LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » zerounoundici http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 RECENSIONI INCROCIATE n. 8: Giorgio Morale, Roberto Plevano http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/21/recensioni-incrociate-n-8-giorgio-morale-roberto-plevano/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/21/recensioni-incrociate-n-8-giorgio-morale-roberto-plevano/#comments Thu, 21 May 2009 20:03:26 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/21/recensioni-incrociate-n-8-giorgio-morale-roberto-plevano/ recensioni-incrociate.jpgNuova puntata delle “recensioni incrociate” di Letteratitudine. Gli scrittori/ospiti coinvolti sono Giorgio Morale e Roberto Plevano. Entrambi gli autori fanno parte della redazione del blog “La poesia e lo spirito“.

I libri oggetto delle recensioni sono ”Acasadidio“, di Giorgio Morale, e “100 miglia” di Roberto Plevano

Due libri diversi, ma che – forse – hanno tratti in comune nella gestione dei rapporti umani e famigliari.
100 miglia racconta il volo, il sogno, e nel volo… la libertà suprema, la scrittura. Acasadidio, fotografa – tra le altre cose – le ristrettezze dell’ufficio, una Milano chiusa e intabarrata nei soliti ritmi, l’oscurità di mura di uno “stabile vecchio, volutamente povero”, “angustia dell’ingresso, oscurità delle scale, locali tutti uguali”, “dappertutto crocifissi ai muri, madonne, frasi del vangelo e di madre Teresa di Calcutta”. Una casa di Dio ben impiantata che però nasconde giochi truffaldini e impasti della solita Italia… e le distorsioni di alcune organizzazioni di volontariato.

Così vi domando:

Che rapporti avete con il “volo”?
Avete mai sognato di volare?
Cosa vuol dire sognare di volare: libertà o desideri inappagati? Cosa fu per Icaro?
E la scrittura – come il volo – è libertà o desiderio inappagato? Pienezza o mancanza?

E poi…

L’oscurità (rappresentata dalle angustie dell’ufficio) è solo smarrimento, dovere?
O anche il dovere è libertà?
Che rapporti avete con il mondo del volontariato?
Cosa ne pensate?

Di seguito potrete leggere le recensioni incrociate dei due scrittori/ospiti di questa puntata.

Vi chiedo di interagire con Giorgio Morale e Roberto Plevano, che parteciperanno alla discussione. Come dico sempre… che ciascuno di voi faccia il giornalista culturale e ponga delle domande per scoprire (insieme) cosa offrono questi due libri. Chi ha già avuto modo di leggerli è pure invitato a esprimere la propria opinione.

Massimo Maugeri

Extrapost: domani pomeriggio sarò ospite della trasmissione culturale condotta da Mariella Alì a Radio Catania: h. 17-19 circa. Sono previsti gli interventi di Roberto Alajmo e Simona Lo Iacono. La trasmissione si può ascoltare in diretta collegandosi al sito: www.radiocatania.it

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100 MIGLIA di Roberto Plevano
Recensione di Giorgio Morale

Ci sono sere d’estate in cui il mondo è in attesa di qualcosa che non arriva e s’invoca la cessazione di tutto. Ci si affaccia alla finestra e si guarda. È tutto pieno, di sostanze diverse ma ugualmente compatte: case, aria, nuvole. È come essere in un sommergibile o in una tenda a ossigeno. Né vivi né morti, sospesi fra due regni, come gli eroi greci morti senza sepoltura. Si anela al vuoto – chissà quando, chissà dove. Come soccorrerebbe allora un’immagine come questa:

“Era come sospeso a qualche filo invisibile che aveva come punto d’origine il puro nulla, e quel pendolo aereo privo di perno pareva comunque un muoversi con segreta regolarità di oscillazione. O era a tratti un galleggiare su polle e cascate create e disfatte a ogni istante nel silenzio dell’incerto e pur così continuo procedere” (p. 9).

