LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » wu ming http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 NEW ITALIAN EPIC. Incontro con Wu Ming 1 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/02/25/new-italian-epic-incontro-con-wu-ming-1/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/02/25/new-italian-epic-incontro-con-wu-ming-1/#comments Tue, 24 Feb 2009 23:14:03 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/02/25/new-italian-epic-incontro-con-wu-ming-1/ Avete mai sentito parlare di New Italian Epic? Si tratta di un «memorandum» di teoria letteraria pubblicato on-line, e scaricato da piú di trentamila persone, poi diventato libro per i tipi di Einaudi Stile Libero. Il volume è firmato dai Wu Ming.
In queste settimane si è sviluppato un dibattito molto acceso, prima sul web e poi sulle pagine dei quotidiani. Secondo i Wu Ming, negli ultimi anni, molti romanzi italiani si sono attratti e incontrati fino a formare una vasta nebulosa, una sorta di “campo elettrostatico” letterario
La prima domanda che viene spontaneo porsi è: ma esiste davvero una “nuova epica italiana”? Sulle pagine de Il Riformista Luca Mastrantonio scrive: “No. Perché “nulla è nuovo sotto il sole”, come sta scritto nell’Ecclesiaste”; per poi aggiungere: “Sì. Se ammettiamo che qualcuno l’ha scritta per la prima volta quella frase, come ricordava Szymborska nel discorso per il Nobel”. Mastrantonio sviluppa un ragionamento molto interessante senza risparmiare critiche motivate al lavoro dei Wu Ming (vi invito a leggere il pezzo cliccando sul link indicato sopra, o qui… in coda al post).
Di seguito, invece, potete leggere un’intervista (inedita) che mi ha rilasciato Wu Ming I. La speranza è che da questa intervista, e dal pezzo di Mastrantonio, possano sorgere un’occasione di confronto e un dibattito… sereni (niente risse, please!).
Intanto vi chiedo… a vostro avviso, esiste una nuova nebulosa letteraria italiana (nel senso inteso dai Wu Ming)?

Wu Ming I parteciperà alla discussione per rispondere a vostre eventuali domande o considerazioni.

Massimo Maugeri

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INTERVISTA A WU MING I SUL “NEW ITALIAN EPIC”
di Massimo Maugeri

Se, in poche parole, dovessi spiegare cos’è il New Italian Epic (NIE) a chi non ne ha mai sentito parlare… cosa diresti?
- E’ un nome di comodo, relativo e provvisorio, che riassume una descrizione. La descrizione di un insieme di libri e di un divenire nella nostra letteratura. Semplifico al massimo: sono libri scritti da autori italiani che hanno attraversato o costeggiato la “rinascita dei generi” avvenuta negli anni Novanta, oppure – se più giovani – che a quella stagione si sono ispirati, per poi andare avanti, portandosi dietro stimoli ed esperienza ma virando per scrivere altro.
Il nome di comodo deriva da tre macro-caratteristiche, anzi, tre premesse: prendiamo in considerazione libri che siano stati scritti negli ultimi tre lustri (quindi “new”), nella peculiare situazione socio-politica italiana e in lingua italiana (quindi “Italian”), e con un respiro ampio che li distingua da certa narrativa “a corto raggio”, quella che batte i territori dell’angst generazionale o piccolo-borghese, della sempiterna “crisi dei trentenni” e “dei quarantenni”, delle decadenze languide e irresolute, con la sua poetica della piccola cerchia (spesso romana), del giovane o ex-giovane incompreso, dell’intellettuale che non sa che fare della propria vita, degli amorazzi mesti etc. L’aggettivo sostantivato “Epic” è usato anche per marcare la differenza con tutto questo. Poi, ovvio, noi lo chiamiamo “New Italian Epic”, altri se vogliono possono chiamarlo “Progetto Gemini” o “Xgfrg” o “Claudio Pedretti”. L’importante è che siamo d’accordo sull’esistenza di una nebulosa letteraria.
Queste le “poche parole”. Adesso posso espandere?

Ma certo.
- Negli ultimi quindici anni (il periodo coperto dalla cosiddetta “seconda repubblica” post-guerra fredda) abbiamo visto, letto, recepito, a volte amato tanti libri scritti in italiano. Tra questi, diversi ci sembrano avere svariate caratteristiche comuni, e si ha l’impressione che in profondità – sotto il livello delle loro trame – ci raccontino parti di una stessa, grande storia. Ce la narrano esplicitamente o, più spesso, in allegoria. Per questo possiamo considerarli un insieme, che abbiamo chiamato “nebulosa”, perché è instabile e dai contorni sfumati. Proviamo a mettere questi libri dentro quell’insieme, e vediamo cosa viene fuori dall’accostamento. Consideriamo ogni libro un sotto-insieme, e vediamo come e dove si intersecano tra loro. Molti hanno l’aspetto di romanzi storici, alcuni sembrano opere ibride tra narrativa e saggistica, altri appaiono come risultati di un superamento di noir, giallo e altri generi molto praticati in Italia a partire dagli anni Novanta. Ci sono, nella diversità delle scelte, alcune direttrici comuni (poetiche, stilistiche, tematiche, narratologiche). C’è, a nostro avviso, un’attitudine di fondo, una sensibilità comune.
Ecco, quella che si sta facendo è una lettura comparata dei libri che formano la nebulosa. E si scoprono cose intriganti. Ad esempio, che in molti viene narrata la morte di un “Vecchio” – un iniziatore, un fondatore, un pater familias – e la difficoltà, per chi viene dopo, di ereditare il mondo. Si verifica uno stallo, e nello stallo avvengono tragedie e disastri, ma è già pronta a esprimersi una soggettività diversa, “laterale” rispetto alle linee ereditarie, che scompiglia la situazione e trova vie di fuga. A volte è solo un cambiamento di sguardo, di ottica, e questo cambiamento è curativo. Altre volte, c’è proprio bisogno di un personaggio che scombussoli fino ad aprire un varco, spesso una donna.
E’, raccontata in allegoria, la situazione in cui ci troviamo oggi come Paese, come continente, come civiltà, come pianeta. Diversi libri del New Italian Epic la descrivono, e per farlo trasformano all’uopo strumenti, retoriche e morfologie che vengono dal romanzo di genere, dalla narrativa popolare, dalla cultura pop, senza per questo perdere di vista la tradizione più specificamente “letteraria”. Tutto questo armamentario viene messo al servizio di uno sguardo che abbiamo definito “obliquo”, cioè da punti di vista marginali o comunque inattesi.
Che poi questi libri siano o meno “riusciti”, ci pare secondario. Non stiamo selezionando opere per un “canone”, stiamo esplorando il modo in cui lo “spirito dei tempi” ha plasmato un filone della nostra letteratura recente. Sono fenomeni che, in altre forme, si stanno producendo anche altrove ma, poiché viviamo e operiamo in Italia – cioè una nazione a dir poco peculiare -, ci interessa prima di tutto vedere come si stiano producendo qui.

