intrigo e l’evoluzione dei caratteri in funzione dei cambiamenti: il comandante Smollet, che dapprima non convince l’armatore, si rivela anche a lui un valente navigatore e un’autorità affidabile; il dottor Livesey dà prova di abile stratega; il cavaliere Trelawney passa da chiacchierone e facilone proprietario di nave ad accorto capo-spedizione e pugnace combattente; la ciurma si va dividendo tra fedeli e ribelli nella prospettiva che i primi sono marinai e i secondi pirati; Long John da fido capo cuoco si trasforma nel primo dei pirati per poi tornare ad essere arrendevole e inerme servo; Ben Gunn da impenitente selvaggio diviene collaborativo e generoso alleato contro i vecchi compagni di corsa; e infine Jim Hawkins da aiuto locandiere si fa mozzo circospetto e curioso, poi solitario trapper in un’isola sconosciuta, quindi intrepido ranger e infine meticoloso scrittore. A lui è affidato il compito di tenere uniti i campi, godendo della benevolenza dei gentiluomini come della simpatia dei pirati, in maniera che, stando in mezzo, toglie agli uni e agli altri parte della loro natura per cui questi e quelli ci appaiono in qualche modo sfigurati, i gentiluomini in taccia di avidi rapaci e i pirati nelle grinze di monelli ubriaconi che fanno meno paura come minore stima adducono i signori della cabina.
Jim è il giovincello di scoglio attaccato alla sottana della madre che il mare aperto tramuta in uomo pronto a rischiare la vita per mettere le mani sul tesoro del valore di settecentomila sterline d’oro, per nulla colto dallo scrupolo di aver commesso un atto che è anch’esso di pirateria. Né Stevenson dà peso a questi aspetti. Ha già deciso che il tesoro deve finire nelle tasche dei ricchi, così condannando all’insuccesso la pirateria e con essa en travesti l’illegalità del proprio tempo. Se ne prende anche gioco canzonando i bucanieri quando, a due passi dal nascondiglio vuoto, li atterrisce con una voce che essi credono dell’oltretomba e li rende preda di impresagiti spettri davanti a uno scheletro e a una Bibbia malauguratamente strappata. Da eroi tratta invece i vincitori e i possessori del tesoro, che fa salpare dall’isola con la bandiera britannica pavesata e in Messico fa incontrare piacevolmente a cena con gli ufficiali di una nave da guerra inglese per poi farli tornare in festa e tutti vivi finalmente a Bristol. Quanto ai pirati, ne sono rimasti in vita solo tre e sono stati lasciati dai gentiluomini a marcire sull’isola con qualche scorta di viveri. Esattamente come la ciurma del capitano Flint aveva fatto con Ben Gunn: a chiudere un cerchio entro il quale buoni e cattivi sono alla fine la stessa cosa.

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IL GATTOPARDO di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Leggerenza n. 5) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/04/28/il-gattopardo-di-giuseppe-tomasi-di-lampedusa/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/04/28/il-gattopardo-di-giuseppe-tomasi-di-lampedusa/#comments Sun, 28 Apr 2019 06:00:14 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8138 imagedi Gianni Bonina