Di tutti i sogni dell’uomo, il volo, pur da tempo tradotto dai sogni alla realtà, pare conservarsi inalterato: forse per essere legato al desiderio inesauribile di libertà, di acquisire una leggerezza che superi la gravità naturale. O forse perché è quello che più ci equipara agli uccelli, gli esseri felici per eccellenza, come ebbe a definirli l’operetta leopardiana. E anche qui c’è una sorta di elogio degli uccelli da parte di un istruttore di volo, strana figura di puro di cuore e truffaldino al contempo, in un discorso a metà tra Leopardi e Francesco d’Assisi:

“Gli uccelli… sono nostri amici. Sono come nostri fratelli. Fratelli maggiori. Ci mostrano l’aria, ci segnalano dove si sale, e dove c’è turbolenza. Osservare sempre! Gli uccelli sono allegri, cantano, e più sono contenti, meglio cantano e meglio volano! Si divertono quando volano. Nessun animale si diverte come loro, volano e cantano e ci insegnano! Aria buona, uccelli cantano!” (p. 133).

Tutto un immaginario mitico e mediterraneo si mescola ad arditezze poetiche e filosofiche, da Icaro a Baudelaire a Nietzsche, nel rinverdire continuamente questo sogno. Come si vorrebbe, noi stessi, poter dire così!

“I rumori, tutti, cessarono… E improvvisamente il mondo si srotolò davanti a me, prese a scorrere a una velocità ridicola… scorrevo anch’io incontro a esso. E non capivo, non sapevo che cos’era, il quadro di riferimenti spaziali che era nato con me e che mi aveva accompagnato fin dai primi miei passi era sconvolto… la terza dimensione era entrata in me con la vertigine e la meraviglia, e poi allargava la cavità del mio petto con una grande euforia” (p. 24).

La citazione di p. 9 è il primo contatto col parapendio, nel romanzo 100 miglia di Roberto Plevano, da parte del protagonista Luca; quella di p. 24 è la sua prima esperienza di volo.

Alcune delle pagine più felici del romanzo sono quelle dedicate al volo:

“È come un conflitto di naturali armonie, la gravità che ti blocca a terra dove sei nato, la spinta che porta in alto, che pare il compiersi di un’antica promessa. Cambia il respiro, cambia la percezione del tuo corpo, una liquida vibrazione comincia ad agitare i polmoni e lo stomaco… sentivo nel corpo la felicità dell’asino che raglia, la gioia del gallo all’alba, la completezza organica dei sensi nell’esercizio dell’azione perfetta e funzionanti in concordia. È una specie di vibrazione interna, il canto della carne” (p. 122).

E una delle scene più toccanti in assoluto è quella in cui uno spettatore non riesce a trattenere l’emozione al vedere uno stormo di cicogne che vola per un tratto appaiato a un gruppo di umani:

“Aprì la bocca, e d’improvviso il suo corpo fu preso da una specie di fremito convulso. Ero dietro di lui e pensai a una fitta di tosse. Erano singhiozzi invece. L’uomo piangeva, come chi non aveva più conosciuto lacrime dagli anni dei giochi e la chiusa delle acque dell’anima fosse andata in frantumi, per lunga usura, in un momento. ‘Ma dove vanno? Dove vanno? Le hai viste? Dove vanno?’. Non riuscì a dire altro, la voce rotta da singulti, un pianto dirotto” (p. 126).

* * *

Lo spirito della gravità in 100 miglia è rappresentato dallo spirito del tempo, in cui “anche i più semplici rapporti personali sono avvelenati da interessi nascosti e da continue manipolazioni” (p. 41), da una “società spuria, che a lungo, nel disinteresse generale, ha incubate alcune malattie degenerative di diagnosi difficile e impossibile cura” (p. 34). In cui “tutti, tutti! Si lamentano che è dura, lavorano tanto, che non hanno tempo, che è sempre più complicato” (p. 53). È rappresentato da una società che presenta una realtà capovolta, in cui ci sono “McDonald’s e simili che vendono cibo che non nutre, delle canzoni che non sono musica, professori che non insegnano… medici che ammazzano… giudici che vendono sentenze per un appartamento in centro,… ricchi che sono poveri e viceversa… partiti che sono club… politica che non è più governo,… arte che è mera esibizione,… religioni fai-da-te con tessera d’iscrizione a scalare secondo il reddito e il livello di plagio,… storia che è diventata successione di eventi, e che è finita, a quanto pare” (pp. 55-56). E arrivano anche sentenze come: “Benessere? Quale benessere?… non c’è nessun benessere in Italia. Ci sono solo un po’ di soldi, e finiranno in fretta” (p. 53).

