LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » salvo zappulla http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 IO NON CI VOLEVO VENIRE QUI, di Angelo Orlando Meloni http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/09/28/io-non-ci-volevo-venire-qui/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/09/28/io-non-ci-volevo-venire-qui/#comments Tue, 28 Sep 2010 20:52:39 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2460 1. Che rapporto avete con i consigli?

2. Preferite darli o riceverli?

3. Meglio i consigli dei parenti o quelli degli amici?

4. E poi… secondo la vostra esperienza, i consigli sono più un atto di “carità” o di “cattiveria”?

Ne discutiamo insieme prendendo spunto dal divertente romanzo sull’arte scrittoria (e non solo) di Angelo Orlando Meloni intitolato “Io non ci volevo venire qui. Breve manuale di autodistruzione per il conseguimento della felicità” pubblicato dalla casa editrice Del Vecchio.

Vi riporto un passaggio tratto dalle prime pagine del libro:
«Chi non ha paura di un buon consiglio?
Io per esempio ho paura. Molta paura. evito di darli e di riceverli, e se li ricevo mi sforzo di dimenticarli. Quando non li dimentico, poi, cerco di applicarli male. Come vi potrà confermare più di un buon samaritano, dedicarsi ai problemi degli altri è uno sport pericoloso, perché il sonno della nostra indifferenza genera mostri e, in casi sventurati, un consiglio può generare addirittura “artisti”
».

Un libro divertente, dicevo… ironico e autoironico, che rientra a pieno titolo nell’ambito della cosiddetta letteratura dell’ironia.
Di seguito, avrete la possibilità di leggere la recensione firmata da Salvo Zappulla e un assaggio del testo (un ulteriore assaggio potrete gustarvelo da qui).
Alla discussione parteciperà lo stesso Angelo Orlando Meloni, con il quale avremo modo di approfondire la conoscenza di questo suo romanzo.
Massimo Maugeri

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IO NON CI VOLEVO VENIRE QUI di Angelo Orlando Meloni
Del Vecchio editore, 2010 – pagg. 128 – euro 14

recensione di Salvo Zappulla (nella foto)

salvo-zappulla

Angelo Orlando Meloni ha innato il senso del paradosso, come tutti i genialoidi riesce ad avere una visione deformata della realtà che lo circonda, manipolarla a piacimento secondo i propri gusti e la spigliata fantasia per servirla, sotto forme di originalissime storie, nei suoi libri. Un autore dotato di raffinato senso dell’umorismo, disposto a giocare con le sue idiosincrasie, le paure, le fobie in una serie di gag irresistibili. Non ci si annoia di certo a leggere “Io non ci volevo venire qui” (Edizioni Del Vecchio, pagg. 118, €. 14,00). Angelo è uomo dalla fervida immaginazione e dallo spirito indomabile, riesce a trasformare in satira irriverente qualsiasi argomento tratta. Il suo è umorismo scoppiettante, i suoi personaggi bislacchi e improbabili, coinvolti in situazioni surreali, pirotecnici commedianti degli equivoci, strappano il sorriso anche a uno che ha già ricevuto l’estrema unzione. Un’ umanità sgangherata, adorabile nella sua vacuità e sventatezza, composta da furbastri e aspiranti tali, che null’altro può pretendere, se non di essere assolta per legittimo impedimento. Si ride, a volte di gusto; altre con un velo di malinconia. Ma si riflette anche, sui personaggi che Angelo presenta: bizzarri, pirotecnici, millantatori. Profondamente umani e profondamente vulnerabili. Determinati a conquistare il mondo e già nati perdenti. Riuscire a coniugare ironia e letteratura, senza scadere nelle barzellette, è proprietà dei grandi scrittori e non vi è dubbio che Meloni sia uno scrittore di razza. Si può ricavare un romanzo gradevolissimo prendendo spunto dai piccoli fatti quotidiani? Sì, se l’idea viene a un autore dotato di esplosiva scrittura, disposto a mettere in gioco se stesso con spietata ironia, consapevole di voler infrangere la barriera dell’appiattimento, del quieto vivere, del chinare il capo rassegnati all’inerzia, per far emergere contraddizioni, prepotenze e malcostume. Un libro attualissimo, una sorsata di acqua fresca, a tratti delirante, estasiante, spumeggiante, esplora territori narrativi in grado di fare vibrare corde disperatamente umane.

A questo punto mi chiedo (tutto il mondo si chiede) chi è Angelo Orlando Meloni (foto accanto): un nuovo Messia venuto a illuminare i popoli? Un Woody Allen che ha subito un trauma cranico? Il pronipote di Fantozzi, perennemente afflitto da cefalee? Uno spermatozoo andato a male che involontariamente ha imbroccato la volata giusta, classificandosi primo suo malgrado?
O turista ignaro che ti aggiri cinguettando per le vie di Ortigia, o giapponesino, cinesino armato di cinepresa che ti addentri per le stretti calli di via Maestranza; giunonica svedese dallo sguardo ammaliante, il volto solare e le tette al vento, che ti godi lo scirocco di Corso Umberto, non ti soffermare con le tue zummate solo sulla fontana Aretusa e l’Orecchio di Dionisio ma riversa l’attenzione su quel tizio dal viso scarno, abbandonato in un angolino buio, sofferente e anemico come uno che ha appena subìto il salasso da un vampiro di passaggio. Non è lì per chiedere l’obolo, sta meditando, sta creando, sta confabulando con i folletti magici della sua mente. Immortalalo, un giorno potresti essere orgoglioso di raccontarlo ai nipotini. Geni si nasce o si diventa? Forse il segreto è racchiuso tra le pagine di questo libro.

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Brano estratto dal libro IO NON CI VOLEVO VENIRE QUI di Angelo Orlando Meloni

FAMMI UN’ALTRA BIRRA

Un giorno, alle elementari, la maestra vi dice: – oggi facciamo le frasette a fantasia.
Santa donna. però quel giorno le cose non vanno per il verso giusto. l’essere che sta forgiando i vostri destini fa una pausa a effetto e aggiunge: – Mi raccomando, stavolta dovete usare la parola
“lungamente”.
non l’avesse mai detto. ricordi ancora la faccia del tuo compagno di banco.
Terrore puro.
C’è chi dice rassodi la buccia.
C’è chi dice prepari alla vita.
C’è chi non è della stessa idea.
La parola “lungamente” per voi bambini è peggio di un UFO.
«Tirò il pallone lungamente» è il meglio che riesci a cavare dalla tua penna. Uno sforzo creativo devastante e infelice negli esiti, in quella giornata nella quale in molti sperimentate il fallimento.
Il tuo migliore amico diventa rosso magenta, vira sul blu cobalto nel tentativo di inseguire l’ispirazione, scrive: «Il papà ha comprato la macchina lungamente» e sviene a pelle di leone sul pavimento mentre consegna il compitino. Un giorno forse diventerà il paroliere di Carmen Consoli, ma per ora non riesce a convincere la maestra.
Gli avverbi!
Se gli insegnanti più scafati li usano per oscure ragioni pedagogiche, i redattori delle case editrici e gli insegnanti di scrittura creativa li temono come la peste, a causa del loro potere proliferante. Peggio dei conigli. Peccato che per insondabili motivi sia ASSOLUTAMENTE impossibile farne a meno.
Mettiamoci l’anima in pace, è inutile domandarsene la ragione, meglio, molto meglio non lasciarsi ossessionare dalla lunghezza degli avverbi e vivere tranquilli, senza chiedersi troppi perché.
IMPROVVISAMENTE un infingardo potrebbe sentire i nostri lamenti e mettersi in testa di darci un consiglio.
Ma se gli avverbi sono inevitabili, lo stesso non si può dire dei consigli. Non dovremmo né darne né riceverne. Lo so che è difficile resistere, ma la grandezza dell’uomo è tutta qua. La forza senza controllo è niente.
Chi non ha paura di un buon consiglio?
Io per esempio ho paura. Molta paura. evito di darli e di riceverli, e se li ricevo mi sforzo di dimenticarli. quando non li dimentico, poi, cerco di applicarli male. come vi potrà confermare più di un buon samaritano, dedicarsi ai problemi degli altri è uno sport pericoloso, perché il sonno della nostra indifferenza genera mostri e, in casi sventurati, un consiglio può generare addirittura “artisti”.
Ecco perché se un nostro amico sbatte le ciglia e ci mette il suo cuore in mano, l’unica soluzione è quella di fare il finto tonto. Dissimulare, mentire, nascondersi, darsi alla macchia ogni qual volta sentiamo quell’arietta freddina che accompagna la domanda: «secondo te, cosa dovrei fare?».
Certo, non tutti sono in grado di cambiare discorso come un politico preso in castagna. Non tutti possiedono faccia da culo e calma glaciale. Non tutti riescono a mimetizzarsi nella folla fino a scomparire. Ma non facciamoci prendere dal panico. Non sto dicendo che se un amico o un’amica mettono il loro cuore nelle nostre mani dobbiamo stenderli con un uppercut o sparire come un ninja in una nuvola di fumo. Questo, in casi estremi. Il più delle volte sarà sufficiente ordinare una birra e offrire una sigaretta.
È infatti innegabile che fumo e alcol, se pure da evitare al fine di una vita tutta fitness, possiedano qualche pregio di tutto rispetto.
Altrimenti, perché l’uomo ci si dedicherebbe da secoli? Il rapido susseguirsi di boccali e sigarette sembra fatto apposta per sviare l’attenzione fino a che, a causa del mal di testa, avremo dimenticato il problema e il relativo consiglio. A quel punto non ci resterà che accompagnare a casa il nostro compare e sospirare di sollievo. e per di più il compare dormirà sodo, annientato dalla sbornia, credendo che la vita è bella. Certo, non possiamo trascurare l’eventualità che un bicchiere di troppo causi l’effetto opposto. La facile eccitazione tipica delle birre irlandesi, per non parlare del surriscaldamento causato da un paio di gin tonic, potrebbero far perdere la trebisonda anche a un signor spock. Ed è storicamente accertato che i consigli più nefasti siano stati dati in seguito a epocali bisbocce.
– Che facciamo con quei rompicoglioni dei parti, Giuliano? – chiesero all’imperatore dopo un brunch di dodici portate.
– Armate la flotta, ragazzi. – Ma forse il divo Giuliano voleva dire: «fammi un’altra birra».
È per questo che a me, se mi scappa un consiglio, viene subito da aggiungere: – non mi prenderai sul serio, vero?
Ed è un sollievo sentirsi rispondere: – fossi matto.

Da “Io non ci volevo venire qui” di Angelo Orlando Meloni
pagg. 10-11

© Del Vecchio editore – Diritti riservati

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SCARLETT, di Barbara Baraldi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/06/16/scarlett-di-barbara-baraldi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/06/16/scarlett-di-barbara-baraldi/#comments Wed, 16 Jun 2010 20:35:41 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2227

Sono molto lieto di accogliere qui a Letteratitudine la scrittrice Barbara Baraldi, coinvolgendola in questa nuova discussione. L’occasione la fornisce l’uscita del suo nuovo romanzo per i tipi di Mondadori: Scarlett.

Per capire di cosa parla il libro, vi rimando a questa scheda e alla recensione di Salvo Zappulla che trovate in fondo al post.

Scarlett ha sedici anni e si è appena trasferita a Siena, lasciandosi alle spalle l’estate, la sua migliore amica e un amore che stava per sbocciare… Nella nuova scuola conosce Umberto, che le fa subito la corte, ma Scarlett ha capito che la sua compagna di banco, Caterina, è segretamente innamorata di lui. Cosa scegliere: l’amore o l’amicizia? La risposta arriva al concerto della scuola, quando sul palco sale un ragazzo con gli occhi chiari come il ghiaccio che la cercano in mezzo alla folla. Mikael, il bassista dei Dead Stones, sembra allo stesso tempo attratto e respinto da lei, e Scarlett non può evitare di tuffarsi in quegli occhi magnetici. Ma Mikael è troppo bello e troppo strano per essere vero: solo Umberto sembra conoscere il suo segreto, ma non riesce a mettere in guardia Scarlett… Poi un omicidio inspiegabile, e Scarlett viene aggredita da una spaventosa ombra dagli occhi di fuoco. Chi è veramente Mikael? Il suo angelo salvatore o il demone che la tormenta?

Vorrei riprendere questo passaggio della scheda, per poi porvi alcune domande (e avviare una discussione parallela a quella sul romanzo): “Nella nuova scuola [Scarlett] conosce Umberto, che le fa subito la corte, ma Scarlett ha capito che la sua compagna di banco, Caterina, è segretamente innamorata di lui. Cosa scegliere: l’amore o l’amicizia?”

Ed ecco le domande…

Secondo voi, tra amore e amicizia… cosa sceglierebbero i sedicenni di oggi?

E quelli delle generazioni precedenti?

Il valore che i ragazzi di oggi danno a sentimenti come “amore” e “amicizia” è cambiato, o è rimasto immutato nel tempo? E se è cambiato… in cosa è cambiato?

A voi le risposte… (e consideratevi tutti invitati a interagire con Barbara Baraldi, ponendole anche domande sul suo libro).

Massimo Maugeri

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SCARLETT di Barbara Baraldi
Mondadori, 2010 – pagg. 319, € 16

recensione di Salvo Zappulla

salvo-zappullaScarlett, la protagonista del romanzo, ha sedici anni appena, gli occhi grandi e la purezza nel cuore, non ha ancora dato il suo primo bacio, è timida, insicura, complessata come quasi tutte le ragazze della sua età. Non è particolarmente bella ma piace, ha una sua intima luminosità, una fierezza che la contraddistingue. Ha dovuto ricominciare una nuova vita da quando i suoi hanno deciso di trasferirsi da Cremona a Siena: nuovo istituto scolastico, nuove amicizie, nuovi insegnanti. Le continue liti dei genitori non la agevolano, il fratellino impertinente la innervosisce.
Barbara attorno a lei ha costruito personaggi di grande spessore, veri, dotati di luce propria. C’è l’amica del cuore, lo spasimante non corrisposto, la belloccia della scuola perfida e dispettosa; Ofelia, la ragazza che veste sempre di nero, tanto affascinante quanto misteriosa. Il risultato è un romanzo armonico, gradevolissimo, che si dilata notevolmente con il susseguirsi delle pagine in un coro di voci perfettamente intonate. Un’orchestra di parole cui non è consentito steccare. E poi Mikael, un angelo scaturito dall’inferno, fisico scultoreo e occhi che lasciano senza fiato. Mikael è il brivido, la passione, il fuoco, la dannazione. Scarlett si vedrà catapultata dentro una storia più grande di lei.
BaraldiBarbara Baraldi in questo romanzo (Scarlett, edizioni Mondadori, pagg. 319, € 16.00) si fa interprete delle problematiche adolescenziali, il malessere, gli amori, le inquietudini, il loro status symbol: il pearcing, il tatuaggio, la musica da sballo, tutto ciò che fa figo. E lo fa con profondità di analisi e una scrittura che rifugge dalle forzature, efficace, minuziosa, leggera. Fin qui potrebbe essere una storia “comune”, un romanzo destinato a un pubblico giovane… ma a un certo punto l’autrice va oltre, si incunea nei labirinti del surreale, si addentra nel campo spinoso della metascrittura, un alternarsi di ombre e creature malefiche che ci riportano alle atmosfere cupe di Edgar Allan Poe. Vita e morte si sfidano, intrecciano relazioni. Esseri delle tenebre entrano in contatto con il mondo dei viventi cercando di sottometterli al proprio volere, i rivali di Dio alla ricerca di un loro regno. Maledizioni che riaffiorano dopo secoli e l’istituto scolastico diventa scenario di sangue. L’autrice ha la capacità di assemblare sogni e incubi, aspirazioni e delusioni, alterna momenti di frizzante letteratura e angoscianti capovolgimenti. Ma soprattutto sa bene come inventare storie che fanno accapponare la pelle ai suoi lettori. Esplora gli abissi reconditi della psiche umana, costruisce trame dove la suspence si mantiene sempre tesa. Il lettore si sente incalzato, sente uno spettro che gli alita sul collo, lo segue incessante, gli ruba lo spazio, gli nega i movimenti, lo tiene vigile nel corso della lettura. Un viaggio nelle fitte tenebre, dove i demoni hanno stabilito fissa dimora e spingono per tornare tra i vivi a placare il loro desiderio di sangue. E da sottofondo la musica, il linguaggio universale della musica, l’ebbrezza di potersi crogiolare al ritmo frenetico del rock.

