Aprile 19, 2024

90 thoughts on “IL RISCHIO DI RACCONTARE di Antonella Cilento

  1. Intanto ringrazio Antonella per avermi inviato questo nuovo pezzo.
    Vi invito a interagire con lei e a provare a dire la vostra sulle domande del post.
    (le ripropongo)

  2. secondo me un autore dovrebbe porsi, nei confronti della propria opera, con un gran senso di responsabilità.
    capisco che è difficile, nel senco che non è facile essere obiettivi

  3. più che cattivi bisognerebbe essere obiettivi.
    l’obbligo morale di tutelare la propria opera c’è, ma va contemperato con la necessità di riuscire a guardarla con il dovuto distacco

  4. Mia carissima Antonella,
    Heidegger racconta che chi scrive somiglia a uno dei primi uomini comparsi sulla terra che non esita a lanciarsi nel vuoto di un burrone, dove crede di trovare gli Dèi fuggiti dal mondo.
    Rischia, ma senza sapere se tornerà a vedere la luce. Rischia perché non vivrebbe comunque. Rischia perché quando torna – se torna – stringe tra le mani una manciata di fosforescenze: tutto ciò che resta degli Dèi in fuga. La musica dei loro passi durante l’abbandono.
    Il mito conosce questa storia fin dai primordi.
    Orfeo è colui che rischia tutto, il poeta che dalle tenebre risale alla luce, il poeta debole, anche, che sa voltarsi indietro.
    Ecco, io penso alla scrittura come a un progetto avviato in ere lontanissime, a seguito di spaventose deflagrazioni geologiche e che tutt’ora continua a produrre i suoi effetti in una specie di reazioni a catena. Io penso a un tasto inceppato, e mille volte acceso, il cui coraggio è in quell’unica necessità: riportare alla luce gli Dèi. Rimediare a un abbandono.
    Credo che nonostante il risultato sia forse inarrivabile, e credo che nonostante – alla fine – tra le mani non rimanga altro che polvere – polvere di stelle – per quella discesa negli inferi, e per quella risalita con l’illusione di esserci salvati – valga la pena rischiare. Tutto : noia. Sguardi indifferenti. Caos familiari. Incertezza. E, sì: rifiuti.
    Alla fine ciò che difendiamo non è l’opera in sé…ma quella discesa per acciuffare un resto. Quello spericolato tuffo nell’abisso.
    Quel denudarci pietosamente di ogni spoglia pur di stringere tra le mani il frammento, per piccolo che sia, di una fuga lontanissima nel tempo. E che non riusciamo a dimenticare.

  5. Credo che ognuno trovi da sé la giusta misura nel valutare la propria creatura. Conosco persone estremamente esigenti, altre troppo benevole. La giusta distanza è quella che dovrebbe consentirci di estraniarci dal contesto e chiederci: A me, lettore, piacerebbe leggere questo libro?
    Certo, mi rendo conto, più facile a dirsi che a farsi. Per questo esistono i “pareri degli altri”, molto meno coinvolti di chi scrive. E che sicuramente aiutano a crescere.
    In bocca al lupo ad Antonella!

  6. Tema interessante.
    Giusto, scrivere richiando.
    Domanda per gli scrittori. Come reagireste in caso di stroncatura della vostra amata creatura letteraria?

  7. Molto intrigante questo tema e poi la Cilento mi piace, ha sempre le idee chiare e anche se – a mio parere- in questo articolo dà l’idea di arrovellarsi in cerca della soluzione giusta, sono sicuro che sa già dove vuole arrivare. Gli obblighi dello scrittore nei confronti della propria opera. Io penso che ogni scrittore dovrebbe andare dritto per la propria strada, ascoltando i pareri di gente competente, ma alla fine fare sempre di testa sua. Anni fa feci leggere un manoscritto a un editor, il quale mi consigliò: “Bello! Ma perchè non aggiungi un personaggio femminile forte? Uno di quelli pruriginosi, che infiammi il testo, che faccia sbavare i lettori”.
    Mi lasciai convincere. Tirai fuori una donna che sembrava uscita dall’ inferno. Una specie di Vanna Marchi in crisi ormonale. A distanza di qualche anno, il manoscritto letto da un altro editor. “Bello! Ma perchè hai messo quella donna così volgare? Rovina tutto, rendila più dolce, fanne una figura più poetica, oppure toglila”.
    Morale della favola, se uno scrittore è un “artista” vero dovrebbe fidarsi solo del proprio istinto, fregarsene delle tendenze, dei gusti del pubblico, dei sondaggi di mercato, creare e coccolarsi la propria creatura, avere la capacità di riconoscerne nel tempo i difetti e lasciarla a decantare. A distanza di qualche anno, riletto, il manoscritto, si leggerà con più distacco e si potrà intervenire a migliorarlo.

  8. Rispondo a Martin
    A me prenderebbe un colpo, ma se non altro metterei in serio dubbio il fatto di saper scrivere. 🙂
    Perchè un conto sono le critiche, un conto sono le stroncature. Insomma, se proprio mi stroncano…meglio cambiare mestiere!

  9. Antonella carissima, intanto un caro saluto e un abbraccio a te e Paolo… quei giorni siracusani sono stati veramente bellissimi e spero che possiamo vederci presto, magari anche a Napoli!
    “Neronapoletano”, “Una lunga notte” (ambientato proprio a Siracusa, la mia città)… Antonella non ha bisogno di dimostrare nulla: la sua esperienza di scrittura e d’insegnamento – i suoi corsi – parlano per lei.
    Hai ragione, Antonella: dobbiamo imparare o re-imparare che il giudizio di valore deve tornare in auge in tutti i campi: non è possibile che tutto sia bello, interessante, capolavoro…
    Anche con i figli è così, anche con gli alunni: anni di puerocentrismo male interpretato hanno prodotto una generazione ignorante e maleducata. Un disegnino? Mio figlio è Picasso. Tre note stonate? Mozart, levati dai piedi!
    Orazio e i poeti classici insistevano su anni e anni di labor limae, di lavoro incessante sui testi. Non per estetismo solamente, ma per un’etica insita nell’arte, che deve essere ricerca di perfezione, non raffazzonamento per palati poco esigenti.

  10. Il vero scrittore deve porsi come obiettivo quello di crescere sempre, di riuscire ad esprimere al meglo ciò che voleva dire. Le vendite o la celebrità sono questioni secondarie.
    Io ho in testa progetti letterari da anni e capisco benissimo gli alti e bassi di Antonella: giornate in cui ciò che hai scritto ti sembra decente e persino bello e altre in cui lasceresti perdere… La scrittura è modalità di esistenza: se scriviamo è perché in noi è insito e ineluttabile esprimerci scrivendo. Ma dobbiamo assumerci la responsabilità di ciò che scriviamo, essere onesti con noi stessi e con chi ci leggerà.

