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mercoledì, 23 dicembre 2009

RECENSIONI INCROCIATE n. 10: Alessandro Cascio, Sergio Sozi

recensioni-incrociate.jpgQuesta nuova puntata de Le recensioni incrociate di Letteratitudine, trae origine da quest’altra che vedeva come protagonisti dell’incrocio Enrico Gregori e Francesco (Didò) Di Domenico. In quell’occasione promisi a Sergio Sozi e ad Alessandro Cascio un incrocio letterario (che avrà modo di svilupparsi – appunto - in questo post).
Devo dire che sono particolarmente lieto di questa combinazione, perché credo che Sergio Sozi e Alessandro Cascio siano molto diversi come approccio alla scrittura e come modo di scrivere. Ma quando le differenze diventano occasione di sano confronto – così come sarà nell’ambito di questa discussione -non possono che contribuire a una crescita comune.
I libri oggetto dell’incrocio sono “Menu” di Sergio Sozi (edito da Castelvecchi) e “Touch and splat” di Alessandro Cascio (edito da Historica).
Nemmeno a farlo apposta sembra che un libro faccia “il verso” all’altro (e viceversa). Se dal libro di Sozi emerge una sorta di condanna contro l’imbastardimento anglofono della lingua italiana (“parliamo una neolingua conosciuta come angloitalo“), il libro di Cascio risponde con un titolo in inglese (“Touch and splat“).
Colgo subito l’occasione, dunque, per introdurre i temi di discussione che vi propongo parallelamente a quello sui due libri.
Ecco le domande del post…

La lingua italiana rischia davvero di essere imbastardita dall’inserimento di termini provenienti da altre lingue?

Fino a che punto questa sorta di commistione può essere considerata contaminazione in senso negativo?

Qual è il discrimine e – soprattutto – chi (e come) dovrebbe decidere il limite entro cui tale commistione è arricchimento e normale evoluzione (superato il quale diventa, invece, svilimento della lingua)?

Certo, vedere la propria lingua perdere identità potrebbe generare anche rabbia…

E a proposito di rabbia (riferendomi al libro di Cascio) passiamo all’altro tema del post. E domando…

La società in cui viviamo è particolarmente rabbiosa? Più rabbiosa di quelle del passato?

Quale potrebbe essere un “giusto” antidoto contro la rabbia dilagante?

Seguono le recensioni incrociate di Alessandro e Sergio… più ulteriori recensioni dei due libri firmate da Salvo Zappulla (sul libro di Sozi) e Sacha Naspini (sul libro di Cascio).
Massimo Maugeri

(continua…)

Pubblicato in RECENSIONI INCROCIATE   390 commenti »

sabato, 12 aprile 2008

DI PROTEO E DEGLI INTRIGHI. VEIT HEINICHEN

Conoscete Veit Heinichen?

Ecco qualche cenno biografico.

È uno scrittore tedesco, nato a Villingen-Schwenningen il 26 marzo del 1957.

Si è laureato in economia a Stoccarda, ottenendo una borsa di studi della Mercedes-Benz per la quale ha anche lavorato nella sede della direzione generale. Poi ha lavorato come libraio e ha collaborato con diversi editori.

Nel 1994 è stato co-fondatore della Berlin Verlag di Berlino (diverse volte premiata come “Casa editrice dell’anno”) di cui è rimasto direttore sino al 1999.

Dal 1997 vive a Trieste, città di mare e di confine dove ha voluto ambientare i suoi romanzi. Una città che descrive nella sua complessità, tra bora e multicultura. Ogni libro approfondisce sia aspetti storici che elementi di estrema attualità offrendo sempre un piacevole quadro di una città di mare, dove si mangia bene e la cultura e l’arte hanno molto da offrire.

Il personaggio principale dei suoi libri è un poliziotto: il Commissario Proteo Laurenti, salernitano trapiantato da anni a Trieste, proprio come il suo padre letterario.

Heinichen ha ricevuto il Premio della RTV Brema 2005 per il miglior giallo 2005 (Bremer Krimipreis 2005). È stato finalista per il Premio Franco Fedeli, Bologna, 2003 e 2004, per il miglior giallo italiano dell’anno.