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NEL SEGNO DEL CANCRO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/04/12/nel-segno-del-cancro/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/04/12/nel-segno-del-cancro/#comments Mon, 12 Apr 2010 18:07:54 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1913 nel-segno-del-cancroCi sono argomenti più difficili da trattare, rispetto ad altri; ma non per questo meno importanti.

Il titolo di questo post non ha a che fare con l’astrologia o i segni zodiacali… ma con qualcosa che incide nelle nostre vite in maniera molto più significativa e devastante: la malattia.

Nel segno del cancro” (Sampognaro & Pupi, € 10) è il titolo di un libro che offre la testimonianza di una donna colpita dal tumore al seno.

Secondo l’Airc, il tumore al seno colpisce una donna su dieci. È il tumore più frequente nel sesso femminile e rappresenta il 25 per cento di tutti i tumori che colpiscono le donne. In Italia sono diagnosticati circa 37.000 casi (152 ogni 100.000 donne). Uno di questi casi è quello di Cinzia Spadola. Ed è lei stessa a raccontarcelo tra le pagine di questo libro che vi propongo.

Nella sua prefazione al testo della Spadola, Gianna Milani scrive: “Da che cosa può nascere l’impellente bisogno (desiderio) di raccontare della propria malattia? Di vincere ritrosia e pudore per spingersi sul terreno della condivisione di fatti (nudi e crudi) e di emozioni (forti e laceranti)? Diverse possono essere le motivazioni. Forse un modo per capire perché «proprio a me», per riappropriarsi del corpo, per restituire alla propria vita il diritto di unicità. Ma anche per non essere più soltanto una diagnosi, una mammella con un nodulo di qualche centimetro, ma una persona“.

A prescindere dalle motivazioni che hanno spinto Cinzia a scrivere questo libro, credo sia importante parlarne: per aiutare a capire che non si è soli, che quel «proprio a me» riguarda tantissima gente; per ribadire che la prevenzione continua a essere l’arma principale per contrastare questo male. E perché il mettere in comune esperienze dolorose – che segnano – può trasformarsi in una risorsa per noi stessi e per coloro con cui le condividiamo.

Parliamone, dunque.

Parteciperanno alla discussione Cinzia Spadola (l’autrice del libro), il dr. Paolo Tralongo, primario del reparto oncologico dell’ospedale di Avola (che ha firmato la postfazione del testo), lo scrittore e critico letterario Salvo Zappulla (che ha recensito questo libro per Letteratitudine)… e tanti altri esperti ed ospiti, tra cui la scrittrice Stefania Nardini (il cui nome metto in evidenza per motivi ben specifici, come capirete nel corso della discussione).

E poi ci siete voi…

Vi chiedo di partecipare al dibattito con particolare trasporto (mettendo in comune esperienze e opinioni). Del resto, come scrive Paolo Tralongo nella postfazione: “Ogni pagina dell’esperienza, per certi aspetti singolare, di Cinzia, riportata in questo volume, è continua testimonianza di quanto gli aspetti comunicativi, relazionali, umanistici, oltre che scientifici, siano rilevanti nel condizionare gli esiti di un programma assistenziale e lo stato di benessere del paziente affetto da cancro“.

Massimo Maugeri

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NEL SEGNO DEL CANCRO di Cinzia Spadola

Edizioni Sampognaro&Pupi – pagg. 65 – € 10.00

recensione di Salvo Zappulla

salvo-zappullaRieccoci qua. Dopo tante belle discussioni nel blog, battute e battutacce, dibattiti su argomenti letterari, pause rilassanti e discorsi impegnativi, mi ritrovo coinvolto a presentare questo libro di Cinzia Spadola. Sul CANCRO. Sulla storia di una donna che racconta in prima persona del suo cancro al seno. E cosa c’entro io? mi chiedo. A me il cancro non interessa, Mai posto un simile problema. Fumo un pacchetto di sigarette al giorno, mangio tutto quello che mi capita a portata di ganasce: carne rossa, gialla con anabolizzanti importati dalla Cina, vino al metanolo, vita sregolata, aria della zona industriale insalubre. No, ripeto, il cancro non mi riguarda. Il seno non ce l’ho. Mal che vada potrebbe spuntarmi un nodulo ai testicoli, ma tanto quelli sono già inutilizzabili e, nella peggiore delle ipotesi, con un colpo secco, zac, si possono recidere. Ho cominciato a leggere questo libro alle 8 di mattina e alle 9 avevo già finito. Mi ha fatto riflettere molto. Le prospettive mi sono apparse differenti, la visione della vita anche. Ci comportiamo come se la nostra esistenza dovesse durare all’infinito, litighiamo per un sorpasso, ci scanniamo per l’eredità dello zio buon’anima, ci affanniamo ad accumulare ricchezze e potere, ci crediamo invincibili (Lei non sa chi sono io! La mia famiglia discende direttamente dal re. Ed io allora? Sono parente di trentesimo grado dell’onorevole Truffarelli, specializzato negli appalti sui terremoti) e poi basta un nulla: un ictus, un infarto, un dardo avvelenato che malauguratamente va a cadere sulla nostra testa, per renderci conto di quanto labile sia la nostra permanenza su questa terra. Non ci sono ricchezze che preservino dalle malattie. Non esiste potere in grado di regalarci l’immortalità. Siamo granelli di sabbia nel deserto. La nostra esistenza va salvaguardata, la nostra coscienza pure. La qualità della vita è un bene prezioso. Abbiamo dei doveri verso noi stessi. La protagonista di questo libro con delicata ironia racconta la sua storia ed è come vedere un film dalle scene incalzanti. Mi proietta in una dimensione che ritenevo irreale, mi porta a conoscenza di termini per me astrusi: esami di follow-up, linfonodi sentinella. E a mano a mano che proseguo nella lettura mi accorgo che la mia sigaretta si spegne da sola. Quando arrivo alla postfazione del dott. Paolo Tralongo, primario del reparto oncologico dell’ospedale di Avola (SR) mi rendo conto di averlo ingoiato, il mozzicone della sigaretta. “…non va dimenticato che la diagnosi del cancro ferma il tempo che improvvisamente appare perduto e proiettato a chiudere repentinamente l’esistenza dell’individuo. La disponibilità umana del medico può contribuire a riattivare la speranza (risorsa preziosissima) che il tempo possa essere, in qualche modo, nuovamente percorso con dignità, facendo sì che le proposte terapeutiche considerate dalla comunità scientifica internazionale più vantaggiose possano essere accettate anche quando non completamente risolutive…” Parole di Paolo, medico stimatissimo che ha dedicato alla sua professione l’intera esistenza. Insomma, facendo seguito alle affermazioni di Hermann Boerhaave, clinico olandese, al medico va richiesta la scienza e l’umanità. Senza la seconda, anche la prima vale ben poco. Raccontare della propria malattia in un libro richiede sempre grande coraggio, significa offrirsi nudi, con le proprie paure, le debolezze, le ansie a un pubblico sconosciuto. Lo hanno fatto illustri scrittori prima di Cinzia. Ricordo uno straordinario romanzo di Davide Lajolo che nel 1977 si aggiudicò il Viareggio: “Veder l’erba dalle parti delle radici” in cui lo scrittore descrive minuziosamente e drammaticamente i suoi momenti d’angoscia quando si rende conto di essere stato colto da infarto e si trova solo, senza che nessuno possa prestargli soccorso, nel suo letto. Rivede la propria esistenza, le origini contadine e tutto gli appare sotto un’altra luce. Questo di Cinzia Spadola, che si avvale della prefazione autorevole di Gianna Milano, è un libro forte e violento, un pugno sullo stomaco (e una parte dei proventi andrà alla G.S.T.U. una fondazione che segue in Sicilia i guariti di cancro). Violento, come l’artiglio di un rapace che scende in picchiata a ghermirti la vita. Quando accade un evento sconvolgente condiziona anche l’esistenza delle persone che ci stanno accanto, i familiari, gli amici, le persone che ci amano. Qui hanno un ruolo fondamentale l’affetto dei genitori e la determinazione del marito. Cinzia racconta il suo calvario con grande lucidità e naturalezza, ci sono pagine di straordinaria intensità in questo libro. Cala un velo negli occhi di quanti hanno subìto un trauma di tale portata e quegli occhi non riavranno più la stessa lucentezza. Chiunque potrà identificarsi in questa storia, perché chiunque potrebbe incapparci. Il dramma, il vortice dell´abisso, sentirsi sprofondare senza intravedere una via d´uscita. Lo scoramento, gli ospedali, la tortura della chemioterapia, l´abbruttimento fisico, l´apatia, la fine di ogni speranza. E invece oggi Cinzia è mamma di due splendidi bambini: ha lottato, resistito, vinto. Ed è il primo caso al mondo di una donna che ha portato a termine una gravidanza nonostante i farmaci avrebbero dovuto bloccare le sue funzioni riproduttive. “…Il medico affermò che dopo una chemioterapia e 10 mesi di RH analogo, un’ovulazione e l’immediato concepimento è veramente improbabile, per non dire impossibile, cosa che invece era in qualche modo accaduta…” Un fenomeno? Un miracolo? Lo vogliamo credere e sperare: il miracolo della vita che si impone sulla morte. I medici non sanno trovare la spiegazione scientifica. Una testimonianza importante questa di Cinzia, su un argomento delicatissimo. Una storia di rinascita e di positività. Uno spiraglio di luce che penetra le tenebre e apre alla speranza. Ed ecco che questo libro diventa un documento prezioso da trasmettere agli altri, quasi un manuale che ci insegna come riappropriarci della nostra vita anche quando sembra irrimediabilmente perduta.

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NEL SEGNO DEL CANCRO di Cinzia Spadola

La prefazione di Gianna Milano

nel-segno-del-cancroDa che cosa può nascere l’impellente bisogno (desiderio) di raccontare della propria malattia? Di vincere ritrosia e pudore per spingersi sul terreno della condivisione di fatti (nudi e crudi) e di emozioni (forti e laceranti)? Diverse possono essere le motivazioni. Forse un modo per capire perché «proprio a me», per riappropriarsi del corpo, per restituire alla propria vita il diritto di unicità. Ma anche per non essere più soltanto una diagnosi, una mammella con un nodulo di qualche centimetro, ma una persona. E per trovare, in definitiva, un nuovo rapporto con se stessi dopo l’esperienza spesso disumanizzante dell’ospedale, non importa se «super» o a quattro stelle, pur sempre un «non luogo» dove i rapporti sono frettolosi, ridotti all’indispensabile, sovente aridi e distaccati.

L’autrice racconta di giorni di angoscia, di ansia, di sofferenze, di reazione alla faciloneria dei medici che spesso si nascondono dietro un linguaggio tecnico e impersonale. Il libro di Cinzia Spadola è la cronaca intima, privata di una lotta durata mesi. Che si apre alla speranza contro tutto e contro tutti. Contro ogni previsione basata sulla medicina delle evidenze scientificamente dimostrate. Una scommessa contro il male che sfocia nella vita, nella nascita di un nuovo essere, del figlio Riccardo che, a dispetto dei pronostici degli esperti (smentiti), sconfigge la malattia della madre e viene al mondo.

La scrittura autobiografica come pratica per attenuare la sofferenza ha precedenti famosi da Giuseppe Berto (Il male oscuro) a Thomas Bernhard (Il respiro), da Lalla Romano (Nei mari estremi) a Tiziano Terzani (Un altro giro di giostra). L’impazienza di raccontare in prima persona, senza più metafore, infermità, dolore, disperazione, speranze, battaglie, guarigioni, sconfitte, e il bisogno di «mettere in piazza i mali dell’anima e delle cellule», come ha scritto la sociologa Simonetta Piccone Stella, superando ogni reticenza e ogni vergogna verso i propri malanni, sono dimostrati dal numero crescente di questo genere di libri. E, soprattutto, sul cancro.

Di nuovo ci si domanda come può essere interpretato questo nuovo desiderio di trovare interlocutori, ossia lettori, inclini a partecipare emotivamente alle vicende personali di un’altra persona? Perché questo bisogno di vivere la malattia autentica con gli altri e di comunicare esperienze vere, vissute sulla propria pelle? Chissà, forse è un modo per difendersi dall’indifferenza della medicina che ha lunghi camici bianchi, che non vede la persona ma il suo male. O, meglio, il suo organo malato. Forse è il desiderio di non vedere tutto ridotto a numeri, statistiche, formule. E, poi, il mondo della salute e della malattia sono confinanti. Un confine davvero labile. Tanto che spesso si confondono. Ma altrettanto spesso noi questo lo ignoriamo.

Narrare credo sia anche un atto di solidarietà verso se stessi. Significa esorcizzare, ma non rimuovere. Anzi, c’è un’appropriazione di tipo personale, un po’ narcisistica, come narcisistica è la condizione del malato. Ma nasce anche dal bisogno di non sentire più la malattia come qualcosa che ci sovrasta, come una spada di Damocle, il cui l’esito dipende anche da noi. Perché, secondo gli esperti di medicina psicosomatica, primo tra tutti Georg Groddeck, è dal modo in cui ci si pone verso la malattia che dipende il suo esito: la vittoria o la sconfitta. La storia di Cinzia sembra dare ragione a coloro che sostengono il ruolo importante della psiche. Del resto, la dicotomia corpo e psiche ha finito per favorire la medicalizzazione di qualsiasi turbamento dell’animo.