Quand’è che, per la prima volta, avete pensato alla possibilità di tracciare la mappa di una nuova epica italiana? C’è stato un “momento” particolare, un’occasione di riflessione, uno spunto o altro?
- Sì, momenti rivelatori ce ne sono stati diversi, alcuni li abbiamo raccontati nel dibattito dei mesi scorsi, altri ancora no. Stavolta provo ad andare in ordine cronologico.
Ci fu la lettura di Black Flag di Evangelisti, fatta poco dopo l’uscita del nostro 54. Entrambi i romanzi iniziavano con allegorie dell’11 Settembre, e la cosa ci colpì. All’epoca, Evangelisti non lo conoscevamo di persona.
Poco tempo dopo, nel 2003, il nostro romanzo Q uscì nel Regno Unito e in una recensione, anzi, in un autentico saggio critico sul libro, comparve l’espressione “postmodernismo proletario”. L’accento era posto sull’attributo, non sul sostantivo, segno che “postmodernismo” tout court non era sufficiente a “catturare” l’essenza del libro. E un “postmodernismo proletario” non può che comportare la contrapposizione a un postmodernismo borghese.
L’anno dopo, Q uscì anche negli Stati Uniti, e alcuni recensori ci parvero fraintendere totalmente senso e spirito del romanzo. Sul Washington Post un tizio, nell’affermare che Q non diceva nulla di nuovo, disse che quelle cose si erano già lette in… Tristram Shandy. Un paragone che sarebbe apparso assurdo a chiunque, qui in Europa. Cercammo di capire la motivazione di un parallelismo tanto bislacco, e la trovammo nell’assunto di partenza del recensore: Q come mero giochino letterario postmoderno, rimpasto di clichés in modo da comporre un anti-romanzo. In Europa – ma anche in altri ambiti in America – il libro aveva avuto interpretazioni di segno contrario: Q come romanzo-romanzo e narrazione militante, appassionata allegoria della tragedia del movimento comunista etc. Quella strana recensione americana – echeggiata da un’altra molto simile riservata due anni dopo a 54, sempre sul Washington Post – ci fece riflettere.
A fine 2006, poi, vedemmo tutti il film The Prestige di Christopher Nolan che, con tutta la sua carica perturbante, ci fece sentire stranamente “a casa”. Discutendone, trovammo nel film diverse cose che noi e altri autori stavamo cercando di esprimere da anni.
Infine, nel 2007, ci fu l’uscita in simultanea del nostro Manituana e di Nelle mani giuste di Giancarlo De Cataldo. Nel memorandum è descritta la sensazione provata leggendo il secondo dopo aver lavorato tre anni al primo. In superficie, due libri diversissimi; più in profondità, un “mitologema” comune, quello descritto poco fa: la morte del Vecchio, l’eredità impossibile, il mondo salvato da una donna… Probabilmente, in nessuno dei due casi si tratta dell’opera più riuscita del suo autore (credo che le palme spettino ancora, rispettivamente, a 54 e Romanzo criminale, anche quelli usciti lo stesso anno, il 2002). Ma sono, tra i libri del NIE, quelli più “trasparenti” per quel che riguarda l’allegoria comune.

Cosa bisogna intendere esattamente con il termine “epic”?
- Nella versione 3.0 del memorandum c’è – nello scritto intitolato “Sentimiento nuevo” – una specie di formula dell’epica come la intendiamo: MAGNITUDO + PERTURBANZA = EPICA, accompagnata da una spiegazione. Aggiungo: in greco il termine “epos” vuol dire tante cose: racconto, promessa, impegno assunto pubblicamente, messaggio divino, responso di oracolo… L’epica che abbiamo in mente è giocata su tutti questi usi della parola. Questa è la connotazione particolare che intendiamo dare alla parola, ma c’è un’accezione più larga, denotativa: quella che si può trovare in qualunque buon dizionario. Nei mesi scorsi c’è chi si è scandalizzato: ma che minchia fate, usate il dizionario? Certamente! I dizionari non servono a quello? Non servono a trovare insieme un punto fermo sul significato di base di un vocabolo? Ecco, siamo ripartiti da quello, poi siamo andati oltre.

Avete tenuto conferenze negli USA (al Middlebury College, Vermont, e al MIT di Boston). Come siete stati accolti? E come è stato accolto il vostro lavoro?
- Molto bene, con grande curiosità e rispetto, però forse si dà eccessiva importanza al fatto che quelle conferenze siano avvenute in America. Noi le abbiamo citate perché in quelle occasioni i vari appunti si sono incontrati, giustapposti, modificati a vicenda, e il discorso sul NIE ha iniziato a prendere forma. Sarebbe potuto avvenire in Giappone, o a Gibilterra, o a Marotta di Fano.

Sai dirmi se, in questo momento, il NIE è oggetto di studio o interesse da parte di facoltà di lettere delle Università italiane? Il vostro lavoro, in Italia, come è stato accolto a livello accademico?
- Da due anni a questa parte, quindi è un fenomeno abbastanza nuovo, noi Wu Ming siamo spesso invitati a parlare in simposii, seminari, master e conferenze. Quasi sempre – anzi, sempre! – da docenti giovani. Ultimamente, ci chiamano a parlare del NIE, anche in compagnia di altri autori. Di rado, però, si tratta di facoltà di lettere: ci chiama più spesso chi fa ricerca sui nuovi media, sulla comunicazione, sulla rete, sul transmediale etc. Le facoltà di lettere – non tutte, ma molte sì – sono più sonnacchiose e meno propulsive. Tuttavia, qualcuno che insegna letteratura ha cominciato a invitarci. Tra qualche giorno io sarò allo IULM di Milano a parlare di New Italian Epic. Lo stesso giorno, prenderò parte a un simposio della NABA in cui si parlerà soprattutto di video, ma mi hanno chiamato perché interessava loro stabilire connessioni col discorso sul NIE.
L’accademia, ad ogni modo, ha tempi lunghi, e poi non ne esiste una sola, c’è una molteplicità di ambiti, di corsi, di istituzioni più o meno permeabili o ricettive.
Poi ci sono gli inviti di altro genere, quelli che arrivano dagli studenti dell’Onda, per momenti di auto-formazione, contro-inaugurazione, seminari alternativi etc.

Secondo te, oggi, nel nostro paese, esiste ancora una “aristocrazia letteraria”? Se sì… l’odierna “aristocrazia letteraria” nazionale come giudica il NIE? Qual è la tua percezione in merito?
- C’è gente che si crede aristocrazia, è una cosa diversa. Gente ancora convinta di trovarsi all’epicentro dei processi di legittimazione culturale, quando invece è ai margini estremi di una periferia dei discorsi e – soprattutto – delle pratiche. Tutto avviene già altrove.

C’è chi sostiene che il New Italian Epic sia una forma di autopropaganda. Cosa c’è di vero in questa tesi?
- In latino “propaganda” significa “le cose che vanno propagate”. Ora, è chiaro che se ho delle cose da dire e le ritengo buone, utili, degne di attenzione, allora mi muoverò per propagarle. Libero chi viene a contatto con esse di prenderle in considerazione o meno. Dopodiché, capisco che il nostro essere un collettivo e il nostro scrivere su una rivista on line molto seguita (Carmilla) possano incutere timore, far pensare a chissà quali “macchine di persuasione” etc. Deleuze diceva che ogni singolo creatore è già una “associazione a delinquere”, figuriamoci di noialtri cosa si può pensare! Ma questo “propagare” è dialogico, e contiene una richiesta di partecipazione. Anche una richiesta di critica. Persino le stroncature più “de panza” (persino quelle datate da visioni castali e interessi corporativi) si dimostrano utili a qualche cosa, diventano a loro volta oggetto di analisi, servono a individuare delle retoriche.

Se dovessi indicare un libro (uno solo) come simbolo per eccellenza del New Italian Epic, quale titolo citeresti?
- Le parti mancanti di Petrolio di Pasolini, che forse qualcuno sta già scrivendo.

A tuo avviso esiste una “New Epic” letteraria anche in altri paesi?
- Non esiste fenomeno nazionale che non sia articolazione o variante di qualcosa di planetario. Viviamo da secoli nell’economia-mondo, da ben prima che si parlasse di “globalizzazione”. Non c’è niente che non si presenti ovunque, mutatis mutandis. Magari i tempi sono sfasati, gli impatti sono maggiori o minori, ma prima o poi tutto si presenta ovunque. Si tratta di entrare in contatto con quel che viene scritto. Non guardo tanto all’Europa o al Nordamerica, dove troppi autori devono ancora elaborare il lutto della fine del postmoderno, bensì all’America latina (che mi sembra davvero un serbatoio inesauribile di storie, saghe, avventure), all’Africa e all’Asia. Ma soprattutto l’America latina. Il tempo del cambiamento, di solito, lo battono le cosiddette “opere-mondo” (come accadde negli anni Ottanta con I figli della mezzanotte di Rushdie). Negli anni Novanta, il messicano Paco Ignacio Taibo II° ci ha dato Senza perdere la tenerezza, monumentale biografia narrativa di Che Guevara, forse l’opera più significativa di una fase rappresentata dai libri di Taibo, Chavarria, Diez, Bonasso, Sepulveda etc. Nella decade seguente, il cileno Roberto Bolaño ci ha dato il mastodontico 2666, che ora – complici alcune “leggende nere” sull’autore nel frattempo defunto – sta facendo furore nel mondo anglosassone. Intanto, proliferano grandi narrazioni multimediali e transmediali, giochi in rete o di ruolo o di realtà alternative dall’inusitata complessità, e serie televisive che, pur diventando sempre più “difficili” e ambiziose, non rinunciano a una briciola del loro essere popular. Tutto questo va già avanti da un po’, sta accumulando spinta, e sento che siamo sull’orlo di una nuova trasformazione.