  11. Ammiro Antonella Cilento a scatola chiusa. Una persona che ha la forza e la voglia di “convivere” per dieci anni con un suo libro a me lascia sgomento.
    Non credo che potrei mai sopportare una cosa del genere. Io, come suggerisce Massimo, con i miei romanzi sono forse “cattivo”, nel senso che in sei mesi li devo chiudere e mandare a fare nel c…
    Prendere o lasciare. Però, l’altra faccia della medaglia mi affascina molto. E’ probabile che, negli anni, un libro maturi insieme a noi e insieme a noi evolva.
    Insomma, libri-film o libri-fotografia? Questo è il problema 🙂
    Auguro ad Antonella un successo strepitoso.

  12. Io penso che, sulle onde di emozioni contrastanti e incontrollabili, i romanzi di ogni scrittore risultino agli occhi dell’autore stesso talvolta come opere epiche e meravigliose talaltre come imcompiute, dannate, imperfette, mai all’altezza delle esigenze. E’ difficile essere obiettivi o giudiziosi quando si ha a che fare con una propria creatura, un qualcosa di profondamente intimo quale può essere un romanzo. Questa cecità, questa mancanza di percezione, spesso, non è conscia, né esplicitamente disonesta verso se stessi e/o gli altri. Io la definirei meglio come un continuo tormento colmo di entusiasmi e tracolli che rasentano la disperazione.
    A questo scopo, e per fortuna, esistono i critici letterari che con implacabile lucidità colgono i pregi ed i difetti di ogni scritto.

  13. Io credo che quando si scrive ‘di pancia’ e, dopo aver lasciato decantare bene – sedimentare lo chiamo – si rilegge di testa e lo scritto sembra un po’ meno ‘nostro’ sia pronto per andare in giro da solo.
    Così da vedere se si regge da solo.
    In bocca al lupo a Antonella Cilento

  14. Morena ha ragione: fuoco sacro dell’ispirazione, istinto, pancia, cuore… ma poi viene il momento della ragione, della sistematizzazione, della revisione. Distacco, lasciar riposare come pasta lievitata… e poi lasciare andare il testo, che è nostro ma poi non lo è più.

  15. Mi colpì molto un’intervista di Murakami sul corsera. Murakami diceva più o meno questo, ma ricordo approssimativamente: come fa uno scrittore a parlare del suo libro? come fa a parlare della stessa cosa che ha detto nel suo libro? il suo libro è la forma perfetta di quello che voleva dire. Non può più dirla meglio.
    Io pensando alla me stessa scribacchina mi riconosco molto in queste osservazioni di Murakami – scrittore che apprezzo come molto gradevole, ma non è che me sparo eh – parlare di un testo scritto, foss’anche un testo scientifico, è parlare di se, è chiedere di valutarSi, più ancora dei propri figli, che ci hanno anche il dna de quarche d’un altro, e esperienze che ne riscrivono lessico e parole. L’unico momento in cui una relazione tra noi e ciò che abbiamo scritto permette un qualche parere esprimibile senza pleonasmi è quando è passato molto tempo. E il nostro se stessi è cambiato così come il nostro modo di usare le parole.

    E ora che ci penso, questo per me è un ottimo motivo per considerare rischioso il lavorare a un’opera per tanti anni. Rischioso non vuol dire che non possa funzionare – e faccio molti auguri ad Antonella! – ma non mi fiderei dei miei cambiamenti di giudizi – spaccerei per miglioramento quello che invece un diverso accordo musicale, nel mentre si suo na la propria vita.
    10 anni dopo.
    so’ tanti.

  16. Uguale cosa si faccia, un rischio c’è sempre. Esistono così tante forme di rischi, ma una credo si debba affrontare senza esitare, costi quel che costi. Il rischio di non aver alla fine capito nulla, nonostante si abbia cercato tanto.
    Anche se alla fine non si trova ciò che si voleva trovare, anche se ci si trovi davanti a un mucchio di polvere, credo che nel tentare abbiamo percepito il senso di vivere.
    Alla fine, anche non avendo trovato nulla di stabile e soddisfacente, abbiamo almeno trovato il nostro io, uguale quale sia, perché non è dovuto a nessuno di emettere sentenze sul come siamo stati o avremmo potuto essere stati.
    Scrivere è come lavorare per creare un oggetto, un meccanismo che si creda utile; ci sarà sempre qualcuno che lo riterrà inutile e anche dannoso; eppure per il suo artefice rappresenta un rispecchiarsi del suo modo di essere, onde potersi ritrovarsi, analizzarsi e proseguire sul cammino delle proprie cognizioni.
    Non è così importante a quale verità si sia arrivati, e neanche come la sia abbia impiegata verso se stessi e verso gli altri, ma il tentare continuo di svelarla.
    Chi vive in questo senso, adempia alle richieste impostogli dalla sua vita.
    Saluti.
    Lorenzo

  17. @ Massimo,
    “Non bisognerebbe, a volte, essere più cattivi con i propri libri?” Estendo la tua domanda anche alle altre creazioni. Io sono come Enrico, anzi, di più, nel senso che le pareti del mio studio sono bianche, intonse; e su quelle di casa ho appeso solo lavori così lontani (di solito i più brutti) che ormai non mi disturbano più. Distruggo. Interi sacchi neri, uno dopo l’altro partono per il garage e poi per la discarica. E conservo interi cicli di lavoro, cose vicine e lontanissime nel tempo, ma solo dopo averle sottoposte a revisione, ogni tanto. Per i testi; una volta assolto il compito non li leggo più, altrimenti li rivedrei o li distruggerei. Ho una grande cura invece, quasi maniacale, per i miei album d’appunti; numerati e datati e sempre a portata di mano, alcuni sono ormai scomposti e sfogliati, ma lì c’è veramente la mia vita. Schizzi, citazioni, prospettive, le prime bozze di un progetto e i titoli dei libri, letti in quel periodo. Matita 6b, gessetti, blocco e un po’ di gomma pane, sono sempre con me, anche in cucina. Anche ora, qui al computer.
    Ciao a tutti.
    🙂

  18. Un saluto caro ad Antonella,
    be’… sull’argomento dell’autoanalisi artistica (perche’ mettersi li’ a valutare una propria opera compiuta e’ un’analisi plurima costituita da diverse componenti, scritturali e non solo), ecco, l’operazione di mettersi a valutare la propria opera a me riesce bene direi ”gradualmente”: la freddezza nei confronti di un racconto la ottengo solo quando l’ho dimenticato – ed ho dimenticato il perche’ e il percome della sua esistenza su carta, nonche’ la fase che vivevo quando l’ho scritto. Dunque mesi e mesi dopo la parola fine. Prima di cio’, ad ogni lettura e nonostante le continue correzioni che apporto abitualmente – cioe’ i ritocchetti non sostanziali – il lavoro compiuto mi piace, mi appaga, mi riempie e mi inorgoglisce. Ma le magagne vere e proprie del testo io le apprendo dopo due o tre anni almeno, perche’, cambiata in buona parte la mia condizione umorale, spirituale, intellettiva e relazionale ed evolutasi la mia tecnica scrittoria, non posso far a meno di sorprendermi per le mie precedenti bambinate, le ingenuita’ o gli eccessi, la lambiccatezza o la semplificazione degli argomenti e delle costruzioni sintattiche – entrambe improprie e sovente inaccettabili.
    In finale, ammetto di esser sempre me stesso, di avere il mio stile e la mia personalita’ inconfondibili. E questo, pur essendo povera cosa, mi spinge a continuare, almeno per motivi ”autobiografici”, ovvero per conoscermi meglio ”storiograficamente” e ricostruire il percorso dei miei sentimenti nel tempo e nello spazio.
    Una paura che non ho mai e’ quella di non dire niente di sostanziale al lettore. Le altre paure, quasi tutte. Ma vado avanti perche’ ci sono io, li’ sulle pagine, e scrivendole parlo di cose di cui non parlerei mai oralmente, conscio di rivolgermi senza egocentrismo a chi, benevolmente, mi fa l’onore di leggermi.