Il raccontare la propria sofferenza serve inoltre a oggettivarla, a trasformarla in qualcosa che si passa ad altri (come il testimone in una gara) per coinvolgere, ma anche per uscire dall’isolamento, per creare un filo conduttore tra il prima e il dopo. Infine, per passare attraverso il racconto una testimonianza che lasci una traccia indelebile del proprio vissuto. Lo scrivere, il mettersi a nudo, è simile in fondo alla narrazione orale che avviene durante la psicoterapia: da racconto privato diventa comunicazione pubblica. Con l’analogo scopo di elaborare, di ricercare un equilibrio, di dare senso alla propria sofferenza. Ma anche alla propria esperienza. La rete di comunicazioni, poco alla volta, diventa un affresco in cui si intrecciano i sottili fili delle relazioni. Una rete che produce calore e incoraggia a persistere nella sfida.

La malattia è quasi sempre vissuta con un senso di ingiustizia e di vergogna. Attraverso il racconto il malato riacquista dignità. Perché la malattia è come una violenza subita che abbassa la stima di sé («Perché proprio a me?» ci si chiede) e scrivere la propria storia serve a riacquistare fiducia, dicono coloro che si occupano di antropologia medica. Mettere per iscritto, raccontare ad altri, aiuta a metabolizzare ciò che è successo. L’esperienza dolorosa si trasforma, subisce una metamorfosi, diventa un fatto letterario e va oltre. La «vittima» diventa «protagonista». Dal registro patetico si passa a quello epico-tragico in cui c’è un io narrante (protagonista) e un’antagonista (la malattia).

L’identificazione in chi legge è facile e ha un effetto certamente catartico.

Se per i protestanti la malattia era il castigo di Dio e il successo materiale era essere sani, per i cattolici essa aveva un effetto salvifico per conquistarsi la benevolenza di Dio e quindi il Paradiso. C’è chi ritiene che queste prospettive siano oggi superate. Si assiste infatti a una presa di possesso del proprio corpo, una riappropriazione che pone l’accento su un rapporto nuovo, paritario, con il medico. La protagonista riceve informazioni sulle possibili terapie, sulle eventuali prospettive, sugli inevitabili effetti collaterali, ma poi, in definitiva, è lei a scegliere. A decidere della sua sorte con straordinaria determinazione. Erodoto racconta che i babilonesi portavano i malati sulla piazza del mercato e che a chiunque veniva data la possibilità di accostarsi al malato, consigliarlo sulla malattia. Se qualcuno aveva avuto lo stesso male o sapeva di un altro che l’avesse avuto, si faceva avanti, dava consigli e raccomandava tutto quanto aveva fatto lui stesso o qualcun altro. Non era permesso oltrepassare il malato senza aver chiesto che malattia avesse. Se questa consuetudine tornasse, chissà quanti assembramenti.

C’è chi dice che questo bisogno di confrontarsi attraverso la narrazione nasca da una mutazione della società moderna verso fenomeni condivisi di solidarietà. Un’alternativa alla mentalità borghese. Non c’è lo specialista, ma il mettersi assieme (chi scrive e chi legge) per affrontare un problema comune, magari sottovalutato e difficilmente individuato. Forse è il sintomo del fallimento dell’industria della psiche che punta all’individualismo? Altri vedono in questo fenomeno un’alternativa alla «parzialità» offerta dalla medicina. Una medicina certamente non infallibile. Consapevolezza che è cresciuta grazie anche a una più diffusa distribuzione di informazioni. Consapevolezza che ha ridimensionato la fiducia cieca nella medicina tecnologica capace, come sono andati ripetendoci negli ultimi trent’anni, di vincere ogni malattia.

In questo clima di ripensamento e di sfiducia si è diventati meno disposti a delegare ciecamente all’esperto. Se prima il malato si affidava, oggi tende a riappropriarsi sia del proprio corpo che della propria malattia. Il corpo gli appartiene (questo atteggiamento nasce anche dal lavoro del femminismo) e non l’affida, ma combatte, contratta, si difende, riflette, chiede. Succede che né medici né infermieri siano però disposti a contrattare. Loro sono quello che sanno. E che il recupero della malattia e del proprio corpo sia di matrice femminile lo dimostra il fatto che nove volte su dieci i libri scritti sulla propria malattia sono scritti da donne.

In tutti questi libri in cui i malati raccontano della loro malattia, emerge una critica al sistema sanitario, alla medicina tradizionale che ha trascurato il malato come persona. E torna in mente il racconto che Nanni Moretti ha fatto della sua malattia nel film Caro diario. Una pagina efficace di come andrebbe rivisitato il rapporto medico-paziente. La medicina, da Ippocrate in poi, si esercita tra «techne» e valori umani. E cioè scienza applicata all’uomo e rapporto tra uomini sono i due elementi animatori e categorici del mestiere di medico. Forse è anche questo il messaggio che il nuovo filone editoriale, di cui fa parte questo volume, vuole con forza esprimere. E le parole, si sa, facilmente si dimenticano, mentre gli scritti restano.

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NEL SEGNO DEL CANCRO di Cinzia Spadola

La postfazione di Paolo Tralongo

Il controllo di malattie infettive, l’avvio di programmi di educazione sanitaria ed una migliore igiene di vita hanno contribuito a determinare un prolungamento della vita media dell’individuo; contemporaneamente i progressi scientifici raggiunti negli ultimi anni hanno indotto la remissione di numerose patologie ed il controllo di molte altre.

In ambito oncologico, l’avvio di programmi di diagnosi precoce, l’applicazione di procedure di integrazione terapeutica multidisciplinare e, infine, l’inserimento nella pratica clinica di nuovi ed efficaci principi attivi hanno modificato la storia naturale di molte neoplasie maligne : la cronicizzazione di tumori di frequente incidenza e di valenza sociale, quali quello mammario o del colon, rappresenta, infatti, un riscontro usuale. I pazienti, oggi, vivono più a lungo e non a caso si parla di lungo sopravviventi, cioè di persone che, superata la fase acuta di malattia, si trovano a vivere una esperienza identificabile come fase post-acuta, caratterizzata da controlli periodici finalizzati alla individuazione di una eventuale ripresa evolutiva di malattia e/o di effetti collaterali tardivi attribuibili ai trattamenti e che possono minacciare la qualità della salute.

Per tale motivo, anche la valutazione della QOL e la sua percezione rispetto ad un trattamento riportata dai pazienti (PROs) rappresentano, oggi, alcuni dei requisiti cui fa riferimento la comunità scientifica per valutare l’efficacia di una procedura terapeutica o di un nuovo principio attivo.

Contestualizzata in questo ambito e nella consapevolezza che la patologia di cui trattasi esprime un decorso cronico, la strategia terapeutica, oltre a considerare il controllo sulla patologia, non può misconoscere una più ampia e completa prospettiva centrata sul paziente, sulla sua unicità fisica e psichica; paziente – persona che dinnanzi agli stati di ansia e di preoccupazione per il proprio futuro chiede al medico – persona un duplice aiuto: tecnico (per la componente medico-scientifica) ed umano (per la componente antropologica). Per poter pianificare concretamente un tale programma terapeutico è necessario che si realizzi un nuovo rapporto medico-paziente, non sbilanciato ed unidirezionale ma equilibrato e bidirezionale, all’interno del quale entrambi manifestano la piena consapevolezza che la loro reciprocità si fonda su una comunicazione piena ed esaustiva anche quando apparentemente difficile e complessa. Alle richieste del paziente deve corrispondere una disponibilità all’ascolto ed alla comunicazione da parte del curante, il quale, considerate le peculiarità (età, sesso, cultura,…) dell’assistito, deve fornire le risposte atte a soddisfarne, per quanto possibile, le esigenze e le attese (recupero del ruolo sociale, nuova pianificazione della propria vita familiare, desiderio di avere un figlio,..) o a giustificarne il loro mancato pieno raggiungimento quando non esistono le condizioni per poterlo fare (guarigione non completa). Questo modus operandi può migliorare l’adesione del paziente alle cure e/o alle verifiche strumentali periodiche e, contestualmente, può ridurre l’inquietudine del paziente per un futuro, sociale e familiare, incerto. Non va dimenticato, infatti, che la diagnosi di cancro ferma il tempo che improvvisamente appare perduto e proiettato a chiudere repentinamente l’esistenza dell’individuo. La disponibilità umana del medico può contribuire a riattivare la speranza che il tempo possa essere, in qualche modo, nuovamente percorso con dignità, facendo si che le proposte terapeutiche considerate dalla comunità scientifica internazionale più vantaggiose possano essere accettate anche quando non completamente risolutive.

Così facendo, da parte sua, il medico ha la possibilità di riappropriarsi di un ruolo che gli è peculiare, cioè quello di ricercatore del benessere della persona ammalata, ricerca che contiene, in nuce, il senso più profondo di una attività assistenziale che si realizza in un contesto di rapporti umani. A questo proposito vale qui ricordare quello che ha scritto Hermann Boerhaave, clinico olandese, e cioè che al medico sono richieste essenzialmente due cose: la prima che possieda la scienza e la seconda che abbia la predisposizione di genio per esercitarla con amabile cordialità (ut exerceat medicinam jucundam).

Ogni pagina dell’esperienza, per certi aspetti singolare, di Cinzia, riportata in questo volume, è continua testimonianza di quanto gli aspetti comunicativi, relazionali, umanistici, oltre che scientifici, siano rilevanti nel condizionare gli esiti di un programma assistenziale e lo stato di benessere del paziente affetto da cancro.

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AGGIORNAMENTO DEL 14 aprile 2010

Giulio Perrone mi ha segnalato questo libro che ha appena pubblicato nella collana Lab (perfettamente in tema con il post): “A dieci centimetri dal cuore” di Claudia Vegana.

Gli amici dell’ufficio stampa Mondadori, invece, mi segnalano il libro di Giacomo Cardaci: “La formula chimica del dolore”.

Pubblico le schede dei due volumi qui di seguito invitando Claudia Vegana e Giacomo Cardaci a partecipare alla discussione (se ne avranno la possibilità) e a dirci qualcosa sui loro libri.
Massimo Maugeri

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“A dieci centimetri dal cuore” di Claudia Vegana (Perrone / Lab, 2010)

cop_A dieci centimetri dal cuore ANTEPRIMA.jpg

Continuo a toccarmi la testa. La sfioro e la tasto con le mani. Quasi ad avere la conferma che stiano davvero ricrescendo i miei nuovi capelli. Mi piace sentire sulle dita il loro pizzichio impertinente e la loro giovinezza. A volte mi sento quasi come un’esploratrice, anzi mi sento proprio un’argonauta giunta alla fine di una missione speciale. Anche se non ho ancora finito il mio viaggio sento che queste prime tappe mi hanno già fortificato

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Cecilia ha trentotto anni, un lavoro che ama, un marito e il progetto di un figlio quando scopre, accidentalmente, di avere un tumore al seno. È l’inizio di un percorso in salita: l’attesa della diagnosi, la rabbia e poi l’intervento, l’odore di disinfettante dell’ospedale che diventa giorno dopo giorno familiare, la chemioterapia.
La storia di Cecilia è la storia che accomuna migliaia di donne. È la storia di un dolore che modifica la percezione del mondo, di uno squarcio che si apre e che fatica a richiudersi. Ma è anche la testimonianza, vera, della possibilità di tornare alla vita.

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“La formula chimica del dolore” di Giacomo Cardaci (Mondadori, 2010)

Pazienza. Questa è la virtù di cui deve armarsi chiunque si ammala e deve curarsi, mettersi in lista per le visite, attendere i risultati degli esami, le prognosi dei medici, l’effetto delle medicine, sopportare i compagni di corsia – chiunque deve sperare e lottare per guarire. Pazienza: ce ne vuole ancora di più se la malattia, con tutta la sua ingiustizia e assurdità, ti colpisce quando sei nel fiore dell’età più impaziente di tutte, la giovinezza affamata di vita e di futuro. Come l’autore di questo libro, così Filippo, il suo protagonista, si trova a fare i conti con un male temuto a tal punto che spesso non si osa nemmeno pronunciarne il nome, come per una colpa inconfessabile: il tumore. Inizia così la sua odissea attraverso uno dei luoghi più kafkiani dei nostri tempi, l’ospedale. Pur senza smettere per un momento di interrogarsi sulle ragioni del dolore che lo colpisce, Filippo ci racconta la propria guerra contro la malattia con tutta la freschezza della sua giovane età. E dà voce alla folla silenziosa dei tanti pazienti che riempiono loro malgrado quella “prigione degli innocenti” che è l’ospedale, dove si viene rinchiusi senza avere commesso alcun delitto.