Ma nella dimensione umana pesantezza e levità si intersecano, comunicano come per osmosi. Così in questo romanzo avviene ai due amici. A Luca, che per la pratica del suo sport preferito potrebbe apparire spericolato, ma in realtà vive nella provincia rassicurante e sonnolenta con moglie e bambini che riempiono il suo mondo, e al cui equilibrio basta l’evasione del volo una volta la settimana. E a Renato, che, dopo l’illusione di un progetto di ricerca in America abortito per l’ignoranza e la corruzione degli ambienti universitari, è diventato agente di commercio, ma anche lui si scoprirà coltivare una sua via per la libertà.

Cento miglia di volo è il percorso che il protagonista Luca aspira a percorrere e la misura della sua libertà, mentre le cento miglia di Renato sono un volumone che Luca trova nell’abitazione, dopo la morte prematura dell’amico in un incidente automobilistico: è come se lo stesso soffio diventasse il vento che alimenta il volo di Renato e lo spirito che ispira la scrittura di Luca. Nel volumone, nonostante l’amarezza della sua esperienza del mondo, perennemente sulle soglie della disillusione e della tragedia, Renato ha salvato grazie alla scrittura la gioventù sua e del suo gruppo di amici. Proprio lui, che sembrava il più lontano dalla scrittura e mai aveva lasciato trapelare questa passione.

Anche se lo stesso Renato lo aveva dichiarato, parlando con l’amico: alla scrittura va affidata “la mia esperienza, quello che ho passato, amicizie, lavoro, amori, affetti, diventare adulti, e la fine della giovinezza… è stata tutta roba abbastanza inaspettata, cioè non l’ho riconosciuta in nessuna storia che ho letto finora”. E anche Anna: “A sentire sulla carne certe verità, che cos’altro si può fare se non lasciare un segno, scrivere, se si può? Può essere una testimonianza… scrivere è una validazione dell’esperienza” (p. 209).

Fa da contraltare ai due amici Anna, l’amore giovanile di Renato, che “Fin da bambina era stata attenta a quello che la circondava. Se anche non capiva subito il mondo intorno, la fede nell’intelligenza delle cose non veniva meno, quasi mai… era sempre un pensare: perché le cose sono così? Perché le persone fanno così?… ‘Il dolore c’è, il male c’è, il male c’è!’. Non era più un pensiero, era un riscontro spassionato, la lettura di una cartella clinica, una mesta constatazione della prognosi infausta… C’era il suo dovere, solo il dovere” (pp. 25-29).

Ma anche lei: con il suo senso del dovere e la sua decisionalità, professionista in carriera e al contempo moglie e madre, colei che come una Parca recide definitivamente i fili con il passato rifiutando la pubblicazione postuma del manoscritto di Renato presso la casa editrice per cui lavora: anche lei è protagonista di una squallida relazione extraconiugale. Insomma, tutte le vite sembrano a metà e pare potersi applicare a tutti i personaggi la sentenza che nella vita non c’è relazione tra intenti e risultati. La fine della giovinezza pare capovolgere i sogni, e forse questo libro, questo 100 miglia, rappresenta per lo stesso autore Roberto Plevano il prolungamento della giovinezza con il compimento di un sogno.

E allora si capisce quanto afferma Luca, che la ricerca vera, nel volo, nonostante le comuni proiezioni e, confesso, anche le mie, non sia la nozione di libertà: “quella è rudimentale. La storia sta nel pilotaggio, che è un’idea di se stessi” (p. 150).

* * *

Roberto Plevano è scrittore colto e ironico. Il suo testo fa rivivere figure mitiche e occhieggia ai classici della letteratura e della filosofia. Il romanzo si fa metaromanzo, dove la stessa penna dello scrittore esercita il suo spirito critico riflettendo sulla scrittura, ad esempio quando affida ad Anna una sorta di definizione della sua opera: “Non c’è una storia, una struttura, un’unità di proposito” (p. 211). In realtà la mancanza di una storia non è un problema. Nonostante gli strilli del mercato che la invoca, la tradizione novecentesca dovrebbe averci immunizzato dalla soggezione alla dittatura della storia – dovrebbe: anche se sappiamo che tuttora non è del tutto così.