  19. P.S.
    Concordo anche con Jean de Louxembourg, quando parla dei critici. Peccato che di quelli ”doc” ormai ne esistano piu’ pochi. Quelli di adesso sembrano aver loro bisogno di uno psicanalista.

  20. P.P.S.
    Una legge che considero fondante dello scrivere e’ questa: mai considerare stupido il lettore, anzi, meglio vederlo molto piu’ intelligente di se stessi. Cosi’ si migliora sempre, garantito.

  21. “Come si dovrebbe porre uno scrittore nei confronti della propria opera?”

    è il mio primo commento. rischio di dire una cavolata? non credo. suppongo che le cavolate si dicano solo ed esclusivamente quando non si è sinceri con se stessi. ecco, trovo che lo scrittore si debba porre con responsabilità ed onestà nei confronti della propria opera. l’opera non resta nel libro ma va a colmare le lacune di chi la leggerà. andrà a convicer o a toglier nei dubbi, andrà a stimolare altri scrittori. lo si voglia o no, l’effetto di un romanzo, di una parola, di un segno, che non sia solo autoreferenziale, è un’inevitabile effetto farfalla: quella parola messa lì, quel punto e quella virgola, sono segni intenzionati e intenzionanti, provocheranno un mutamento, il lettore subirà un’invasione di campo nella sua micropartita quotidiana con la vita. allora lo scrittore dovrebbe operare un ‘come’nei confronti di se stesso, dei personaggi e del lettore. dovrebbe, oltre al contenuto, considerare un com-tenuto. lo scrittore deve educarsi all’empatia soprattutto nei confronti di temi che gli risultino estranei o difficili o inaccettabili con onesta parzialità e tralasciando la tentazione del micropotere che in quel momento detiene e che lo spingerebbe a imporre un suo punto di (s)vista. uno scrittore deve lasciare che i personaggi lo giudichino, come fantasmi del suo inconscio e accettare il martirio della verità. lo scrittore deve poter provare una certa estraneità nei confronti del sé e dell’opera-in-sé, una sorta di editing dei moti dell’anima, e abilitare i personaggi ad un postgiudizio affinché possano accusare o lodare lo scrittore, secondo che non sia stato onesto o che sia stato sincero.
    nei confronti dell’opera letta, lo scrittore dovrebbe adottare una perspicacia viscerale e trattare l’opera come la tratterebbe non un accanito lettore ma un accanito telefilo il cui secondo hobby è l’atto vandalico nei confronti della misconosciuta opera, qualunque essa sia. lo scrittore, allora, deve poter odiare la propria opera.
    per riassumere: lo scrittore deve trattare il com-tenuto dell’opera scritta, vissuta, e letta. deve porsi nelle diverse pieghe del diegetico, dall’extra all’intradiegetico. il caso dell’opera elettrica lo tralascio, perché qui si tratterebbe di un’antropologia narratologica in ambiente digitale.

    “Non bisognerebbe, a volte, essere più cattivi con i propri libri?”

    se cattivo significa tolleranza zero per la superficialità, sì. non che l’opera debbe essere gratuitamente barocca e sprezzantemente d’élite, ma la superficie degli avvenimenti deve celare la complessità del reale con la stessa superfacilità con cui gli eventi si dispongono del reale. se cattiveria significa cattività e autosbarramento dietro grate di supergiudizi e partiti presi, allora no. la cattiveria deve sempre essere onesta. anche quando sia fantascientifica, o a lieto fine, la cattiveria deve rafforzare l’opera come farebbe un allenamento sul piccolo monaco zen. cattiveria come norma e capacità di affrontare il giudizio, ben più severo, della critica qualora il figlioletto-opera riesca a vedere la luce (non voglio parlare della cattiveria gratuita dell’invidiosa congerie di molta italianità teledipendente stanca da sempre e snob della pur minima bella parola). anche in questo caso, la cattiveria sia onestamente accolta e ricambiata nella triade scrittore-personaggio-lettore.

    “Oppure, lo scrittore ha l’obbligo morale – nei confronti della propria creatura letteraria – di proteggerla… sempre e comunque?”

    sì. sempre che non stia difendendo un proprio narcisistico punto di (s)vista col pretenzioso alibi-traguardo della duecentesima pagina, adducendo, per questo, piagnistei filistei da opus dei agnostica e materiocapitalistica e trandy. non si difenda un baroccame d’idee per semplice modaiolo e scaltrito senso del dovere morale(ggiante), sia pronto a riconoscere il difetto, qualora ci sia, e non si lasci prendere troppo dalla ferita narcisistica per un figlio diversamente leggibile. va da sé che l’opera possa diventare autosufficiente e l’obbligo di proteggerla sia da delegare al lettore che già l’aveva in sé quell’opera, nel quotidiano desiderio di lotta repressa, e che ora vede fiorire nella mente-mani di uno scrittore, nei confronti del quale soltanto si debba avere, paradossalmente, un obbligo morale di protezione sempre e… comunque.

    alla prossima, sempre che non vi abbia ammorbato inutilmente.
    🙂

  22. Come ho già accennato sul post dedicato a “Le aziende invisibili”, Antonella ha avuto qualche piccolo inconveniente… ma interverrà di certo nei prossimi giorni.
    Dunque, continuate pure a “interagire” con lei.

  23. @ Silvia
    Ma come… hai paura delle stroncature?
    Fifona!
    🙂
    Scherzi a parte… credo che anche una stroncatura, se onesta (e non sempre càpita) possa essere utile all’autore.
    O no?