Senza il pregiudizio ideologico apposto dalla critica di sinistra, sia accademica che militante, Il Gattopardo non sarebbe stato ricordato in chiave politica ma unicamente come romanzo storico, secondo le intenzioni del suo autore. Invece continua a gravare su di esso una doppia ipoteca reazionaria e riduzionista: la prima voluta da un’ottica aristocratica che non vede né il progresso né i proletari, ma solo la conservazione di un retaggio di casta; la seconda imposta da un gurgite sicilianista che, secondo Sciascia, porta Tomasi a comprendere i mali della Sicilia come “vizio di astrazione geografico-climatica” che ne ricondurrebbe la causa essenzialmente al tormento del caldo torrido, indicato invero dall’autore quale “autentico sovrano della Sicilia”, “collera divina”, “grande lutto”, “maledizione annuale”, segno di cattiva giornata.
Astrazione che è però anche storica nella rappresentazione della Sicilia che il principe (offrendo la miglior prova di sicilianismo) fa a Chevalley, da un lato con l’imputare alle dominazioni straniere le gravi condizioni sociali dell’isola e da un altro con il deplorare le caratteristiche endemiche dei siciliani che amano il sonno, condannano il fare e si credono il sale della terra. In questo quadro le critiche al romanzo sono fondate, perché Il Gattopardo non concede scampo alcuno alla “irredimibilità” (termine coniato da Tomasi e fatto proprio da Sciascia) della Sicilia, strozzata in un’impossibilità di sviluppo che è anche un arroccamento volontario. Il romanzo storico cui per anni, almeno dal referendum costituzionale, pensa l’autore palermitano è inteso a celebrare i fasti di una classe sociale per millenni al potere allo scopo di intonarne il de profundis: alla ricerca delle cause del declino, Tomasi trova che i primi segni di cedimento della aristocrazia siciliana si siano avuti in occasione della campagna di Garibaldi: evento al quale la Sicilia assiste in un’accidiosa insipienza, incapace anche di formarsi un’opinione condivisa. L’antistoricismo imputato a Tomasi trova quindi ragione nella pusillanimità che l’autore attribuisce a una classe incapace di cogliere l’ultima occasione che la storia le offre non tanto per salvarsi quanto per rigenerarsi. Il giudizio di disprezzo che il principe di Salina esprime al ricevimento della lettera di un nobile che invita anche lui a lasciare Palermo dopo lo sbarco dei Mille segna il momento di rottura dell’asse che regge la classe dominante.
Di fronte alla divisione della nobiltà tra liberali e lealisti, il principe di Salina dà credito all’iniziativa mediana e ruffiana, ma di estrema intelligenza per un ceto così miope, che si intesta il nipote Tancredi, pronto a combattere per il nuovo re contro il vecchio solo per ottenere che nulla cambi nella sfera di privilegi del casato. Fermo in questa strategia, don Fabrizio vota perciò a favore dell’annessione e incoraggia i villani di Donnafugata a fare altrettanto, mostrandosi moderno per restare infine non tanto antico ma sulla scena, sennonché altro non conquista che un limbo nel quale, durante il gran ballo, gli apparirà evidente la vacuità dello sforzo compiuto in favore di un cambiamento che fosse un adattamento, perché vedrà danzare in un palazzo lasciato nello stile antico, insieme con i vieti modi e la moda passatista, un mondo immoto inconsciamente e irresponsabilmente in corsa verso il precipizio.
È una derelizione che Tomasi preconizza sin dal momento dell’arrivo del principe e della famiglia a Donnafugata. Prima ancora che don Ciccio Tumeo insorga e dichiari “una porcheria” lo sproposito che un Falconeri sposi una Sedara, presagio della fine dei Falconeri e degli stessi Salina, è la popolazione (la stessa che, pensando a una preterizione, dubita circa la sincerità del suo invito a votare l’annessione) a trovare il principe cambiato quando gli sente dire che la sera vorrà incontrare tutti gli amici e che si augura la pioggia: l’eccessiva cortesia indebita mostrata ai contadini viene vista come segno del declino del suo prestigio, giacché mai il principe aveva ricevuto villani né gli era importato nulla che piovesse o meno.
Tomasi intende allora il suo romanzo storico, al cambio di un’epoca con un’altra, come testimonianza personale di un mondo del quale è egli stesso l’epigonale sopravvissuto rimasto con le dita prive di anelli e titoli senza valore. E non sa se identificarsi appieno in esso, dal momento che a volte parla della Sicilia scrivendo “da noi” e a volte “in quel remoto paese”. Né sceglie un tempo narrativo continuo e progressivo, perché si serve molto dell’analessi, preferendo il recupero di fatti già avvenuti e il ritorno al passato anche prossimo, e della prolessi anticipando pure di moltissimi anni vicende che non verranno mai riprese. Il romanzo appare agitato da una febbre e da un intento di documentazione storica che volendo essere quanto più oggettiva – di qui il velo di ironia, a volte malriuscita – si rivela piuttosto estremamente sentita e partecipata. Tomasi vuole da un lato, per riferirsi al suo presente e all’esiziale futuro di casta, dipingere un’epoca con i suoi drammatici rivolgimenti e da un altro dare lustro alla propria casata, elevando lodi agli avi santi e gloriosi. E questo fa in realtà per coprire un lato oscuro della propria genealogia, sul quale tace ma che sente come una vergogna più che una colpa. Il Gattopardo può essere dunque anche un’operazione a nascondere nel proposito di far pendere da un lato la bilancia del fas et nefas. C’è una storia di casa e di casato che il romanzo, pur preferendo fare in esergo quella complementare ma esornativa di padre Pirrone, lascia fuori ma che pure è ben dentro il suo tessuto e la sua scaturigine. La gran mole di studi dal 1958 ad oggi ha pressoché ignorato questo fondo di rimandi, che tuttavia merita di essere tenuto presente e indagato. Lo stesso Tomasi cercò in tutti i modi di tenere sepolto l’umiliante segreto di famiglia, ma dovette fare, forse inconsciamente, i conti con esso. Sicché è bene parlarne apertis verbis.
Tomasi non andò certamente a Simancas, dove dal Cinquecento è attivo il più grande archivio militare dell’epopea spagnola, perché se l’avesse fatto avrebbe trovato quanto un altro palermitano, Giovanni Marrone, pubblicherà nel 1995 in appendice al suo Città campagna e criminalità nella Sicilia moderna (Palumbo): gli atti del processo che nel 1583 fu celebrato contro tale Mario de Tomasi, un capitano d’arme di Licata di cui Marrone fu pronto a rilevare l’“esemplare carriera”, perché comune a quella dei masnadieri che si resero famigerati per nefandezza ed efferatezza e che prepararono la campagna siciliana alle future bande mafiose dei campieri. Un processo concluso (nonostante la documentata pratica delittuosa esercitata dalle compagnie d’arme come mezzo di controllo poliziesco per conto di Carlo V) con una blanda condanna all’inabilitazione e perciò servito a porre le remote premesse ai patti di collusione tra Stato e mafia.
Mario de Tomasi era il peggiore dei suoi pari e Marrone vide bene elevandolo a campione della risma con una fedina da brivido: «Autore di infiniti abusi e di crimini che, in un crescendo continuo, andavano dalle estorsioni alle concussioni, ai furti, fino alle crudeltà più impressionanti, provocando la morte di numerosi infelici, accumulò un patrimonio valutato intorno a ventimila scudi». Un patrimonio provento della sua più lucrosa attività: il commercio delle teste di banditi alla macchia, ognuna delle quali poteva valere fino a mille scudi perché legalmente e abitualmente accettata come partita per liberare un prigioniero pur’anche da designare. Marrone però non si avvide o non volle avvedersi che il “tale” Mario de Tomasi altri non era che il capostipite dei Tomasi di Lampedusa, lo stesso Mario Tomasi che nel 1987 era comparso in cima all’albero genealogico pubblicato da Andrea Vitello nella sua ponderosa biografia omonima dello scrittore uscita da Sellerio.
Epperò, in un gioco di continue distrazioni, nemmeno l’acribitico Vitello, pure lodevole per il frutto della sua ricerca (che partiva già nel ’63 da Flaccovio con I Gattopardi di Donnafugata: dove però si taceva ancora la vera natura del capostipite), capì con chi avesse a che fare o più probabilmente finse di non capire: e, definendo Mario Tomasi appena «un oscuro armigero», si limitò a segnalare che aveva sposato, proprio nell’anno del processo, una Francesca Caro, baronessa di Montechiaro e signora di Lampedusa. È infatti con l’attribuzione di “primo barone di Montechiaro” che il capostipite scrive una memoria difensiva di almeno due volumi indirizzata al re di Spagna e rivolta contro il “visitador” regio che istruisce il suo processo, perché ne sia impedita la prosecuzione. Ne avrà, come si ricava dal testamento del figlio Giovanni, la condanna anche all’esilio – un caso fallito di ricorso all’autorità superiore, costume molto diffuso nell’altera nobiltà siciliana che si rivolgeva a Madrid per scavalcare Palermo.
Il frontespizio del lungo ricorso costituirà la seconda illustrazione del libro di Gioacchino Lanza Tomasi Biografia per immagini di Tomasi (Enzo Sellerio, 1998) ed è proveniente dai documenti di casa Tomasi andati in gran parte distrutti nel bombardamento del ’43. Giuseppe Tomasi non poteva dunque non conoscerne l’esistenza né ignorare che artefice della “razza di santi” lampedusiana e dell’ingente fortuna accumulata fosse stato un delinquente della peggiore cotta. Se dunque non andò mai a Simancas fu perché non aveva bisogno di sapere oppure non voleva sapere di più, ipotesi che è più verosimile. Le indagini di Andrea Vitello permisero di accertare che Lampedusa ne parlava tuttavia al cugino Lucio Piccolo, dal quale qualche confidenza è arrivata poi a uno studioso di Capo d’Orlando, attento al proprio anonimato. Ma cosa sapeva esattamente Lampedusa circa il suo capostipite? Certamente era al corrente del processo e dunque (se ha avuto in mano la mole dei documenti andati perduti) di tutte le accuse, compresi gli eccessi del cacciatore di teste.
Se le cose stanno così, Il Gattopardo ci appare sotto una luce nuova e spiega la celebre frase che suggella la parabola dell’aristocrazia siciliana al fondo di un’esperienza personale, quella del principe: «Noi fummo i gattopardi, i leoni, quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene», immagine dove animali necrofagi sembrano evocare uomini come il capostipite negli «smisurati ritratti equestri dei Salina trapassati» e nella «doppia fila di antenati corazzati e infiocchettati». Un peccato originale che integra una nemesi, la condanna all’estinzione di una stirpe che cova il germe dell’illecito e della nequizia? La domanda deve trovare risposta nella rilettura dell’opera complessiva di Lampedusa.
Vitello volle scorgere l’ombra di Mario Tomasi nel commento di Lampedusa al Caesar di Gundolf sul mensile “Le Opere e i Giorni”, dove l’autore del Gattopardo teorizza il diritto ad una seconda biografia, «senza confini di tempo o di spazio, che narri l’aggirarsi dell’ombra» e le «conseguenze delle sue apparizioni». Il riferimento alla macchia originaria può sembrare esplicito se di Lampedusa si accoglie l’idea di un uomo che del travestimento e della finzione fa uno stile di vita, tanto da nascondere a se stesso e agli altri il tumore che lo ucciderà. La “naturale tendenza” del principe di Salina «a rimuovere ogni minaccia alla sua calma» è perciò la stessa di Lampedusa che rifugge la realtà e la verità, così come per esempio è sua abitudine gettare via la posta senza nemmeno aprirla, rispondendo a un ideale elusione del presente che è il cuore del Gattopardo. Più che il bisnonno Giulio Fabrizio, il principe ci appare allora lo stesso Lampedusa, trasposto nella coscienza dell’ultimo discendente cui spetta con la propria morte, tanto «corteggiata» e ricercata, di interpretare un destino generazionale ubbidendo al credo in una ananké. Don Fabrizio è il «primo ed ultimo di un casato» tenuto in spregio che nutra dichiarato «disprezzo per i suoi parenti e amici che gli sembrava andassero alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano». Lo stesso Lampedusa si sente alla deriva e nell’opera di annichilimento che compie del proprio mondo dorato individua un simbolo della caduta degli dei, per quanto scrive nella lettera al suo amico Enrico Merlo, in Bendicò, che è per lui la chiave del romanzo. Il cane, i cui resti impagliati resistono quasi trent’anni per poi disfarsi nell’aria, salvo ricomporsi nella postrema sagoma di un gattopardo, è «il personaggio» laterale e scorciato che assiste a tutte le vicende incombendo come uno stemma o uno stigma, il segno che l’elemento di maggiore consistenza e durata non appartiene alla natura umana. Nella stessa lettera del ’57 a Merlo Lampedusa rivela anche: «Angelica non so chi sia, ma ricorda che Sedàra, come nome, rassomiglia molto a Favara». E Favara è la roccaforte nella quale il capitano d’arme Mario de Tomasi guida per 22 giorni un saccheggio senza risparmio. Sicché sui modi volgari di Sedàra si possono sovrapporre quelli del primo Tomasi, barone per solo effetto del matrimonio e villano senza emuli: nessuno dei Lampedusa porterà infatti – e non a caso – il suo nome.
Del resto quando, inopinatamente, Lampedusa scorge negli occhi di Concetta «un bagliore ferrigno» e le riconosce «il sangue violento dei Salina», il loro «impeto rabbioso», non può che pensare a Mario Tomasi, il cui spirito nefasto si è trasfuso nell’unica figura di casa Salina che è vista con sfavore (ma anche il figlio Francesco Paolo è gradito appena per la sua «balordaggine», entro un intento di derelizione della propria linea ereditaria a vantaggio invece di quella collaterale propria di un Tancredi il cui sangue è immune da ogni veleno, l’uomo nuovo che «avrebbe potuto essere l’alfiere di un contrattacco che la nobiltà, sotto mutate uniformi, poteva portare contro il nuovo ordine politico») e che finirà per addirsi al mercimonio di reliquie compiendo dunque, se non reiterando, un reato che suona come rifiuto della vocazione alla santità dei Lampedusa. La «fine di tutto», se tale dev’essere, non può che colpire tutti i componenti di una schiatta nata con un male inestirpabile. E di un male incurabile Lampedusa infatti muore, senza sapere che il romanzo più volte rifiutato avrà un successo al di sopra di ogni aspettativa, ma porterà alla scoperta di una macchia indelebile proprio in capo all’albero genealogico.

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LO STRANIERO di Albert Camus (Leggerenza n. 4) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/04/14/lo-straniero-di-albert-camus/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/04/14/lo-straniero-di-albert-camus/#comments Sun, 14 Apr 2019 06:00:03 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8127 imagedi Gianni Bonina