Ricordiamo le seguenti pubblicazioni:

I morti del Carso

Morte in lista d’attesa

A ciascuno la sua morte


Di seguito potrete leggere l’intervista realizzata da Sergio Sozi in esclusiva per Letteratitudine.

Vi invito a leggerla con attenzione perché è ricca di spunti interessanti (sui quali potremo discutere).

Intanto pongo due domande collegate, appunto, all’intervista:

Ritenete che il romanzo giallo sia particolarmente adatto a rispecchiare la società moderna? (Vi invito, se potete, a motivare la risposta).

Ritenete che le notizie dei giornali siano davvero così stereotipate come sostiene Heinichen (nell’intervista) ?

Massimo Maugeri

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Intervista a  Veit Heinichen (di Sergio Sozi)

 sergio-sozi.JPG

Ho incontrato il 22 gennaio 2008 a Lubiana lo scrittore tedesco Veit Heinichen – creatore della fortunata serie gialla del commissario Proteo Laurenti e vivente da un decennio a Trieste come il suo protagonista, poliziotto di origine meridionale (qualche titolo: I morti del Carso e A ciascuno la sua morte). I suoi romanzi sono tradotti in Italia da E/O e la serie di film televisivi che ne è stata tratta ha ottenuto in Germania nove milioni di spettatori. Una nuova serie verrà perciò nuovamente girata nel Capoluogo del Friuli-Venezia Giulia. Per venire a noi, questo è quanto scaturito dal nostro colloquio, svoltosi passeggiando tranquillamente alle undici di sera davanti al club jazzistico ”Gajo” (nel pieno centro di Lubiana), dove pochi minuti prima l’autore aveva tenuto un incontro pubblico nell’ambito del noto festival sloveno ”Fabula”.

 

Heinichen è un giallista, e noi lo conosciamo grazie ad un personaggio che è il commissario Proteo Laurenti… Ecco, noi Italiani in genere sappiamo chi è Proteus, mitologicamente parlando…

Ecco, Proteus, poveretto, è nato a Salerno e poi ha subíto tutta la classica carriera di un poliziotto tipico italiano della sua età, che veniva mandato da Sud a Nord, spedito da Ovest ad Est finché non si è inchiodato, diciamo cosí, a Trieste – una città di cui lui non sapeva tanto. Arriva a Trieste, dunque, con questo nome, Proteo Laurenti, e constata che tutti ne ridevano; perché? Perché negli abissi del Carso, nella profondità buissima dove ci sono le acque sotterraneee, vive un animaletto che ha oltre centomila anni, una specie di lucertola, priva di occhi, bianca, il cui nome scientifico è Proteus Anguinus Laurenti. Invece i genitori del personaggio pensavano ovviamente alla mitologia classica, a quel dio che riusciva a trasformarsi in qualsiasi materia e a non essere catturabile. Non sapevano che sarebbe un giorno diventato, proprio a Trieste, colui che avrebbe dovuto catturare gli altri e dunque anche scavare negli ”abissi”.

 

Ah, ecco; perciò il significato, diciamo, è metafora, piú che di ”proteiformità”, del ”vivere negli abissi”…

Sí: di vivere e scavare. E in piú c’è un altro aspetto, perché come si chiama questo animaletto in sloveno? Ecco si chiama (traduco) ”Pesciolino umano”, e infatti anche Proteo Laurenti ha i suoi lati umani… non è lo sbirro freddo: è uno che vive in contesti sociali molto forti, ha tre figli, una moglie, un’amante; diciamo che è il prototipo del cittadino italiano.

 

Già. Ma mi dica, come mai Lei – il ”burattinaio” – lo ha posto cosí: lo ha fatto emigrare dalla Campania fino ad una zona molto germanica – o almeno mitteleuropea – come quella di Trieste.