  24. @ Enrico
    Stefano D’Arrigo ha impiegato più di vent’anni per scrivere il suo “Horcynus Orca”.
    Se di fronte a dieci anni di convivenza libresca rimani “sgomento”… di fronte a venti?
    🙂

  25. diciamo la verità. secondo me è quasi impossibile che un autore riesca a essere davvero obiettivo con la propria opera.
    per questo è importante il giudizio degli altri: critici o lettori che siano

  26. Non ho ancora mai avuto occasione di leggere Antonella, commento solo l’articolo, ricco di suggestioni.

    Scrittura e autoterapia, scrittura come responsabilità personale, scrittura e autorealizzazione, pubblico come specchio della riuscita di sé.
    Sono tutte immagini e ragioni molto forti, e in un certo senso le condivido.
    Ma vi sento anche un’offerta ritrosa: “passa per un «de me fabula narratur», se vuoi trovare il «de te»” (che sotto sotto il lettore cerca sempre: e se può coglierlo per sottrazione o per differenza in un narrazione fulminante, barzelletta o apologo che definisce ciò che lui non è, difficile che si attacchi a un romanzo denso se non vi trova qualcosa della “sua” esperienza). Passa per la mia realtà, le mie giornate, la mia luce sulle cose il mio orecchio ai dialoghi. Tutto ciò è inevitabile e costitutivo dell’arte del romanziere, ma ne costituisce anche la fragilità nel presente.
    Antonella lo dichiara: sono un grumo nel presente incapace di sciogliersi nel tutto, ne agglutino parti, le lavoro ed esigo di espellerle in forma accettabile, innanzitutto per me. L’urgenza della scrittura è personale, la scrittura è solitaria ricapitolazione del mondo. E ciò può produrre ottime pagine, ma poca, pochissima condivisione con il lettore, se non nel circolo di coloro che danno valore alla scrittura…

  27. Carissimi amici, grazie a tutti di questa messe di bellissimi messaggi! Mi scuso del ritardo e ringrazio Massimo di avermi “giustificato” anche sull’altro post dove cercherò di intervenire tempestivamente. Il fatto è che la vita evocata nell’opera continua a muoversi, nonostante l’opera sia fittiziamente chiusa, e la mia nonna quasi centenaria, che nel libro di cui stiamo indirettamente parlando svolge un ruolo non da poco, è stata truffata nel week end paralizzando le manovre familiari. Sarebbe lungo spiegarvi qui perché la cosa ha a che vedere con il libro – e di sicuro la realtà supera sempre l’immaginazione, come vuole il detto – ma certo è che, nonostante i dieci anni di lavorazione, il lavoro non sembra volersi concludere anche a causa di occasionali truffatori… Ma l’autore si prende una libertà e taglia con le forbici delle Parche, altrimenti il romanzo sarebbe un’eterna opera aperta alla Eco. Allora: grazie a tutti dell’affetto, della sintonia e della condivisione. A Simona che ha evocato Orfeo e per meravigliosa sincronicità ha citato, senza poterlo sapere, uno dei temi del libro e una delle posizioni da cui parte la voce che racconta. E grazie a tutti degli auguri e della fiducia. Quando Maria Lux (ciao cara, spero davvero di rivedere presto le amiche di Siracusa!) dice che un autore edito, bontà sua, non ha niente da dimostrare purtroppo ignora (e buon per lei!) la difficile rete lavorativa che è dietro ai libri, dove tutti ti aspettano al varco e sperano in una caduta, in un fallimento. Se trascorrono troppi anni fra un libro e l’altro si dice di un autore che non ha più vena, se invece il tempo è troppo stretto che scrive librini in serie (e, accidenti, quanto scrive)! Se si cerca di cambiare editore ci si trova impegolati in una serie di giudizi fittizi ed esecuzioni sommarie, nè più nè meno che come quando si cercava un editore la prima volta. Insomma, come qualcuno mi pare abbia già detto nei post, ogni volta si tratta di ricominciare da capo e di mettersi in gioco completamente, il che si fa sempre più duro con il trascorrere degli anni. A questo si aggiunge l’esigenza interna, ben più rilevante, che ti costringe a fare i conti con quel che sai o non sai fare, questione al di fuori del narcisimo editoriale, e che all’esterno (per la pubblicazione o il marketing) conta zero, tanto è vero che il mercato è inondato di paccotiglia o di scritture-spot, ma è tutto se si pensa in termini di letteratura. Faccio bene o faccio male? Sto superando un confine o sto gettandomi nel vuoto? Vorrei davvero avere la risposta, come gentilmente scrive Salvo Zappulla, se ho letto bene, ma la realtà è che c’è, sì, una luce interiore che ti guida (e me la tengo ben stretta) ma niente ti garantisce dal rischio che ti prendi.
    Qualcuno ha giustamente evocato i critici e ho trovato illuminante il post di Salvo che parla dei giudizi contrastanti sui personaggi che ci consigliano o sconsigliano di inserire (le voci sono sempre contrastanti, anche perchè nessuno sa cosa accadrà quando il pubblico interpreterà il libro: la vera paura dell’editore è che ciò su cui puntava non riesca e ciò che considerava un fallimento vada bene). Sui critici ho già detto e ne vorrei sentire anch’io qualcuno in più (bello l’articolo di Andrea Di Consoli riportato da Sergio Sozi in un altro post). Ma, insomma, a conti fatti, la scrittura è un atto solitario di responsabilità personale.
    Ora scappo, ma aspetto di leggere ancora i vostri commenti. Ancora grazie!!
    Antonella

  28. Non credo che gli scrittori debbano essere più “cattivi” con i propri libri. Già ci pensano il mercato e gli editor a sottrarre spontaneità e dunque amore per il testo. Sono passaggi obbligati, è chiaro. Ma è giusto che l’autore pensi al proprio scritto come ad una “creatura”. Gli altri non lo faranno per lui.

  29. Ben detto, R. Maria. Già ci pensano gli altri a rifiutarli, stroncarli, vituperarli, invidiarli. Coccoliamoci le nostre creature, ché ai nostri occhi sono meravigliose, anche se gli altri li vedono con la gobba e gli occhi strabici. Un minimo di amor proprio ci vuole.