Alberto Moravia nel 1929 con Gli indifferenti, Jean-Paul Sartre nel ‘34 con La nausea e Albert Camus nel ‘42 con Lo straniero hanno interpretato, lungo una stessa stagione e rilanciando temi sveviani e joyciani primonovecenteschi, l’inquietudine esistenzialistica nelle forme rispettivamente dell’insensibilità, dell’isolamento e dell’assurdo. Il romanzo di Camus richiama quello di Moravia per l’insensatezza di un omicidio qui solo maldestramente tentato e lì consumato senza ragione, mentre si accorda a quello di Sartre per il fondo di diario filosofico condiviso con quello narrativo.
L’incipit – «Oggi è morta mamma. O forse ieri, non so» – è spia infatti di un diario quotidiano che però diventa subito racconto, reso al passato prossimo, di fatti ricordati anziché annotati, ma mantiene la sua natura di riflessione filosofica sul significato delle azioni umane anche quando, all’inizio dell’ultimo capitolo, il tempo della narrazione coincide di nuovo con quello della scrittura – sicché leggiamo dell’incontro con il prete: «Non ho niente da dirgli, non ho voglia di parlare e dovrò comunque vederlo presto» – e quando soprattutto nell’intensissimo desinit così l’autore si congeda: «Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio».
Sebbene non assistiamo all’esecuzione di Meursault, l’autore ne dà per certa la morte sottendendo dunque la bocciatura del ricorso in Cassazione, speranza che è compagna degli ultimi giorni del condannato: e si capisce che è quanto egli stesso ha in fondo ritenuto giusto che accadesse nella misura dell’assurdo vissuto come paradigma della vita, ancora troppo lontano nel tempo essendo quell’appello alla “rivolta” – altro caposaldo della ricerca di Camus, ma più girato dal lato dell’impegno politico – che si annuncerà quale forma di riscatto sociale inteso a vincere l’assurdità individuale denunciata da Lo straniero e quella collettiva di cui sarà portatore Il mito di Sisifo: a meno che nella interruzione del racconto, che rimane dopotutto inconcluso, non si voglia scorgere una sospensione sul rovesciamento impronosticato della sorte, un presagio in nuce di rivolta, come un’apertura di credito soterica e irenica. Ma, a stare all’evidenza anziché all’evenienza, l’augurio di essere odiato in punto di morte come risultato di una condotta sconsiderata e del riconoscimento di essa suona quale rifiuto – uguale a quello opposto all’estrema unzione – di ogni atto di commiserazione cristiana e segno di desacralizzazione della vita. L’uomo che un giorno sarà in rivolta è, alla fine de Lo straniero, un uomo arreso e carnefice di sé stesso. Un self-hater.
Eppure in una sola occasione ricorre il riferimento esplicito all’assurdo: quando Camus scrive «Dal fondo del mio futuro, per tutta la vita assurda che avevo condotto…», così coniugando ancora una volta, secondo un ricorsivo andirivieni diacronico, avvenire e passato, domani e ieri, entro un presente nel cui schema può rintracciarsi una soddisfacente definizione dell’assurdo: la vita è ciò che avviene. Camus lo cita una sola volta, ma l’assurdo è la materia oscura del romanzo. Quando Raymond, l’amico di Meursault, che è l’io narrante, dice ai giudici che per caso l’imputato si trovava sulla spiaggia e che ancora per caso gli è successo di scrivere per lui la lettera alla fidanzata, tanto che il pubblico ministero ribatte che «in quella storia il caso aveva già molti misfatti sulla coscienza», Camus non fa che imputare gli avvenimenti non alla volontà umana ma all’accidentalità naturale, quindi a una sporade di effetti privi di cause razionali, fenomeno al quale, se proprio occorre dare un nome, l’assurdo è l’archetipo più appropriato. Assurdo, preciserà altrove Camus, che si ha nel divorzio tra l’uomo e il mondo: esso non sta in uno o nell’altro, quanto nella loro presenza in comune. L’uomo chiede una cosa al mondo e il mondo, ovvero l’esistenza, gli offre tutt’altro, anche l’inatteso e l’indesiderato. Essere gettati nel mondo significa allora per Camus non ciò che Heidegger concepisce nei modi di una deriva che comunque ha le sue determinazioni umane, ma dipendenza eschilea dal Fato, resa incondizionata al fortuito e al destino che ammettono anche l’implausibile, l’assurdo.
Assurda è anche la spiegazione che – in aggiunta alle ragioni casuali addotte da Raymond – dà dell’omicidio Meursault ai giudici, dicendo loro che è stato precisamente per via del sole se ha ucciso, suscitando le risate dell’aula nonché la scrollata di spalle del suo avvocato. Eppure, riferendo non il movente ma il motivo in preda al quale ha agito, Meursault ha detto la verità. Il pubblico ride trovando appunto ridicola la risposta giacché si aspetta di conoscere un movente che sia razionale mentre viene colto di sorpresa da quella che appare una battuta di spirito. È la scena capitale del romanzo. Dando una risposta che muove al riso, l’imputato non può non apparire che grottesco, sennonché è proprio lui, accusando il sole, il primo a sentirsi ridicolo.
Per Camus ridicolo è colui il quale viene visto tale: per esempio l’ultimo passeggero che salga sul tram e venga osservato dagli altri viaggiatori solo per scoprire cosa abbia di ridicolo, con lo stesso intento dei giurati della corte che guardano l’imputato dietro le sbarre. Nell’ultimo arrivato, nella persona che cioè vediamo per la prima volta o di cui abbiamo sentito parlare, cerchiamo di cogliere inspiegabilmente l’elemento che ce lo renda ridicolo. “Panca del tram” chiama Camus questo atteggiamento comune che è fonte dell’assurdo e che si riproduce anche in un’aula di giustizia. «So che era un’idea stupida – scrive l’autore – visto che ciò che cercavano era il delitto, non il ridicolo. Tuttavia non c’è molta differenza, e comunque è quella l’idea che m’è venuta». La linea è segnata: se non c’è molta differenza tra delitto e ridicolo, il risultato è l’assurdo, un delitto potendo dunque essere istigato dal sole in una circostanza oggettivamente ridicola, sebbene fondata sul presupposto naturale e reale che la temperatura bollente possa altrettanto oggettivamente turbare la lucidità di un uomo.
Il romanzo è ambientato non a caso in due estati consecutive che corrispondono alle due parti nelle quali esso è deliberatamente diviso: la prima che culmina nell’omicidio dell’arabo, la seconda dedicata al processo. Da uno spazio aperto fatto di strade, spiagge, gente di città si passa a uno claustrofico, un’aula giudiziaria e una cella carceraria, rimanendo tuttavia come fattore naturale di condizionamento il clima torrido e opprimente di una Algeri sotto la cui canicola soffocante Meursault percorre la via di progressiva estraniazione a sé stesso che lo porta prima al delitto e poi alla ghigliottina: obnubilato dal sudore, stremato dalla calura, uccide un arabo nella sola supposizione che possa essere colpito dal pugnale che vede scintillare al sole. Bisogna aver fatto esperienza di questo eccesso di caldo estivo per riuscire in qualche modo a immaginare lo stato fisico e mentale di Meursault, trasposizione di un autore che altrimenti non può essere definito – e lui stesso tiene a ricordarlo – che mediterraneo, figlio delle sabbie rosse incendiate dal sole, dell’aria ferma e rovente, della luce accecante, del sudore indetergibile.
Seduto nel banco degli imputati, il pensiero di Meursault è solo alle pale elettriche insufficienti, al suo malessere, al desiderio di tornare presto in cella per sfuggire all’aria pesante. Sentire “la morsa del sole” è per Meursault come ascoltare una voce che esorti a liberarsi dei propri vincoli morali come fossero vestiti da togliersi di dosso per trovare refrigerio. Un’assurdità, è vero, che la società non ammette nel numero delle esperienze umane, ma che pure può accadere, perché la vità è appunto ciò che avviene, senza che sia ammesso chiedersi se quanto avvenga sia assurdo o meno. Siamo noi a crederlo assurdo. Ovvero estraneo. Straniero. Quale si sente Meursault: un intruso nel processo, perché ha «l’impressione di essere di troppo», pur essendone la figura centrale.
Questo senso di estraneità, indotto da una visione extra ordinem del mondo, suona come ripudio di ogni intrapresa e riecheggia la condotta dello scrivano di Melville che di fronte all’invito ad agire risponde sempre “Preferirei di no”, così esprimendo un dissenso e assumendo uno stato di estraneità. Allo stesso modo Meursault, anche a Marie che vuole sposarlo o a Raymond che gli chiede di fare da testimone oppure alla proposta di trasferirsi a Parigi, risponde invariabilmente che per lui è lo stesso e che niente gli è importante. Le cose che dice di trovare interessanti e alle quali presta orecchio sono solo tre: quanto dice il portinaio, quanto poi gli racconta Raymond Sintès (cognome mutuato dalla madre) e quanto al processo sente dire di sé. Per il resto il suo distacco dal mondo, la sua atarassia, lo fanno apparire assente.
In questo quadro di irrazionalità che i giudici non sanno a quale categoria riferire per dargli una natura prima unama e poi giuridica, il processo per omicidio che Meursault affronta finisce per riguardare con il delitto anche il suo carattere, dovendo egli rispondere di un comportamento che non rispetta le convenzioni: non piange per la morte della madre, va via subito dopo il funerale, il giorno dopo porta una donna a vedere un film comico e anche al mare. Ciò non è umano, non essendo normale, per cui il pubblico ministero, ricordando l’imputato che davanti alla salma della madre accetta il caffè dal portinaio, sbotta: «Un estraneo poteva offrire sì il caffè ma un figlio aveva il dovere di rifiutarlo». Entro questa sfera di assurdità si creano due fronti, in uno dei quali militano il pubblico ministero, i giudici, i giurati, i giornalisti, il pubblico e pure gli amici di Meursault, che invece figura da solo nell’altro. È per questo che quanti lo conoscono e gli si dicono amici, testimoniano in parte contro di lui e tutti comunque – ne è ben consapevole Meursault – lo dimenticheranno presto, rimuovendolo come un corpo estraneo. Straniero appunto.
Ma l’assurdo di Meursault, per il senso di totale insignificanza reale, ha di diverso che adduce noia, motivo questo centrale della letteratura del Novecento, bastando qui ricordare Brancati o Borgese. E cosa fa Meursault per non annoiarsi? Compie un esercizio che è ancor più novecentesco: si affida ai ricordi cercando di recuperarli nella loro precisione più acribitica: «Non mi sono più annoiato dopo aver imparato a ricordare» dice una volta passato dall’essere una persona che insegue pensieri da uomo libero (un’intera domenica trascorsa al balcone a vedere la gente per strada e pensare ad essa, una chiacchierata col vicino di casa pensando al cane che è scomparso…) a un’altra inseguita da pensieri da uomo prigioniero, quando soltanto gli è possibile replicare ossessivamente nella mente la storia assurda (che sarà il soggetto del dramma teatrale Il malinteso) di un figlio che in incognito affitta una camera nell’albergo gestito dalla madre e dalla sorella, dalle quali viene, non riconosciuto, nottetempo ucciso per essere derubato.
Il tema del non riconoscimento, dell’inidentificazione, connaturato in un Oreste e un Edipo del mito greco, ripreso in chiave moderna da Camus, è legato anch’esso a quello dell’assurdo. Camus ne dà un magistrale esempio nell’interrogatorio condotto dal giudice istruttore. Il quale si tiene in ombra per cui l’imputato non ne scorge i tratti e ha motivo di sentirsi ancor più succube accrescendo la propria ansia. Quando il giudice si mostra nella luce della lampada, Meursault prova un senso di sollievo, un alleggerimento della tensione, trovandolo pure simpatico al punto da pensare di stringergli la mano. L’assurdo è qui nel timore dell’ignoto che, senza ragioni, diventa oscuro e dunque pauroso, stato d’animo che può essere superato guadagnando la luce, la consapevolezza e la coscienza. Sono dinamiche che conosciamo. Ma in Lo straniero l’andamento è inverso perché procede dalla luce al buio: la luce iniziale di un funerale sotto il sole sempre più infuocato fino ad arrivare al buio di una cella anch’essa arroventata. Da una morte a un’altra, con in mezzo quella violenta dell’arabo che segna, con i quattro colpi di pistola esplosi, il momento in cui l’assurdo si compie e Meursault può concludere: «Ed è stato come se bussassi quattro volte alla porta dell’infelicità».
È dunque nel mondo dell’infelicità che Meursault vuole entrare e sembra chiedere permesso. Uccide allora per questo, non trovandosi un movente che non sia assurdo? La parte che precede immediatamente il delitto offre un’interpretazione epifanica laddove, senza un perché, Meursault attraversa sotto il sole a picco la spiaggia con la pistola in tasca e si trova infine davanti all’arabo: «Era lo stesso sole del giorno in cui avevo seppellito mamma» ricorda, rimarcando una scaturigine che è simulacro di morte e suo presentimento. Meursault non può sottrarsi all’insolazione e quel che scrive sembra il rapporto circa gli effetti di un fenomeno atmosferico: «Il sudore ammassato sulle sopracciglia è fluito di colpo sulle palpebre e le ha ricoperte di un velo tiepido e denso. I miei occhi erano ciechi dietro quella cortina di lacrime e sale. Ormai sentivo solo il fragore del sole sulla fronte e, indistintamente, la spada abbacinante scaturita dal coltello che avevo ancora davanti. Quella lama incandescente mi mordeva le ciglia e rovistava nei miei occhi doloranti. È stato allora che tutto ha vacillato». Meursault cede e spara nell’evanescenza di un’aria irrespirabile che gli intorpidisce la mente. Avrebbe dovuto precisare ai giudici che ha colpito l’arabo mirando in realtà al caldo infernale, al sole asfissiante, ma non arriva che a indicare il sole come causa e non come bersaglio. Si aspetta che i giudici valutino la temperatura ma è sul temperamento che si concentreno. Sarebbe troppo ipostatizzare il sole e vederlo come la personificazione di un nemico nella sua natura di mondo, ma è quello che l’assassino ha vissuto: un’esperienza di alienazione.
Ma da dove nasce un romanzo così terribile, disforico e straniante, sospeso com’è tra vero e verosimile, natura e cultura, terra e cielo? Nasce da una distonia morale, da un senso di inappartenenza e di alterità, dalla mancanza di un ubi consistam, di una posizione nel mondo. Scritto dai 25 ai 27 anni, Lo straniero rivela un autore che, già colpito dalla tubercolosi, interroga il mondo e il mondo non gli risponde. Anziché cercare le risposte che non ha, smette di fare domande, si rinchiude in uno stato di inedia e di imperturbabile disinteresse che è l’ambulacro della dissociazione: straniero in Algeria perché francese e straniero in Francia perché algerino, comunista ma non bolscevico e perciò malvisto dai comunisti, a cominciare da Sartre, uomo del Sud e perciò disamato al Nord, Camus è lo straniero che col tempo costringerà il mondo a porre a lui domande sull’uomo. Ancora oggi è così, in principal modo per l’esistenzialistico messaggio che il suo vangelo laico continua a offrirci.