Vorrei dire che le espressioni ”mitteleuropeo o Mitteleuropa” sono state sicuramente molto superate, se parliamo del centro dell’Europa, perché i mezzi di comunicazione e di trasporto sono diventati molto veloci – rispetto a questi termini un po’ ”magrisiani” che si rivolgono indietro, all’Impero Austroungarico, e anche rispetto a queste piccole distanze. Ovviamente è una zona molto interessante, è un punto cruciale dell’Europa, perché qui si incontrano le tre grandi culture europee: quella di origine romana, quella slava e quella germanica; qui il Mediterraneo s’incontra con il mondo del Nord e dunque si incontrano le formazioni – direi quasi ”mentali” – del mare e della montagna, e, in piú, ovviamente, l’Ovest e l’Est. Inoltre questa città, Trieste, venne costruita e fatta grande e famosa da un insieme di oltre novanta etnie, cosí abbiamo anche l’insieme di Mercurio e Apollo – perché è anche una città molto forte nella Letteratura (a Trieste è sempre nata della Letteratura). Se parliamo degli ultimi due anni dell’esilio di Casanova: ebbene, in che lingua Casanova scrisse le sue memorie? In francese. Poi Stendhal (che passò a Trieste l’inverno del 1830-31) invece non la amava e diceva che sarebbe stato meglio esser rapinati da una banda di ladri catalani che esser colpiti una volta solamente dalla bora. Inoltre, in città capitò il giovane Sigmund Freud, che scriveva il suo primo discorso scientifico, cosí facendo quasi il primo errore ”freudiano”, poiché studiava gli organi sessuali dell’anguilla. Jules Verne, nel 1850, vi fece delle ricerche approfondite per un fantastico romanzo, veramente fantastico in tutti i sensi: il ”Mathias Sandorf”. E Rilke, nel castello di Duino, con le sue Elegie; Srečko Kosovel (scrittore di lingua slovena e Rimbaud del Ventesimo secolo); poi ancora Italo Svevo – che portava in sé Mercurio e Apollo perché era commerciante. Lo stesso, in seguito, per Umberto Saba ed oggi per un Boris Pahor e un Claudio Magris – Pahor, scrittore di lingua slovena, io veramente lo considero molto piú importante perché ha scritto i grandi romanzi di questo secolo, dando luce ai crimini del fascismo e ai cambiamenti in questo spazio, molto complesso, pieno di contraddizioni ma anche di ponti fra le contraddizioni.

 

Tornando alle sue opere, come mai proprio dei gialli? Da un personaggio ”proteiforme” come lei, io mi sarei aspettato magari qualcosa sullo stile del nostro Gadda oppure uno di quei falsi gialli alla maniera di Sciascia.

Mah… grande sfida. Due scrittori che io ammiro profondamente. Perché il giallo? Perché è un genere molto adatto per rispecchiare la società moderna. Se il romanzo di per sé è sempre stato uno specchio di un’area e di un’epoca, il romanzo giallo lo è ancora di piú perché si concentra molto fortemente sulle nevrosi e sugli estremi di un’area e di un’epoca. Posso anche ricordare che esistono due grandi opere della Letteratura mondiale che io ho sempre considerato come dei gialli – ”Delitto e castigo” di Dostoevskij e ”Il rosso e il nero” di Stendhal. Allora lasciamo via questi ”cassetti” in cui dobbiamo mettere le cose, lasciamo via le generalizzazioni… C’è anche della gente che mi dice: ”I tuoi libri non sono gialli, ma romanzi storici”; per me va tutto bene.

 

E sono romanzi storici, questi suoi, visto che Lei si documenta con fare certosino?

Beh: io faccio il mio lavoro, come lo faceva il grande Sciascia o anche Gadda, i quali hanno sempre descritto gli spazi in cui vivevano: erano osservatori perfetti, precisi, non lasciavano via niente. E questo fa Letteratura. Perché? Perché, in confronto agli altri media, la narrazione diventa pessima se lascia via le cose. I media oggi trattano tanto con la verità ”oppressa”, ossia con la metà della verità; mi spiegherò: non è la bugia il problema, la bugia si svela sempre da sola, ma prendendo le notizie, oggi, vediamo che una parte della verità è oppressa e l’altra parte diventa ”l’assoluto” e questo il romanzo non può farlo e il narratore ancora di meno.

 

Perciò il narratore ha il dovere, secondo Lei, di trovare una verità completa.

Per questo ha anche un mezzo che è anche molto diverso dagli altri: un libro di due, trecento pagine o perfino cinquecento; per questo, allora, lo scrittore può dare spazio a tutti: a quelli che gli piacciono e a quelli che non gli piacciono, ma, lasciandone via uno, diventa un disastro.

 

In poche parole, esiste una realtà corale all’interno di un romanzo. Il romanzo di oggi non è piú un romanzo monologante ma ”plurivoco”.