Il problema in 100 miglia mi pare risiedere nella struttura. Le storie di Luca e Renato non sono ben intrecciate né procedono parallele, cosicché solo nelle ultime pagine si realizza pienamente la funzione del personaggio di Renato. Mentre la vicenda di Luca (il volo) è raccontata in presa diretta, quella di Renato emerge solo nei racconti in flash back, per cui il suo percorso perde in forza e immediatezza. Le note sullo Zeitgeist anziché essere fatte figura e storia sono affidate ai discorsi di Luca e Renato a tavolino e talvolta appaiono come digressioni non sempre necessarie.

Una maggiore sintesi e una migliore organizzazione della materia potrebbero permettere di gustare in pieno la scrittura sicura e curata e l’insieme dell’opera, in cui sono da ricordare, oltre alle già citate pagine sul volo e quelle su Jacek, quelle sulla corsa di Anna in bicicletta, quelle sulle montagne, sul primo bacio tra Renato e Anna, e quelle finali, che, malgrado l’intenzione parodistica della ripresa della petrarchesca ascesa al monte Ventoso, hanno la trasparenza e lo spessore delle migliori pagine di Plevano, quelle in cui è minore il controllo e l’autore riesce a coniugare armonicamente sensibilità e cultura.

Le critiche sono doverose. Tuttavia 100 miglia è un romanzo insolito, e forse l’intenzione dell’autore non era quella di confezionare un lavoro “riuscito”, calibrato, rispettoso di una certa organizzazione, di regole di costruzione del testo, ecc., bensì quello di presentare vario materiale narrativo e metterlo al servizio della comunicazione di un’esperienza assai particolare: a mia conoscenza, infatti, questa è la prima opera narrativa in assoluto che abbia il volo libero come tema principale. Dal momento però che il volo è materia preferibilmente trattata nel suo valore metaforico (anche se 100 miglia prende il suo materiale in termini molto letterali), rimane allora un interrogativo inevaso a proposito del destinatario implicito di questo testo, che non pare confinato nella cerchia di chi per sorte abbia condiviso questa esperienza.

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Acasadidio di Giorgio Morale
Recensione di Roberto Plevano