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IL NOME DELLA ROSA di Umberto Eco (Leggerenza n. 3) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/04/07/il-nome-della-rosa-di-umberto-eco/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/04/07/il-nome-della-rosa-di-umberto-eco/#comments Sun, 07 Apr 2019 06:00:28 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8120 imagedi Gianni Bonina

Quasi quarant’anni dopo, in una stagione letteraria che ha voltato le spalle al postmoderno sotto la cui stella fu concepito, Il nome della rosa di Umberto Eco conserva ancora la sua fragranza, ma si offre a uno sguardo diverso in ciò, che è stato non soltanto artefice del ritorno del romanzo storico in Italia dopo I promessi sposi e Il Gattopardo, le due prove più significative, ma propugnatore soprattutto di un genere inusitato qual è il romanzo storicistico: non più l’ambientazione in un determinato periodo assunto come scenario, bensì la compenetrazione in esso negli effetti che i rivolgimenti storici causano sulle vicende umane e sulle altre discipline, a cominciare dalla teologia.
Eco non si limitò a calare i fatti narrati in un contesto d’epoca, operando – come scrisse nelle “Postille” del 1983 – alla “costruzione del mondo”, ma si impegnò da  medievalista a ricostruirli, lavorando quindi anche alla “progettazione” dello stesso mondo: nella durata di sette giorni spiegò l’anno 1327 interpretando un’intera stagione e – portando il macrocosmo della storia euopea sul piano del microcosmo di un’abbazia montana posta in un’imprecisata zona del Novarese – illustrò come lo spirito del tempo influenzasse le dinamiche umane. Un’operazione storicistica di alta chirurgia letteraria perché, per tenersi rinserrato nella cinta dell’abbazia, Eco non si fece tentare dalla facile centrifuga dei grandi eventi del momento, rappresentati dalle gesta dei Templari, solo da quindici anni messi al bando e ghiotta materia esoterica lasciata appena in filigrana, né dalla febbre riviviscente delle Crociate e neppure dalla morte cinque anni prima di Dante Alighieri. E volle immaginare un’abbazia benedettina, cluniacense perché autonoma da tutte le altre, per tenersi a ridosso della congregazione dei post-dolciniani, da una ventina d’anni sterminata ma rimasta fomite di associazioni ereticali storicamente attive nella zona tra Novara e Vercelli, dei “fraticelli”, l’ala fondamentalista e massimalista dei francescani “spirituali”, come pure dei “patarini”, dei “bogomili” e dei vicini “catari”.
Eco vuole raccontare la storia di un pezzo dell’Italia settentrionale fucina di movimenti eretici e di eresiarchi e si addice a inventare una storia sotto la specie del poliziesco e del mystery nella quale fa rientrare la prima, riuscendo ineccepibile come storico, fino ad apparire addirittura pedante, ma incerto come narratore. Ne è del tutto consapevole egli stesso se nelle Postille così scrive: «Il mio romanzo aveva un altro titolo di lavoro, che era “L’abbazia del delitto”. L’ho scartato perché fissa l’attenzione del lettore sulla sola trama poliziesca e poteva illecitamente indurre sfortunati acquirenti, in caccia di storie tutte azione, a buttarsi su un libro che li avrebbe delusi». Eco non voleva dunque un romanzo tutto azione, ma soprattutto di riflessione, di ricerca e di studio. Scelse un titolo che, detto da lui, implica la figura della rosa, parola «che è densa di significati da non averne quasi nessuno», così rimanendo indistinto tra saggio e romanzo. Da una scelta mancata è nato un romanzo figlio del suo tempo e di un gusto, il postmoderno, del quale è oggi uno dei massimi esempi italiani quanto non solo alla contaminazione dei generi, al diffuso citazionismo, all’ambivalenza tra realismo e variazione, ma anche al double coding, la doppia codifica cioè con la quale l’autore scrive contemporaneamente a un pubblico multiforme per interesse e preparazione. La prova più evidente di tale marca è stata ammessa dallo stesso autore in un’intervista al Corriere della sera in riferimento all’incontro sessuale di Adso con la ragazza introdotta nell’abbazia e poi tacciata di stregoneria: il rapporto carnale è descritto da Eco citando in rapida successione proposizioni di mistici medievali entro una sarabanda di figurazioni che al pubblico meno avvertito sono apparse un crescendo orgasmatico di tipo spasmodico e non il contrappunto di un’elevazione spirituale e catartica quale è sembrato invece al “lettore modello”.
Ma ci sono altri indizi a sottendere il tenore polivalente del romanzo: l’uso a profusione del latino lasciato non tradotto, appannaggio non certo del lettore comune; il ricorso a una terminologia che vorrebbe evocare la lingua del Trecento (“ristemmo”, “mirifico” per mirabile, “formidinava” per immaginava, “immemoriale” per immemore, “morranno”, “arsione” per incendio, “blitiri” come non-senso medievale, espressioni quali “dormire un sonno”, “l’abate lo tacque”) e cade a volte nell’improbabilità, come quando Guglielmo dice a un misero vetraio «Mi sembra un buon entimema», dove più che il francescano detective è proprio Eco che posa a semiologo; l’adozione di un sussiegoso linguaggio specialistico tipico del trattato e di una descrizione intrisa di enciclopedismo così particolareggiata da essere maniacale, com’è per la ricostruzione della mappa dell’Edificio e il piano elaborato per entrarvi che hanno certamente del cervellotico.
Più che preoccupato di rendere scorrevole la trama, Eco si mostra preso dalla sindrome del professore in cattedra che nulla ritiene di dover tralasciare nel rendere esaustiva la sua lezione di storia. La cura è semmai, costruendo il mondo, ovvero il contesto reale, che i personaggi si muovano e parlino anch’essi in quel mondo, cosicché Eco arriva a concepirne i dialoghi, quando sono in movimento, per il tempo necessario a raggiungere un andito che mentalmente egli ha già prima percorso misurando il tempo richiesto. Prima ancora di scrivere, Ecco infatti disegna. L’abbazia è un mondo che egli conosce anche nelle parti ignorate nel romanzo e la costruisce innanzitutto per sé stesso, perché solo così può abitarla insieme con i suoi personaggi, in gran parte sommi eruditi come lui, nel proposito inconfessato di fare parte almeno di un pezzo di essa e cioè la biblioteca. In questa prospettiva sembra quasi che l’impulso incontrollato e continuo di Eco sia di tornare quanto più possibile tra i libri, giacché li cita con l’amore del bibliofilo unito al filologo.
Quando Adso, all’inizio del terzo giorno, torna da solo in biblioteca, dopo che frate Ubertino gli ha parlato di Dolcino, e compie “il secondo viaggio”, chiedendosi perché lo ha fatto e perché ha con sé il lume (domande che dovremmo piuttosto rivolgere noi all’autore), dandosi risposte incongrue («Mi affascinava l’idea di potermici orientare senza l’aiuto del mio maestro» – e perché mai?), risulta evidente che è Eco a portarci ancora una volta nella biblioteca, perché la circostanza che permette al giovane novizio di incontrare la ragazza in cucina ben poteva essere soddisfatta senza inscenare una esplorazione nella quale lo stesso Adso si dice che non sapeva cosa cercasse. In realtà, per tutto il terzo giorno, da quando si sparge la notizia della scomparsa di Berengario fino al ritrovamento del suo corpo, e poi nel quarto giorno fino all’arresto della supposta strega, per quasi ottanta pagine, il romanzo non ha trama ed è interamente teoretico. Non procede, eppure Eco è nel suo elemento congeniale: istruisce Adso dei fatti che sono avvenuti, da Gherardo Segalelli a fra Dolcino, e lascia che gli sovvenga il ricordo di fra Michele, da lui visto personalmente morire come eretico sul rogo: tutti eventi reali estranei al romanzo storico e alla fabula ma non a quello storicistico e come tali ben orchestrati all’intreccio.