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/04/12/nel-segno-del-cancro/feed/ 189
PENTELITE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/02/09/pentelite/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/02/09/pentelite/#comments Mon, 08 Feb 2010 23:09:49 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1702 pentelite-logoHo il piacere di presentarvi Pentelite: volume annuale nato da un progetto letterario di Salvo Zappulla in collaborazione con il Comune di Sortino (SR).
Pentelite non viene messo in vendita. È elargito in omaggio ai collaboratori, alle associazioni culturali, alle biblioteche e ai circoli di lettura… un progetto nato in un piccolo comune siciliano con l’obiettivo di contribuire alla crescita culturale e letteraria.
Mi fa piacere dedicare un post apposito a questo progetto per un motivo molto semplice. Come scrive Zappulla nella sua prefazione, alcuni dei collaboratori di questo numero di Pentelite sono stati “intercettati” proprio qui a Letteratitudine. Insomma, Pentelite ha una sorta di aura letteratitudiniana.
Chi lo sa: magari, con la vostra collaborazione, da questo post potrebbero nascere idee per il prossimo volume di Pentelite…
Ne parliamo con lo stesso Salvo Zappulla e con Maria Lucia Riccioli (che ha co-curato questo nuovo numero)… auspicando gli interventi di tutti coloro che ne hanno contribuito alla realizzazione.
Massimo Maugeri

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PENTELITE 2010

Presentazione di Salvo Zappulla

pentelite-2010Pentelite 2010. Sono passati quindici anni. Una vita. Forse è arrivato il momento di tirare un bilancio. La prima considerazione è: stiamo invecchiando. L’entusiasmo non è più quello di una volta e anche il fisico comincia a cedere. Reggere il peso della C(q?)ultura è faticoso. In particolare per me, fare le scale che portano alla sede della manifestazione (la chiesa del Carmine) è diventata un’impresa: le ossa scricchiolano, le mani tremolano, la lingua spesso s’impiglia nella dentiera. Un bastone a cui appoggiarsi potrebbe non bastare. Occorrono forze fresche, e nuove energie. Sarebbe un peccato disperdere tale patrimonio. Giovani fatevi avanti. Quindici edizioni di Pentelite. Quindicimila copie stampate e diffuse in tutta Italia (e anche oltre) rappresentano una scommessa vinta. I migliori nomi della cultura siciliana anche quest’anno sono stati ben lieti di darci i loro testi. Scrittori e giornalisti di fama nazionale e internazionale hanno accettato con piacere di far parte del gruppo. Significherà pure qualcosa. O no? Persone che vivono in ogni angolo d’Italia (qualcuna anche all’estero). Persone belle, che credono ai sogni, conosciute attraverso questo strumento diabolico che è il computer, molte, diciamolo pure, su Letteratitudine, il blog del mitico Maugeri. Potenza della scrittura, del desiderio di condividere attraverso la parola scritta emozioni, sentimenti legati alla letteratura. Potenza della parola. Incanto e poetica della Parola. La parola come strumento salvifico. La parola-pietra per citare Carlo Levi. A volte basta poco per realizzare cose belle: spirito di iniziativa e idee, come ha fatto Virginia Foderaro con l’agendina letteraria di Opposto. Pare che quell’agendina porti fortuna a quanti ne entrino in possesso.
Internet è destinato a diventare l’invenzione del secolo, ha rivoluzionato il sistema della comunicazione. E’ una finestra sul mondo. Ha dato libero accesso a tutti, visibilità a quanti desiderano esercitare il loro diritto all’esistenza, dalla casalinga al poeta locale cui nessuno voleva dare credito letterario. Un oceano popolato da pesci multiformi che si muovono sconnessi alla ricerca di luce. Nel bene e nel male ha sovvertito certi strumenti di potere, egemonia della stampa e della televisione. Una rivoluzione in piena regola. Fioriscono i siti on-line, proliferano i blog e si intrecciano amicizie. Tornando alle cose nostre, se apriamo la parte della saggistica con Sebastiano Burgaretta e Marinella Fiume, due storici tra i più profondi conoscitori della nostra terra e delle nostre tradizioni, vuol dire che qualcosa di buono abbiamo pur fatto. E se subito dopo un’ospite illustre quale Rita Charbonnier, scrittrice romana, i cui romanzi sono tradotti in mezza Europa e persino in America, ci invia un articolo gustosissimo e illuminante sul suo rapporto con la Sicilia, vorrà dire ancora qualcosa. Giorgia Lepore, archeologa dell’Università di Bari, insegnante, scrittrice, è un altro pezzo pregiato che si aggiunge alla collezione. Così come l’articolo del caro Subhaga Gaetano Failla su Bonaviri, uno degli scrittori più importanti del nostro secolo. Renzo Montagnoli ci ricorda Mario Rigoni Stern, altro grande scrittore e grande uomo. Uno dei più amati in assoluto, un esempio da seguire. Personalmente ho un ricordo molto caro di Rigoni Stern: lo conobbi tre anni fa al Salone di Torino, c’era un pubblico enorme a seguire il suo intervento. Esordì dicendo:”Sono venuto a piedi dal mio albergo fino a qui, quanto traffico, quanto rumore, come vivete male in città”. Si levò un applauso lunghissimo, interminabile.
Sabina Corsaro, Dottore di Ricerca, aggiunge linfa vitale al nostro libro. Simona Lo Iacono, fresca vincitrice del premio Vittorini opera prima, è un’altra perla che va a impreziosirlo. E le giornaliste siracusane Annalisa Stancanelli, Veronica Tomassini, altre magnifiche realtà del nostro territorio. Angelo Orlando Meloni ci presenta un autore impegnato, pubblicato da Del Vecchio, editore giovane che promette scintille e di cui si dice un gran bene (che Dio lo illumini). Maria Lucia Riccioli quest’anno cura la stampa del libro assieme a me (la seconda parte, quella riguardante il premio letterario) e anche lei rappresenta un investimento. Forze emergenti e propulsive. Massimo Maugeri ci ha fornito un testo importante sulla letteratura per ragazzi. Rina Brundu ormai è una vecchia conoscenza e il suo saggio su Maria Teresa Scibona è l’incontro fatale tra due spiriti grandi. Morena Fanti e Marco Scalabrino ci collaborano da anni e sono colonne portanti di questo libro. A loro si sono aggiunti i giovani Serena Acquilino, Giampaolo Pitruzzello e Antonio Lanza, loro sono il futuro, la prova materiale che abbiamo fornito gli stimoli giusti. Serena ci racconta Sortino visto da lei, una ventenne. Antonio Lanza ci fornisce una testimonianza piacevole: l’esperienza culturale del Comune di Biancavilla (CT). Bene. Piccoli sintomi di risveglio in una Sicilia che non vuole rassegnarsi all’oblio Per concludere, un ringraziamento doveroso al sindaco, prof. Paolo De Luca, all’avv. Dionisio Mollica, assessore alla Cultura del Comune di Sortino, che ci seguono con affetto, e alla prof.ssa Teresa Gigliuto, la cui collaborazione è stata preziosissima. E infine il Concorso di poesia e la estemporanea di pittura sulla legalità organizzati dall’ACIPAS. La collaborazione dell’associazione antiracket ci onora e ci dà prestigio. C’è bisogno di legalità e c’è bisogno di moralità. Grazie anche al presidente Alfio Pitruzzello e al prof. Mauro Magnano per essere con noi.
Il resto, come sempre, è ancora da scrivere. (Speriamo).

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Presentazione di Maria Lucia Riccioli

Secondo Indro Montanelli, premi letterari non ce ne sono mai abbastanza, mentre non mancano mai gli incentivi all’incultura.
Saba invece, ironicamente, sosteneva che i premi letterari sono una crudeltà. Soprattutto per chi non li vince.
L’Italia, storicamente, è la culla dei premi letterari. Dai certamen poetici ai blasonati Strega, Campiello, Bancarella e tanti altri, per tutto lo stivale è un pullulare di concorsi. Eppure per la lettura il nostro popolo si classifica sempre tra gli ultimi.
Punti di vista o qualcosa non quadra?
Chi partecipa ad un premio letterario dev’essere animato dalla giusta ambizione e dal legittimo desiderio di essere letto e di vedere riconosciuti i propri meriti, ma deve rifuggire ogni spirito di vanità e porsi soprattutto nell’atteggiamento di confronto amichevole con i sodali nell’esercizio delle arti belle. Un premio letterario, vissuto in questo senso, è veramente un’occasione di crescita, sia per chi lo organizza che per i partecipanti.
Quando Salvo Zappulla mi propose di fare la “giurata” per l’edizione 2009 del Premio letterario “Città di Sortino”, non esitai ad accettare.
Le precedenti edizioni, garanzia di serietà. La rivista “Pentelite”, fregiata di pregevoli firme. Il comitato organizzatore e il meccanismo di selezione e voto, al di là di qualsiasi sospetto di maneggi o di spoil system
Solo l’amore sincero per la cultura e il desiderio di dare lustro a Sortino con una manifestazione dedicata alla scrittura narrativa e poetica e ai libri.
Le poesie e i racconti pervenuti sono animati da una genuina passione per lo scrivere e devo dire che sia contenutisticamente che stilisticamente sono di buona fattura.
Innanzitutto gli autori sono desiderosi di esprimersi, di comunicare il proprio mondo interiore. Vogliono dare voce a sentimenti e pensieri, l’urgenza fa trovare loro parole in prosa e versi.
Al di là dei risultati e delle classifiche, il senso di questo premio è offrire a poeti e narratori un’occasione di incontro, dei lettori più o meno qualificati ma sicuramente interessati. Per gli organizzatori, la soddisfazione di veder crescere la stima intorno a questo premio, di leggere i componimenti degli autori ed entrare nel loro mondo umano e creativo.
Ringrazio veramente di cuore ognuno dei partecipanti per la fiducia riposta in noi e l’esperienza che mi hanno permesso di vivere, lo staff organizzativo di “Pentelite” e… ad maiora!

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/02/09/pentelite/feed/ 129
RECENSIONI INCROCIATE n. 10: Alessandro Cascio, Sergio Sozi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/23/recensioni-incrociate-n-10-alessandro-cascio-sergio-sozi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/23/recensioni-incrociate-n-10-alessandro-cascio-sergio-sozi/#comments Wed, 23 Dec 2009 06:22:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1492 recensioni-incrociate.jpgQuesta nuova puntata de Le recensioni incrociate di Letteratitudine, trae origine da quest’altra che vedeva come protagonisti dell’incrocio Enrico Gregori e Francesco (Didò) Di Domenico. In quell’occasione promisi a Sergio Sozi e ad Alessandro Cascio un incrocio letterario (che avrà modo di svilupparsi – appunto - in questo post).
Devo dire che sono particolarmente lieto di questa combinazione, perché credo che Sergio Sozi e Alessandro Cascio siano molto diversi come approccio alla scrittura e come modo di scrivere. Ma quando le differenze diventano occasione di sano confronto – così come sarà nell’ambito di questa discussione -non possono che contribuire a una crescita comune.
I libri oggetto dell’incrocio sono “Menu” di Sergio Sozi (edito da Castelvecchi) e “Touch and splat” di Alessandro Cascio (edito da Historica).
Nemmeno a farlo apposta sembra che un libro faccia “il verso” all’altro (e viceversa). Se dal libro di Sozi emerge una sorta di condanna contro l’imbastardimento anglofono della lingua italiana (“parliamo una neolingua conosciuta come angloitalo“), il libro di Cascio risponde con un titolo in inglese (“Touch and splat“).
Colgo subito l’occasione, dunque, per introdurre i temi di discussione che vi propongo parallelamente a quello sui due libri.
Ecco le domande del post…

La lingua italiana rischia davvero di essere imbastardita dall’inserimento di termini provenienti da altre lingue?

Fino a che punto questa sorta di commistione può essere considerata contaminazione in senso negativo?

Qual è il discrimine e – soprattutto – chi (e come) dovrebbe decidere il limite entro cui tale commistione è arricchimento e normale evoluzione (superato il quale diventa, invece, svilimento della lingua)?

Certo, vedere la propria lingua perdere identità potrebbe generare anche rabbia…

E a proposito di rabbia (riferendomi al libro di Cascio) passiamo all’altro tema del post. E domando…

La società in cui viviamo è particolarmente rabbiosa? Più rabbiosa di quelle del passato?

Quale potrebbe essere un “giusto” antidoto contro la rabbia dilagante?

Seguono le recensioni incrociate di Alessandro e Sergio… più ulteriori recensioni dei due libri firmate da Salvo Zappulla (sul libro di Sozi) e Sacha Naspini (sul libro di Cascio).
Massimo Maugeri


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Il Menu” (Castelvecchi) di Sergio Sozi

recensione di Alessandro Cascio

Nel 2002, il visionario e geniale Kurt Wimmer, grande sceneggiatore ma regista di nicchia, scrisse e diresse Equilibrium, che narra le sorti di un’umanità priva di pensiero ed emozione, d’arte e cultura, confinata nella nazione della Libria. Il film in Italia non ebbe molto successo, ma solo perché la massa è balorda: se così non fosse ci sarebbe più gente ai musei che a teatro e forse, dopo tempo, i cross di Del Piero si ammirerebbero come fossero “arabesque et battement” di danza classica e sulle tribune del Petruzzelli nascerebbero schiere di Ultras che patteggiano per protagonisti e antagonisti con tanto di striscioni che inneggiano Romeo a lasciare quella calamità di Giulietta per la bella Rosalina. Io con i balordi ci sto bene, vivo in Sicilia, uno dei paesi più mafiosi del pianeta, ma a giudicare dal suo Il Menu, edito da Castelvecchi, lo scrittore Sergio Sozi non si limita soltanto a odiarli, ma ne delinea ironicamente ogni tratto, immaginandone la decaduta, tramutandoli in deficienti con comportamenti da primati, privi di alcuna attività mentale creativa. Per chi come me ama più il cinema che la letteratura, il paragone con Kurt Wimmer sarà un onorevole riconoscimento, perché credo che Il Menu sia un Equilibrium nostrano, in cui il primo segno del decadimento è la scomparsa della Pizza, che cede il passo agli Hamburger nel lento processo di americanizzazione che accompagnerà la nostra Italia fino alla formazione della nazione del Buruguay, con capitale Washington, in cui la vecchia Roma prende il nome di New Miami, Torino prende il nome di Bulltown e Milano di Mayland. Nel Buruguay del 2050 è proibito lo studio della Storia di cui tra l’altro non si sa molto perché gli ultimi testi tramandati dall’antica civiltà italiana, sono diventati del tutto incomprensibili. Per farvi capire il cammino dell’incomprensibilità che Sozi vuole mostrarci, pensate al fatto che un tempo, l’amore ci veniva spiegato da Shakespeare e la sua prosa e adesso, invece da Moccia. Se avete abbastanza cultura antica e moderna da poter fare un confronto, potrete notare che il saggio-commedia Il Menu, non ha nulla di così catastrofista, ma si limita ad anticipare i tempi, palesemente: che è come prevedere che un uomo in volo, gettatosi dal decimo piano, prima o poi arriverà al marciapiede.
Proprio in quella futuristica nazione, l’io narrante Lukin Philippucci scopre il diario del poeta scomparso Cesare Menicucci, che con le sue strofe, narra le gesta di quel popolo estinto dopo la chiusura dell’ultima biblioteca nel 2003. Ho letto che qualcuno ha definito “Il Menu” fantascienza. Credo che Asimov si sia rivoltato nella tomba, a meno che non l’abbiano cremato (allora si sarà scombinato nell’ampolla). Le basi del romanzo fantascientifico hanno come regola principale non scritta “evitare l’ironia, il futuro è una cosa seria”. Una cosa seria non è assolutamente il romanzo di Sozi, che sì, affronta temi seri come il cammino dell’esistenza e della cultura, ma lo fa da commediografo napoletano, anche se è nato a Roma, è cresciuto in Umbria e vive in Slovenia. Basta sfogliare il romanzo e imbattersi nel linguaggio usato nel 2050, per capire di cosa sto parlando

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Touch and splat” (Historica) di Alessandro Cascio

E l’Anticristo verrà dagli Stati Uniti?