Ultima domanda sul NIE. Che tipo di riscontro ha incontrato nel pubblico dei lettori?
- Molto incoraggiante. Qui trovi la “nube di catalogazione spontanea” del New Italian Epic formata dalle libere associazioni che fanno gli iscritti ad Anobii. Su Anobii, lo dico per i profani, ciascun iscritto cura la propria “libreria”, l’elenco dei libri letti o che sta leggendo o che si propone di leggere. Ogni libro diventa un’intersezione di diversi insiemi, un luogo dove si incontrano le esperienze di migliaia di lettori. Un esempio a caso, ecco cosa risulta cercando Q. Libro presente nelle librerie di 3025 iscritti, valutato da 1837 lettori, commentato 350 volte etc.
Al momento di includere un libro, un lettore inserisce anche il “genere” o l’area di appartenenza o il campo d’azione in cui, secondo lui, quel libro si muove. Quello rinvenibile cliccando il primo link è l’elenco dei 90 libri dei quali almeno un lettore ha detto trattarsi di “New Italian Epic”. E’ una catalogazione acefala, selvaggia, orizzontale. Ovviamente, non si tratta di essere d’accordo con questa o quella scelta di catalogazione. Si tratta di dare un’occhiata alla “media algebrica” del New Italian Epic secondo una precisa comunità di lettori forti e tecnologicamente svezzati. Un bell’oggetto di indagine. Fossi uno studioso, ci farei un paper.
E’ da riflessioni come questa che è nato il memorandum. Cioè ad anni-luce di distanza da quel che stava facendo la critica in quel momento.

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NIE, il cyberbook sull’epica italiana non pacificata
(di Luca Mastrantonio)
da Il Riformista del 5 febbraio 2009

C’è una nuova epica italiana? No. Perché “nulla è nuovo sotto il sole”, come sta scritto nell’Ecclesiaste. Sì. Se ammettiamo che qualcuno l’ha scritta per la prima volta quella frase, come ricordava Szymborska nel discorso per il Nobel. Qualcosa di simile succede con un libro che, letto senza pedanterie culturali, militanza o entusiasmi “entristi”, traccia un vettore importante della letteratura italiana contemporanea. New Italian Epic, uscito settimana scorsa, è un curioso ibrido culturale. Più simile a un ogm che a un prodotto doc, sebbene pubblicato da Einaudi, è un interessante cyberbook di teoria letteraria.
Scritto dal collettivo Wu Ming, già Luther Blisset, New Italian Epic nasce un anno fa come “memorandum” sulla letteratura dell’ultimo quindicennio, pubblicato sul sito wumingfoundation e generato da un intervento di Wu Ming 1 in una università straniera. Per questo, sostengono gli autori, va lasciato in inglese. «Se si sta troppo immersi nella caciara italiota – ha detto Wu Ming 1 a Panorama – si fatica a ragionare». Sinceramente, suona un po’ snob, un po’ radical snob. Sarebbe come chiamare “brainstorming” un dibattito nato da un collettivo per mettere in discussione dal basso l’Accademia. O “gardening” l’Arcadia…
In libreria, c’è l’aggiornamento cartaceo di un libro telematico, che ha avuto un dibattito a monte e che quindi a valle potrebbe anche non produrre molto di più. Finora, il libro è stato ri-lanciato da Loredana Lipperini su Repubblica e respinto da Carla Benedetti su Libero, con una critica così liquidatoria da venire subito assimilata dai Wu Ming (che l’hanno usata come strillo sul sito): «NIE è pura autopropaganda». Vero, perché i Wu Ming mettono al centro del suo ragionare letterario Gomorra, Romanzo Criminale e se stessi, per Q e 54. Bentornati al modernismo, ribattono a chi rinfaccia loro questa auto-esegesi in vece dell’autocritica. È tipico del «canone occidentale» («chiamiamolo così anche se non è equo», scrivono, collocandovisi) essere autori e critici di se stessi.
Tra gli autori neo-epici, Giancarlo De Cataldo, Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto, Giuseppe Genna, Roberto Saviano, Valerio Evangelisti e altri fautori di una letteratura che attraverso le scritture di genere, in maniera più o meno eterodossa, hanno rinnovato la letteratura italiana. Letteratura d’eversione, intenzionata a cambiare il corso delle cose, a tratti d’evasione, certamente d’inversione, cioè revisione della storia italiana e non solo, ripercorsa in senso “ostinato e contrario”. La fiducia nel “romanzo”, anzi, nel contro-romanzo, suona come la riscossione di una scommessa vinta.
Così la quarta di copertina: «La letteratura non deve, non deve mai, non deve mai sentirsi in pace». Altrove, nel testo, leggiamo che «le storie sono asce da guerra da disseppellire» e «gli stolti chiamano pace il semplice allontanarsi dal fronte». Curiosamente, qualche giorno fa Alessandro Piperno sul Corriere della Sera, recensendo Albero di fumo, ha notato che tra «i libri che ho amato negli ultimi tempi mi accorgo che non ce n’è uno che non sia, in un certo modo, legato alla guerra» Da Le Benevole di Littell a Gomorra di Saviano.
Il termine post quem della NIE è il ‘93, il crollo definitivo del bipolarismo internazionale, con il Muro, e la nascita della Seconda Repubblica, in Italia. Giustamente, e simbolicamente, in un tempo che non è dopostoria, scelgono come epicentri cronologici il G8 di Genova e l’Undici settembre. Che non c’entrano nulla con Romanzo criminale, per esempio, ma che hanno “smosso” – anche stoltamente – il pensiero unico, producendo narrazioni e contro-narrazioni che ben si sposano con il cambio di prospettiva che De Cataldo ha messo in atto con il punto di vista della banda della Magliana.
Le definizioni, se efficaci, sono utili. Stabiliscono il campo di gioco, danno nomi alle cose e le idee, senza nomi, non esistono, sono cieche. Come le parole sono vuote senza idee e una verità non è nulla senza una storia che la tenga viva. Certo, “epico” per un romanzo suona come “poetica” una canzone. Ma allo spirometro, molti dei libri in questione producono un respiro lungo e profondo. Epico, certamente.
L’interesse per la NIE va al di là di ogni riserva sul merito. Cosa è epico e cosa no e perché una cosa è epica e un’altra no. Giustissima la critica all’ironia ebete di certo postmodernismo, che sabota il sistema nervoso del lettore-spettatore, sempre meno consapevole di quello che legge-vede, perché senza dolore o proiezioni del dolore non si applica conoscenza. Come avviene nell’Antologia cannibale. Precedente “commerciale” e narrativo di NIE, anch’esso powered by lo stileliberista Paolo Repetti.
Sul metodo, va detto che funziona molto la “critica creativa” che Wu Ming 2 fa fare agli alunni di una scuola cui chiede di riscrivere Il pallone di Donald Barthelme; mentre ha un retrogusto auto-referenziale la messe di interventi di autori chiamati in causa dal saggio. Può l’oggetto di uno studio legittimare lo studio stesso? Possiamo confondere conoscenza e certezza? Scommesse critiche e premesse? In fondo, non hanno sempre funzionato meglio le critiche da “poetae novi” ai “crepuscolari”? Ma NIE è un logo, oltre che un acronimo, e funziona benissimo per il suo fine. Diffondere e vendere un’idea riconoscibile.
Comunque sia, in questo saggio si sente, palpitante, il bisogno di disegnare mappe mentali tra i libri, accoppiare con più o meno giudizio autori, creare punti cospicui per rilevare posizioni e rotte dell’editoria italiana. Che è composta da editori, autori e lettori. Solo in ultima e accessoria parte, da critici. Ci possono essere risposte sbagliate (come definire UNO, cioè «Oggetti narrativi non identificati», alcune opere irregolari), ma giustamente bisogna porsi le domande: come classifichiamo Gomorra? Letteratura o giornalismo? Per Wu Ming, questo mix di fiction e non fiction, in alcuni passaggi è auto-fiction, cioè finzione su se stessa, attraverso un io ipertestimoniale narrante.
Per qualcosa di simile a uno snobismo internazionalista, o per ipercoerenza, i Wu Ming sembrano però voler risolvere molte contraddizioni del saggio con questa formula. NIE, sotto molti aspetti, sembra un software. Non a caso, su internet abbiamo avuto NIE, da scaricare, poi sempre su internet NIE 2.0 e ora, in libreria, per Einaudi, NIE 3.0. Assomiglia a Linux, un sistema che usa l’opensourcing, ma in libreria lo distribuisce Microsoft. D’altronde, i WM hanno sempre dichiarato e fatto, con sincerità autoassolutoria, guerriglia dall’interno.
Le incursioni e i prestiti da altre discipline funzionano spesso molto bene come argomentazioni narrative del saggio. Una qualità, la contaminazione disciplinare, che ricorda molto Opere mondo di Franco Moretti. Professore di letteratura all’estero, scrive a metà anni ‘90 un saggio che doveva essere sul modernismo e poi divenne un saggio sulle opere che definì “opere mondo”, cioè opere irregolari, romanzi XL, che possono fondare o rivisitare una società, che rappresentano la forma moderna dell’epica antica. Dall’Ulisse di Joyce, ovviamente, a Cent’anni di solitudine di Marquez. Allo stesso modo, mi sembra che i Wu Ming siano partiti dal postmodernismo – se lo ritrovavano appiccicato spesso addosso – e abbiano inventato, cioè trovato, questa definizione-slogan. Dà l’impressione che qualcosa di nuovo si stia muovendo davvero.
Ma allora è nuova o no questa epica? Nella quarta di copertina passa dalla qualità, nuovo, alla qualità, grosso. «Qualcosa di grosso si sta muovendo». E «New» è sicuramente l’attributo dominante, commercialmente, nella formula. Perché allora accanirsi contro il “nuovismo”, ricordando che si modifica una tradizione, più che dare corso a un’innovazione? Non ci sarebbe nulla di male ad ammettere che i Nuovi vogliono prendere il posto dei Dinosauri, (per rifarsi alla dialettica del racconto di Italo Calvino). Quando non si risolve nella dimensione “apocrifa” del NIE, sicuramente quella più felice e autentica, si oscilla tra il Qoelet, il libro della vanità del tutto, e la buona novella del Nuovo testamento.
Sulla scelta del termine “epica”, Wu Ming riconosce che l’espressione è «discutibile e discutendo», ma a fronte di una constatazione concreta, e cioè che «produce una sorta di campo elettrostatico e attirare a sé opere in apparenza difformi», sostiene un po’ in astratto «che hanno affinità profonde». Originale ma labile è il puntare, come “elementi comuni”, non su Massimi comuni denominatori, ma su Minimi comuni multipli. Alcuni legami, risultano posticci. Più solido è l’aspetto controfattuale, che avvicina la NIE alla Grammatica della fantasia di Gianni Rodari, e all’ipotesi fantastica, più che ad Alessandro Manzoni, e ai suoi Promessi sposi. Nella NIE ha spazio l’inverosimile, il contro-vero. Un altro punto di vista.
Leggendo la parte finale di Wu Ming 2, L’affabulazione obbligatoria, si arriva al cuore della NIE: la “contronarrazione”. Fa da contrappunto alla storiografia ufficiale, illuminandone i coni d’ombra, sguazzando nel fango, cambiando la prospettiva per regalare nuove profondità e punti di fuga. Con il rischio, calcolato se non voluto, di confondere le acque, pur di smuoverle. «L’unica alternativa per non subire una storia è raccontare mille storie alternative».
Se l’epica antica racconta e inventa rifondando con un mito la sua civiltà, e l’epica moderna “smitizza” una società coeva, la NIE è epica post-moderna, che racconta per sfondare o sfiancare la nazione coeva, con storie di complotti, narrazioni parallele, contro-piste e personaggi similveri che decostruiscono la memoria collettiva. Un’epica senza déi. Romanzi di contro-informazione. Forme moderne di un’epica postmoderna. Antiepica, contro-epica, epica apocrifa, antagonista. Ma volete mettere? Meglio “epica postmoderna” o New Italian Epic?