Cosa ha fatto Eco: una volta essere riuscito a incuriosire il lettore mettendolo a conoscenza, a piccoli passi, degli avvenimenti fuori dell’abbazia, raccontando la disputa tra papato e francescani, tra Giovanni XXII e Ludovico di Baviera, tra Inquisizione ed eresia, gli viene facile occupare due giorni su sette trattenendo il lettore come fosse un suo studente di storia medievale. Ma forse esagera quando, trasmodando nello stucchevole, la narrazione si arresta del tutto e lascia il campo al saggio erudito. Per evitare queste cadute e tenere sempre le briglie del romanzo, Eco escogita sin dall’inizio l’espediente del manoscritto ritrovato, à la Manzoni, e affida all’io narrante, cioè ad Adso, il compito di narrare e nello stesso tempo illustrare. Non bastandogli, si serve dei medievali mezzi della visione e del sogno per descrivere nel primo caso una chiesa e dare nel secondo a frate Guglielmo la chiave per arrivare alla soluzione. Lo sforzo generosissimo di Eco è inteso a tenersi dentro i limiti del romanzo, ma ad essere infine meglio ricordati non sono le contorte vicende legate ai sette monaci morti (nell’ordine Adelmo, Venanzio, Berengario, Severino, Malachia, Abbone e Jorge) ma quelle storiche e le altre filosofiche e teologiche, nella constatazione che il saggio fa premio sul romanzo, essendo più coerente, più chiaro e certamente più reale, mentre di realistico il romanzo ha molto poco.
L’inverosimiglianza di fondo è la decisione dell’abate di incaricare un estraneo, che non è nemmeno del suo ordine monastico, perché indaghi sulla morte di un monaco, cosa che alla fine gli opporrà: in vista dell’incontro da presiedere, di lì a pochi giorni, tra i rappresentanti francescani e la delegazione pontificia sul tema della povertà della Chiesa, sarebbe stato del tutto ovvio attendersi che l’abate provvedesse da sé a risolvere il giallo, magari dopo la disputa e soffocando intanto la notizia con l’impedire a chiunque anche solo di parlarne; invece, addizionandosi i morti, incoraggia Guglielmo a continuare l’inchiesta, senza avocarla.
Altra incongruità la presenza di una “spalla”, necessaria come in un ogni giallo perché il lettore sia informato degli sviluppi e dei proponimenti dell’indagatore, “spalla” che però, anziché essere posta sul piano di un subalterno Watson nel confronto con Sherlock Holmes (personaggio che Eco disse di aver tenuto ben presente), è quasi equiparata a lui, giacché Guglielmo si rivolge ad Adso non come a un discepolo e a uno scrivano appena novizio ma come a un collaboratore alla sua stessa stregua di preparazione, arguzia e competenza.
Queste due mende di base minano il romanzo, che tradisce ancora un altro grosso deficit di narratologia del quale è avvertito in qualche modo anche Eco: la svolta nella trama si ha per un errore madornale di Guglielmo sul quale Adso ammette che «qui commise un’imprudenza». L’accorto e infallibile francescano si rivolge a Severino, l’erborista, davanti a tutti e da lontano gli grida di conservare bene le carte che ha scoperto, cosa che spinge l’assassino, sentendolo, a ucciderlo per sottrargli carte che sono in realtà il libro da tutti cercato e che è la fonte dei delitti. L’idea del libro capitale così tanto echiana è suggestiva ma debole. Il vecchio Jorge, che è il vero padrone della biblioteca e della stessa abbazia, custodisce la sola copia al mondo del secondo volume della Poetica di Aristotele, quello dedicato alla commedia e dunque al riso, libro che in realtà non c’è elemento per dire che fu mai scritto. Perché misterioso e proibito (il riso essendo arma del demonio), i monaci vogliono impossessarsene e, quando lo hanno uno alla volta in mano, muoiono avvelenati nello sfogliarlo perché portano alla bocca il veleno nel quale è intinto.
Invero per impedire la diffusione del libro sarebbe bastato a Jorge distruggerlo, come infatti poi cercherà di fare strappandone le pagine e inghiottendole, e invece lascia che venga trafugato e giri nell’abbazia costituendo la causa della propria dannazione e della morte di sei confratelli. Eco si rende conto dell’eccesso del movente e appresta lunghe ragioni per spiegare come i monaci pecchino tutti di orgoglio nel cercare la conoscenza anziché custodirla, tradendo lo spirito della biblioteca come riserva di sapere, che esso può «mantenere intatto solo se impedisce che giunga a chiunque, persino ai monaci stessi», perché «il sapere è come un abito bellissimo che si consuma attraverso l’uso e l’ostentazione». La tesi è che i monaci sono dominati dalla biblioteca, non diversamente dallo stesso Eco, che rispondendo a refluenze borgesiane dà all’assassino custode della biblioteca il nome dello scrittore argentino: «Vivevano con essa sperando colpevolmente di violarne un giorno tutti i segreti. Perché non avrebbero dovuto rischiare la morte per soddisfare una curiosità o uccidere per impedire che qualcuno si appropriasse di un loro segreto geloso?». In questa domanda c’è la giustificazione della serie di morti violente.
Ma Eco fa di più, eccedendo ancora: volendo dare un fondo epistemologico alla sua storia e caricarla di mistero, pone gli omicidi sotto uno “schema apocalittico”, immaginando che l’assassino agisca in accordo alle profezie di Giovanni, così evocando scenari escatologici e Anticristi millenaristici, ottenendo però di svilire il genio razionale sia di Guglielmo che di Jorge, il quale si adegua allo schema per depistare il suo cacciatore, ma anche di complicare un romanzo cui non manca certo la complessità.
Il romanzo, bisogna convenire, fatica a reggersi e sembra un pretesto – anzi una preterizione come scrive Eco nelle Postille – per parlare di storia vera, campo nel quale Il nome della rosa assurge invece a capolavoro ineguagliato di competenza filosofica, dottrina, esattezza storica, indagine filologica, passione per lo studio. L’idea di immaginare una disputa tra francescani e avignonesi sulla povertà di Cristo da tenersi in un’abbazia dove si diano appuntamento le migliori menti del tempo in fatto di teologia, incontro che storicamente non si è mai avuto (non essendoci peraltro mai stata l’abbazia in questione), è così appropriata da risultare credibile. L’incontro finisce con l’insuccesso delle tesi francescane per colpa dell’inquisitore Bernando Gui che fa prevalere sulla disputa un processo per eresia delegittimando così l’abbazia come sede della risoluzione, funestata per giunta da orribili delitti, quando nella realtà storica la disputa si è tenuta sempre a distanza e neppure oggi è stata chiusa.
Nondimeno del tutto documentate sono le posizioni: i francescani accusano la Chiesa di violare i precetti cristiani essendo Cristo vissuto nel rifiuto dei beni materiali; l’imperatore in pectore Ludovico sostiene i francescani per potere così osteggiare il papa che pretende di legittimare il futuro imperatore secondo la tradizione; Guglielmo e i confrati si presentano all’incontro nel nome di Ludovico e in aperto contrasto con il papa; le abbazie si schierano con i francescani e con Ludovico per fermare l’indirizzo del papato inteso a dare sempre più spazio ai vescovi, alleati dei mercanti e vicini alle cattedrali cittadine e alle università, dove si cominciano a copiare e miniare manoscritti prima di esclusiva competenza delle remote abbazie; l’eresia imperversa in un florilegio di congregazioni e confessioni e l’Inquisizione incrudelisce nella sua opera di bonifica. Il mondo ancora di ispirazione aristotelica perché fondato sui libri, si va offrendo al nuovo vento che va levandosi nelle città europee ed Eco lo costruisce in un romanzo claustrale dove la biblioteca, quintessenza del sapere, integra un inaccessibile labirinto, anch’esso di tratto borgesiano, dentro il quale vi sono libri ancora più proibiti, quelli infedeli, da non leggere mai, rinchiusi nel “Finis Africae”, il recetto del demonio. Quando tutto va in fiamme, abbazia compresa, l’incendio distrugge un intero mondo. Molti anni dopo, in un altro romanzo esoterico come questo e figlio di esso, Angeli e demoni di Dan Brown, un altro colossale incendio divamperà per distruggere addirittura il Vaticano. Jorge avrebbe detto che da quel libro maledetto era partita «la scintilla luciferina» ed Eco, a leggerlo, si sarà fatto una risata aristotelica.