Sicuramente. E c’è un’altra cosa, poi: nessun altro mezzo e nessun altro genere dà spazio a tutti e quattro i gruppi coinvolti.

 

Mmmh… ovvero, chiarendo il concetto…

Intendo dire: gli investigatori, le vittime, i delinquenti e… chi è il quarto gruppo? Siamo tutti noi, a cui piace talmente tanto delegare il male e il bene ma soprattutto volgere le spalle a questi fatti che ci circondano. Se pensiamo al futuro e a come crearlo, servirebbe ammettere un po’ di piú che ne siamo tutti coinvolti.

 

In cosa: in un crimine? (dico sorridendo)

In tutti i crimini e in tutte le vicende e le cose che ci circondano, siano quella dell’immondizia a Napoli, siano i grandi fallimenti imprenditoriali, della Parmalat e via dicendo… dico che ne siamo tutti coinvolti. Ma ci piace troppo, stiamo ancora troppo bene per capire che queste cose ci sono e che ci circondano, ci concernono, influenzano la nostra vita.

 

Bene. Ma questa, magari, è una cosa che noi troviamo anche nei giornali. Nel senso che i giornali ce ne dànno uno spaccato.

Invece no. I giornali vivono di uno stereotipo enorme. Nessuno ci ha mai svelato, nelle ultime settimane, quante volte si sono ripetute queste cose dell’immondizia in Campania. Nessuno ricorda mai il fatto che ci sono stati almeno nove commissari straordinari coinvolti in queste cose. Nessuno scrive che ogni giorno, da dieci anni, partono dall’Italia per la Germania Ovest ed Est tre treni pieni d’immondizia (i tedeschi ovviamente ne sono contentissimi perché cosí fanno lavorare le proprie strutture). Lí, smaltire una tonnellata di rifiuti costa duecento euro – trasporto incluso – mentre in Campania costa duecentonovanta euro. Vorrei sentire questo dai media, perché solo cosí il cittadino può farsi un’immagine completa. Io purtroppo, che vivo con piacere in Italia e che ho avuto anche un ruolo di ”missionario” nei confronti dei tedeschi e di altri europei, devo dire che lí in Germania esiste sempre lo stesso stereotipo: in Italia non funziona niente. E non è vero: ci sono cose che in Italia funzionano molto meglio che in Germania: per esempio le telecomunicazioni e la burocrazia – sono stato imprenditore in Germania e lo so. Avevo un ruolo difficile: il missionario fra Tedeschi ed Italiani, e ambedue non mi credevano. Ho la sensazione putroppo che gli Italiani siano diventati recentemente un popolo con una memoria quasi inesistente.

 

Una memoria storica corta. Significa che l’Italia vive una contemporaneità dalla quale non riesce ad uscire. O sbaglio?

Io credo che questa sia solo teoria, perché anche l’Italia uscirà da questa contemporaneità; perché la contemporaneità è una cosa semplice che si sviluppa sempre in avanti. Non siamo mica in una tribú nella giungla. Non è vero: vedo gente in gamba, che si muove e torna dall’estero volendo investire impegno ed esperienza. Solo che dobbiamo rompere con alcune strutture e soprattutto… be’, facciamo esempio: Mastella perché si è dimesso? Per mantere il piccolo potere che ha. Semplicemente, se ci saranno adesso delle nuove elezioni, avranno la vecchia legge elettorale: significa che i piccoli partiti rimarrano sempre quelli che possono far cadere o frenare o portare avanti un progetto. Ma di popolo e di maggioranza non si parla molto: si parla solo dei piccoli rompi*****.

 

(Ridacchio) Per tornare alla Letteratura. Questo suo Proteo Laurenti mette sempre le mani in delitti abbastanza particolari ed in lui è presente un modus operandi tipico dell’investigatore.