recensione di Sergio Sozi

Allora. A prender il toro per le corna, dirò subito che ”Touch and splat” è un romanzo breve col quale il sottoscritto ha poco da condividere: stilistica e ambientazione umana e territoriale (ossia gli americani e gli U.S.A.), senso di fondo e scelte lessicali e sintattiche non appartengono in alcun modo, infatti, ai miei gusti, sia attuali che precedenti. Per i motivi che tutti sapranno se appena informati delle mie pubblicazioni – poche ma ”chiare e tonde”.
Tuttavia un critico è un professionista, non un qualsiasi cittadino che legge e giustamente scarta o apprezza senza dover render conto ad altri che non siano lui stesso delle proprie selezioni. Il critico ha il dovere di capire, paragonare e soprattutto affrontare: affrontare il toro-libro per le corna, scegliendo, fra le diverse tattiche di presa a sua disposizione, quella che egli reputi la piú confacente alla bisogna, al caso in sé, ma anche la tattica che gli consenta di restare moralmente ineccepibile. Il critico secondo me, appunto, deve avere una sua morale, ma non deve permettere che essa lo soffochi e ne pregiudichi il lavorio di analisi e comprensione di un testo. Cosí anche onestà, competenza ed intelligenza, nonché amore per la cultura e per l’uomo che ne sta dietro, sono il paradigma fondante di ogni uomo vero da sempre e per sempre – all’epoca di Platone come in quella di Petronio e di Moravia. A maggior ragione questa sia allora la ”bibbia” di un critichetto qualsiasi come il sottoscritto: che un libro sia sempre guardato oggettivamente, pur senza lesinare osservazioni anche d’ordine etico-morale o d’altra natura. Libertà di opinione all’interno dell’obbligo al rispetto per l’opera umana.
Dunque, dopo questa indispensabile premessa, direi che questo libro di Alessandro Cascio sia ben inquadrabile nello specchio della litote che ne cadenza una buona parte del filmico scorrere, questa: ”Quella rabbia non vi porterà nulla di buono”.
La litote è una figura retorica che afferma qualcosa negando il suo contrario. Dire che una cosa non ti fa bene equivale a esprimere in forma attenuata l’avviso che esplicitamente direbbe invece: ”la rabbia ti fa male”.
E appunto sulla rabbia dell’uomo (moderno e americano) e sullo psicotico evolversi di questo stato emozionale alterato in furia omicida è incentrato il romanzo breve di Alessandro Cascio, il quale pone un gruppo di giovani (o forse di quarantenni?) statunitensi nella scenografia, ormai dismessa, di una locazione nella quale vennero anni prima girate grandi pellicole western – ai tempi d’oro di produzione statunitense e poi, nella decadenza, con capitali e registi italiani o spagnoli: insomma Spaghetti Western, come da denominazione ormai stranota. In tale stralunato, obliquo e mortifero panorama di cartapesta, dunque, questi giovinastri mezzo suonati si affrontano nel gioco del ”touch and splat” (letteralmente: ”Tocca e spappola”). Si tratta di una finzione-divertimento piuttosto idiota, anzi direi demenziale e sottosviluppata culturalmente: questa gente – un branco di cosiddetti conoscenti – affitta l’area dal suo proprietario e si munisce di fucili a salve per liberarsi dagli istinti omicidi repressi nel corso della vita quotidiana sparandosi addosso scariche di proiettili di gomma colorati (che addolorano ma non ammazzano).
La cronaca dell’incontro conviviale di quei grezzotti (che dovrebbe avvenire, mi sembra di capire, in tempi attuali), ovviamente contempla una ricostruzione degli antefatti – ossia i rapporti esistiti precedentemente fra i protagonisti – e include la presentazione di un progetto sperimentale di ”riabilitazione carceraria” che lo psicologo Rupert Kensington compí nei primi anni Sessanta negli U.S.A.: l’EIR (acronimo italianizzato di Experiment of Hydrophoby and Rage-regression; appunto Esperimento di Idrofobia e Regressione della rabbia).
Cos’era?
Era l’attuazione nelle carceri statunitensi della teoria che l’uomo moderno (soprattutto quello in stato di detenzione, ma anche, si lascia intendere, quello sottoposto agli obblighi della normale vita sociale) non può prescindere da un connaturato impulso all’omicidio e all’aggressione fisica, insomma da una rabbia repressa che, se non sfogata in qualche modo, può solo esplodere in reali assassini (ossia al ritorno a delinquere per gli ex galeotti).
Perciò l’EIR venne applicato – dice il romanzo nelle sue precise digressioni – offrendo ai carcerati americani l’unico sfogo di un incredibile gioco di ruolo: delle giornate nelle quali i galeotti piú miti prendevano i panni delle vittime e i galeotti piú feroci li potevano angariare senza troppi danni reali:

”L’esperimento (…), consisteva nel munire un gruppo di carcerati (soggetti attivi) di fucili in plastica a pallettoni colorati e di creare un’atmosfera del tutto simile a quella della società esterna. Per far questo si travestivano i galeotti considerati più pacati (soggetti passivi) in cassieri di supermarket, mogli, datori di lavoro, padri violenti e ogni sorta di personalità tipo che potesse scatenare impulsi idrofobi.
Attraverso una riproduzione dettagliata di ambienti e situazioni, si creava quindi la circostanza che aveva portato il soggetto attivo al compimento dell’azione criminale e gli si permetteva di tramutare la “rabbia statica” in “rabbia dinamica” (Dynamic Rage) e di far venire fuori, attraverso l’uso delle armi finte, i propri fantasmi interiori per poi liberarsene definitivamente.”
(”Touch and splat”, pp. 49 e 50).

Però il giochetto non funzionò e negli anni Settanta venne fermato dalle Autorità perché i detenuti-vittima, una volta scontata la pena, presero ad inseguire ed uccidere per le strade i delinquenti che si rendevano colpevoli di omicidi e violenze sessuali. Si erano immedesimati nella parte della vittima cosí tanto da assumere il ruolo di giustizieri.
Come, dunque, commentare nel 2009 questa colossale americanata psicotico-sperimentale? Cosí: credo che il risultato fosse ovvio (Cascio mi darà ragione, penso), poiché l’assunto del signor Kensington era del tutto erroneo, per non dir folle tout court: se si permette ai piú cattivi di esprimere la propria brutalità sui piú deboli, i deboli incattiviscono odiando i loro persecutori mentre i cattivi restano tali. La rabbia del violento, infatti, mica è come l’aria negli pneumatici, che se la lasci uscire affloscia il tubo di gomma: la violenza genera violenza. Chi semina vento raccoglie tempesta. E l’assunto di Kensington era del tutto erroneo.
Ma…
…ma questo lo consideriamo ovvio, poiché tutto ciò è stato inventato di sana pianta dal bravo Alessandro Cascio, effettivamente geniale nel creare l’intero alfabeto del suo racconto, oltre che nel tessere una storia che ha sicuramente il merito di metterci al riparo da chi voglia considerare l’uomo come uno pneumatico. Un libro, allora, ”Touch and splat”, che vorrei possedesse le valenze che meno gli si potrebbero addossare: quelle consistenti nell’avvisarci di certe teorie bislacche e postmoderneggianti. Un libro in fondo violentemente nonviolento. E mi si perdoni l’ossimoraccio.

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IL MENU di Sergio Sozi (Castelvecchi)
recensione di Salvo Zappulla

Sergio Sozi è letterato autentico, i classici sono la sua passione (Dante, Petrarca, Boccaccio i maestri a cui si ispira), l’integrità morale la sua ossessione. Integrità che a volte sconfina nella rigidità ma non vi è dubbio che il personaggio sia un puro, la stessa purezza che trasmette nelle sue opere di narrativa. E non è poco riuscire a mantenere un simile candore in un mondo in cui il successo è spesso frutto di compromessi. Questo romanzo pubblicato da Castelvecchi (Il menù, pagg. 106, €. 13,00) ci dà la conferma della sua vena istrionica, la facilità di scrittura, la fantasia scoppiettante che sconfina nel divertissement irriverente e beffardo. Sergio guarda con nostalgia al passato, pretende rispetto per la lingua italiana. Fustigherebbe volentieri quanti scrivono senza possedere gli strumenti del mestiere. I congiuntivi bisogna azzeccarli. Tutti. Le tradizioni e la storia vanno salvaguardate, nella loro interezza. Quasi un’operazione pedagogico-patriottica la sua, una chiamata alle armi in pieno spirito risorgimentale. In questo romanzo, utilizzando la brillante idea di un diario appartenente al vecchio poeta Cesare Menicucci, ci offre lo spaccato di un’Italia smarrita, senza identità, diventata satellite degli Stati Uniti, vittima di un lento ma inevitabile processo di americanizzazione. La pizza cede il passo agli hamburger. Gli eleganti abiti da sera si inchinano dinanzi a un paio di sdruciti, rozzi e scoloriti paio di jeans. La nostra amata lingua rischia di essere sostituita da quella inglese. Il progresso ha prodotto imbarbarimento. Dio ci liberi dagli avanguardisti, sperimentalisti occasionali, confusionisti e manipolatori arbitrari della nostra grammatica. Alcune riflessioni filosofiche di Sergio sono degne del miglior De Crescenzo. “Il menù” che ci offre è gustosissimo, ci invita a sorridere ma anche a riflettere con malinconia, appartiene al filone delle opere fantasatiriche e Sergio Sozi è un personaggio tutto da scoprire, per conoscerlo, amarlo o, se è il caso… evitarlo.
da ‘’La Sicilia’’ il 15 ottobre 2009

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TOUCH AND SPLAT di Alessandro Cascio (Historica)
recensione di Sacha Naspini

Solo un avvertimento: “Rilassatevi: quella rabbia non vi porterà nulla di buono.” È così che Touch and Splat di Alessandro Cascio vi attacca. Di petto, come uno spintone che ti rimette a sedere sulla poltrona, dove pensavi di andare? Quel che succede da lì in poi, non è che te lo scordi così in fretta. Touch and Splat è un western moderno? È una beffa al genere? È un’evoluzione? È un tributo a certo cinema? È… Difficile dirlo. Forse tutto questo, forse no. Forse è altro ancora. Quel che è vero, è che Alessandro Cascio mangia cinema e lo rigetta sulla pagina formulando una storia che ti fa sbalzare di qua e di là come su una strada a sterro affrontata col pedale a palla. Salti temporali e pagine come fucilate che ti fanno fare capriole da ottovolante, arrivi alla fine del giro e ti ritrovi di fronte di nuovo a quel cartello di avvertimento: “Rilassatevi: quella rabbia non vi porterà nulla di buono”. Il fatto è che se prima ce l’avevi sepolta, adesso la rabbia ti abbaia dentro come un animale. Touch and Splat è il nuovo lavoro di Alessandro Cascio. Quello che dovete fare è solo aprire questo volume, e ci lasciate le penne. Vi porta via, dalla prima pagina. Ve lo sparate in un paio d’ore e quando tornerete, per qualche minuto, non sarete più quelli di prima. Quello che vorrete, sarà ricevere una busta. Un invito che vi avverte che domenica, al vecchio West Golden Paradise, ci sarà un Touch and Splat. Unico suggerimento: “Non ammazzate nessuno, fino a quel giorno”.

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/23/recensioni-incrociate-n-10-alessandro-cascio-sergio-sozi/feed/ 390
NEL CUORE CHE TI CERCA. Incontro con Paolo Di Stefano http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/28/nel-cuore-che-ti-cerca-incontro-con-paolo-di-stefano/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/28/nel-cuore-che-ti-cerca-incontro-con-paolo-di-stefano/#comments Mon, 28 Sep 2009 20:20:04 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/07/28/nel-cuore-che-ti-cerca-incontro-con-paolo-di-stefano/ Post del 28 luglio 2008 (con aggiornamento in coda)

paolo-di-stefano.jpgPaolo Di Stefano (nella foto), nato ad Avola – Siracusa – nel 1956, laureato con Cesare Segre all’Università di Pavia, ha debuttato nel giornalismo come responsabile del “Corriere del Ticino” di Lugano. Ha lavorato per l’Einaudi, e per il quotidiano “La Repubblica”. Attualmente è giornalista culturale del “Corriere della Sera”. Tra le sue opere, la raccolta di poesie Minuti contati (Scheiwiller 1990) e l’intervista con Giulio Einaudi Tutti i nostri mercoledì (Casagrande 2001). E poi, per Feltrinelli: La famiglia in bilico (2001), Tutti contenti (2003; Premio Chianti, Premio Vittorini, Premio Flaiano) e Aiutami tu (2005; Premio Mondello).
Sulle pagine web de “Il Corriere della Sera” gestisce il forum Leggere e scrivere.

Ho il piacere di ospitare Paolo Di Stefano qui a Letteratitudine per presentare il suo nuovo e ottimo romanzo (in lizza per il SuperCampiello 2008): Nel cuore che ti cerca (Rizzoli, 2008, pag. 296, euro 19), una storia struggente e coinvolgente; caratterizzata dalla presenza di più voci che si avvicendano alle due principali: quelle di un padre e di una figlia.
La figlia si chiama Rita ed è solo una bambina quando viene rapita da un maniaco che per ben otto anni riesce a tenerla segregata in condizione spesso disumane (per di più infliggendole terribili violenze fisiche e psicologiche). Il padre si chiama Toni Scaglione, ed è un uomo obeso che fa il giornalista in un giornale scandalistico.
Scaglione va alla ricerca della figlia. Non si rassegna al tempo che passa senza esiti, non si piega alla disperazione dei fallimenti; né alle beffe delle illusioni.
Infine la figlia viene ritrovata.
Ma è ancora Rita, la giovane che è sopravvissuta al pluriennale rapimento?
Vi chiedo di discutere del libro – interagendo con l’autore – e di riflettere sulla piaga dei sequestri (e sulle conseguenze che lasciano sulla pelle e nella mente delle vittime).
Le vittime di un rapimento (soprattutto quelle di un rapimento lungo e prolungato) potranno mai tornare a essere davvero se stesse?
Ritenete che, rispetto al reato di sequestro, i bambini di oggi siano più a rischio di quelli di ieri?
E i genitori? I genitori di oggi sono più “attenti? Più “guardinghi”?

Allargando il dibattito, e parlando di famiglia,… ha ragione Di Stefano nel sostenere (vedi intervista sotto) “ho come l’impressione che le famiglie sane tradizionalmente intese non esistano più”?

Qual è la vostra sensazione?

Di seguito avrete la possibilità di leggere gli approfondimenti di Salvo Zappulla: recensione del libro (pubblicata su La Sicilia del 12/7/08) e intervista all’autore.