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MADAME BOVARY di Gustave Flaubert (Leggerenza n. 2) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/03/31/madame-bovary-di-gustave-flaubert/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/03/31/madame-bovary-di-gustave-flaubert/#comments Sun, 31 Mar 2019 06:00:45 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8114 imagedi Gianni Bonina

Mezzo secolo dopo l’affermazione dei princìpi della Rivoluzione francese, l’idea di libertà – perlomeno riferita a quella di espressione – era ancora in discussione se un romanzo come Madame Bovary doveva affrontare un processo per oltraggio alla morale pubblica e religiosa oltre che ai buoni costumi. Il romanzo di Gustave Flaubert venne assolto solo per insufficienza di prove, più precisamente perché i brani sotto accusa costituivano una parte molto ridotta rispetto alla mole del romanzo, tuttavia il tribunale imperiale comminò “un biasimo severo” all’autore richiamando la letteratura e gli artisti in genere al dovere di non rappresentare il vizio ai fini di una buona educazione sociale. Vizio che specificamente era da vedere nell’adulterio: da parte almeno del potere giudiziario di uno Stato nondimeno rifondato sui crismi della massima libertà anche di giudizio, epperò convinto che «missione della letteratura debba essere quella di ornare e ricreare lo spirito elevandone l’intelligenza ed epurandone i costumi più ancora che di divulgare il disgusto del vizio offrendo il quadro dei disordini che possono esistere nella società».
Disgustosa fu ritenuta per esempio la scena dell’interminabile corsa in carrozza alla fine della quale una mano fuoriesce dalle tendine serrate e butta dei fazzolettini, dopodiché una signora velata scende e va via circospetta. Sebbene si intuisca cosa sia avvenuto nella carrozza, Flaubert non va oltre la rappresentazione della corsa e meticolosamente dell’itinerario (secondo un’ossessione per il documento reale di cui è prova, all’inizio della seconda parte, l’estenuante descrizione che fa del paese di Yonville), nonché della sorpresa di quanti vedono la carrozza passare più volte. Non fomenta dunque oscenità alcuna, tuttavia il pubblico ministero trova – con qualche ragione – che la turpitudine sia determinata dall’immaginazione che alimenta i peggiori istinti. Le parti incriminate sono circa una dozzina, nessuna del pur minimo fondo erotico, ma tutte vengono tacciate di sottendere il tradimento coniugale e la ricerca del piacere. La vede così persino la rivista “Revue de Paris” dove il romanzo esce a puntate (sarà pubblicato in volume e integralmente subito dopo il processo) giacché la direzione opera più di una censura preventiva, di fronte alle quali Flaubert pretende l’aggiunta di una precisazione per avvisare che del romanzo usciranno frammenti e non l’insieme.
Ciononostante, per sfuggire alla condanna Flaubert è costretto come Galilei ad abiurare il proprio credo letterario e dichiararsi persona di tenace rigore morale, ammettendo sì di avere portato nel suo romanzo il vizio ma non per suscitare vellicazioni morbose quanto per ammonire circa la sua minaccia, tanto che il suicidio di Emma è la pena che lei stessa si infligge per le proprie colpe. A poco vale la celebre frase di rinsavimento e di orgoglio – «Madame Bovary c’est moi» – che Flaubert avrebbe poi pronunciato, quando la sua difesa avrebbe dovuto piuttosto riguardare l’autonomia della letteratura e la libertà dello scrittore di cercare il vero fuori dal bello e dal buono. Oggi non c’è chi non possa dire «Je suis madame Bovary», né la Chiesa troverebbe dissacratorio che in punto di morte si possa ridere, come fa Emma, al ricordo di una facezia, perché la coscienza occidentale non vede più il peccato e il reato nel doppio adulterio della signora Bovary, bensì il tormento di una donna che sceglie la trasgressione contro la morale corrente come via di fuga dalla propria condizione, trovando però l’uscita nel suicidio. La malmaritata francese, donna di provincia che sogna la città e i salotti, non è in fondo diversa dalla coeva poetessa siciliana Mariannina Coffa che, all’insaputa del marito, intrattiene un’audace corrispondenza con l’uomo che ama, né la sua passione è diversa da quella intricata e profanatrice che lega Eloisa al suo Abelardo già nel XII secolo e nemmeno si distanzia granché dalla prurigine di Rousseau della Nuova Eloisa. Anzi Emma è molto meno in estro di altre femmes fatales che stanno per apparire sulla scena: l’uxoricida Teresa Raquin di Zola e soprattutto la fedifraga Anna Karenina che, diversamente da Emma, riuscirà a lasciare il marito e finirà anche lei suicida.
Il seme della lascivia che la pubblica accusa scova in Madame Bovary è in fondo lo stesso che è circolato ad libitum, solo per restare in Francia, in gran parte della letteratura dei Lumi, da De Sade a De Laclos, eppure è soltanto l’allusivo e un po’ bacchettone romanzo di Flaubert a scandalizzare la Francia del 1856. La quale anche in un valzer e nella testa che lei poggia sul petto del cavaliere trova elementi di inverecondia, imputati pure alle fantasie di una adolescente che è ospite delle Orsoline e come una “capinera” verghiana è risospinta a liberarsi dei suoi vincoli legali per seguire quelli sentimentali. In realtà per Madame Bovary si ebbero implicazioni che portarono il nodo giudiziario a stringersi non tanto attorno al romanzo, che quando uscirà in volume con le parti espunte non incontrerà alcuna opposizione, quanto della rivista, che era liberale e antigovernativa, talché con Flaubert vennero incriminati il direttore e lo stampatore, nell’intento del Secondo Impero di colpire un’opinione politica e non una visione morale.
Il romanzo, tutt’altro che “sconveniente”, nasce per essere pubblicato proprio nei modi di un feuilleton e del racconto a puntate sconta tutti i limiti. Intitolato a Emma, racconta più che altro o in pari grado la vicenda di Carlo Bovary, con i cui trascorsi la narrazione si apre e prosegue per cinque capitoli finché, proprio in conclusione del quinto, di colpo e ubbidendo ai migliori criteri del feuilleton (e c’è da credere che la puntata si interrompesse proprio a tal punto) Flaubert fa entrare in scena Emma Rouault, che si mostra ben diversa da quella intravista con la testa appoggiata alla finestra e lo sguardo perso nel mondo esterno e probabilmente molto lontano, nelle vesti di una ragazza bella, spensierata e poi sposa del medico ammodo: scopriamo, senza sospettarlo, che invece non ne è innamorata affatto e che piuttosto si chiede che significato abbiano parole come «felicità, passione ed ebbrezza che le erano sembrate tanto belle, lette nei libri». Lo scopriamo dopo aver appena appreso per contrappunto della felicità del marito Carlo e di quanto egli sia innamorato. Il mutamento di direzione si ha proprio a questa altezza, quando il romanzo di Emma prende le mosse con la rivelazione di un grado di insoddisfazione che crescerà fino a culminare in un esiziale cupio dissolvi, ultimo stadio di un amor fati che è il crisma della temperie romantica del momento posto sul romanzo a fare da basso continuo.
Dal sesto capitolo l’autore racconta perciò la vita di Emma, così come nei precedenti ha fatto per quella di Carlo, su questa insistendo al punto da far pensare che nei suoi disegni sarebbe stato il tormento di lui per i tradimenti di lei a tenere la trama. Se così fosse stato, Flaubert avrebbe anticipato una vena letteraria che di lì a pochi anni sarebbe sgorgata copiosa nei romanzi di Goncarov (Oblomov) e Huysmans (Controcorrente) e poi, nel primo Novecento, nella grande esperienza di Proust e Svevo, quella vena che sottoporrà allo sguardo europeo l’uomo che si chiude in sé, che non è resiliente, “l’inetto” colpito dal “mal di vivere” che è il morbo cui soccombono i “probi viri”, le persone dabbene ma spiazzate dall’insorgenza di un modello di condotta che richiede di essere maudit, belli, maledetti e malandrini. E, pur non essendone consapevole, Carlo Bovary ha tutto dell’inetto (“insulso” lo bolla la moglie), condizione nella quale vive, si affligge e muore. Invece Flaubert cosa fa? Non sente il vento letterario che tira e, deciso a rimanere legato al realismo naturalistico di tipo romantico in voga soprattutto in Francia, volendosene anzi mettere a capo, senza perciò vedere che sta per irrompere sulla scena letteraria una scuola di pensiero che verrà chiamata decadentismo, dove è forse più facilmente riconducibile un romanzo come questo di introspezione psicologica, sceglie di alzarne il livello (che comunque sin dall’inizio intitola ad Emma e non a Carlo) e lo rende ancora più realista, pur sapendo di sfidare così il Codice penale e la Chiesa.
A bene vedere, se la allure decadentistica fosse stata fatta valere su quella realistica e dunque lo scavo psicomachico avesse prevalso sull’indagine sociale, nessun giudice si sarebbe sentito di giudicare vera e cruda una storia che era solo la rappresentazione di uno stato d’animo al più deviato e minato. Ma Flaubert opta per un romanzo ginecolatrico a sfondo sociale benché quando comincia a scrivere è a Carlo che pensa. C’è anche la prova di questo disequilibrio. Che costituisce un rebus al quale nessuno ha pensato, per quanto se ne sappia. Vediamo di che si tratta.
L’incipit («Stavamo in un’aula di studio quando entrò il preside») fa pensare a un romanzo con un narratore che si identifica in un “io narrante” e rimemorante. Il narratore torna più volte a parlare in prima persona, che è sempre plurale («Il preside ci fece segno», «Cominciammo a recitare le nostre lezioni», «Avevamo l’abitudine di scaraventare i berretti a terra», «Lo vedemmo lavorare con diligenza», «Oggi nessuno di noi potrebbe ricordarsi qualcosa di lui»), ma lo fa solo nelle prime pagine, perché poi scompare – salvo riapparire nella seconda parte quando ricorre la sibillina proposizione «Dopo gli avvenimenti che narreremo»: dissonante in un romanzo di stampo realista – e il romanzo testimoniale diventa il romanzo di un narratore onnisciente del quale Flaubert si impossessa come autore. A stare alle frasi del narratore autodiegetico, sembra che il suo intento fosse di raccontare la vita di un vecchio compagno di classe, cominciando dal momento del suo ingresso in aula, per seguirlo lungo tutta la vita attraverso il drammatico matrimonio con Emma che lo porterà alla morte. Per di più la presentazione che ne viene fatta è tipica del romanzo oblomoviano disegnata sulla figura del perdente a prima vista, dell’uomo con qualche inutile qualità, mammone e privo di brio, il classico tipo che una donna esuberante e assetata di vita come Emma non potrebbe mai amare, ma che può tuttavia cedere a sposare per realizzare il suo primo sogno che è quello di uscire dalla propria penosa circostanza.
Ma perché Flaubert parte in un modo e procede in tutt’altro, passando da un registro al suo opposto e non tornando più all’uso che ha fatto della prima persona plurale, che si immagina debba identificarsi in un narratore che parli a nome degli altri ex comoagni di collegio ma del quale non si avrà alcuna traccia né si saprà chi sia? Perché, dopo la pubblicazione sulla rivista e prefigurando l’uscita in volume nel 1857, l’autore non rende il romanzo coerente e dipana il rebus, quanto soprattutto alla sua natura, se girato cioè dalla parte di Carlo oppure di Emma e se dunque concepito nella luce decadentista o romantica?
Una risposta è forse nella genesi stessa del romanzo, che secondo Flaubert fu interamente frutto di invenzione, senza alcun riferimento a casi realmente avvenuti, mentre è dimostrato che la storia di Emma, la donna “compromessa”, fu cavata dalla cronaca e riprodotta dall’autore con fedele aderenza ai personaggi e ai fatti. Nel sottotitolo, “Costumi di provincia”, era chiaro l’intento documentaristico di un romanzo che dovesse servirsi di una tecnica narrativa improntata all’oggettività, dunque di tipo giornalistico, sennonché l’impersonalità tanto vagheggiata e ricercata, tale da sortire un romanzo che fosse scritto da sé, con un uso anche contenutissimo del dialogo, cedeva puntualmente e inesorabilmente di fronte alla altrettanto insistita definizione dei caratteri, tecnica che costituisce una inevitabile qualificazione senza contraddittorio non solo dei personaggi ma anche delle loro azioni. Flaubert cadde vittima di una impasse che si procurò da solo e che lo tenne in mezzo tra due coté, tale da indurre Marcel Proust a stabilire che «il genio di Flaubert ci viene rivelato soltanto dalla bellezza del suo stile e dalle immutabili particolarità di una deformante sintassi»: uno stile così sorvegliato e misurato da apparire calcolato e modulare. Flaubert cercò nei modi di espressione quanto il contenuto non poteva dargli se non svuotando i personaggi di personalità. Poteva riuscire a rendere – con qualche deroga in verità – impersonale lo stile ma non i caratteri. E c’è senz’altro riuscito.
In questa guazza indistinta, le incongruenze del romanzo, sospeso tra due modelli letterari, non rispondono che a un’ambivalenza più irrisolta che voluta, per modo che l’uso episodico della prima persona, che esclude il narratore onnisciente; lo sguardo focalizzato su Carlo in alternanza con l’altro posato su Emma – e con lo sguardo anche lo scandaglio dei loro più intimi rovelli interiori; l’impulso a rappresentare una comunità per risalire a un quadro della vita di provincia di impronta balzachiana, così da dare un documento reale in un romanzo sociale pur tentato dal farsi intimo; la scelta di popolare la stessa comunità di figure ognuna delle quali assunta con i mezzi della ricerca scientifica, quasi a fini tassonomici, al pari di ingredienti alimentari, fenomeni naturali, prodotti georgici riportati tutti con precisione naturalistica, appaiono indicazioni di un processo in divenire, un esperimento narrativo in essere anziché il frutto di una innovazione compiuta e completata. Flaubert cerca di definire il romanzo mentre lo scrive e alla fine si ritrova ad averlo finito, sicché lo lascia indefinito. Dovrebbe riscriverlo in vista della pubblicazione in volume, ma questo potrebbe far pensare che voglia correggere il romanzo immorale redimendolo mentre quel che gli preme è che esca nella sua forma originaria, senza censure. E preferisce perciò che tutto rimanga inspiegato.
Nondimeno questo romanzo irrisolto è giustamente considerato uno dei grandi capolavori della nostra letteratura. Emma Bovary è assurta a mitologema dell’emancipazione femminile sotto l’aspetto anche della libertà sessuale. La sua lotta, ingaggiata soprattutto contro sé stessa, per la conquista di una dignità di donna non negoziabile appare nelle forme non già di un corrivo arrivismo quanto di ricerca di un soterico stato di salute, perché non cerca negli uomini la fortuna ma la bonheur, l’appagamento che le dà il sentirsi amata da un uomo da porre al di sopra di ogni bassezza. Alla fine, sommersa dai debiti, si avvelena e si candida così al titolo di prima donna oblomoviana della storia della letteratura. All’insaputa dello stesso Flaubert.