Questo ha molto a che fare con la città in cui si trova, perché Trieste è una città particolare: varie volte confermata alla prima posizione nella qualità della vita in tutto il Paese; al secondo posto guardando ai depositi bancari; insomma una qualità della vita altissima: si sta bene a Trieste, non c’è microcriminalità o quasi. Siamo una città portuale e confinaria dove si riunisce e passa l’Europa, cosí non abbiamo a che fare con tanti omicidi… meglio cosí: non devi neanche chiudere a chiave la porta di casa! Laurenti invece ha a che fare con i casi tipici – che sono sempre europei: io non racconto mai una cosa che coinvolga solo i triestini, perché ogni cosa che tocca Trieste ha sempre a che fare con l’Europa. E questa è la particolarità del luogo, in senso positivo o negativo. Significa che abbiamo a che fare con una città multiculturale e plurilingue, una città dai contrasti enormi che va dal mare fino al Carso; una città che non ha una cucina tipica: abbiamo una vasta scelta di tutto. Un luogo, insomma, dove la diversità è una ricchezza, ma che ha le sue nevrosi, ovvero i grandi ”casi” europei: traffico d’organi – le cui investigazioni vengono gestite dalla Magistratura triestina in tutta Italia, in collaborazione anche coi colleghi europei; per non dire dei grandi coinvolgimenti, massonici e di Gladio, riguardanti la fine di Roberto Calvi: avevano il centro a Trieste e ne erano coinvolti personaggi triestini o triestini acquisiti… parlo di un Flavio Carbone, per esempio, che aveva tredici aziende a Trieste e che spacciava poi terreni in Sardegna. Guardiamo la storia di questi terreni, vediamo chi ha venduto queste terre che diventavano unite per esser la base per la Certosa. È cosí: a Trieste abbiamo sempre l’Europa – a Trieste nessuno paga il ”pizzo” e trenta chilometri piú lontano capita già.

 

Capita già? (dico essendone stupito). A proposito di questo Lei mi fa venire in mente un titolo: ”Gomorra”.

Bravo, Saviano, bravissimo! A me piace perché è uno intelligentissimo che mostra questo coraggio civile che pochi hanno. Magari, no anzi sicuramente, non si è immaginato il fuoco che accendeva. Sicuramente no. Non lo invidio per la situazione in cui vive, ma devo dire che è un uomo con il coraggio civile che mi aspetto da tutti. Cambierebbe immediatamente tutto. Invece la gente sta bene senza muoversi, accomodata sul divano con le noccioline.

 

I difetti degli Italiani: forse l’indifferenza, l’apatia…

Io sono contrario a tutte queste generalizzazioni, non servono. C’è gente ”cosí” e gente ”cosà”.

 

Be’, ma nella mentalità comune…

Della mentalità comune mi vieto di parlare, perché, con quattro traslochi che ho fatto in Europa, ho sentito tutti questi luoghi comuni. Tutti e di piú. Lasciamo perdere e guardiamo direttamente negli occhi dell’altro.

 

Già, questa è la cosa fondamentale, forse (concludo accondiscendente nel congedarmi con il sorprendente e disponibilissimo Veit Heinichen. Ai posteri, perciò, e agli astanti, l’ardua sentenza: senza ”luoghi comuni” ci resterà in mano solo uno sterile ”non luogo”?).

(Sergio Sozi)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, RITORNO AI CLASSICI   126 commenti »

lunedì, 17 settembre 2007

“IL CAPPELLO DEL DIAVOLO” – ricordando Emilio De Marchi e il suo primo grande successo narrativo (di Sergio Sozi)

Un manzoniano in odor di Scapigliatura, Emilio De Marchi (Milano, 1851 – 1901), ma ben ancorato ai dettami del romanticismo milanese, tanto da far scrivere a Cesare Cantù (uno della vecchia guardia romantica lombarda) una favorevole critica de ”Il cappello del prete” (1888), romanzo sul quale ci concentreremo in questo articolo. Eccellente il fondo. Interessante l’intreccio. Schietta la forma. Scacco ai romanzatori vecchi, così si espresse, telegraficamente e netto, appunto Cantù – l’autore di ”Margherita Pusterla”, il romanzo storico che gli diede il successo.

Poi di De Marchi parleranno in molti, Benedetto Croce in primis (egli ne ”La Letteratura della Nuova Italia” lo posiziona fra i manzoniani un po’, diremmo, scapigliati) ma anche critici come Titta Rosa, Luciano Nicastro (quest’ultimo allievo di Valgimigli e Guglielmino), più di recente Toni Iermano e Antonio Palermo, e in generale ogni buona Storia della Letteratura Italiana.

