La nuova puntata della rubrica “Vista dal traduttore” è dedicata alla silloge “La composizione biologica di una goccia di acqua di mare porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene” di Kim Simonsen (I Libri di Mompracem, 2025), tradotta da Giovanni Agnoloni
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Kim Simonsen, La composizione biologica di una goccia di acqua di mare porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene (ed. I Libri di Mompracem, 2025)
Dal risvolto di copertina:
Qual è la filosofia dei pesci? Gli alberi ci vedevano, quando eravamo bambini? I funghi si curano di noi? In questa silloge poetica, tutti gli esseri viventi immaginabili, nella loro diversità, si incontrano intorno al mare inteso come elemento – ovvero all’acqua, origine e fine delle cose, dove la transitorietà dell’esistenza è intessuta nel moto ondoso di vita e morte del Tutto cosmico. Si svolge così un’esplorazione del rapporto dell’uomo con il mondo, dell’oceano dentro di noi e della nostra connessione con l’acqua. Un’esplorazione che prende spunto dalla recente morte del padre dell’autore, ruotandole costantemente attorno.
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Postfazione del traduttore italiano Giovanni Agnoloni
Estratto dalla parte iniziale della postfazione
La prima volta che incontrai Kim Simonsen fu nell’agosto 2015, durante una residenza letteraria presso Hald Hovedgaard, nelle campagne intorno a Viborg, in Danimarca. Io e gli altri scrittori ospiti sapevamo del prossimo arrivo di un poeta delle Isole Fær Øer, anche se non avevamo idea del momento esatto. L’attesa si protrasse un paio di giorni più quanto avevamo immaginato, tanto che ci preoccupammo un po’. Passato il fine-settimana, però, eccolo entrare nella cucina comune della residenza con aria tranquilla, salutandoci affabilmente e spiegandoci che aveva avuto impegni imprevisti a Copenaghen. Cenammo insieme e iniziammo a parlare del nostro lavoro letterario. Il suo mi attirò fin dall’inizio, tanto che gli proposi di tradurre in italiano qualche sua poesia per il blog “La Poesia e lo Spirito”, cosa che poi in effetti avvenne, seguita, nel 2019, da un tentativo – purtroppo naufragato a causa della pandemia – di invitarlo una prima volta a Firenze per un reading.
Ma non fu questo a contare. Fu proprio quel suo modo silenzioso e quasi dimesso di arrivare e di iniziare a conversare, come se fosse spuntato dalle foreste o dal lago intorno alla residenza. In altre parole, come se fosse stato un tutt’uno con la natura di quei luoghi. È infatti precisamente questo il nucleo della sua poetica contemplativa, e direi perfino meditativa: il tutto, l’holos che abbraccia gli esseri umani, le creature viventi e il mondo nel suo insieme e in ogni sua parte, e il “racconto” per impressioni – o per epifanie – che le sue liriche incarnano.
Si tratta peraltro di tematiche che, come evidenziato dai versi inclusi in questa raccolta, sono al centro degli interessi dell’autore nelle vesti di accademico, e che appassionano profondamente anche me come scrittore e traduttore. Per questo, quando Kim, circa un anno fa, mi ha parlato di questo suo nuovo libro, già uscito in faroese e al tempo in corso di traduzione inglese, l’idea di progettare una versione italiana – partendo dal testo americano di prossima pubblicazione, a cura di Randi Ward, ma appoggiandomi ove necessario alle assonanze tra il faroese e lo svedese – mi è sorta spontanea.