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I MALAVOGLIA di Giovanni Verga (Leggerenza n. 1) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/03/24/i-malavoglia-di-giovanni-verga/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/03/24/i-malavoglia-di-giovanni-verga/#comments Sun, 24 Mar 2019 08:00:46 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8105 imagedi Gianni Bonina

Com’è facile intuire, il titolo di questa rubrica mutua il verbo “leggere” e il sostantivo “gerenza”, che indica l’assunzione di responsabilità da parte del direttore di un giornale: per dire che, trattandosi di libri (in questo caso di romanzi, dove l’opinione conta più del postulato), i giudizi espressi non saranno che miei, quindi del tutto discutibili. Il proposito è di leggerne alquanti (più esattamente si tratta di rileggere, riguardando sempre capolavori ben noti), scegliendoli – anche questo personalmente e dunque discrezionalmente – dalla mia libreria: dove non c’è stato mai verso di ordinarli secondo qualche criterio, districati in quella confusione che tuttavia procura il sottile piacere di ritrovare libri dimenticati. Per modo che sarà un po’ il caso a scegliere i libri tra quelli che ho amato, a formare così un mio canone. Ognuno ha il suo, s’intende, e nessuno è preferibile a un altro, ma dal momento che molti libri figurano in molti canoni, ne deriva che per somme linee condividiamo un’unica grande biblioteca. La nostra: di contemporanei, di occidentali e perché no di italiani.