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MANITUANA. INCONTRO CON WU MING 4 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/14/manituana-incontro-con-wu-ming-4/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/14/manituana-incontro-con-wu-ming-4/#comments Mon, 14 Apr 2008 21:08:08 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/14/manituana-incontro-con-wu-ming-4/ Tempo fa, in questo post, ebbi modo di accennare all’uscita di Manituana (Einaudi, 2007, pagg. 613, euro 17,50), nuovo romanzo collettivo dei Wu Ming.

 

Oggi approfondiamo la conoscenza di questo libro/progetto grazie all’intervista che Wu Ming 4 ha rilasciato a Giulia Gadaleta in esclusiva per Letteratitudine.

Mi piacerebbe discuterne con voi.

Per favorire il dibattito ho estrapolato alcune frasi pronunciate da Wu Ming 4 (vi invito, però, a leggere con attenzione l’intera intervista) precisando, per dirla come gli stessi Wu Ming, che questo non è un romanzo a tesi, e nemmeno un romanzo-manifesto:

-               Basta sbarazzarsi delle storielle edificanti che ci hanno raccontato a scuola e immergersi nelle cronache, nelle testimonianze dirette, per rendersi conto di quanto il mito fondativo degli Stati Uniti d’America sia frutto di una grandiosa operazione ideologica.

-               L’esito del conflitto fu determinato piuttosto dalla discesa in campo al fianco dei ribelli delle grandi potenze avversarie dell’Inghilterra. Molto più delle “buone ragioni storiche”, furono Francia, Spagna e Olanda, con le loro truppe, navi e casse d’oro, a garantire il successo di Washington e compagni.

-               Nel romanzo un ufficiale britannico pronuncia una frase illuminante: “La guerra non è guerra finché il fratello non uccide il fratello”. Molto più che una rivoluzione, la guerra d’indipendenza fu una guerra civile, tra fratelli, cugini, cognati.

-               Se proprio dovessimo trarre una qualche morale dal romanzo allora sarebbe che il rimpianto non è mai una buona ragione storica. Il rimpianto non ti porta da nessuna parte, anzi, ti porta dalla parte sbagliata, quella che perde.

-               Salgari ha insegnato a noi scrittori una cosa importante, una cosa che probabilmente ha convinto molti di noi a fare quello che facciamo. E cioè che si possono raccontare storie incisive, propriamente politiche, nel linguaggio della narrativa d’avventura, cioè emozionando, divertendosi e facendo divertire. 

Di seguito potrete leggere la recensione di Ibs, l’intervista di Giulia Gadaleta a Wu Ming 4 e le prime pagine del libro.

Ma prima vi invito a gustarvi il book trailer.

Ne approfitto per invitare i Wu Ming a partecipare alla discussione.