Fin dal titolo emerge il sottile ma evidente nesso tra la biologia umana e la biologia e la chimica organica e inorganica dell’oceano e di tutti i corsi e gli specchi d’acqua. Conseguenza naturale dell’origine faroese del poeta, qualcuno potrà pensare. E in parte può essere vero. Il remoto arcipelago delle Fær Øer è situato ai margini tra l’Atlantico settentrionale e il Mar di Norvegia, e a metà strada tra le Isole Shetland (le più a nord della Scozia) e l’Islanda. La sua lingua infatti somiglia più all’islandese che a quelle scandinave – e in specie al danese, dato che le Fær Øer appartengono ancora alla corona di Danimarca, pur essendo autonome per le questioni interne fin dal 1948. Insomma, la natura di queste isole è profondamente imbevuta dell’umidità oceanica, capace di insinuarsi in tutte le sue nicchie, in ogni anfratto del paesaggio, entrando fin nel midollo del legno, della pietra e della pelle dei suoi abitanti. Luoghi di mare e di monte, di pesce e di carne allevata e cacciata, aspri e al contempo armoniosi, con fugaci squarci di luce netta che si espandono durante le brevi estati e frequenti nebbie capaci di rendere tutto indistinto, facendo sfumare il confine tra realtà e sogno, forme viventi e spettri.
Consideriamo tutte queste come premesse o suggestioni preliminari all’immergerci in una sorta di concept-book, che è appunto un concetto più evoluto della semplice idea di una silloge poetica. È quasi una sinfonia in quattro movimenti che ruota attorno alla profonda (e plurisfaccettata) interazione tra l’universo liquido che tutto permea e un’umanità – che mi viene da definire “superstite” – che giunge alle sue sponde, ancora una volta, in silenzio e quasi dimessa. È questo che accade al poeta, di ritorno a casa nei giorni della morte di suo padre. La presenza dell’autore-contemplatore in questi luoghi fa sempre corpo unico con quell’assenza vigile, legandovisi come una particella e un’antiparticella capaci di non annichilirsi a vicenda. E questo muto dialogo, riemergendo in più momenti come il tema musicale di una passacaglia – del resto, annunciato fin dall’inizio: «Stamani è morto mio padre» –, getta luce e significato sul fiume interiore di ricordi e sul treno di riflessioni filosofiche che seguiranno circa il rapporto tra la condizione umana e il Tutto, strettamente legate alla sostanza di quei paesaggi. (…)
Estratto dalla parte finale della postfazione
(…) Approdiamo così, al termine di questa “ricognizione del Tutto”, alla dimensione pienamente umana, con la quarta sezione intitolata appunto “Umani”. E il senso di quel pienamente sta proprio nell’essere la nostra umanità ormai consapevole dell’Holos oceanico-materico-vibrazionale del quale è imbevuta e compartecipe. La coscienza della nostra parentela con questa dimensione globale permette a tratti di accedere a una sorta di stato “nirvanico”, quando il dolore del passare delle cose e delle persone cede il passo alla quieta coscienza dell’esistere nel qui e ora:
«Siamo umani,
mentre l’erba avvizzita
freme nel vento
e semplicemente ci deliziamo
di esistere.»
E ancora:
«Siamo umani,
ci svegliamo ogni mattina
con memorie senescenti
e beviamo il nostro caffè
con sogni provenienti dal passato.»
Ma anche in questi attimi di lancinante consapevolezza residua una componente pesante, remota, risalente a stadi pregressi dell’evoluzione della specie umana, e perciò quasi animalesca:
«Siamo umani
anche quando il Neanderthal che è in noi
afferra una mosca
e, per una frazione di secondo,
valuta se mangiarla.»
E poi, alla base, ecco la coscienza nuda, nella poesia più ermetica e onnicomprensiva del libro:
«Siamo umani.»
A partire da questo punto, le poesie dell’ultima sezione tornano ad aprirsi a ventaglio su tutto il composito ventaglio di possibilità d’interazione orizzontale e verticale tra esseri umani, oceano, piante, animali e forme di vita elementare, in una sorta di deflagrazione ubiqua che evidenzia sinteticamente e icasticamente tutti i concetti finora osservati più nello specifico. E ogni volta che il poeta parla di ciascuna di tali manifestazioni dell’energia vitale della materia, di fatto parla di noi – ed è vero anche il reciproco.
«I funghi
fanno quello che vogliono degli alberi
feriti e morenti,
devastandoli.»
O ancora:
«Ogni singolo pesce in un banco è
un essere luminoso—
dietro di loro,
trascinandosi dietro tutti loro,
sono filamenti
di discendenza.»