E se per Titta Rosa, De Marchi fu ”il Gogol’ della bassa”, forse un riuscito bilancio complessivo ci proviene da Luciano Nicastro. Vale la pena riportarlo per esteso:

Quando si è conosciuto il sentimento delle pagine più impegnate, rimane tuttavia nella mente, prima di ogni altra nota, la visione desolata e lo sconforto che la poesia del De Marchi esprime in prosa o in versi, consolata ora dal senso della natura ora da un concetto panteistico e romantico, confidente nell’opera redentrice della bontà operosa e nel sacrificio umano con cui l’anima sembra unirsi allo spirito divino. Emilio De Marchi ha pure qualche accento mistico e, nelle sue rappresentazioni angosciate e dolenti, l’esigenza spirituale di una concezione religiosa, che però si afferma in modo diverso da quello voluttuoso del Fogazzaro. (Dalla Presentazione ne ”I capolavori di Emilio De Marchi”, Mursia, Milano 1967, p. XXI).

Ma cos’è ”Il cappello del prete”, romanzo d’esperimento e non sperimentale (parole dell’autore e soprattutto direi del suo desiderio di distanziarsi dal contemporaneo Émile Zola), uscito a puntate come racconto d’appendice nel Corriere di Napoli durante il 1888 (lo stesso anno di ”Mastro don Gesualdo” del Verga, oltretutto buon amico di De Marchi) e poi pubblicato in volume dall’editore Treves, oltre che all’epoca vendutissimo e ampiamente pubblicizzato come reazione italiana al romanzo naturalista francese?

Io direi che ”Il cappello del prete” sia un esemplare romanzo-sintesi della sensibilità letteraria generale agitante la fine dell’Ottocento italiano ed europeo, nel quale l’escavazione psicologica di Dostoevskij si unisce al naturalismo di Zola e al verismo verghiano, mentre si vedono emergere fra le righe le premesse di un Pirandello e uno Svevo. Il tutto a sprazzi, a tratti, a pennellate: un collage d’epoca non sottovalutabile, in quanto sintesi e premonizione.

L’opera, inoltre, non disprezza una coloritura ”gialla”, poiché dopotutto tratta e narra di un omicidio, quello del prete Cirillo, e dell’omicida, il barone Carlo Coriolano di Santafusca. Il tutto nel contesto di Napoli e dintorni.

Ma ora vediamone i protagonisti e rintracciamo lo svolgimento della trama, sempre grazie alla penna dell’autore stesso (ogni estratto dall’edizione Mursia, ”I capolavori di Emilio De Marchi”, Milano 1967).

Dunque, prendiamo subito un ritrattino del barone Santafusca:

Il libertino prese la mano sul frate e sul nichilista, e dalla fusione di questi tre uomini uscì «u barone» unico nel suo genere, gran giuocatore, gran fumatore, gran bestemmiatore in faccia all’eterno. (…) Oggi l’uomo aveva quarantacinque anni, una gran barba nera, un volto abbruciato dal sole e dai liquori, una gran voglia di godere la vita e una miseria profonda. (…) Al frate, al nichilista, al libertino si aggiungeva ora un pitocco disperato, costretto a quarantacinque anni a mendicare dieci lire alla sua guardarobiera, se voleva pranzare e bere un cognac. (p. 5 e segg.)

Ed ecco il prete Cirillo:

Prete Cirillo era un uomo pieno di denari, che egli aveva radunati un poco con l’usura, prestando ai pizzicagnoli, ai pescivendoli, ai galantini della Sezione, e molto colle vincite al lotto. Si diceva che «u prevete» avesse i numeri e, coll’aiuto di certi calcoli cabalistici trovati da lui su un libro vecchio, vincesse al lotto ogni volta che gli piacesse di vincere. (p. 7 e segg.)