Massimo Maugeri

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La recensione di IBS

Il nuovo romanzo del gruppo di scrittori Wu Ming, autori di 54 e prima, col nome di Luther Blissett, del grande successo Q, segna un altro ambizioso momento di riscrittura dei grandi eventi della storia mondiale, riletti attraverso una luce nuova, mai scontata e assolutamente originale. Manituana, titolo che evoca Manitù, il Grande spirito, dio degli indiani d´America, è un romanzo ambientato a fine Settecento, un tuffo nel passato del nord America, con protagonisti i nativi che vissero la guerra di indipendenza dalla parte sbagliata.
Siamo nel 1775, in una vasta estensione di terra al confine attuale tra gli Stati Uniti e il Canada, dove si trova una delle civiltà più straordinarie fiorite nel continente americano, la tollerante e “meticcia” comunità di indiani, irlandesi e scozzesi, che il suo fondatore, sir William, chiamava “Irochirlanda”. Gli Irochesi, ancora oggi studiati dagli storici come precursori dello spirito di libertà della costituzione Usa e del “melting pot” americano, costituivano una società femminista (il potere nel clan era in mano alle donne) e molto “spirituale”: era gente raffinata che, oltre a saper fare la guerra e cacciare, leggeva Voltaire, suonava il violino e aveva doti di retorica e diplomazia. Sono loro i protagonisti del romanzo, con la loro scelta di essere tra i più leali e fedeli combattenti a sostegno della Corona britannica sia contro i Francesi, nella conquista del Canada, e sia contro i coloni ribelli dalla cui insurrezione sarebbero nati gli Stati Uniti d´America. È la guerra a mandare in frantumi quel mondo di pace. La lega delle Sei nazioni, che riuniva le maggiori tribù degli Irochesi, deve scegliere se combattere, e con chi schierarsi. Il capo di guerra irochese, Thayendanega, sceglierà di condurre il suo popolo lontano, oltre il mondo che ha sempre conosciuto e, qui il romanzo rovescia l’immagine canonica del pellerossa, si alleerà con re Giorgio contro i coloni che gli rubano la terra. Thayendanega diventerà noto come Joseph Brant e molti dei più grandi capi irochesi si chiameranno con nomi europei: non erano affatto “selvaggi”, se non nel senso che in guerra, all’occorrenza, utilizzavano metodi del tipo di quelli che il generale Washington avrebbe poi ordinato nei loro confronti: vale a dire bruciare, scotennare, sterminare.

Un romanzo epico, frutto di un grande lavoro collettivo, ricco di effetti speciali, con molta azione. Otto anni fa i Wu Ming, che si firmavano ancora Luther Blissett, per spiegare come si fa a scrivere in gruppo, usarono questa immagine: “È come per il jazz: grande affiatamento, arrangiamenti collettivi e assoli individuali”.

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Intervista realizzata da Giulia Gadaleta

Nel 1775 nel territorio che va dall’attuale Stato di New York alla Pennsylvania le sei nazioni irochesi -Mohawk, Oneida, Cayuga, Onondagam, Seneca e Tuscarora – convivono prosperosamente con i coloni. Hanno combattuto la guerra franco-inglese al loro fianco e l’alleanza con sua maestà britannica ha favorito scambi commerciali ma anche convivenza e integrazione delle due comunità. Quando questa comunità meticcia resta orfana di Sir William Johnson Warraghiyagey, Commissario per gli Affari Indiani, la situazione precipita: è l’alba della rivoluzione che genererà gli Stati Uniti d’America.

Ho intervistato Wu Ming 4 in occasione della selezione di Manituana nella terzina finalista del Premio di letteratura avventurosa Emilio Salgari .

Come è nato Manituana? Quali suggestioni l’hanno messo in moto? Manituana è costruito intorno ad alcuni eventi e figure storiche realmente esistite, che fonti c’erano a questo proposito?

WM: Il romanzo nasce da una suggestione forte per la storia americana e statunitense in particolare. Gli Stati Uniti sono il paese che più di ogni altro influenza e incarna l’immaginario occidentale. Per capire la crisi attuale del cosiddetto “impero americano” abbiamo deciso di provare a raccontarne l’origine, liberandola dalla mitografia. Per farlo abbiamo scelto un punto di vista inusuale e che non si è soliti associare alla guerra d’Indipendenza, cioè quello dei nativi. In particolare quello delle Sei Nazioni irochesi, che vennero coinvolte e travolte da quel conflitto. Il materiale a disposizione è tanto, grazie al fatto che nel mondo anglosassone esiste una grande tradizione di accessibilità alle fonti primarie. Basta sbarazzarsi delle storielle edificanti che ci hanno raccontato a scuola e immergersi nelle cronache, nelle testimonianze dirette, per rendersi conto di quanto il mito fondativo degli Stati Uniti d’America sia frutto di una grandiosa operazione ideologica. Nel nostro immaginario ci sono indiani che cacciano bisonti e vanno a cavallo: è l’immagine ottocentesca tramandata dai fumetti e dal cinema western e fa riferimento al periodo successivo a Manituana.

 Cinema e fumetti hanno avuto un ruolo nello scrivere Manituana e se sì ci fai dei titoli?

WM: Per quanto riguarda i fumetti direi il Comandante Mark (per i membri del collettivo un po’ più grandicelli); ma soprattutto i volumi “americani” di Hugo Pratt, come Ticonderoga e Wheeling. Il cinema hollywoodiano ha affrontato poco e male la guerra d’Indipendenza e già questo è un fatto curioso, forse anche rivelatore di una certa cattiva coscienza. A fronte di decine di film ambientati durante la guerra di Secessione, se ne possono rintracciare davvero pochi sulla Rivoluzione americana (e quasi nessuno valido). Per quanto riguarda poi la questione nativa, in generale il cinema se n’è occupato in relazione alla conquista del West. Così è facile dimenticarsi che la grande corsa verso ovest è preceduta da due secoli e mezzo di storia condivisa.

In effetti i film che più ci hanno influenzato nella scrittura di Manituana non hanno direttamente a che fare con gli eventi del romanzo. Quello che ci si avvicina di più è L’Ultimo dei Mohicani di Michael Mann, ambientato durante la guerra anglo-francese, precedente di vent’anni la Rivoluzione. Poi direi Manto Nero, un film canadese che si ambienta nel XVII secolo e racconta la storia di un missionario gesuita mandato tra gli irochesi. Infine The New World, di Malick, che addirittura parla dei primi contatti tra coloni inglesi e nativi.

Sono pellicole che riescono a dare un’idea dell’impatto che la colonizzazione ebbe sulle popolazioni native americane e del complesso equilibrio che si sviluppò nei primi secoli della conquista.

Mi sembra che la tesi del romanzo sia che la nascita della nazione americana sia legata all’abbattimento dei confini, sia in senso fisico (la frontiera) sia in senso sociale. E’ così? In questo senso si può considerare Manituana un romanzo morale?

WM: Onestamente non lo so. Noi non scriviamo romanzi a tesi. Manituana racconta l’avventura di un clan famigliare meticcio, composto da europei e nativi, che scelgono di combattere dalla parte del re inglese per salvarguardare se stessi, i propri beni e il proprio potere. Racconta anche di come vennero spazzate via nazioni indiane dalla storia millenaria, tutt’altro che primitive e ingenue, ma che convivevano con gli europei da secoli in un sistema di interscambio reciproco, fatto di commerci, alleanze, matrimoni, viaggi diplomatici. E’ un fatto che una delle cause scatenanti della Rivoluzione fu la pressione dei coloni sui confini stabiliti dalla Corona britannica. Per blandi che fossero, quei confini salvaguardavano ancora le terre indiane. Così come è indubbio che l’Indipendenza abolì la nobiltà di nascita e il potere aristocratico sul suolo americano. Non per questo però fu una rivoluzione di classe, come sarebbe stata quella francese. Soltanto una minoranza dei coloni europei si schierò apertamente per una o per l’altra fazione e i pochi che lo fecero si divisero equamente tra le due parti in lotta. L’esito del conflitto fu determinato piuttosto dalla discesa in campo al fianco dei ribelli delle grandi potenze avversarie dell’Inghilterra. Molto più delle “buone ragioni storiche”, furono Francia, Spagna e Olanda, con le loro truppe, navi e casse d’oro, a garantire il successo di Washington e compagni. Ma questa è un’altra delle cose che non si possono dire se si vuole mantenere intatto il mito originario americano. Nei prossimi romanzi vogliamo occuparci specificamente di questo aspetto “globale” della guerra d’Indipendenza.

Rispetto a vostri precedenti romanzi, questo è un romanzo storico in senso stretto, che segue un arco temporale lineare. Non ci sono salti in avanti e indietro. Avete voluto anche qui illuminare le ombre del passato, i passaggi oscuri? Quanto vi siete affidati all’invenzione?