  30. Io non scrivo, però penso che se qualcuno parlasse male di un mio scritto non riuscirei a non arrabbiarmi

  31. @…
    Quando qualcosa viene dal profondo, all’ inizio si parte di slancio, con passione. Ma il confine tra passione e ossessione è sepre lì, labile, e sconfinare non è così difficile.
    E il tempo che ci lasciamo scorrere addosso a quel pensiero diventa deleterio, per la ‘creatura’. Allora iniziano i dubbi, i ‘rancori’, verso ‘lei’ e verso se stessi.
    Si perde il filo, il senso…” ma che c…sto facendo!?…Ma è la cosa giusta?…E’ quello che volevo dire inizialmente?…”.
    La verità è anche un’altra.
    Come dissi nel suo post a Simona, quel che personalmente ho capito(almeno di me), che ciò che induce a creare, non è spinto da una nuova luce di verità di cui ci sentiamo positivamente abbagliati ; ma l’inverso : ricercare la via ad un averità che sentiamo perduta. La quale, è spinta da un’ispirazione di un’altra nuova, che sentiamo ma non conosciamo.
    Ecco la sottile differenza.
    La nuova creatura avrà colori diversi, risvolti inaspettati, toni “ingenui” a noi stessi.
    E quando vai a rileggerti, è proiprio questo “nuovo” che ti spaventa : ” ma che c…ho scritto?!..”-.
    Invece bisognerebbe lasciarlo così com’è. Ma poi pensi di doverti adeguare ai gusti, al marketing, e soprattutto di non fare la parte del “co….ne”. Allora stai a sentire tutto, pure quello che non ‘senti’.
    Invece -come con un figlio- non puoi pretendere la perfezione. Se non altro perchè non è umana, e soprattutto perchè in essa non c’è niente di ‘nuovo’, di ‘ingenuo’. Non c’è vita, insomma.
    Se invece si fosse capaci di prendersi con più elasticità, con un po’ di distacco, un minimo di autoironia( che magari trovi anche nella tua creatura), cambierebbe l’atteggiamento e l’ossessione tornerebbe passione, accettando anche i suoi difetti( ed anche questi, sono interpretabili a secondo del momento e degli stati d’animo).
    E così, si capirebbe che un figlio non è la proiettiva perfezione ai propri fallimenti, così come una ‘creatura’ non è l’indefettibile nostro riflesso.
    Un po’ di cattiveria, certo.
    Magari, rileggendosi, sarebbe sublime pensare anche di se stessi… -” fammi vedere un po’ cosa ha scritto questo coglione?!…”-.
    Questo è il rischio che si corre. Però, col giusto distacco si sorriderebbe di più. E magari, quella nostra ‘creatura’, con nostro stupore, ci invita anche saggiamente a riflettere.
    Un caro saluto, Gianni Parlato

  32. Anche per me è il primo intervento in questo blog.
    Ma sì, bisogna essere cattivi con la propria creatura letteraria. Non credo sia sufficiente, però, una picconata di ipercriticità una tantum nel costato di un sostanziale corpus protettivo.
    Bisognerebbe essere in grado di attraversare il libro con tutte le sfumature della propria critica. Dalla possibile stroncatura dell’impianto narrativo per provare a ripensarlo in toto, al rannicchiarsi in fondo ad una pagina in adorazione estatica di un paragrafo, o di un periodo che magicamente apre un capitolo.
    Poi, lavorare di umiltà considerando importanti, almeno quanto le nostre, le parole degli amici forniti di dispositivi critici il più possibile articolati.
    Escluderei la possibilità di dare retta ai giudizi dei soliti detrattori la propria opera. Sarebbe un esercizio troppo difficile.
    Ma la critica è salvifica.
    Complimenti per il blog, e il post.
    Saluti, e salute

  33. Benvenuto, Plessus,
    Ci dici che ”Bisognerebbe essere in grado di attraversare il libro con tutte le sfumature della propria critica.”
    Ecco, io un giorno l’ho fatto: ho scritto una recensione su un mio libro dove lo rivoltavo come un calzino senza rinunciare agli aspetti negativi. Mi e’ piaciuto molto, quasi piu’ che scrivere il libro stesso!

  34. Attento a darmi certi suggerimenti, Maugger, che quando inizio con le stroncature, poi ci prendo gusto…

  35. Io penso che un autore non può che essere un pessimo giudice della propria opera letteraria. Secondo me deve solo preoccuparsi di realizzarla al meglio, e già ce ne vuole, rimettendosi poi al giudizio dei lettori e dei critici.
    A ciascuno il suo, non vi pare?

  36. E comunque non c’è dubbio: scrivere e pubblicare comporta un importante assunzione di rischio.
    Però c’è un rischio ancora più grande: non pubblicare per mero timore.

  37. Rivedo parecchi dei miei interrogativi in quelli che si pone Antonella dinanzi alla scrittura e specialmente dinanzi alla sua nuova creatura (se ho capito il tipo, credo proprio che se li porrà all’infinito).
    Del resto, credo che questo sia abbastanza consueto per uno scrittore. Infatti, sarebbe demenziale piazzarsi su un piedistallo ed essere certi di stare agendo al meglio, quando il meglio di noi sta in un insieme di emozioni, di amori e disamori, di esperienze non sempre piacevoli e di legami spesso controversi, ma innegabili con il mondo in cui siamo cresciuti e ci muoviamo.
    Come dicevo, sono attraversata anch’io da molti dubbi (qualcuno mi viene addirittura proposto dai miei familiari tra le pareti domestiche). Ma sono certa di una cosa, che sicuramente mi fa apparire stupida e che, al contrario, penso che racchiuda la mia forza, come quella di Antonella e di tutti quelli che scriviamo con trasporto. Cioè, sono sicura del fatto che mai potrei mediare il mio modo di scrivere per esigenze editoriali o di mercato.
    Non potrei, perchè, così facendo, dovrei rinunciare all’illusione d’alimentare, attraverso la scrittura in versi e in prosa, una scaglia di cielo e di verità dell’essere, di deporre la penna o alzarmi dal computer sentendo in me un’appagante sensazione di pienezza.
    Quindi, tra la scelta di scrivere romanzi o poesie, che Antonella definisce di mantenimento, ritengo che sia molto più gratificante rischiare.

  38. Sono d’accordo con Plessus e Gianni Parlato. Verissimo, si scrive non per dare agli altri una presunta verità che non potremmo MAI avere la presunzione di possedere, ma per cercarla. Per capirla, se mai avessimo avuto un barlume di essa. L’atteggiamento critico – nel senso più alto e meno fazioso del termine – sta nel senso di responsabilità verso se stessi e i lettori, nell’impegno verso una perfettibilità più che verso LA perfezione. Severità e indulgenza insieme verso un qualcosa che è parte di noi stessi.

  39. Salve a tutti. Intanto chiedo venia per i miei interventi sporadici su questo blog. Interessante, l’argomento. Io mi trovo in linea con Enrico: non amo convivere a lungo con i miei scritti. Ci metto molto a partorirli, questo sì (anche con i miei figli è stato lo stesso, dev’essere un fatto genetico), sono severa con ogni parola e non la mollo finché non produce ciò che voglio che produca, ma poi ho fretta di vederli camminare con le loro gambe. E, come per i figli, non credo che lo scrittore possegga la capacità di una totale autocritica; ognuno di noi cerca di fare del suo meglio, è ovvio, seguendo però le proprie idee e i propri schemi. Chi si accanisce a smontare uno scritto nel tentativo di vivisezionarlo alla ricerca dell’errore non ha, secondo me, la giusta chiave di lettura. Un libro deve dare delle sensazioni prima di tutto: se ci riesce, lo scrittore ha centrato il bersaglio. Le critiche schematiche sanno più di una fredda analisi del testo e perdono di vista quella certa globalità che io trovo importante. Quando leggo un libro cerco emozioni, ed è questo che lo rende un buon libro. Ma bisogna essere pronti a qualsiasi tipo di smontaggio, chi scrive lo sa, fa parte del gioco. Però, dulcis in fundo, resta il lettore, quello puro e semplice, il più importante giudice di ogni nostra opera.
    Buona serata a tutti!