Ma soprattutto, tornando al titolo del libro: «La composizione biologica di una goccia di acqua di mare porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene»
È la chiusa perfetta di questo ragionamento (ma non dell’intera raccolta), perché sottolinea il nesso profondo, ineliminabile, tra noi e l’acqua che imbeve tutto di sé. E qui colgo anche l’occasione per aprire una parentesi sul mio lavoro di traduzione, che ha mirato sì alla resa filologicamente corretta del testo, ma ancor più al suo senso profondo e alla sua musicalità. Come dicevo all’inizio, la mia traduzione non è stata diretta dal faroese, ma mediata dall’ottima versione inglese della poetessa e traduttrice statunitense Randi Ward. L’originale inglese recitava: «The biological composition of a drop of / seawater is reminiscent of the blood in my veins», che in effetti riproduce perfettamente il faroese «Lívfrøðiliga samansetingin í einum dropa / av havvatni minnir um blóðið í mínum æðrum». L’ho decifrato non perché conosca il faroese (pur avendo svolto varie ricerche su dizionari online), ma perché “minnir um” somiglia molto allo svedese påminner om, cioè appunto “is reminiscent of”. In italiano, alla lettera, sarebbe “ricorda”, a sottolineare le affinità chimiche tra la goccia di sangue e quella d’acqua. Ma il verbo italiano ricordare è ambiguo, perché ha la particolarità di essere identico sia nel significato di “avere memoria di qualcosa”, sia in quello, che qui ci interessa, di “rammentare”, “richiamare alla mente”. Ora, questi ultimi due sinonimi, che in teoria avrei potuto scegliere, si prestano però meglio a sottolineare una somiglianza superficiale, magari notata occasionalmente o per coincidenza, e non un’affinità profonda, una sorta di scia di “parentela” simile a quei filamenti di discendenza che, nelle parole del poeta, i pesci si lasciano dietro. Da qui l’idea dell’eco, che, oltre ad essere più musicale nella nostra lingua, ben s’intona con il concetto delle molteplici e sovrapposte risonanze che percorre tutta la silloge. Anzi, l’idea della goccia d’acqua che “porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene” ribalta, dandole un senso schiettamente naturale e “oceanico” – scevro da qualunque sfumatura di carattere politico – l’idea della profondità delle origini. L’eco del sangue è, in altre parole, solo l’oceano, solo la natura.

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Kim Simonsen (1970) è autore di sette libri e di numerosi saggi e articoli. Nel 2014 ha vinto l’“M.A. Jacobsen National Literature Award” delle Isole Fær Øer per la sua silloge poetica Hvat hjálpir einum menniskja at vakna ein morgun hesumegin hetta áratúsundið (“A che giova a una persona svegliarsi una mattina da questa parte del nuovo millennio”, 2013), raccolta che nel 2025 sarà pubblicata in traduzione inglese da Deep Vellum Publishing.
La sua ultima silloge poetica, Lívfrøðiliga samansetingin í einum dropa av havvatni minnir um blóðið í mínum æðrum (“La composizione biologica di una goccia d’acqua di mare porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene”, 2023), è stata nominata per il Nordic Council Literature Prize del 2024.
Le opere di Simonsen sono apparse su giornali e riviste di tutto il mondo, tra le più recenti delle quali Washington Square Review, Asymptote, Four Way Review, Trafika Europe e Versopolis. Alcune sue poesie usciranno anche nel 2025 sull’antologia Best Literary Translations di Deep Vellum e sono state pubblicate in Poems from the Edge of Extinction: An Anthology of Poetry in Endangered Languages, a cura di Chris McCabe, bibliotecario della National Poetry Library di London e fondatore dell’“Endangered Poetry Project”.
Kim Simonsen ha studiato scrittura creativa alla Gladiator’s Writing Academy di Copenaghen, ne è stato docente all’Università delle Isole Fær Øer e attualmente lavora come accademico in Islanda. Ha conseguito un dottorato presso l’Università di Roskilde ed è il fondatore e il direttore editoriale di Forlagið Eksil, una casa editrice faroese che ha pubblicato oltre venti titoli. I suoi libri sono stati tradotti in danese, macedone, italiano, ungherese, tedesco e inglese.
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