Oggetti umili, luoghi a margine, situazioni quotidiane, i piccoli piaceri soffocati nel fastidio delle abitudini moleste: una caffettiera pronta dalla sera sul fornello, l’ufficio nell’“estrema periferia”, “alle spalle le macchine sulla tangenziale”. Impiegate che arrivano alla spicciolata, stanche e incazzate già a metà mattina.
Il romanzo Acasadidio di Giorgio Morale (2008 Manni Editori) si apre con l’umore amaro di una consueta grigia mattina milanese, che sembra stendere una coltre di claustrofobia sopra ogni gesto e ogni ambiente.
E il racconto sembra via via fermarsi di proposito in luoghi circoscritti; non andare, con lo sguardo, oltre il chiuso dell’ufficio, e poi l’abitacolo del tramvai, qualche via cittadina sul cammino di casa, o il collegio di suore imposto per decoro piccolo borghese a una giovane inquieta, la vecchia casa di famiglia dalle stanze chiuse, che rimandano alle stanze chiuse della memoria che trattengono i ricordi, le cose salvate di una passata, inconsapevole, e non proprio rimpianta infanzia, affollati atrî e uffici di questura, o la luce fredda, compressa, di un obitorio, il dolore muto di una madre, che ammutolisce il narratore: “non mi lasciava una parola in bocca”.
L’ufficio, “stabile vecchio, volutamente povero”, “angustia dell’ingresso, oscurità delle scale, locali tutti uguali”, “dappertutto crocifissi ai muri, madonne, frasi del vangelo e di madre Teresa di Calcutta”, è un centro di “volontariato” che ha in gestione l’accoglienza e l’avviamento al lavoro degli immigrati: le necessità e i drammi degli ultimi arrivati. In realtà un luogo che l’italico genio, e la retorica dell’impresa, ha trasformato in un pretesto, uno dei tanti in città, di speculare attraverso clientele, appropriazione di denaro pubblico e favori incrociati. La modestia esteriore, l’impronta confessionale, la finzione del volontariato e la locazione periferica, a casa di Dio appunto, sono gli studiati camuffamenti con cui si dissimula il fulcro della via lombarda, e italiana, sgangherata e truffaldina, alle politiche dell’immigrazione, dietro copertura di “servizio” e iniziativa privata: “indirizzano i poveretti da famiglie facoltose del loro partito o da aziende della Bassa della loro congrega – per essere più forti si sono messi in una Compagnia che ha sbaragliato la concorrenza. Così riforniscono i loro amici di manodopera a basso costo e per di più sono pagati dallo Stato perché trovano lavoro. Come se non bastasse, hanno il riconoscimento morale”. Piana allusione alla struttura di potere della Compagnia delle Opere, e tuttavia Morale si concentra sui caratteri dei personaggi piuttosto che sulla descrizione dei meccanismi di malaffare e di connivenza delle istituzioni.
Il romanzo alterna, in modo un po’ schematico, due piani narrativi.
Molte le storie che si dipanano dalla racchiusa unità di luogo dell’ufficio. Da qui procede il racconto impersonale dell’andirivieni delle faccende di lavoro ed esistenziali dei vari personaggi. Teresa è l’impiegata (forse l’unica in autentica buona fede) che apre l’ufficio, e in un certo senso ne custodisce sempre le chiavi. Il direttore faccendiere, figlio di immigrati meridionali, passato da una gioventù di ristrettezze al caparbiamente e spregiudicatamente cercato successo economico e sociale. La vicecapa Martina (“ha preferenza per le mignotte nere da redimere e i cingalesi dall’aria cattolico-remissiva”), una vedova bulimica e bigotta, delusa di non vedere il figlio prete (e che vedrà assecondata, in modo imprevedibile e imbarazzante, la propria preferenza in fatto di immigrati dal figlio stesso). Ombretta, che “da ex femminista incallita, rifiuta belletti e profumi: «i deodoranti inquinano» dice”. Vanna, una chiusa, che va “diritta per la sua strada”, ostenta senso del sacrificio ma non si è mai sicuri sull’effettivo rispetto degli impegni, e si fa ingannare “da un eterno fidanzato” che nasconde una moglie in Romania. Altri personaggi maschili aggiungono carattere alla vita dell’ufficio.
Teresa prende voce direttamente nel secondo piano narrativo, che occupa i capitoli resi in prima persona e contrassegnati dalla scelta tipografica (non necessaria, a mio parere) del corsivo. Qui il narratore fornisce un commento interposto alla vita dell’ufficio e porta il lettore ad immedesimarsi con la realtà esistenziale di una giovane donna alle prese con rapporti non facili con la famiglia, con la propria stessa crescita, i suoi luoghi dell’anima, con gli uomini, con una gravidanza inattesa. Qui Morale risolve il resoconto episodico in una solida unità di resa psicologica della vita di una donna e del suo incontro con il dolore altrui, da lei accolto con l’ospitalità offerta ad Anila, una prostituta albanese dal destino segnato, e poi alla madre File, venuta in Italia a reclamarne il corpo. File è una figura straordinaria di mater dolorosa che ha in sé le risorse di dare un senso e una tenue speranza in una vicenda che ha il pathos e i lutti di un dramma tragico. File riannoda un linea spezzata di umanità prendendosi cura di Teresa durante la gravidanza e il parto.