Massimo Maugeri

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NEL CUORE CHE TI CERCA, Paolo Di Stefano – Rizzoli, 2008, pag. 296, euro 19

Recensione e intervista di Salvo Zappulla

nel-cuore-che-ti-cerca.jpgRita ha dieci anni appena quando conosce il suo calvario. Rapita da un maniaco, rinchiusa in una squallida stanzetta tra topi e avanzi di cibo, con un televisore a tenerle compagnia, e seviziata per lunghissimi interminabili anni. Paolo Di Stefano, giornalista del Corriere della Sera e scrittore, racconta la storia di un’infanzia violata prendendo spunto da un fatto di cronaca, (la storia di Natasha Kampusch, la ragazza scomparsa a Vienna nel ‘98 e tenuta sequestrata per otto anni) sviluppa un noir psicologico dove i ruoli tra vittima e carnefice si intrecciano ambiguamente. Un tema che ricorre spesso nei suoi romanzi. Rita prova odio e affetto per il suo aguzzino, rabbia e speranza, più volte avrebbe la possibilità di fuggire ma rimane inerme accettando la sua condizione di schiavitù. E’ convinta di poterlo dominare, tra i due è l’uomo a sottostare, in quanto debole, in quanto morbosamente malato. La vittima pensa di aver provocato in qualche modo l’accaduto e quindi tende a difendere e a giustificare il suo carnefice. Un romanzo intenso e coinvolgente, a tratti commovente, tremendamente attuale, che contiene elementi forti. Parallelamente il romanzo procede con l’incessante ricerca del padre della ragazza, un giornalista fallito, con una situazione familiare difficile, ma tutto sommato un personaggio positivo, caparbio, non privo di slanci poetici, il quale non intende rassegnarsi alla perdita della figlia. Pagine di oscura prigionia e bagliori del mondo esterno fanno da contrasto connotando la storia di una propria impronta stilistica. La tensione emotiva della trama cresce vertiginosamente con lo scorrere degli eventi. Di Stefano compie un viaggio esplorativo nei labirinti dell’animo umano, apre voragini di dolore, percorre tragitti di profonda inquietudine, una sorta di ricamo interiore sulla complessità e la fragilità della psiche, con finezza di scrittura e acume introspettivo, a un ritmo serrato che coinvolge il lettore. Una storia che suscita orrore, fastidio, risentimento, tristezza, ma anche tanta tenerezza. Una miscela esplosiva di sentimenti contrastanti, con la sua severa morale capace di smuovere le coscienze. “Nel cuore che ti cerca” è stato finalista al premio Strega ed è attualmente in corsa per il Supercampiello.
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D. Di Stefano, questa è una storia dura, dall’impatto violento, perché ha voluta raccontarla ai suoi lettori?
R. Potrei rispondere che non sono io ad essere stato attratto da quel fatto ma è stato quel fatto a inseguirmi. La realtà è che uno scrittore, in genere, vive di ossessioni: una delle mie, che mi insegue (appunto) da quando ho cominciato a scrivere, è l’infanzia minacciata dagli adulti, dal mondo, dal destino, dalla malattia eccetera. L’infanzia minacciata, l’infanzia cui per qualche ragione è impedito di crescere. E’ un’immagine che mi risulta quasi insopportabile: non riesco a tollerare che un bambino soffra, mi pare profondamente ingiusto e inaccettabile, e forse è per questo che ci scrivo sopra i miei romanzi, dal primo (“Baci da non ripetere”) a “Tutti contenti”. Quando l’infanzia si trova, per qualche ragione, a sfiorare la tragedia o la morte, la mia sensibilità si accende quasi furiosamente e mi costringe a scrivere per liberarmi (almeno provvisoriamente) di quel trauma. Ecco perché mi sono messo a raccontare la storia di Rita. Ma alla fine forse per una risposta più convincente potrei ricorrere a Gadda: “Il mio libro è il prodotto di una normale attività fisiologica: l’ho scritto per la stessa ragione per cui il mio cuore batte, i miei polmoni respirano…”.

D. Certi traumi infantili si ripercuotono negativamente per l’intera esistenza, e spesso elementi esterni intervengono quando un minore non è protetto dai genitori. Quanto è importante il calore di una famiglia sana per la formazione di un individuo?
R. Mi rendo conto che continuo a girare intorno a questi temi trovando solo risposte parziali. Ho come l’impressione che le famiglie “sane” tradizionalmente intese non esistano più: c’è sempre qualche ragione endogena o esogena che interviene a turbare un equilibrio in genere già fragile. Tuttavia, è chiaro che la famiglia rimane il luogo centrale per la formazione (e per la deformazione, purtroppo) individuale. Per questo, la famiglia è sempre più un nucleo tematico interessante per la letteratura: è una sorta di inesauribile motore di immagini e visioni del nostro tempo. E’ come se in essa fosse contenuta una forza mitica di tensioni primarie. Me lo ha fatto notare Gabriele Pedullà in una sua recensione apparsa sul “Manifesto”: in fondo, la pedofilia che io racconto è il sintomo estremo dell’impazzimento in atto del ciclo delle generazioni. Il pedofilo non è oggi colui che sovverte l’ordine biologico ma colui che rende manifesto un principio più generale di una società di lolite dodicenni e settantenni. Una società fatta di adulti infantili e di bambini costretti a maturare troppo presto.

D. Rita, la protagonista del suo romanzo, instaura un legame quasi di complicità con il suo carceriere, chiamato da lei affettuosamente “Il signor Sergio”. Si sviluppano tra carnefice e vittima quei meccanismi contorti che rendono quest’ultima estremamente debole, incapace di reagire. Nel suo romanzo scava molto sulla fragilità della psiche umana. Cosa ha voluto fare emergere?
R. Non c’è intenzionalità nel mio racconto. Dunque, non posso dire di aver voluto far emergere qualcosa. Semplicemente, man mano che procedevo nella scrittura e via via che i personaggi prendevano voce forma e vita mi accorgevo che affioravano, a mia insaputa, meccanismi psicologici ambigui, doppi. Rita cominciava a dire di essere lei la più forte, quasi volesse proteggere il suo carceriere. Quando accadono delitti del genere, la televisione e le cronache dei giornali non ci dicono mai abbastanza: raccontano questi fatti restando in superficie, descrivendone le dinamiche e magari tirando fuori dal cappello ogni tanto qualche curiosità più o meno pruriginosa. Soprattutto non mettono mai in gioco i sentimenti, le psicologie delle persone, le emozioni profonde e autentiche. Per capire davvero ci vuole qualcosa in più. Ecco, io sono partito da lì, da dove poteva partire la letteratura, dalle parole e dalle emozioni, dalle parole che esprimono emozioni. E da lì a poco a poco si sono formati i personaggi. Direi che ho scritto questo libro per dare a Rita – ma anche a suo padre Toni Scaglione – la possibilità di raccontare la sua tragedia perché tornasse a vivere nel mondo. Per questo ho fatto un enorme sforzo di empatia. Ho cercato di immedesimarmi in lei e di lasciarla parlare dentro di me. Via via che il lavoro procedeva, questo processo di identificazione mi riusciva sempre più naturale. Mi sentivo come una sorta di ventriloquo che trascriveva sulla pagina la fragilità, le paure, le fantasie raccontate dalla ragazzina attraverso di me.

D. Lei è originario di Avola (SR). Ad Avola c’è l’associazione di don Di Noto che si batte incessantemente contro la pedofilia, un associazione di volontari. Pensa che le Istituzioni facciano abbastanza per combattere il triste fenomeno degli abusi sui minori?
R. I bambini vittime di abusi crescono in maniera esponenziale e preoccupante. Ammiro moltissimo le persone che si battono contro questa sciagura sociale. Ma non so se le Istituzioni possano davvero fare qualcosa attraverso dei decreti legge o altro. Ritengo piuttosto che si tratti di questioni più profonde non sanabili con atti legislativi o di polizia. Si tratta di questioni che affondano le radici nei valori culturali e morali della nostra società. Viviamo un’epoca di capovolgimenti spaventosi che rischiano di “giustificare” ogni tipo di deviazione o di perversione. Per esempio, trovo inammissibile l’uso che viene fatto in pubblicità e in televisione del corpo femminile e dell’infanzia. Bisognerebbe cominciare da una rivoluzione dei costumi e della cultura.

D. Come concilia la sua attività di giornalista con quella di scrittore?
R. Da un po’ di tempo le due attività convivono senza troppo confliggere. Sul piano pratico, è più semplice che in passato, perché essendo ormai da sette anni un inviato del Corriere non ho obblighi stretti di presenza in redazione e i tempi di lavoro sono molto più flessibili. Dunque posso organizzare meglio i tempi della scrittura “creativa”. Ma anche sul piano teorico le cose si sono semplificate: mentre prima pensavo che non dovessero esserci sovrapposizioni di sorta, oggi sono convinto che l’occhio e l’orecchio del giornalista possono essere utilissimi allo scrittore. E riutilizzo nei romanzi molti materiali raccolti sul campo. Certo, poi bisogna sempre tener ben distinte le cose nell’atto della scrittura: e cioè non cedere mai alla tentazione di fare il giornalista scrivendo romanzi e di fare lo scrittore facendo articoli di giornale.

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AGGIORNAMENTO DEL 28 settembre 2009

Aggiorno questo post dedicato al romanzo di Paolo Di Stefano – “Nel cuore che ti cerca”, Rizzoli – inserendo la recensione inviatami da Maria Rita Pennisi. Ne approfitto per fare gli auguri a Paolo per la vincita del Premio Brancati 2009 (Massimo Maugeri)

Articolo di Maria Rita Pennisi
Il giornalista e scrittore Paolo Di Stefano, inviato del Corriere della Sera, ha vinto il premio Brancati 2009 con il romanzo Nel cuore che ti cerca (Rizzoli). Condivido l’opinione di Salvatore Scalia che di lui dice: “ E’ uno dei romanzieri che sa meglio interpretare la contemporaneità e la cronaca contemporanea.” Infatti è così. Nel suo romanzo, Paolo Di Stefano riprende un famoso fatto di cronaca, quello di Rita Scaglione rapita da un uomo all’età di 10 anni. Si tratta di un romanzo a più voci, in cui ognuna racconta di Rita, dal suo punto di vista. Un tema pirandelliano alla “Così è (se vi pare)”. Lo stile è giornalistico con delle punte di lirismo, il gioco è sempre in bilico tra il detto e il non detto. La maniera è verista. Paolo Di Stefano si cala nel racconto scomparendo, ma la sua voce batte forte alla porta del cuore e ci invade. Magistrale questa sua capacità nel presentare i fatti in maniera algida, per poi farli diventare fuoco. Il romanzo è imperniato su due figure centrali: il padre di Rita e Rita. Il padre cerca disperatamente questa figlia e non si arresta di fronte a niente, mentre la madre presto si rassegna alla perdita. Ma il cuore che cerca Rita è senz’altro quello di Paolo Di Stefano, che si immedesima nel cuore di tutti i padri che da sempre si sentono defraudati da quei famosi nove mesi di gestazione, che sembrano fare la differenza. Nel cuore che ti cerca è quindi una rivendicazione sociale, un dire noi padri siamo qua e amiamo quanto le madri e, a volte, anche di più.
Rita, dal canto suo, ha un atteggiamento ambivalente dato da un rapporto di affetto e di odio per il suo aguzzino. Difficile da capire se non si è dentro, ma spiegabile. Rita dipende interamente da lui e inoltre è negli anni della formazione. Nessuno sa che lui la tiene nascosta e dove e quindi la vita di lei è nelle sue mani. Se lui morisse o decidesse di abbandonarla, per lei sarebbe la fine. Vittima e carnefice sono dunque legati a doppio filo, come avviene sin dalla notte dei tempi. C’è in Rita sin da subito la consapevolezza che la famiglia per lei è finita ed è iniziato un altro ciclo, spaventoso, brutale, ma diverso.
Un’idea che nel libro fa la differenza è quella che la ragazzina, per non impazzire, si lega ai personaggi della serie televisiva Dawson’s Creek. Interagisce con loro, che diventano il suo mondo, la sua realtà e la sua via di fuga. Un’ idea che rappresenta un fenomeno sociale che dilaga nel mondo giovanile, in cui i personaggi televisivi diventano gli unici interlocutori di questi ragazzini spesso abbandonati a se stessi, per esigenze familiari.
Nella mente di Rita probabilmente le brutture a cui deve sottomettersi accadono a un’altra Rita, quella cattiva che è giusto che sia punita, maltrattata e vessata. Un romanzo psicanalitico, che fa venire fuori la cultura vasta e profonda di questo giornalista-scrittore. Il finale a sorpresa, lascia scioccati, perché immagineremmo qualcosa di diverso, ma è perfettamente in sintonia con la psicologia della ragazza. Nel cuore che ti cerca di Paolo Di Stefano un romanzo avvincente, che ti lascia col fiato sospeso sino alla fine, come se fosse un giallo e invece è un noir- psicologico in cui la stanza dei castighi ti terrorizza, come ne il Pozzo e il pendolo di E. A. Poe e la casa del signor Sergio ti soffoca e ti sgomenta e i giochi erotici di lui sulla bambina, mai descritti, ma facilmente intuibili ti disgustano e ti fanno rabbia. Ciò non di meno, a tratti, capisci che tra i due Rita è la più forte, perché è intelligente. Capisce che non deve mai fargli intuire i suoi pensieri, le sue debolezze, perché sarebbe la fine. Anche se bambina, Rita è pur sempre una donna e quindi sa condurre il gioco. Sempre attenta alle proprie reazioni sa non svelarsi e questo le salverà la vita.

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IL MARESCIALLO BONANNO E I PERSONAGGI SERIALI. Incontro con Roberto Mistretta http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/10/il-maresciallo-bonanno-e-i-personaggi-seriali-incontro-con-roberto-mistretta/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/10/il-maresciallo-bonanno-e-i-personaggi-seriali-incontro-con-roberto-mistretta/#comments Tue, 09 Jun 2009 23:16:00 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/10/il-maresciallo-bonanno-e-i-personaggi-seriali-incontro-con-roberto-mistretta/ Con questo post vi invito a discutere sui personaggi seriali che popolano la letteratura. Sono tantissimi. Pensateci un attimo: dallo Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle, a Hercule Poirot di Agatha Christie; dal commissario Maigret di Georges Simenon al commissario Montalbano di Andrea Camilleri.
E ce ne sono tanti altri… e non solo nell’ambito della cosiddetta letteratura di genere. Basti citare – uno per tutti – Nathan Zuckerman di Philip Roth.

Vi chiedo:

Che rapporti avete con i personaggi seriali in letteratura?
Vi piacciono? Vi appassionano? Li detestate?

A vostro giudizio, chi è il personaggio letterario seriale più importante? E perché?

E qual è il vostro preferito? Quello a cui siete più legati?

Sarebbe bello riuscire a creare, nell’ambito di questo post, una sorta di “mappa” dei personaggi seriali che hanno attraversato le pagine dei libri. Ci proviamo?

Colgo l’occasione per ri-presentarvi un personaggio seriale di nuova generazione: il maresciallo Saverio Bonanno, ideato da Roberto Mistretta. Avevamo avuto modo di incontrarlo nell’ambito di questo post. Di recente è tornato in libreria con il romanzo “Il diadema di pietra“, anche questo edito da Cairo (in fondo al post potrete leggere la recensione di Salvo Zappulla).

Ma chi è il maresciallo Bonanno?
Ecco come si vede l’interessato a pag. 27 de “Il diadema di pietra”:

Bonanno si esaminava con occhio impietoso e disfattista: sbirro di provincia prossimo alla quarantina, perennemente in soprappeso, per non dire grasso, con una figlia già grande, un’ex moglie scappata di notte con un trapezista, una madre come donna Alfonsina e due cani che amava come veleno per topi.

Insomma… tutto un programma, questo Bonanno.