WM: L’andamento lineare della trama è dovuto alla scelta di riprodurre la dimensione del viaggio. In effetti si tratta di un andamento classico: anabasi e catabasi. La prima e la seconda parte narrano il viaggio dalla periferia alla capitale dell’impero; nella terza c’è il ritorno degli eroi e il dispiegarsi della guerra… per poi affrontare un nuovo esodo. Tra i protagonisti soltanto due sono inventati: Philip Lacroix ed Esther Johnson. Tutti gli altri sono storicamente vissuti, ma ovviamente noi li abbiamo interpretati a modo nostro, secondo il nostro sguardo. Se ci riferiamo agli eventi storici e biografici, quindi, di inventato in senso stretto c’è molto poco.

Alla guerra d’indipendenza americana voi attribuite il ruolo di spartiacque: dove prima c’era un sistema di regole che permetteva la convivenza dopo c’è il caos, dove c’era il meticciato dopo c’è la segregazione e lo sterminio, dove prima c’era una guerra regolamentata dopo c’è una guerra senza regole (a un certo punto uno dei personaggi commenta che tra uomini che diffidano l’uno dell’altro, non può esserci altro che una guerra senza regole). Il lettore può restare disorientato e pensare che siete dei nostalgici del colonialismo inglese…

WM: Qualcuno ha provato a farci passare per tali, in effetti… ma temo che si tratti di lettori distratti, per non dire in malafede. Da un certo punto di vista basterebbe pensare alla parte centrale del romanzo, dove la società londinese dell’epoca viene vivisezionata strato per strato, per togliersi ogni dubbio su quanta simpatia possiamo nutrire per l’impero britannico. Ma la verità è che la faccenda è più complessa. I protagonisti di Manituana, bianchi e indiani, sono lealisti, fedeli al re. Rimpiangono la pace che regnava prima della ribellione delle colonie, rimpiangono la scomparsa di Sir William Johnson, lo scaltro amministratore della Corona che governava la valle del fiume Mohawk come un magnanimo padre-padrone. Insomma rimpiangono ciò che non c’è più, e come spesso accade a chi si lascia prendere dalla nostalgia, lo idealizzano. E’ attraverso i loro occhi che il lettore vede quel passato, questo è vero. Ma a leggere bene, quel passato era tutt’altro che perfetto, dato che portava in sé i germi del presente che i protagonisti si trovano a vivere. Ad esempio portava in grembo l’invidia e il rancore dei piccoli coloni, ultimi arrivati, nei confronti dei grandi latifondisti come i Johnson. Gente che se n’era andata dall’Europa per sfuggire alle vessazioni dei nobili e se li ritrovava anche in America col beneplacito di Sua Maestà. Un aspetto questo che nel romanzo emerge con forza fin dal primo capitolo. Per non parlare della concentrazione del potere politico ed economico nella stessa persona, morta la quale, rimane un vuoto difficilmente colmabile. La concezione dinastica e familista del potere, come insegna Shakespeare, è sempre foriera di faide e guerre fratricide. Nel romanzo un ufficiale britannico pronuncia una frase illuminante: “La guerra non è guerra finché il fratello non uccide il fratello”. Molto più che una rivoluzione, la guerra d’indipendenza fu una guerra civile, tra fratelli, cugini, cognati. Manituana racconta anche questo e non fa sconti a nessuna delle due parti in campo: le efferatezze compiute dai lealisti filo-britannici non hanno niente da invidiare a quelle messe in atto dai ribelli, perché sono le stesse persone, figlie della stessa cultura, e condividono lo stesso odio. In definitiva direi che se proprio dovessimo trarre una qualche morale dal romanzo allora sarebbe che il rimpianto non è mai una buona ragione storica. Il rimpianto non ti porta da nessuna parte, anzi, ti porta dalla parte sbagliata, quella che perde. Perché, come diceva il pistolero di Il mio nome è Nessuno, “i bei tempi non sono mai esistiti”. E’ per questo che i nostri eroi sono destinati alla sconfitta senza possibilità d’appello. Se ritroveranno un principio di speranza sarà solo grazie all’idea tutta femminile, portata in seno dalle matriarche della nazione, che tra uccidere e morire esiste sempre una terza via: vivere.

La sfumatura è sottile, ma, come ho detto, noi non scriviamo romanzi-manifesto. Certo sarebbe stato più facile far vedere un Sir William Johnson cattivo, più simile al corrispettivo James Brooke salgariano, e magari i piccoli laboriosi coloni che chiedono agli amici indiani di insegnare loro le tecniche di guerriglia nei boschi, per combattere le perfide giubbe rosse. Così l’ordine delle cose come ci sono state raccontate sarebbe stato mantenuto e le anime belle avrebbero dormito sonni tranquilli. Purtroppo però le cose sono più complesse di così. E a noi le storie complesse piacciono, sono sfide narrative, mentre ci interessa poco il manicheismo di certe visioni ideologiche.

Siete arrivati in finale al premio di letteratura avventurosa Emilio Salgari. Che rapporto c’è tra la vostra scrittura e l’autore de Le tigri di Mompracem? I personaggi di Salgari come il Corsaro Nero e Sandokan sopravvivono al tempo e fanno parte stabilmente del nostro immaginario: si può ancora scrivere letteratura d’avventura e in che senso? Oppure quello che facciamo oggi è ri-scrivere? Ha un rapporto con lo scrivere in gruppo e con il pubblicare in copyleft?

WM: Parto dall’assonanza particolare, strettamente connessa a Manituana. Salgari è stato il primo narratore popolare a stigmatizzare il colonialismo europeo come nefasto e liberticida. Tuttavia mentre trasformava in eroi i pirati e i fuorilegge che resistevano all’impero britannico o spagnolo, non difendeva né il purismo etnico né – diremmo oggi – il relativismo culturale. Basta pensare al ciclo indo-malese, completamente costellato di unioni miste. Sandokan e Marianna, Tremal-Naik e Ada, Yanez e Surama (unioni queste ultime due dalle quali nascono figli meticci), o ancora Darma e Sir Moreland. Credo che per l’epoca in cui si trovava a vivere, questa sia stata l’intuizione più incredibile di Salgari. E cioè che al di là delle giuste guerre di liberazione dal colonialismo, lo scontro di civiltà sarebbe stato superato dalla creazione di una civiltà ulteriore, meticcia, plurale, comunque basata sulla possibilità di convivenza tra diversi. In secondo luogo Salgari ha insegnato a noi scrittori una cosa importante, una cosa che probabilmente ha convinto molti di noi a fare quello che facciamo. E cioè che si possono raccontare storie incisive, propriamente politiche, nel linguaggio della narrativa d’avventura, cioè emozionando, divertendosi e facendo divertire. Questa consapevolezza gli derivava direttamente dalla tradizione del fouilleton francese e – ancora prima – dal romanzo settecentesco europeo. E’ una lezione fondamentale. E’ ciò che ci fa assimilare Sandokan e il Corsaro Nero a Ho Chi Minh o Che Guevara. Con la differenza che, al contrario dei personaggi storici, la Tigre della Malesia e il conte di Ventimiglia non potranno mai deluderci.

Mi chiedi se si potrà sempre scrivere narrativa d’avventura o se piuttosto non facciamo altro che ri-scrivere. A nostro avviso non si tratta di opzioni contrapposte. In parte non facciamo che rideclinare gli stessi temi narrativi dalla notte dei tempi (anche Salgari lo faceva); in parte, quando siamo bravi, riusciamo a plasmare la stessa materia narrativa in nuove forme, attuali ed efficaci. Alla base di una scelta come quella del copyleft c’è proprio la convinzione che le storie siano un fiume inesauribile, patrimonio inalienabile dell’umanità. La sorgente si trova in una grotta sotto il cielo del paleolitico, la foce è un punto ideale sull’orizzonte. Da questo punto di vista non è corretto che qualcuno raccolga un po’ di quell’acqua in una bottiglia stabilendo che è soltanto “sua”. Le storie sono di tutti e tali devono rimanere. Noi siamo convinti di questo e quindi rendiamo liberi i diritti di riproduzione dei nostri scritti, a condizione che restino tali e nessun altro provi ad appropriarsene o a trarne profitto. In questo modo salvaguardiamo i proventi del nostro lavoro e consentiamo alle storie di circolare liberamente.