  40. Salve a tutti e un saluto particolare ad Antonella.
    A me capita d’intestardirmi su una storia per anni, semplicemente a livello di interesse – non di scrittura. Nel senso che mi cullo quell’idea e non butto giù una riga. Poi accade che qualcosa – veramente inafferrabile – intervenga a modificare questo limbo. A volte può essere un incontro casuale o la consapevolezza d’aver raggiunto il limite del trampolino e mi tuffo.
    A quel punto so che vorrei scrivere il libro, ma non è detto che ci riesca perché subentra il vero testa a testa, il braccio di ferro con la scrittura. Penso che ogni libro debba avere la sua cifra stilistica, la sua tonalità, la sua inflessione e che la scrittura debba tendere più che a raccontare una storia a giustificarsi, a rendersi autonoma. Soltanto quando riesco a trovare la cifra del racconto so che sarò in grado di terminare il libro. E di solito ci riesco. Che poi questo trovi qualcuno disposto a pubblicarlo, è un’altra storia, avventurosa, a volte entusiasmante, altre volte deprimente.
    Ciao a tutti.

  41. I MARCIAPIEDI DELL’OLIMPO

    Di Bukowski ce n’è uno solo.
    Di Raymond Carver ce n’è uno solo.
    Di Dostoevskij ce n’è uno solo.

    Loro ti guardano dal monte Olimpo
    e tu,
    sei sopra un marciapiede,
    sollevato di pochi centimetri
    rispetto al piano della strada.
    E’ inutile continuare a guardare la vetta,
    sarebbe meglio discendere quel gradino
    e ammettere la propria disfatta.

    Di Bukowski ce n’è uno solo.
    Di Raymond Carver ce n’è uno solo.
    Di Dostoevskij ce n’è uno solo.

    Scrivi e riscrivi.
    Leggi e rileggi.
    Cerchi di far assumere un aspetto decente
    ai tuoi componimenti.
    Tu lo sai che fanno schifo.
    Tu lo sai che sono geniali.
    Tu lo sai che dovresti lasciar perdere.
    Tu lo sai che devi continuare.

    Di Bukowski ce n’è uno solo.
    Di Raymond Carver ce n’è uno solo.
    Di Dostoevskij ce n’è uno solo.

    Forse lo fai per la celebrità,
    o forse no.
    Forse lo fai per comunicare,
    cercando di parlare una lingua
    che ti metta in contatto con i tuoi simili.
    Però dovresti sapere
    che è rischioso mischiarsi agli Dei.

    Di Bukowski ce n’è uno solo.
    Di Raymond Carver ce n’è uno solo.
    Di Dostoevskij ce n’è uno solo.

    Hank Chinaski ha avuto un manager.
    Carver ha avuto Gordon Lish.
    Fijodor Dostoevskij non lo so,
    suppongo che anche lui abbia avuto qualcuno.
    E tu?
    Nessun mentore all’orizzonte.
    Solo una collezione di ricevute postali
    e un paio di rifiuti da parte di editor,
    ai quali va il plauso
    di aver tentato di interpretare la tua lingua.

    Di Bukowski ce n’è uno solo.
    Di Raymond Carver ce n’è uno solo.
    Di Dostoevskij ce n’è uno solo.

    Allora ti chiedi perché lo fai
    e questa
    è l’unica volta in cui hai la risposta.

    Di Bukowski ce n’è uno solo.
    Di Raymond Carver ce n’è uno solo.
    Di Dostoevskij ce n’è uno solo.

    Lo fai,
    per avere una possibilità.
    Lo fai,
    per parlare la lingua di Charles, Ray e Fijodor.
    Lo fai,
    per domandare a loro,
    nel tono più serio che tu possa assumere,
    se nell’Olimpo
    ci sono i marciapiedi.

  42. @ Gianni Parlato:
    ho letto ora il tuo commento e visto lo sfoggio d’ esperienza, ti chiederei, ma quanti libri hai scritto? Sembri proprio un autore consumato! (faccina)
    Concordo con te quando richiami l’attenzione sul confine fra ossessione e creazione; penso sia un concetto estensibile ad ogni azione, che implica, il coinvolgimento dei sentimenti. Distinguere sempre fra un pensiero che diventa distruttivo e la possibilità di creare. L’ossessione, che molte volte è mascherata con la tecnica, ci fa ripiegare su noi stessi e nel caso della scrittura, riduce l’idea fondante generata dalla fantasia, a un pretesto di stile. Bisognerebbe ricorrere ad un altro punto di vista e non necessariamente a quello di un estraneo; rileggere o riprendere il lavoro dopo aver fatto altro, quando la fantasia è stata rigenerata. E così rinasce la passione, come dici tu.
    Miriam

  43. @ Miriam
    quello dell’ossessione è un tema affascinante… anche dal punto di vista della pittura. Mi verrebbe da fare una domanda: che relazione c’è (se c’è) tra arte e ossessione?
    [vi porto fuori tema, lo so… Rimproveratemi! :-)]

  44. @ Filippo Tuena
    Bentornato da queste parti, caro Filippo!!!

    Hai scritto: “A me capita d’intestardirmi su una storia per anni, semplicemente a livello di interesse – non di scrittura. Nel senso che mi cullo quell’idea e non butto giù una riga. Poi accade che qualcosa…”
    Qual è stato il tuo libro con la gestazione più lunga? Ti va di raccontarci?

  45. Anch’io, come Simonoir, sono webbosamente discontinuo, e me ne scuso.
    Trovo interessantissimo il thread, per quel che riguarda la parte relativa all’industria letteraria.
    Di Antonella ho letto praticamente l’opera omnia, ed ho rilevato la tensione professionale che ci mette: ha una sua voce ben distinta, ma nessun libro somiglia all’altro.
    Certo, se per raggiungere questo risultato uno deve macerarsi tanto, forse forse converrebbe darsi al burraco.
    Scherzi a parte, credo che siamo tutti un po’ giansenisti: librini in serie, o vent’anni per un’opera che hanno letto gli happy few.
    Forse dovremmo tutti prenderci meno sul serio, autosfotterci. Sì, lo so, sono un po’ superficiale, anche se vi confesso che mi accingo a fare la terza riscrittura di un poliziesco cui sto lavorando dal 1992 (la prima parziale stesura è stata, anzi fu, fatta con una Olivetti lettera 35…).
    Baci a abbracci a tutte/i

  46. Mi unisco a Massimo nel chiedere a Filppo Tuena (che saluto affettuosamente!) di raccontarci delle sue gestazioni letterarie!
    Filippo ha scritto, come tutti sapete, libri straordinari.
    Grazie anche a Pippo (caro Pippo, certo, sarebbe meglio mettersi a giocare a Burraco ma proprio non si può smettere di essere ciò che si è. La vita, a volte, è una cosa scherzosa tuttavia impone che non la si eviti all’infinito..), a Simonetta e a tutti gli altri interventi.
    Per Massimo che solleva IL problema, con l’articolo maiuscolo: ossessione e arte sono la stessa cosa, ahimè…
    Molti baci
    Antonella