Ne approfitto per invitarvi alla presentazione catanese de “Il diadema di pietra” che si svolgerà presso la libreria Cavallotto di Catania – in C.so Sicilia – venerdì 12 giugno alle h. 18,00. Condurrò la presentazione insieme a Enrico Guarnieri (in arte, Litterio) e con la partecipazione dello stesso Roberto Mistretta.
Segue l’invito.
Massimo Maugeri
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Il diadema di Pietradi Roberto Mistretta (Cairo editore, 2009, p. 314, euro 16)
recensione di Salvo Zappulla

Con questo romanzo Roberto Mistretta continua la fortunata serie del maresciallo Bonanno che tanto sta appassionando i lettori tedeschi e si avvia a ottenere lo stesso successo anche in Italia. Bonanno è personaggio sanguigno, vulcanico, fondamentalmente buono di carattere, detesta le soverchierie e non sopporta regole e gerarchie. Per questo piace. E se – come in questo caso- riesce pure a innamorarsi diventa persino vulnerabile. (Il diadema di Pietra, Cairo editore, pagg. 314, €16,00). Mistretta come sempre riesce a far vibrare le corde dell’animo umano, ci sbatte sul muso meschinità terrene oltre ogni immaginazione. E così due storie apparentemente lontane tra loro procedono parallele per chiudersi a incastro nel finale. Le piccole beghe di corna in un paese dell’entroterra siculo, assunte a dramma a causa dell’assassinio dei due amanti. Quale mano ha premuto il grilletto? Un ladro? Uno dei coniugi traditi? A Bonanno spetta sbrogliare la matassa. E le vicissitudini di un ragazzino albanese costretto in fretta e furia a diventare adulto per colpa di belve senza scrupoli che stuprano, saccheggiano, uccidono senza mai volgere lo sguardo al cielo. Uomo mangia uomo. Mishna ha un paio di stivali da recuperare e deve portare a compimento la propria missione. Ne va del suo onore. Ma l’innocenza non potrà mai più recuperarla. Come lui tanti altri bambini nel Kossovo. Bonanno ha la sua giustizia da salvaguardare e, quando c’è di mezzo il sangue versato di persone innocenti, non si arresterebbe neanche di fronte ai carri armati. Parte in quarta come un bufalo infuriato e se ne strafotte della deontologia professionale. A costo di rimetterci la carriera o di scontrarsi con un capitano presuntuoso. A costo di rinunciare ai suoi cannoli con la ricotta. E’ proprio questa la sua forza: la semplicità, l’autenticità, i suoi sbalzi di umore, le debolezze, i momenti di depressione che invogliano il lettore a parteggiare per lui. Un eroe – antieroe che conquista e ne fanno uno dei marescialli più amati della letteratura noir contemporanea.

Salvo Zappulla

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AGGIORNAMENTO DEL 13 GIUGNO 2009

Aggiorno il post con alcuni video relativi a personaggi seriali che dai libri sono finiti sullo schermo. Inizio con una chicca: l’ultimissa versione di Sherlock Holmes. Ovvero, il trailer (sottotitolato) dello Sherlock Holmes di Guy Ritchie interpretato da Robert Downey Jr. e Jude Law: il film arriverà nelle sale di tutto il mondo a Natale 2009.

Di seguito ne inserisco altri. Vi invito a guardarli e a… riconoscerli.
Qual è il vostro personaggio letterario serial-telvisivo preferito?

Infine… due chicche…

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/10/il-maresciallo-bonanno-e-i-personaggi-seriali-incontro-con-roberto-mistretta/feed/ 207
FUORI GIOCO di Salvatore Scalia http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/11/fuori-gioco/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/11/fuori-gioco/#comments Sun, 10 May 2009 22:02:47 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/11/fuori-gioco-di-salvatore-scalia/ Il calcio come metafora della vita. Questa frase sintetizza una delle possibili letture del nuovo ottimo romanzo di Salvatore Scalia (nella foto): “Fuori gioco” (Marsilio, 2009, pag. 128, euro 12).
Così come nel precedente libro, “La punizione” (anche questo edito da Marsilio), le vicende narrate traggono spunto da una storia realmente accaduta. Se il primo romanzo vede come protagonisti quattro ragazzini vittime della mafia, in questa nuova opera Scalia fornisce dignità letteraria al mito indiscusso dei nostri tempi: il calciatore. Nell’immaginario collettivo il calciatore – oggi, ancor più di ieri – incarna il successo, la fama, il denaro, il fascino. Eppure il mondo del pallone non è tutto rose e fiori. Ne sanno qualcosa celebrità calcistiche di fama mondiale (tra cui Gigi Buffon, portiere d’acciaio della Nazionale) che hanno dovuto fare i conti con il continuo logorio dello stress da performance – e dell’estraniamento da successo – capace di sfociare nella depressione.
In questo romanzo Scalia offre una versione rovesciata del mito; perché, laddove l’agognato successo viene solo sfiorato, esso si trasforma in repentina sconfitta. O fallimento. E per ogni traguardo raggiunto da un individuo, in migliaia cadono durante il percorso.
Il protagonista della storia è Paolo Malerba, giovane calciatore della provincia di Catania che porta già nel cognome il segnale presago di un tragico destino. Paolo va a Milano, il provino con l’Inter sembra dare esiti positivi. Il sogno pare a un passo dal diventare realtà. Ma si sfalda di fronte a una radiografia. I medici della società calcistica attestano un piccolo problema ai polmoni. Nulla di grave, per una persona normale. Un insuperabile impedimento, per un calciatore professionista.
Paolo viene scartato. Il suo sogno si infrange e gli implode dentro con effetti devastanti, allargando squarci dell’anima già aperti da un’adolescenza difficile, dal problematico rapporto col padre, da paure mai domate. In tal senso Malerba è due volte perdente: perché prima patisce la sconfitta (per via di un disturbo fisico inatteso) e poi il fallimento (per via di equilibri interiori già fortemente precari). Non gli rimare che attorcigliarsi dentro se stesso, ancora di più; consumandosi tra amori irrisolti e una depressione serpeggiante che ne segnerà la fine.
Con un lirismo efficace e dolente Salvatore Scalia, tratteggiando i risvolti farseschi e paradossali della vita di provincia del profondo Sud, rovescia il mito moderno dell’uomo di successo miscelandolo con quello classico che narra la fine di Empedocle tra le fauci infuocate dell’Etna. Ne viene fuori un ritratto duro, impietoso, dolente. Credibile. E se è vero – come è vero – che per la popolazione etnea il vulcano è femmina (a’ muntagna), l’idea del lasciarsi precipitare nel cratere non riflette altro che il ferale desiderio (inconscio e insopprimibile) di tornare nel ventre materno: mettersi fuori gioco, scomparendo nelle origini della propria esistenza.

Mi chiedo, e vi chiedo…

I calciatori sono davvero i nuovi eroi dei tempi moderni?

Il gioco è metafora della vita o non è piuttosto la vita metafora del gioco?

Fare squadra ha ancora senso?

La felicità – in famiglia, nella società, nel lavoro – passa dal fare squadra?

E qual è il rapporto tra successo e felicità?

Di seguito, gli approfondimenti di Simona Lo Iacono e Salvo Zappulla (che mi daranno una mano a moderare la discussione)

Massimo Maugeri

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“Fuori gioco”. Un libro di Salvatore Scalia.
di Simona Lo Iacono (nella foto)

E’ notte. La ferita del cavòlo è uno spartiacque. Un’apertura che s’infigge tra la macchia. Che separa il regno dei vivi da quello dei morti.
Dalla sua bocca spalancata affiorano vecchie risate di magare, raspi di animali e fantasmi stanchi di girovagare. Destini che si accingono a compiersi – come quello di Paolo Malerba – tra le ombre.
E per questo non si stupirebbe, Paolo Malerba, di vedersi già lì, tra le foglie che profumano di tane nascoste, come un predestinato, o come un viandante di questo regno a metà tra luce e buio. Un Caronte, forse, che si trascina da una riva all’altra.
Non si stupirebbe neanche di riflettersi nelle rarefazioni serali, di cogliere nel globo della luna una vaga somiglianza con la propria vita, con la palla che lui spintona tra le erbe, sui campi di calcetto, dribblando tra compagni sudati, tesi a raggiungere la rete come in punto di morte.
Non si stupirebbe.
Perché fin da bambino ha allertato i sensi. Ha forse intravisto nella la sciara del vulcano, un segno. Un tizzo di carbone in mezzo a granitiche masse vulcaniche.
Ecco cos’è la sua vita.
Una fragilità spersa sotto un sole che impazza, che galoppa su giochi striscianti, furbeschi, messi su da picciotti di malaffare, politici gaudenti, donne affatate dal potere.
E lui che – stretto nella sua maglia della Libertas - vuole solo fare goal.
Ma che lo voglia davvero Paolo Malerba? Spintonare quel pallone che – se si perde – solo l’allampanato Gino dei palloni perduti riesce a trovare, e che – se si porta in rete – ti si rivolta contro, non regge paragoni coi sogni? Che la voglia davvero questa illusione, questo scampolo di felicità che si frantuma in nebbia, in giorni uguali, in vacilli di memoria al bar, o tra i pacchi costosi di una donna che non ti ama?
Forse dal cavòlo la risposta già mugghia come un vento. Forse – loro, le magare – già sanno. Di padri che non perdonano ai figli di non corrispondere ai propri desideri. Di madri che – invece – perdonano tutto. Di figli che si affannano ad esaudire, a offrire una stella baluginante e cadente, che rivola tracce scomposte del proprio sangue solo per sentirsi dire “bravo”.
E invece l’amore perduto non si raccatta come i palloni che Gino riesce sempre a scovare. Ma è anzi quella partita persa fin dal principio che Paolo Malerba, infondo, non vuole giocare, che t’imprime addosso quel segno che il cavòlo blatera in tutte le sue notti. Che ti mette fuori gioco anche prima di cominciare la gara.
“Fuori gioco” di Salvatore Scalia (Marsilio, pagg. 125, € 12,00), si addentra nell’unicità di un destino raccontando tutti i destini, e di una terra oltraggiata e svilita raccontando le terre di tutto il mondo.
Lo fa con lingua prepotente, sensuale, segreta, con l’arrembaggio di gusti e personaggi che popolano quest’isola abbandonata dagli dèi e in cui tutti i vizi degli stessi dèi sembrano incarnarsi.
Da sicula abituata agli sguardi, non mi stupisce il teatrame che assiepa Paolo Malerba, calciatore degli anni “70 e nel cui cognome colgo già un’assonanza dolorosa, un anticipo di destino.
Mi stupisce però la vita che trasuda pur nello scenario di morte, la sensualità incatenante di paesaggi e umori, l’intuizione di Salvatore Scalia che nel rogo dei sogni ha saputo raccontare l’origine dei sogni, proprio perché ogni illusione nasce da una mancanza.

-Turi, perché, come scrivi tu, i “sogni buttano sangue”?
Buttano sangue i sogni a lungo coltivati che nel momento della disillusione si rivoltano contro chi li ha carezzati e cullati, mutandoli in angeli dannati.

- Essere fuori gioco vuol dire essere fuori dalla vita, o non è piuttosto l’unico modo per viverla? La follia, infondo, non è che questo: non accettare le regole del gioco.
Vivere al di fuori, non accettare le regole del gioco, essere veramente anticonformisti, tutto ciò attrae romanticamente, richiama il mito del titano, ma è di difficile attuazione, perché significa lottare contro la corrente, subire l’emarginazione. E’ più facile vivere con distacco, non lasciarsi coinvolgere, ma nell’attimo in cui si aspira a qualcosa, si è esposti a tutte le tempeste dell’esistenza.

 - Il gioco è una splendida metafora. Vincere. Perdere. Essere ammoniti. Ricominciare. E forse il calcio coi suoi clamori è lo sport che meglio si adatta alla Sicilia, a tanto lustro di baraccame in fiera, a tanto vociare su pianti di morte, non credi?
Il calcio per me è metafora della vita non solo siciliana. Il campo è il rifugio geometrico in cui ogni animo inquieto trova le linee del suo pensiero, e il cerchio del centrocampo è lo zero da cui si origina il tutto. In questa prospettiva metafisica l’arbitro diventa sì il giudice supremo ma anche la divinità che dà inizio al gioco e poi non si cura di niente. La Sicilia entra fortemente nella caratterizzazione dei personaggi, vulcanici, magmatici, dalla sensualità esplosiva ma fragili.

- E poi. La squadra. Ma fare squadra sembra quasi un’ironia quando l’individualismo più esasperato – in realtà – ti reclude in un ruolo e ti costringe a recitarlo. Pensi che un siciliano possa mai, veramente, “fare squadra”?
Ogni siciliano, come diceva Karl Kraus degli inglesi, è un’isola. Ognuno recita a soggetto. Il fascino e la maledizione dei siciliani sono dovuti alla loro inguaribile anarchia.

- Parlaci del cavòlo. Di questo dirupo in cui vivono strìe, animulare, fantasmi. Di questa fenditura che risuona di tutti i lamenti. Sembra un’anima. E’ l’anima di Paolo? E’ la tua anima?
Il cavòlo è il luogo degli spiriti sotterranei, del mistero e della magia. E’ il riflesso dell’anima oscura di Paolo e, in questo caso, anche della mia.

- L’ultimo atto. Il filosofo Empedocle che si lancia nelle fauci dell’Etna. La leggenda che si traduce in una fine umana. Il mito non è forse che questo. Una prefigurazione del nostro destino. Sei d’accordo?
Dici bene, il mito è una prefigurazione e trasfigurazione del nostro destino. La natura, offesa e violentata, alla fine vincerà su tutto. L’uomo può essere di passaggio sulla terra, ma l’energia dell’universo, di cui il fuoco dell’Etna è emanazione, resterà eterna.