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Giulia Gadaleta è nata nel 1972. Vive a Bologna. Fa la bibliotecaria e la giornalista. Collabora con Pulp libri, Il tamburo e carmillaonline.com. E’ ideatrice e conduttrice di Mompracem, settimanale avventuroso di letteratura, un magazine settimanale in onda su Radio Città del Capo.

Da un pò di tempo ha inziato una esperienza di lettura in carcere.

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LE PRIME PAGINE DI “MANITUANA” (in copyletf dal sito Manituana)

Prologo

Lago George, colonia di New York, 8 settembre 1755.

I raggi del sole incalzavano il drappello, luce di sangue filtrava nel bosco.
L’uomo sulla barella strinse i denti, il fianco bruciava. Guardò in basso, gocce scarlatte stillavano dalla ferita.
Hendrick era morto e con lui molti guerrieri.
Rivide il vecchio capo bloccato sotto la mole del cavallo, i Caughnawaga che si avventavano su di lui.
Gli indiani non combattevano mai a cavallo, ma Hendrick non poteva più correre né saltare. Avevano dovuto issarlo sull’arcione. Quanti anni aveva? Gesù santo, aveva incontrato la regina Anna. Era Noè, Matusalemme.
Era morto combattendo il nemico. Una fine nobile, persino invidiabile, se solo si fosse trovato il cadavere per dargli sepoltura cristiana.
William Johnson lasciava andare i pensieri, un volare di rondini, mentre i portatori marciavano lungo il sentiero. Non voleva chiudere gli occhi, il dolore lo aiutava a stare sveglio. Pensò a John, il primogenito, ancora troppo giovane per la guerra. Suo figlio avrebbe ereditato la pace.
Voci e schiamazzi segnalarono l’accampamento. Le donne strillavano e inveivano, domandavano di figli e mariti.
Lo deposero dentro la tenda.
– Come vi sentite?
Riconobbe il viso arcigno e gli occhi grigi del capitano Butler. Tentò di sorridere, ottenne solo una smorfia.
– Ho l’inferno nel fianco destro.
– Segno che siete vivo. Il dottore sarà qui a momenti.
– I guerrieri di Hendrick?
– Li ho incontrati mentre tornavo qui. Scalpavano cadaveri e feriti, senza distinzione.
William reclinò il capo sul giaciglio e prese fiato. Aveva dato la sua parola a Dieskau: nessuno avrebbe infierito sui prigionieri francesi. Hendrick aveva strappato la promessa ai guerrieri, ma Hendrick era morto.
Un uomo basso entrò nella tenda, paonazzo, chiazze di sudore sulla giacca.
William Johnson sollevò la testa.
– Dottore. Ho qui una rogna per voi.
Il medico gli sfilò la giubba, aiutato dal capitano Butler. Tagliò le brache con le forbici e prese a lavare e tamponare la ferita.
– Siete fortunato. La pallottola ha toccato l’osso ed è rimbalzata via.
– Sentito, Butler? Respingo i proiettili.
Il capitano borbottò un ringraziamento a Dio e offrì uno straccio a William, perché potesse morderlo mentre il medico cauterizzava la ferita.
– Non alzatevi. Avete perso molto sangue.
– Dottore… – William aveva il volto teso e slavato, la voce era un rantolo. – I nostri uomini stanno conducendo al campo i prigionieri francesi. Tra loro c’è un ufficiale, il generale Dieskau. È ferito, forse privo di sensi. Vorrei che gli prestaste le vostre cure. Capitano, accompagnate il dottore.
Butler e il medico fecero per dire qualcosa, ma William li anticipò: – Posso restare da solo. Non morirò, ve l’assicuro.
Butler annuì senza dire nulla. I due si congedarono. Per impedirsi di svenire, William tese le orecchie e concentrò il pensiero sui rumori.
Vento a scrollare i rami.
Richiami di corvi.
Grida lontane.
Grida più vicine.
Grida di donne.
Un trambusto improvviso attraversò il campo. William pensò fosse Butler di ritorno con i prigionieri.
Guardò fuori dalla tenda. Un gruppo di guerrieri Mohawk: urlavano e piangevano, i tomahawk alti sopra le teste. Trascinavano i Caughnawaga con una corda al collo, le mani legate dietro la schiena. Le donne del campo li vessavano con calci, pugni e lanci di pietre.
Il drappello si fermò a non più di trenta iarde. Nessuno dei guerrieri guardò verso la tenda: erano dimentichi di tutto, ogni senso teso alla vendetta. Il più agitato si muoveva avanti e indietro.
– Non siete uomini. Siete cani, amici dei Francesi! Hendrick vi aveva detto di non alzare le armi contro i vostri fratelli! Vi aveva avvertiti!
Afferrò un prigioniero per i capelli, lo trascinò in ginocchio e recise lo scalpo. Quello cadde nella polvere, prese a urlare e contorcersi. Le donne lo finirono a bastonate.
William sentì il sudore gelare la pelle.
Un secondo prigioniero venne scotennato, le donne lo presero a calci prima di pugnalarlo a morte.
William pregò che tra i morituri non vi fossero bianchi. Finché rimaneva una questione tra indiani, poteva risparmiarsi di intervenire.
Hendrick era morto. Figli e fratelli erano morti. I Mohawk avevano diritto alla vendetta, purché non toccassero i Francesi: servivano per gli scambi di ostaggi.
Il terzo Caughnawaga crollò a terra con il cranio sfondato.
Al quartier generale di Albany i caporioni mandati dall’Inghilterra non volevano capire. Non si poteva combattere come in Europa. I Francesi scatenavano le tribù contro i coloni inglesi. Incursioni, incendi e saccheggi. Petite guerre, la chiamavano. I Francesi avevano un nome per ogni cosa. All’alto comando britannico serviva lo stomaco di reagire con la stessa moneta. Era in gioco il dominio su un intero continente.
L’arrivo di nuovi prigionieri interruppe le riflessioni. Civili bianchi, furieri, maniscalchi e soldati con la divisa lacera. Uno dei guerrieri trascinò fuori dal gruppo un ragazzo. Indossava l’uniforme da tamburino del reggimento.
William era spossato. Coglieva a fatica le parole, ma la sorte del ragazzino era chiara. Un altro guerriero affrontò il primo, che già mostrava il coltello.
Con le penne sul capo e il corpo dipinto, ricordavano due galli in un’arena.

– Porta la divisa dei francesi. Non puoi prendere il suo scalpo!
– L’ho sentito parlare caughnawaga.
– Hendrick ha detto che i prigionieri bianchi spettano ai padri inglesi.
– Guardalo in faccia, ti sembra un bianco?
– Se Hendrick fosse qui ti scaccerebbe.
– Io voglio vendicarlo.
– Tu lo disonori.
– Vuoi aspettare che cresca e diventi un guerriero? Meglio ucciderlo subito, ora che i traditori Caughnawaga sono in fuga e ci temono.
– Stupido! Warraghiyagey si infurierà con te.