La concisione del lavoro di Morale (30 capitoli distribuiti in 130 pagine) non deve trarre in inganno: Acasadidio è un romanzo certosinamente preparato, in cui ogni paragrafo rivela una scrittura nitida e controllata, capace di annullare ogni distanza tra lettore e fatti descritti, tra costruzione dell’impianto narrativo e piacere della lettura. Ecco, questo è il merito del romanziere, di portare il manufatto di testo, con i suoi artifici e dispositivi, a essere come una lama di bisturi che affonda nella realtà politica e sociale della crisi italiana, nella vita delle coscienze distratte e appannate. Il romanzo prende vita sul suo doppio binario di registro narrativo ed è un’importante testimonianza sullo stato dell’umanità dell’Italia nel nuovo millennio, tra emigrazione e condizione speculare del precariato degli indigeni italiani, e le incertezze della vita di tutti. Ma c’è di più.
L’intento ironico, a tratti satirico, di Morale è in realtà uno sguardo politico, che tuttavia forma solo un primo, e forse non così rilevante, livello di lettura, perché la crisi, il fallimento delle classi dirigenti, in una parola la catastrofe italiana che viene da lontano, è davvero sotto gli occhi di tutti, ad ammettere un po’ di onestà intellettuale. La letteratura, oggi in Italia, se si può parlare di letteratura di impegno civile, aggiunge un valore conoscitivo importante ma tutto sommato marginale all’analisi della realtà (e credo che molti non saranno d’accordo con questo apodittico giudizio). Il testo di Morale allora ha la forza di evocare caratteri e strutture esemplari dell’esperienza umana. Si nota, ad esempio, una marcatissima asimmetria di giudizio morale tra personaggi maschili e femminili: il presidente, il padre spirituale nel ricordo della giovane Teresa, il padre che se va, gli approfittatori che lavorano nel centro, il fidanzato albanese, sono figure insicure, disonesti, ipocriti, traditori, detentori di un’autorità usurpata, vengono sistematicamente meno alla responsabilità vera: il romanzo illustra il collasso delle pretese morali dell’autorità maschile. A Teresa, a File, più che alle donne costrette dalle, e vittime delle, aspettativi maschili, viene affidato il compito di fare da levatrici dell’unico futuro possibile, quello incerto ma che, solo, può salvare della disumanità montante del presente. Presente provvisorio, presente sotto continua emergenza, e perenne condizione umana: “escono tutti dallo stesso buco e finiscono tutti sotto la stessa terra” (pag. 123). Quando coloro che guadagnano dalla sofferenza del prossimo non ci saranno più, quando i guadagni illeciti saranno stati spesi, gli uomini e le donne continueranno a nascere e a morire.
Sotto questo aspetto, il titolo del libro oltrepassa l’ironia dell’attualità, ed esprime una dolente, amara presa d’atto del mercimonio che gli uomini hanno fatto del dovere sacro, prima che etico, della relazione di ospitalità, e proprio in nome di quella religione che dello straniero fa il prossimo. Nel romanzo Dio non parla, non c’è, fugge dalle istituzioni che gli uomini fabbricano in suo nome per dissimulare miseria, la loro miseria, e sopraffazione. Sarebbe facile arrestarsi alle considerazioni di un umanesimo laicista, la religione come superstizione, strumento di dominio, imposizione sulle coscienze, e certo Morale condivide questo clima intellettuale, ma l’immediatezza delle sofferenze rappresentate in Acasadidio chiama il compito urgente della compassione, più che dell’analisi razionale. Compassione assente in tutti i volontari del centro, tranne che in Teresa, che accanto alla compassione per l’altro impara la compassione per se stessa.
Forte di questo sentimento, Teresa al termine del romanzo compie l’unico autentico atto di libertà, decidendo di lasciare l’impiego e portare a termine la gravidanza, pur senza la presenza di un compagno e di sicurezza economica. Teresa è testimone e custode del dolore dell’oggi e dell’attesa del domani. È una degna conclusione di un romanzo toccante, in cui Morale descrive con competenza, senza compiacimento né sensazionalismo, i meccanismi di sfruttamento “legale” degli “sfigati” così come quello illegale delle giovani nigeriane e albanesi (ma potrebbero provenire da tante altre parti del mondo) nel micidiale cozzo tra strutture familiari arcaiche e la seduzione pornografica predominante nella comunicazione sociale. È la persistente materia umana della violenza e dello sradicamento. Sono i paralleli dell’inganno, dell’ipocrisia perbenistica del “padre spirituale” per nulla devoto allo spirito, della preside del collegio di suore, e dei finti fidanzati delle ragazze mandate al mercato (che diventa macello) del sesso. Le famiglie, tutte, sono acquiescenti, corrive, impotenti di fronte al male.
Le famiglie tutte. Il romanzo descrive noi, e descrive gli altri che saranno noi nel tempo di una generazione, perché la società oggi si muove in fretta, e tutto assimila. La vita più intima di tutti i personaggi di Acasadidio è inestricabilmente intrecciata con lo straniero, con l’immigrato, che già straniero non è più.
Per chi ci sarà domani, saranno duri da affrontare i risentimenti, le scie di malcontento che la nostra cecità, le nostre furbizie stanno ora depositando, con la rinuncia preventiva, stupida, demagogica, autolesionistica, al tentativo di formare una società meno ingiusta di questa.
Dobbiamo essere grati a Giorgio Morale e al suo Acasadidio per ricordare, con sobrietà e molta fermezza, queste ovvie verità.

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