  47. Rispondo un po’ in ritardo.
    Il libro più immediato è stato Il volo dell’occasione. Scritto in meno di due mesi. Anche Le variazioni Reinach è stato un colpo di fulmine. Un’illuminazione mentre visitavo il Musée Camondo. Un paio di mesi dopo incominciavo a scrivere il libro che è uscito quasi tre anni dopo.
    Quelli più lontani, forse i libri su Michelangelo anche perché occorreva molto tempo per raccogliere il materiale. La prima volta che mi sono interessato a lui dev’essere stato nel 1985, e la prima versione della Grande ombra è uscito nel 2001. Occhio e croce 16 anni. Se pensi che proprio adesso sta uscendo una nuova versione, siamo a 23 anni… Davvero ero un altro uomo quando mi sono imbattuto in lui.
    Anche Ultimo parallelo ha un percorso lontano anche se meno continuativo.
    Il primo incontro con Scott e il Polo sud è stato ai tempi del ginnasio – parlo del 1969. anche se poi è praticamente scomparso dai miei interessi per molti anni. E’ rispuntato, figurati, nel 2006. Non so perché abbia resistito così tanto prima di pretendere che me ne occupassi. Ma è stato così.
    Come dicevo per me è fondamentale trovare lo stile adatto alla storia. Il modo di raccontarla perché appaia convincente, efficace, credibile. Tante volte è solo una questione di saper aspettare.

  48. @ Miriam…
    Non sono un ‘consumato scrittore’ ; ma soltanto consumato dal termine “scrittore”(che non riesco a capire cosa significhi…).
    Conosco la passione, però. Quella che ti prende totalmente.
    All’inizio è guidata dal piacere, in tutti i sensi, che sale dalla pancia e spinge positività e bellezza nel petto.
    Poi fa il suo decorso(anche il piacere si stanca). Sale nella testa e lì si ferma, rintuzza, “sbatte”. E’ diventata ossessione : perchè il desiderio si è scontrato con ‘stagni’ pensieri(acquisiti, più che altro…).
    Per quanta riguarda i libri, ho provato anche questo.
    Pensavo che non fosse lungo(anzi speravo, perchè prima d’iniziare a scriverlo già sentivo che sarebbe stato ‘infinito’).
    Ecco; prima d’iniziarla, una cosa, già ne senti l’energia e la spinta dentro di te. Poi ci danniamo ad accorciare i tempi, a scannarlo, odiarlo, violentarlo, finchè non reagiamo esausti…” ma sì…ma va a f…! “-.
    Poi ci distraiamo, ci allontaniamo, facciamo finta di essercene dimenticati. E un giorno la passione torna uguale, rinata, vivida, verso quella stessa creatura.
    (” Uh Maronn’!…Stai n’ata vota ccà!?…”).
    lo guardi, lo leggi, magari ti meravigli di te…” ho scritto quersta cosa, io?!…”.Oppure…” Già pensavo questo, io?!…”-.
    E’ strano…Come tutte le cose che si fanno guidate dalla passione(che è sempre “inconsapevole”).
    Un po’ come i figli.
    Ti assomiglia, lo hai educato, cresciuto bene… (“E brav’ a me; guarda cosa sono stato in grado di trasmettergli!…”).
    Sei fiero, contento di te stesso.
    E resti meravigliato quando -da tuo figlio, seppur così piccino, così ingenuo, scopri d’imparare qualcosa.
    Un caro saluto

  49. @Massimo Maugeri…
    Guarda, che quello della passione-ossessione, è un tema lanciato da me!…
    (ti perdono solo perchè lo chiedi a Miriam).

  50. @ Antonella
    Dici che “ossessione e arte sono la stessa cosa”. E poi aggiungi “ahimé”. 🙂
    Sono in parte d’accordo… nel senso che anche secondo me l’arte attinge spesso dalle ossessioni.
    Gli altri amici cosa ne pensano?

  51. @Massimo ed Antonella Cilento
    Io affermerei, che esse possono raggiungere una breve e momentanea simbiosi.
    L’arte richiede una profonda conoscenza dei fatti della vita, una sensibilità forte ed invadente per riportarli, una fantasia fertile e spontanea pur nell’osservanza della realtà per non finire nell’ossessione, ma sempre accesa e infuocante da riuscire a superarla senza essere posseduta.
    Ossessione potrebbe diventare una malattia, se già non la fosse, mentre arte è fertilità al limite umano possibile senza degenerare ed annullarsi, perché non imitabile, non adattabile alle esigenze del tempo.
    Così la vedo io attualmente, ma poi….
    Saluti,
    Lorenzo

  52. Carissimi amici,
    che Antonella abbia scritto un libro importante, impetuoso, fluviale (che aspetto con particolare curiosità), non è cosa di cui dubitare perchè la sua personalità e il suo talento sono tali da non consentire dubbi. Sarà affascinante, una volta uscito il suo libro, discutere con lei su quali fossero i problemi di gestazione dell’opera, e saperne di più con dati alla mano. Sul come mi pongo rispetto alla mia opera (mi pare sia questo il quesito che vien posto a chi scrive), per quanto mi riguarda la cosa si svolge in questi termini: finchè il libro non è terminato, gli regalo ore di sonno e sospiri, e gioie e sofferenze, e le curiosità che mi nascono sul mondo mentre lo sto mettendo al mondo. Non penso letteralmente ad altro. E’ sempre con me. Quando lo ritengo sufficientemente ricco, quando la sua trama s’ispessisce di tutto ciò che vi ho messo, quando s’è impregnata dei miei umori, allora è ultimato. Lo consegno e non ci penso più. Me ne libero. Se devo viaggiare da una città all’altra per parlarne al pubblico, mi sembra di riferirmi al libro scritto da un altro, perchè in realtà sono quasi sempre immerso in un nuovo libro e sto pensando a quello. I libri passati appartengono agli altri e il problema non mi riguarda più. Personalmente mi rallegra sapere (come so) che ognuno dei miei sei romanzi ha i suoi aficionados che lo amano, anche il meno venduto che è “Non vedrò mai Calcutta” (e ha addirittura, con mia somma sorpresa, un Fan Club a Monaco di Baviera). Se ognuno dei miei libri può essere quello preferito da almeno un lettore, se nessuno dei sei è ritenuto sbagliato, allora non ho lavorato invano e non devo porre in discussione il mio metodo. Passando invece a parlare del mercato editoriale, potreste pensare che Antonella è pessimista quando dice che, alla pubblicazione di un libro, noi scrittori siamo attesi al varco da chi ci vuole male. Io sono più pessimista di lei perchè dico che abitualmente nessuno prova interesse per i libri che scriviamo (sono assenti critici degni di tal nome e non tutti gli editori seguono quel che pubblicano), ma sono tutti pronti a linciarci nel caso superassimo un certo tetto di vendite. Se affondi nell’insuccesso non esisti, se hai successo ti fanno a pezzi. L’invidia colpisce ancora… Abbraccio Antonella, Massimo, Maria Lucia, Miriam (mai dimenticherò che hai detto della mia Laura che nel finale di “Presto ti sveglierai” la immagini mentre solca il mare sulla barca della Speranza) e tutti gli altri amici di Letteratitudine, vostro Francesco Costa