Ma veramente sconvolgente è il preludio dell’assassinio:

Come sul momento d’accostarsi a un intimo colloquio d’amore freme il sangue e par che gorgogli a fiotti nel corpo, e la vita si mesce già con un’altra vita, così man mano che la vittima si accostava al suo letto, il barone sentiva crescere la ferina voluttà. (p. 32)

Dopo il fattaccio, una prima reazione del barone:

Poi, sentendosi mancare le forze, usci (…) e venne in un prato pieno d’erbe folte e di sole, dove stavano pascolando le capre di Salvatore. Qui si fermò coi piedi sprofondati nella terra molle e cominciò a guardare stupidamente il muso delle capre, che guardavano lui stupidamente, ruminando. (p. 33)

Seguono lunghe serie di meditazioni rifiutate o sotterrate nell’anima come la seguente:

Era una brutta vita… Perché non s’ammazzava? (…) Se un uomo val l’altro, perché non aveva fin da principio accoppato sé in luogo del prete? (…) – Oh! i grandi imbecilli che siamo – mormorò a mezza voce, e si mosse per uscire. (p. 132)

Finché… davanti al giudice, in un confronto tremendo al palazzo di giustizia napoletano, inizia la conclusione del dramma vero e proprio, sia intimo che estetico, letterario, iniziato sin dal primo post-delitto con un incessante dialogo interiore filosofico a cui il barone non sa sfuggire:

La mente non connetteva più, si spezzavano le formule logiche, e la pazzia, la furia vendicatrice della superba ragione, scendeva a rompere la testa del barone di Santafusca, come egli aveva spezzata, con una sbarra di ferro, la piccola testa di prete Cirillo. Ciò che seguì da questo momento non fu più interrogatorio nelle forme, ma la lotta estrema di una ragione contro un rimorso. (p. 155)

Le ultime pagine sono terrificanti, per la resa realistica della scena (vi sono il giudice, i poliziotti, l’interrogato, tutti in un grigio ufficio del palazzaccio) e soprattutto per la descrizione della forza esplosiva che la verità della coscienza emette nel suo prorompere fuor dal dominio razional-istintivo del barone assassino, il quale infine non può più disgiungere da sé la figura del ”cacciatore”, personaggio prima fittizio da cui lui stesso si era veramente travestito per parlare con un presunto possessore del famoso ”cappello” (oggetto che infine cosituisce la sua condanna), al fine di riprendere il cappello in mano per farlo sparire. Il ”cacciatore” insomma fuoriesce dalla cinica finzione teatral-difensiva del barone per divenire platealmente l’anima nera di Santafusca (e qui, certamente, c’è in De Marchi il tocco vistoso di Gogol’):

Gli veniva meno la forza di tener separato nettamente il cacciatore da sé, di non attribuire all’uno pensieri ed atti che appartenevano, pur troppo! soltanto all’altro. Non sapeva più discernere il fatto da’ suoi particolari, e, per la foga di conciliare il prete col suo cappello e di voler credere troppo nel cacciatore, non si accorgeva che poco a poco andava esponendo e accusando se stesso. La sua testa era una fornace. I mille fantasmi cacciati, respinti, costretti, flagellati dalla sua scienza e dalla sua logica, uscivano sbucando ora tutt’insieme dai tenebrosi spechi della coscienza (…). (p. 155)

Ed avviene il crollo di un’anima da sempre scissa (allegoria, credo, della modernità) che, direi, si spacca tragicamente in due, come la sottile scienza delle dottrine positivistiche: il barone Santafusca vuole distruggere la religione annientando il cappello del prete, ossia confonde il simbolo con la fede vera e profonda del cristianesimo. Appunto in lui, fino alla crisi finale, convivono un frate, un libertino, un nichilista e… un accattone senza dignità, schiavo dei propri vizi. La vita di noi moderni, in fondo, in un solo personaggio, che dal 1888 ci raggiunge a mo’ di… ritratto collettivo. E qui, per adesso, mi fermerei.

Sergio Sozi

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Sergio Sozi collabora con il quotidiano L’Unità ed il settimanale Avvenimenti, con il mensile triestino Trieste Arte e Cultura, il mensile lubianese Nova revija, il quotidiano sloveno Dnevnik, la Radio Tre slovena e la casa editrice Studentska Zalozba – per la quale ha curato nel 2005 il volume antologico di racconti italiani (1989-2003) ”Carta e carne” (”Papir in meso”, SZ-Beletrina, Ljubljana 2005). Suoi pezzi culturali sono presenti su diversi siti letterari. Da ricordare la pubblicazione di colloqui con Dacia Maraini, Sebastiano Vassalli, Diego Marani e Claudio Magris.Ha pubblicato “Il maniaco e altri racconti” (Valter Casini Editore, 2007)

Pubblicato in RITORNO AI CLASSICI   30 commenti »

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