Un romanzo che vale riaprire e dal quale vale certamente partire è I Malavoglia, magari dopo una visita ad Acitrezza e una capatina a Casa Verga, a Catania. Se ne avrebbe motivo per chiedersi lì perché Acitrezza e qui quali libri lo scrittore leggesse. Una duplice domanda intrecciata che sbriga la questione se I Malavoglia fu davvero il frutto di una geniale ispirazione che improvvisamente colse Verga. Non lo fu. Già Carmelo Musumarra, italianista catanese e autorevole verghiano, scriveva che «Verga non dev’essere considerato come un fenomeno, ma soltanto come il risultato di un lungo processo evolutivo». Il fenomeno riguarda ovviamente I Malavoglia. Che Natalino Sapegno definisce «la scoperta più intelligente e feconda della nuova letteratura italiana» mentre Pietro Citati parla di «scoperta intellettuale» e del paradosso che coglie Verga: «Non aveva mai conosciuto l’intelligenza e fu salvato dall’intelligenza». Un’intelligenza ben poco feconda, in verità, perché il capodopera verghiano rimase un episodio mentre il verismo infiammò le lettere il tempo che sulla scena nazionale, voltando lo sguardo dalla società ai salotti e su sé stessi, apparissero i modelli decadentistici di Pirandello, Svevo e D’Annunzio.
Ma certamente fu una scoperta sensazionale quella di Verga, l’intelligenza del quale riguardò il diverso modo in cui la questione sociale così di gran momento poteva essere affrontata, meglio ancora “studiata”. Semmai è da chiedersi perché giunse quando l’autore aveva già quarant’anni – dopo ben otto romanzi mondani e decine di novelle fra cui la raccolta di Vita dei campi – e cosa l’abbia favorita. Una risposta si trova proprio sugli scaffali di Casa Verga, nei libri che il giovane idealista unitario si passa fra le mani quando affida la propria educazione letteraria a scrittori della sua Catania, che in parte frequenta, come Antonino Abate, nella cui casa vive in pensionato, Domenico Castorina, Salvatore Brancaleone, Benedetto Guglielmini, quest’ultimi due forse i più vicini alla futura sensibilità verista. È da loro, ma anche dal profluvio di periodici catanesi, primo fra tutti il “Giornale gioenio”, che Verga matura la scelta a favore del gusto romantico e quindi delle lingue vive contro la retorica carducciana e le resistenze classiciste molto attive anche a Catania, nonché un’attenzione nuova, suggerita in tutta Italia dal positivismo e dalle spinte socialiste, verso le classi sociali svantaggiate alla ricerca di un modo per denunciarne le condizioni.
In Sicilia questo interesse non viene, almeno questo, dal continente, ma nasce per primo in Italia nel clima tutto siciliano della ricerca demopsicologica, lo studio del comportamento umano nei rapporti sociali di gomito, attraverso l’impegno di eruditi come Pitrè, Guastella, Salomone-Marino, Avolio, decisi tutti a ubbidire all’invocazione di Di Giovanni “Antiquam exquirite matrem” e seguire un’istanza che si precisa nelle forme di un originale regionalismo inteso a studiare la parola per capire la società e dunque indagare il vero. I demopsicologi cercarono le tradizioni popolari, l’antica madre, ne raccolsero in tutta l’isola proverbi, mottetti, ballate, leggende e nello stesso tempo si accorgevano di quali fossero le condizioni di vita di quel popolo che interrogavano e sul quale sciorinavano le loro redingotes – per usare un’espressione del Verga di Tigre reale. Il romanticismo unito al positivismo si completò in Sicilia nello scientismo intendendo rappresentare il vero sociale visto come fisico e materiale, cioè naturaliter. Sennonché tutta l’Italia letteraria fu invero percorsa da un fremito che la spinse a scoprire l’esistenza del popolo plebeo, quello stesso il cui “ventre” era Oltralpe già da tempo oggetto di notomizzazione da parte del naturalismo: con la differenza che nei bassifondi gli scrittori realisti andavano a viverci, mentre in Italia come pure in Sicilia scendevano per osservarli e farne materia di studio. Verga non fece cosa diversa.
Mentre egli scriveva romanzi intimi come Eva, Eros o manzoniani come Storia di una capinera, c’era già stato chi aveva da decenni avviato il verismo e scelto la prosa umile contro quella togata. Niccolò Tommaseo per esempio aveva descritto “gli infelici”, com’erano chiamati gli indigenti, in Fede e bellezza e si era pure occupato di pescatori in Cantici del mare, inaugurando nel romanzo italiano il tema del naufragio e del destino cui è sottomesso chi vive di stenti. Dirà di lui Luigi Capuana: «Quando si scriverà la storia del nostro romanzo contemporaneo si dovrà riconoscere che il primo verista in Italia è stato lui». Verga legge Tommaseo ma è di aristocratici che scrive, per giunta settentrionali, inseriti in grandi città come Firenze, Torino, Milano. Nondimeno è a Catania che fa capo o che ritorna. E a Catania c’è la rinomata Accademia di Scienze naturali, c’è l’Etna, c’è già dal Settecento una radicata vocazione agli studi scientifici grazie alle esplorazioni del vulcano e dei suoi minerali, c’è un grande fermento per la ricerca archeologica e la raccolta di fossili. Il giovane Verga, cugino dell’intemperante Antonino Abate, ne legge i romanzi storici  e quelli che gli vengono da lui suggeriti del vate etneo del momento, il Castorina autore di I tre alla difesa di Torino, talché è a questa cifra che si attiene nella sua prima formazione. Scrive in un linguaggio ricercato e senza volerlo classicheggiante, lascia la narrazione a un io narrante nel quale alle volte è lui stesso da vedersi, ignora con noncuranza il popolo. E ritiene, secondo l’influsso invalente, che solo un’alternativa ci sia al canone del romanzo storico ed è quella del romanzo intimo. Nemmeno considera l’esistenza del romanzo sociale.
Poi nel ’66, otto anni prima di Nedda, arriva il fatto nuovo, costituito da Una peccatrice, romanzo anch’egli borghese, ma che pure segna un primo passo, sebbene inconscio, verso la “scoperta intelligente” di cui parla Sapegno in riferimento a I Malavoglia. La novità consiste in ciò, che il romanzo adotta la forma della narrazione non più testimoniale ma in terza persona, è in gran parte ambientato finalmente a Catania e vi appare per la prima volta Acicastello, stesso Comune di Acitrezza, dove la contessa di Prato si suicida in una villa. Giacomo Debenedetti è riuscito a dimostrare, con un acume che lascia sbalorditi, quanto autobiografico fosse il romanzo laddove il Pietro Brusio che, stanco della contessa, le chiede di farsi nuovamente desiderare e la lascia per poterla corteggiare di nuovo e quindi riamare non è che lo scrittore stesso che, stanco delle città e dei salotti, vagheggia un allontanamento da quel mondo per poi farsi nuovamente attrarre: allontanamento che significa vivere a Catania, quella Catania che trova tutta presa in questioni locali che prima neglettava e che ora gli sembrano un nuovo orizzonte: la polemica sul luogo dove costruire il porto tra la città e Capo dei Molini, la mitica ricerca del Porto d’Ulisse, immaginato a Ognina, la conoscenza soprattutto che fa del borgo di Trezza per via del forte interesse che la comunità scientifica rivolge al luogo marinaro.
Un fatto questo davvero sorprendente: gli scienziati e i letterati (uniti nell’originale sistema tutto catanese che amalgama anche nei suoi giornali e nei circoli scienza, filosofia, storia e letteratura), esplorando l’Etna, studiandone i minerali, si accorgono che i curiosi e mitici Faraglioni di Trezza sono fatti di basalto e si concentrano perciò su di essi, finché guardando e riguardando i Faraglioni, la flora e la fauna marina, non vedono i pescatori e i loro abituri, ma anche le loro usanze, i metodi di pesca, i costumi, passando così a studiare, con metodi altrettanto scientifici, pure loro e le famiglie, per scoprire infine che non esiste alcun paesino nelle stesse condizioni estreme di miseria e avvertire forte un impulso al soccorso mercé un atto di denuncia in un momento in cui la “deprecatio temporum” per la nuova Italia, riuscita poca cosa, impone che l’immutata condizione del Sud sia additata nei termini di una “questione”.
Acitrezza riempie così i giornali catanesi, Lionardo Vigo, che è di Acireale, riprende da Alfio Grassi, anch’egli acese, La storia delle quattro sultane di Acitrezza, ambientata nel borgo simbolo della povertà, “cuntu” di quattro fanciulle che trovano il riscatto solo al prezzo di un rapimento. Il principale centro di interesse del Catanese attrae anche Verga, che un anno prima dell’uscita de I Malavoglia, scrive Fantasticheria, una specie di cartone preparatorio del romanzo che, ambientato a Trezza e sinopia dei personaggi in fieri segna la presa di coscienza veristica e annuncia la scoperta intelligente, ovvero il risultato sul piano letterario di un teorema che coniuga tutte le temperie: lo scientismo come metodo di osservazione di un dato fisico, il positivismo come ricerca del malessere sociale nel determinismo storico, il romanticismo come adozione della lingua d’uso e attenzione alla vita degli umili. L’idea – ed ecco l’intelligenza – è di denunciare lo scandalo di Acitrezza attraverso il racconto esemplare dei suoi abitanti, regredendo con un artificio linguistico al loro stadio culturale e assumendo un metodo di osservazione di tipo impersonale, come per stendere un rapporto etnografico.
Verga racconta le pene dei Malavoglia per fare conoscere Acitrezza e non sceglie Acitrezza come luogo dove fare agire (“agitare” scrive in Una peccatrice) i Malavoglia e gli altri compaesani, tutti succubi di un destino che ne decreta la sventura collettiva. Non inventa una storia di mare per rendere più laceranti le tribolazioni dentro la casa del nespolo ma perché i pescatori di Trezza versano come i Malavoglia nelle condizioni più drammatiche. Vuole il romanzo reale, anzi vero, ma il romanzo fa fiasco, come scrive a Capuana, perché dà alla questione sociale e in particolare a quella meridionale il senso di una parabola nel momento in cui l’Inchiesta Sonnino-Franchetti e la concomitante indagine parlamentare sulle condizioni della Sicilia hanno appena rivelato al mondo, con i mezzi non della letteratura ma del documento storico, la cruda verità di una situazione che non riguarda solo un borgo ma tutta l’isola. Alla fine Verga racconta una storia saputa e una situazione molto più grave e diffusa, sennonché il tempo consacrerà il romanzo al di sopra di ogni trattato scientifico e di ogni relazione ministeriale assurgendo ad assoluto capo d’accusa, a manifesto contro l’ingiustizia sociale. Alla sua uscita non viene capito perché il senso di rassegnazione e di irredimibilità che lo pervade viene inteso come una condanna inestinguibile quando la Sicilia ha invece bisogno di sollevarsi, di ribellarsi, quantomeno di nutrire una speranza, che le inchieste nazionali pongono piuttosto come irrinunciabile e prefigurano come possibile.
Portrait of Giovanni Verga.jpgCon I Malavoglia Verga realizza il progetto adombrato in Una peccatrice: lascia il romanzo intimo per quello sociale e poi torna, con ritrovato vigore, a quello mondano con Il marito di Elena al quale segue Mastro don Gesualdo che segna il definitivo abbandono del primo filone. Questo andirivieni dimostra che Verga, deluso da I Malavoglia, non ha chiaro il programma enunciato nella prefazione al suo capolavoro circa il ciclo dei vinti, anche perché il terzo romanzo, La duchessa di Leyra, sul quale tenta per anni di concentrarsi senza riuscire a portarlo avanti, così come gli altri due, L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso, non sarebbe che legato al Verga intimo anziché al verista. Non è dunque accoglibile la teoria secondo cui interrompe il ciclo perché non sa raccontare le classi elevate, giacché ha fatto più questo che occuparsi dei “vinti”. È vero invece che non possono essere considerati dei vinti quanti vivono nell’agio e vivono traversie e rovesci tutt’altro che assimilabili alle sventure proprie delle genti miserabili.
In verità Verga, dopo Mastro don Gesualdo, smette di scrivere e si dà alla novellistica, alla fotografia e al cinema, perché rimane in una impasse, intrappolato tra le sue due tensioni, quella che lo porta al Nord e quella che lo tiene come un’ostrica alla Sicilia. Tale ambivalenza, che involge una contrapposizione certamente divisiva, si ritrova proprio ne I Malavoglia, dove da un lato padron ‘Ntoni tiene il capo della corda che tira verso il paese e da un altro ‘Ntoni tiene l’altra cima che porta lontano da esso: salvo alla fine tornarci e capire che era quello il suo posto dal quale non doveva pretendere di andare via. Forse è quanto capisce anche Verga di sé quando aggiunge al testo già concluso una nuova breve parte solo per approfondire lo stato d’animo di ‘Ntoni, preda del rimpianto per quanto sta per lasciare, seduto su un muretto a guardare la sua Trezza, a ricordare e soprattutto aspettare che faccia giorno e che la vita riprenda pur senza di lui. Abbiamo un indizio decisivo di ciò. Verga scrive, anzi ripete nella conclusione aggiunta, un’espressione incomprensibile quando fa dire a ‘Ntoni che deve andare via perché ormai sa ogni cosa. Cosa sa ‘Ntoni da essere ineluttabilmente costretto a partire? O piuttosto, cosa sa Verga? Sa forse che deve rimanere a Catania e rinunciare alla tentazione di tornare al Nord per cedere di nuovo, come farà con Il marito di Elena, alla “contessa di Prato” e cioè alla sua vecchia maniera. Resisterà al richiamo, ma intanto fa partire ‘Ntoni (che probabilmente emigra in America), così disgiungendosi e riducendo i suoi “vinti” al silenzio. Vinto anche lui per primo.

© Gianni Bonina

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n. 2: “Madame Bovary” di Gustave Flaubert

n. 3: “Il nome della rosa” di Umberto Eco

n. 4: “Lo straniero” di Albert Camus

n. 5: “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

n. 6: “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson

n. 7: “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini

n. 8: “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald

n. 9: “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe

n. 10: “Don Chisciotte della Mancia” di Miguel de Cervantes

n. 11: “I fratelli Karamazov” di Fedor Dostoevskij

n. 12: “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo

n. 13: “Il processo” di Franz Kafka

n. 14: “I tre moschettieri” di Alexandre Dumas

n. 15: “L’ultimo dei Mohicani” di James Fenimore Cooper

n. 16: “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi

n. 17: “Se questo è un uomo” di Primo Levi

n. 18: “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez

n. 19: “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni

n. 20: “Moby Dick” di Herman Melville

n. 21: “La peste” di Albert Camus

n. 22: “Argo il cieco” di Gesualdo Bufalino

n. 23: “Le anime morte” di Nikolàj Vasìl’evič Gogol’

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