  53. Grazie, Lorenzo. Un saluto a te.
    Vediamo che ne pensano gli altri.

    Gianni, i tuoi diritti andranno “diritti” nel tuo portafoglio. Presenta il conto a Mr kataweb:)

  54. @Antonella
    Scherzare è proprio il modo più serio di non evitare la vita. Significa averne compreso i meccanismi, averli smontati, assorbiti e poi sul più bello dire: “No, grazie, mi fregherete comunque, ma io almeno lo so, e magari mi ritengo un po’ superiore, senza offesa”.
    Scrivere cose comiche è difficilissimo, ma molto gratificante: chi viene rappresentato di più, oggi? Sofocle, o Aristofane? Seneca, o Plauto? A parte qualche deficiente che prefirisce angosciarsi per passare il tempo, che vedete più volentieri, La dodicesima notte o il Macbeth (il Titus Andronicus essendo per i casi disperati)?

    Quanto alla prassi, Simonetta Santamaria e Maurizio De Giovanni, che scrivono cose bellissime ma decisamente angoscianti, provengono dal laboratorio umoristico di Pino Imperatore. Se nei tuoi laboratori un giorno dovesse maturare uno scrittore comico, Antonella, be’, sarebbe ristabilita la giustizia letteraria.

    Anche sui libri seriali ci andrei cauto: le tonnellate di libri seriali hanno poi permesso che maturassero i Cervantes, gli Sterne, i Dickens, I Balzac (se la penso così forse sarà perché ho fatto due esami ed una tesi in sociologia della letteratura…). E Shakespeare scriveva le soap operas del suo tempo, Dumas i fumetti.
    Certo questo è un discorso valido dove si ono formati presto i grandi stati nazionali. Da noi la letteratura era un otium tremendamente serioso delle classi aistocratiche. Il professor De Mauro fornisce un dato sconcertante e terribile: all’indomani dell’Unità del nostro paese (1860, per capirci) solo l’1% della popolazione parlava italiano (cioè, toscano, come si dice in Confessioni di un Italiano).

    Concludo il discorso con una citazione di Hemingway (di seconda mano): “Metà degli Italiani scrive, l’altra metà non legge”…

  55. Caro Pippo, tu non lo sai perché sei “nuovo” ma nel laboratorio che conduco abbiamo avuto per anni Gabriele Aprea che ci faceva scompisciare dalle risate e oggi c’è Antonella Platì che promette assai bene. La comicità è rara, assai meno quelli che credono di saper far ridere e vogliono anche dare lezioni:-)… E comunque, purtroppo, Sofocle è ancor oggi assai più rappresentato di Aristofane. Ma mi sembra che tu sposti la questione su un piano dicotomico fra serietà e risata che proprio non ci riguarda: i più grandi romanzi della storia letteraria sono sia comici che drammatici, il difficile è lì. Quanto al saper vivere di chi vuole a tutti i costi far ridere Freud e Jung avrebbero qualcosa da dire.
    I libri seriali cui mi riferivo poi non sono certo i grandissimi narratori che cito e cui tutti ci riferiamo (per altro adoro fumetti e narrativa di genere, ne sono un’accanita consumatrice), ma robette ben più banali che passano anche per letterarie…
    Veniamo invece a cose più serie: grazie infinite a Filippo per aver raccontato dei suoi libri e a Francesco per le cose incoraggianti che da combattenti letterari condividiamo.
    Un abbraccio
    Antonella

  56. @ Massimo: ebbene sì, Simonoir è un nomignolo che mi ha appiccicato il mio amico Claudio Calveri e che da quel dì non mi molla più. Nell’intestazione del sito, sui biglietti da visita, sul myspace, per tutti sono Simonetta “Simonoir” Santamaria. O “mammacabra” come mi definisce mio figlio 🙂

    @ Pippo: ciao SuperPippo, bentrovato! Una piccola precisazione: io non ho mai frequentato il laboratorio Campanile (te la immagini una macabra come me…) ma mi piace l’ironia, per questo sono entrata nella cricca dei Sacripanti. L’ironia è più complessa rispetto alla comicità, come lo splatter nell’horror è più facilmente riproducibile rispetto alla Paura. Resta il fatto che non distinguerei la grandezza di un’opera per genere perché non credo nelle sottoclassi. Fosse per me non lo specificherei neppure sulle copertine dei libri, la classificazione genera dei pregiudizi spesso infondati; io mi lascio guidare dalla quarta di copertina.

    @ Antonella: innanzitutto ciao! Gabriele Aprea è un bravissimo umorista e sono convinta che sarebbe capace di scrivere anche un perfetto romanzo drammatico, se solo ce l’avesse nelle corde. Partendo dal tuo laboratorio ha semplicemente trovato la sua strada, e forse questo potrebbe essere uno degli aspetti più importanti di un laboratorio di scrittura. Svelarti.

  57. Cari/e,
    nell’auguravi Buon Natale, vi segnalo che da lunedì 22, martedì 23, mercoledì 24 e venerdì 26 dalle 16 alle 16.30 andrà in onda su RAI RADIO 3 nell’ambito di Storyville (Fahreneith) un mio racconto letto (ahimè…) da me medesima… Se mentre fate i pacchetti o preparate la cena di Natale trovate le frequenze di Radio 3, “Scisciano Paradise” vi terrà, spero, compagnia.
    —-
    Scisciano Paradise è la storia di Geghegé, erede di una stirpe di straccivendoli di Resina, innamorato, come suo padre, della musica americana è destinato a una vita di geniali occupazioni d’occasione fra Napoli, Scisciano ed Ercolano. Geghegé è un opportunista e un teatrante, uno che se la cava sempre, ma, proprio quando sembra aver trovato una vera professione, quella di costumista teatrale, il destino gli gioca uno scherzo misterioso: il demone del gioco si impadronisce di lui e lo precipita fra le braccia di Ivano, promotore finanziario e truffatore.

    Auguri!!!

    Antonella Cilento
    http://www.lalineascritta.it

  58. Ah, Antonella, congratulazioni: mi piazzo su Internet alle ore 16,00, mi collego a RADIO TRE e ti ascolto! Brava! La trama e’ avvincente (pero’ io preferisco la Nuova Compagnia di Canto Popolare) e non ne perdero’ una sillaba.
    Auguroni!
    Sergio
    P.S.
    Dopo potro’ commentarti qui?

  59. Ascolato ”Scisciano Paradise”: molto bello! Attendo le altre puntate (giovedi’ pausa ha detto l’annunciatore di RADIO TRE).

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