William Johnson sentì scandire il proprio nome indiano. Warraghiyagey, «Conduce Grandi Affari». Fece leva sui gomiti, doveva intervenire.
Vide il coltello calare sulla chioma del tamburino. Riempì i polmoni per gridare.
Qualcosa colpì il guerriero al volto.
La pietra rimbalzò per terra. L’uomo lasciò la presa, portò la mano alla bocca, tossì, sputò sangue. Una sagoma piccola e veloce gli fu addosso e lo spinse via.
Un guizzo di pelle di cervo e capelli corvini. Ruggiva contro i guerrieri, che arretravano interdetti.
– Siete senza onore, – gridò la giovane donna. – Dite di voler vendicare Hendrick, ma è il denaro degli Inglesi che volete, dieci scellini per ogni scalpo indiano!
Si avvicinò al guerriero che ancora stringeva il pugnale e gli sputò addosso. L’uomo avrebbe voluto colpirla, ma lei lo incalzò.
– È poco più di un bambino. Non ha sparato un colpo. Potrebbe avere l’età di mio fratello –. Indicò un ragazzo dall’aria attenta, al margine del cerchio di donne che si era radunato intorno alla scena. – Quando avrete incassato la paga, la spenderete per comprarvi il rum. Quelli che oggi si dànno arie da grandi guerrieri, domani rotoleranno nel fango come porci.
Il guerriero le indirizzò un gesto di sdegno prima di ritirarsi.
La donna si rivolse agli altri. – Non pensate che agli scalpi, ma gli scalpi non vanno a caccia, non portano a casa il cibo, non coltivano gli orti. Siete tanto ubriachi di sangue da calpestare le nostre usanze? Oggi molte donne hanno perso figli e mariti. Vanno risarcite con nuove braccia –. Guardò il giovane tamburino dall’alto in basso. – Dobbiamo adottare i prigionieri come nuovi figli e fratelli, secondo la tradizione. La madre di mia madre fu adottata, veniva dai Grandi Laghi. Lo stesso Hendrick divenne un Mohawk in questo modo. Voi lo avreste ucciso!
Le donne si spostarono alle spalle della giovane. Insieme fronteggiarono i guerrieri. Gli uomini scambiarono occhiate incerte, poi si allontanarono con finta indifferenza e molti borbottii.

William Johnson si abbandonò sulla branda.
Conosceva quella furia, l’aveva vista bambina.
Molly, figlia del sachem Brant Canagaraduncka.
Da sola teneva testa ai guerrieri.
Decideva la sorte di un prigioniero.
Parlava come avrebbe fatto Hendrick.

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Prima parte

Irochirlanda
1775

1.

Avevano portato anche i bambini, perché un giorno lo raccontassero a figli e nipoti. Dopo molti tentativi, l’asta finì per mettersi dritta. Il Palo della Libertà.
Un tronco di betulla, pulito e levigato alla buona. Un groviglio di corda. Un rettangolo di stoffa rossa tagliato da una coperta. La bandiera del Congresso continentale.
Il comitato di sicurezza di German Flatts approvava il suo primo documento: l’adesione alle rimostranze che l’Assemblea di Albany aveva inviato al Parlamento inglese. Il pastore Bauer ne diede lettura. Il testo si concludeva con l’impegno solenne a «stare uniti, nei valori della religione, dell’onore, della giustizia e dell’amore per la Patria, allo scopo di non essere mai schiavi e difendere la propria libertà a costo della vita».
Il vessillo si preparava a salire, salutato da canti e preghiere, quando un rumore di zoccoli interruppe la cerimonia.
Una squadra di cavalieri apparve sul sagrato. Brandivano sciabole, fucili e pistole. Qualcuno sparò in aria, mentre la piccola folla cercava riparo tra le case. Restarono sullo spiazzo pochi coraggiosi. Teste impaurite facevano capolino da dietro i muri, negli spiragli delle porte e alle finestre della taverna. Un nome volò da una bocca all’altra, in un girotondo di voci.
Il nome dell’uomo che aveva fatto fuoco contro il cielo.
Sir John Johnson.
Intorno a lui, gli uomini del Dipartimento per gli Affari indiani. I suoi cognati Guy Johnson e Daniel Claus. Subito dietro, il capitano John Butler e Cormac McLeod, scherano dei Johnson e capo dei fittavoli scozzesi che lavoravano la terra del baronetto.
Mancava soltanto il vecchio patriarca del clan, Sir William, eroe della guerra contro i Francesi, signore della valle del Mohawk, morto l’anno prima.
Sir John montava un purosangue baio dal pelo lucido, fremente sotto la stretta del morso. Si sfilò dal gruppo e prese a cavalcare lungo il perimetro dello spiazzo, mentre fissava i membri del comitato con aria sprezzante, uno dopo l’altro.
Guy Johnson portò il cavallo a ridosso di una tettoia e si arrampicò là sopra con difficoltà, per via della stazza.
 – Forza, siamo qui per discutere, – disse alle case. – È questo che volete, no?
Nessuno fiatava. Sir John diede uno strattone alle briglie, il cavallo arretrò e ruotò su se stesso, fino a cedere alla volontà del padrone.
Allora qualcuno si fece coraggio. Il gruppo che fronteggiava gli uomini a cavallo si infoltì.
Guy Johnson lanciò un’occhiata severa.
– Indirizzare una petizione al Parlamento è lecito, ma issare una bandiera che non sia quella del re è sedizione. Una cosa vi copre di ridicolo, l’altra manda sulla forca.
Ancora silenzio. I membri del comitato evitavano di guardarsi per timore di cogliere un cedimento negli occhi dei compagni.
– Volete seguire l’esempio dei Bostoniani? – riprese Guy Johnson. – Due fucilate all’esercito del re e si sono montati la testa. Sua Maestà possiede la flotta più potente del mondo. È buon amico degli indiani. Controlla tutti i forti dal Canada alla Florida. Credete che i ribelli del Massachusetts otterranno molto più di un cappio al collo?
Fece una pausa, quasi volesse sentire il sangue ribollire nelle vene dei tedeschi.
– La famiglia Johnson, – proseguì calmo, – possiede terra e commercia più di tutti voi messi assieme. Saremmo i primi a stare dalla vostra parte, se davvero Sua Maestà minacciasse il diritto di fare affari.
Una voce risuonò forte: – I vostri affari non li minaccia di certo. Voi siete ricco e ammanicato. Le tasse del re strozzano noialtri.
Un coro d’assensi accolse quelle parole. Dalla cima della tettoia Guy Johnson individuò Paul Rynard, il bottaio. Una testa calda.
Lo stallone di Sir John scrollò il capo e sbuffò nervoso, rimediando un altro strattone.
Il frustino del baronetto colpì il cuoio dello stivale.
– Le tasse servono a mantenere l’esercito, – ribatté Guy Johnson. – L’esercito mantiene l’ordine nella colonia.
– L’esercito serve a voialtri per continuare a tenerci sotto! – sbottò Rynard.
Gli animi si accesero, qualcuno dei cavalieri alzò d’istinto le armi, ma un cenno di Sir John li trattenne.
– Non ancora, – sibilò il baronetto.
Guy Johnson, rosso in volto, strillò dall’alto: – Quando i Francesi e i loro indiani minacciavano le vostre terre, l’esercito lo chiedevate a gran voce! La pace vi ha reso arroganti e stupidi al punto da desiderare un’altra guerra. Fate molta attenzione, ai morti la libertà non serve.
– Ci state minacciando! – gridò Rynard.
– Tornatene in Irlanda dai tuoi amici papisti! – urlò qualcuno. Un sasso scagliato verso Guy Johnson lo mancò di poco.
Una smorfia di compiaciuto disprezzo segnò la faccia di Sir John: – Adesso.
I cavalli mossero in avanti, il comitato di sicurezza si sciolse seduta stante. Gli uomini corsero in tutte le direzioni.
Il cavallo di John Butler travolse Rynard e lo fece rotolare nel fango. Il bottaio si rialzò, cercò scampo verso la chiesa, ma Sir John gli sbarrò il passo. Il baronetto lo frustò con quanta forza aveva. Rynard si accucciò a terra, le mani sulla faccia. Tra le dita, vide McLeod sguainare la sciabola e partire al galoppo. Strisciò via, invocando la misericordia di Dio. Quando ricevette il colpo di piatto sul fondoschiena, urlò forte, tra le risate roche dei cavalieri.
Mentre Rynard si scopriva ancora vivo, gli uomini del Dipartimento si radunarono al centro dello spiazzo. Guy Johnson rimontò in sella e li raggiunse.
Un leggero colpo di speroni e Sir John fu sotto il Palo della Libertà.
Parlò in modo che tutti lo sentissero, dovunque fossero rintanati.
– Ascoltate bene! Chiunque in questa contea voglia sfidare l’autorità del re, dovrà vedersela con la mia famiglia e con il Dipartimento indiano –. I suoi occhi maligni parvero scovare gli abitanti uno a uno, oltre le finestre buie. – Lo giuro sul nome di mio padre, Sir William Johnson.
Sfilò un piede dalla staffa. Dopo un paio di calci, il Palo rovinò nel fango.

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