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FUORI GIOCO di Salvatore Scalia
di Salvo Zappulla (nella foto)

Il primo aggettivo che mi viene in mente, finito di leggere questo nuovo romanzo di Turi Scalia, è: impietoso. Forse persino brutale. O semplicemente: umano. Perché la vita stessa sa essere impietosa e brutale con i più deboli. (Fuori gioco, di Salvatore Scalia, Marsilio Editori, pagg. 125, € 12,00). Ho rivissuto le stesse sensazioni che mi ha trasmesso quell’immenso capolavoro di Dino Buzzati, “Il deserto dei tartari”. L’attesa perenne dell’evento che dovrà servire a riscattare un’intera esistenza, a darne un senso. Lo sgocciolio lento dei minuti che si consumano, così come la fiammella della vita, fino a spegnersi senza aver rischiarato nulla. Sentiva il battito del tempo scandire avidamente la vita. L’attesa. L’infinita attesa che dovrà dare una svolta alla nostra vita, quell’evento che invano aneliamo e invece ci sfugge inesorabilmente come sabbia stretta dentro il pugno. Scalia ha la capacità di assemblare in maniera superba fiuto giornalistico e vena narrativa e i risultati sono sempre romanzi di profondo spessore introspettivo, che scavano dentro le miniere di un microcosmo provinciale estraendone pepite. Come nel primo romanzo pesca nel torbido della sua provincia: mafia, corruttela, personaggi melliflui. Gioca a intrecciare sentimenti di ricche signore annoiate e aspirazioni di ragazzi bramosi di prendere a morsi il futuro, anche con mezzi poco leciti. La parlata catanese, certi modi di dire persino gloriosi, vanto ed espressione linguistica di una sicilianità che si trincera a protezione del tempo che avanza, infarciscono il testo di ingredienti saporiti e stuzzicanti. U pacchiu, per un ragazzo delle zone popolari, non evoca sentimenti di tenero amore, ma è un trofeo da conquistare, di cui fare pettegolezzo sottovoce negli spogliatoi di un campo di calcio, tra una gomitata e uno sfottò. E se una volta tanto non è quello prezzolato della bagascia di turno ma appartiene alla moglie del presidente, diventa scalata sociale, pacchio d’autore in cui inebriarsi e perderci il senno. E Paolo, il protagonista del romanzo, persona realmente vissuta, il senno lo perde veramente, affranto dal gravoso peso dei suoi fallimenti. Il campo da gioco assurge a metafora della vita. L’arbitro fischia l’inizio e si dà il via alla competizione, si tenta di superare gli avversari, con una finta o uno scatto fulmineo. Paolo ci prova, ha talento da vendere ma il destino beffardo ha deciso di giocargli un brutto tiro. Arriva il momento delle disillusioni, le amarezze si accumulano e alla fine decide di rinunciare, va in fuori gioco, si estranea, si tira fuori dalla mischia. E il finale è drammatico. Sulla copertina la foto di Petruzzu Anastasi, indimenticabile gloria calcistica degli anni settanta, dolce chimera per gli assetati. Ma per un ragazzo che alza la testa, altri cento dovranno piegarla e magari elemosinare un posto di elettricista all’onorevole di turno, in cambio di servilismo e sottomissione. Scalia non esita a denunciare, a indignarsi, ad alzare forte la voce contro questa società malata i cui modelli da imitare sono diventati letterine e veline. E le isole dei famosi, i quiz e le ruote della fortuna. Tutto ciò che abbaglia e ammalia. Luci fosforescenti e nastrini colorati.
Salvatore Scalia, etneo di Mascalucia, vive di giornalismo e dirige le pagine culturali del quotidiano “La Sicilia” di Catania. Ha scritto per il teatro e i suoi lavori sono andati in scena alla rassegna internazionale Taormina arte e allo Stabile di Catania. Ha pubblicato Teatro, Trilogia del malessere e Appunti e per Marsilio nel 2006, La punizione, due edizioni.

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FIABE, FAVOLE E LO SCIOPERO DEI PESCI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/21/fiabe-favole-e-lo-sciopero-dei-pesci/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/21/fiabe-favole-e-lo-sciopero-dei-pesci/#comments Sat, 21 Mar 2009 01:02:38 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/21/fiabe-favole-e-lo-sciopero-dei-pesci/ fiabe-e-favole.JPGQuando si parla di fiabe e favole è abbastanza diffusa la convinzione che esse siano rivolte in via esclusiva ai bambini e che, dunque, rientrino nel genere della letteratura dell’infanzia. Questa convinzione, naturalmente, ha un suo fondamento giacché fiabe e favole sono principalmente rivolte a un pubblico di giovanissimi, di bambini appunto. Del resto, proprio nei confronti dei più piccoli, la fiaba (così come la favola) svolge una importante funzione di intrattenimento e talvolta (più nella favola che nella fiaba) anche di formazione, laddove troviamo – come spesso accade – una morale. Tuttavia pensare che fiabe e favole siano un prodotto letterario rivolto esclusivamente all’infanzia è un errore. Così come sarebbe un errore pensare che fiabe e favole siano la stessa cosa. Nella lingua italiana le favole vengono distinte dalle fiabe (anche se entrambi i termini derivano dalla radice latina “fabula” – “racconto” – e i due generi hanno molti punti di contatto): la fiaba è caratterizzata dalla presenza di personaggi e ambienti fantastici; mentre la favola – di norma – è popolata da animali i cui vizi e virtù rappresentano quelli degli uomini.
Come ho già evidenziato, considerare fiabe e favole come prodotti letterari rivolti esclusivamente all’infanzia non è del tutto condivisibile. Di recente mi è capitato di ri-leggere testi di saggistica letteraria che, in un modo o nell’altro, confermano questa mia tesi. Mi viene in mente, per esempio, il saggio di Umberto Eco (costituito da una raccolta di interventi) intitolato “Sulla letteratura”. Nel primo capitolo (ovvero il testo di un intervento nel festival della letteratura di Mantova del 2000) Eco parla della letteratura e della trasmigrazione dei personaggi letterari. In questo contesto (accanto a titoli celeberrimi) Eco, a un certo punto, cita come esempio la nota fiaba “Cappuccetto rosso” analizzando in particolare le differenze tra la versione di Perrault e quella dei fratelli Grimm e il diverso destino del personaggio della fiaba.
E, naturalmente, non si può non citare il grande Italo Calvino che nel 1954 iniziò a svolgere, per la casa editrice Einaudi, un lavoro simile a quello intrapreso nel secolo precedente, in Germania, dai fratelli Grimm. Calvino scelse e trascrisse, in una raccolta intitolata appunto “Fiabe italiane”, ben 200 racconti popolari delle varie regioni italiane dalle raccolte folkloristiche ottocentesche. Peraltro, l’amore di Calvino per le fiabe è ravvisabile anche nel saggio “Lezioni americane – sei proposte per il prossimo millennio”. Troviamo riferimenti alle fiabe nelle prime due lezioni: quelle relative, rispettivamente alla “Leggerezza” (dove vengono citati i lavori dell’antropologo russo Propp e la nota raccolta di fiabe araba “Le mille e una notte”) e alla “Rapidità” (in riferimento a una delle caratteristiche della fiaba, ovvero alla rapidità intesa come essenzialità); in Sicilia chi racconta le fiabe usa una formula: “lu cuntu nun metti tempu”, “il racconto non mette tempo” quando vuole saltare dei passaggi o indicare un intervallo di mesi o anni; oppure “Cuntu ‘un porta tempu”, o ancora “’Ntra li cunti nun cc’è tempu”. (Pare che queste siano espressioni di Agatuzza Messia l’anziana donna analfabeta che dettò le fiabe popolari al palermitano Giuseppe Pitré, che le trascrisse). E comunque nella lezione dedicata alla “Rapidità” Calvino ribadisce che ad attrarlo verso la fiaba è stato un “interesse stilistico e strutturale per l’economia, il ritmo, la logica essenziale con cui sono raccontate.”
Naturalmente esistono altre motivazione che hanno spinto intellettuali e studiosi a considerare l’importanza di fiaba e favola. Intanto perché, proprio in riferimento alla sua oralità (“fabula” deriva dal verbo “fari = parlare”), si è ritenuto necessario (da parte dei cosiddetti trascrittori di fiabe) recuperare una tradizione che correva il rischio di andare perduta. Per esempio, i fratelli Grimm partono dall’idea che ogni popolo ha una sua anima che si esprime con la massima purezza nella lingua e nella poesia, nelle canzoni e nei racconti. Essi però sostengono che, con il trascorrere del tempo, i popoli hanno perduto in parte la propria lingua e la propria poesia, soprattutto nei ceti più elevati e può, quindi, essere ritrovata solamente negli strati sociali inferiori. In questa ottica, le fiabe sono i resti dell’antica cultura unitaria del popolo e costituiscono una fonte preziosa per la ricostruzione di quella cultura più antica.
Poi si sono avvicendate diverse teorie sulle fiabe. Secondo l’antropologo russo Vladimir Propp, per esempio, le fiabe popolari, soprattutto quelle di magia, sono il ricordo di una antica cerimonia chiamata “rito d’iniziazione” che veniva celebrata presso le comunità primitive. Durante questo rito veniva festeggiato in modo solenne il passaggio dei ragazzi dall’infanzia all’età adulta. Essi venivano sottoposti a numerose prove con le quali dovevano dimostrare di saper affrontare da soli le avversità dell’ambiente e di essere pertanto maturi per iniziare a far parte della comunità degli adulti.
Questa premessa è finalizzata a evidenziare l’importanza della fiaba e della favola e la loro valenza letteraria. Quando parliamo di fiabe e favole, dunque, parliamo di letteratura. E non di letteratura secondaria.

Ciò premesso, ne approfitto per presentare una favola appena arrivata in libreria per i tipi di Il pozzo di Giacobbe. Il titolo è “Lo sciopero dei pesci”. L’autore del testo è Salvo Zappulla. Le illustrazioni sono di Carla Manea.
Di seguito leggerete le recensioni di Roberta Murgia (che mi aiuterà ad animare e a coordinare il dibattito) e di Simona Lo Iacono. Infine, in fondo al post, troverete un bel pezzo di Pietro Citati (uscito giorni fa su Repubblica) dedicato ad Alice nel paese delle meraviglie e a Peter Pan (e poi un video “in tema”).

Come sempre, oltre a invitarvi a discutere sul libro presentato, propongo una discussione “generale” partendo da alcune domande:
- che rapporti avete con fiabe e favole?
- quali sono quelle che preferite? E perché?
- quali sono, a vostro avviso, le favole e le fiabe con il più alto valore formativo?

A voi…

Massimo Maugeri

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LO SCIOPERO DEI PESCI – Salvo Zappulla, Carla Manea – Il Pozzo di Giacobbe – pagg. 32 – € 11,90

recensione di Roberta Murgia

Questo pregiato volumetto dalla veste grafica elegantissima, con la copertina cartonata, edito da “Il pozzo di Giacobbe”, ha nei colori dominanti tutte le tonalità dell’azzurro, del blu e del verde. Le stesse tonalità di azzurro e di blu del mare in cui amiamo tuffarci. Ed è l’amore per questo mare limpido che ha spinto Salvo Zappulla a parlare ai piccini della salvaguardia dell’ambiente in cui viviamo, attraverso un racconto in cui i protagonisti sono il mare e i suoi abitanti. Non a caso essi “parlano” e possono finalmente esprimere il proprio disappunto: ecco… è il fascino surreale di questa favola che incanta i bambini, anche e soprattutto per i discorsi tenuti dai suoi stravaganti protagonisti.
L’espressione visiva e l’espressione verbale di ciascun personaggio della fiaba sono in perfetta armonia. La prima apparizione, infatti, è quella di un essere umano: una madre, la quale con indifferenza e con lo sguardo di chi poco si preoccupa delle conseguenze delle proprie parole, suggerisce al suo piccolino di allontanarsi da lei e dalla spiaggia ed immergersi nel mare, se vuol fare pipì. Il mare, sullo sfondo e in lontananza, con uno svolazzante ciuffo azzurro spinto dal vento, già manifesta la sua disapprovazione. Fatto sta che all’udire quelle parole si “risente” e decide che ogni mancanza di rispetto nei suoi confronti è diventata “insopportabile”. In questa prima parte della favola l’autore spinge sapientemente i giovani lettori ad immedesimarsi con i pensieri e i sentimenti del mare e quindi a “parteggiare” per lui, “se non altro per ragioni d’età”. Dal risentimento il mare passa immediatamente ad un’azione: travolge con una piccola onda “la signora in costume da bagno, sdraiata pigramente al sole”. E a questo punto del racconto la complicità tra il mare e i piccoli lettori della favola diventa totale: il mare SEMBRA aver “spruzzato” un po’ d’acqua sulla signora “in modo del tutto involontario, ci mancherebbe”; in realtà è scattato un meccanismo di ribellione che di involontario non ha nulla, e chi legge lo sa. I disegni accompagnano anche qui il sottile umorismo del linguaggio: i pesci, “stravolti” anche loro dall’innocente ondina, si ritrovano capovolti e attoniti all’interno di una nuvoletta che traduce in immagine tutto lo sdegno verbalmente inespresso della signora investita dall’ondina.
In seguito, e prima della rivolta vera e propria, il mare riprende il suo monologo interiore: pensa al suo passato, alla sua importanza nella vita degli esseri umani nel corso dei secoli, al suo eterno ruolo di “ispiratore dei poeti”, di “protagonista di avventure” e di “spettatore immortale della storia degli uomini”. Com’è possibile che sia trattato in modo così irrispettoso? La rivolta è dunque l’immediata, inevitabile conseguenza dello sdegno marino… Il mare convoca un’ “assemblea” radunando tutti i pesci: si entra in “sciopero a tempo indeterminato”. Anche in queste pagine i dialoghi sono mirabilmente in sintonia con i disegni: i pesci mostrano sgranati occhioni bianchi e il mare una bocca spalancata ad esprimere il suo risentimento.
Dietro la proposta del pesce-martello, lo sciopero viene tramutato in vacanza: così il mare e i suoi abitanti partono per la montagna. L’inverosimiglianza della proposta non turba i protagonisti, né i giovani lettori che, avvolti dal linguaggio familiare e dall’umorismo del racconto unito a quello dei dialoghi, anche in questa seconda parte della favola, accompagnano il mare nella sua strepitosa avventura.
L’incontro tra i due ambienti, mare e montagna, tranne lo spavento iniziale delle lepri, è oltremodo cordiale: l’umanizzazione degli incontri si manifesta, come sempre, attraverso l’uso del linguaggio: “Come sta la vecchia carpa?” –“Bene, bene”- “E la famiglia Scorfano?” – “Ottimamente”. Insomma la vacanza ristabilisce contatti dimenticati da millenni e la fratellanza tra popoli diversi è ribadita.
Nella terza parte il mare e i pesci trascorrono felicemente la loro vacanza in montagna, fino al giorno in cui tutti i pesci, essendosi a lungo riposati e svagati, cominciano a stancarsi di star là. Nel frattempo il mare ha mandato una delegazione sindacale a trattare col governo circa il riconoscimento dei propri diritti e quelli dei suoi abitanti. L’animale inviato in delegazione, la piovra, al suo rientro, riferisce gli innumerevoli disguidi causati agli umani dall’assenza del mare: nessuno riesce a vivere senza il mare. Il governo ha deciso di tutelare l’ambiente marino, perché “l’ecologia viene prima delle industrie”. Una gran festa apre la quarta ed ultima parte del racconto: la fauna marina si unisce a quella terrestre in una grande “danza per la fratellanza” che coinvolge anche le stelle, fino a “farle brillare di commozione”.
Questa favola di Salvo Zappulla è davvero una favola che fa sognare, una favola che spiega ai piccini quanto è importante rispettare l’ambiente, amarlo, capirlo e osservarlo sotto una prospettiva diversa: per la prima volta essi scoprono che il mare e la montagna sono abitati da “esseri pensanti”, con sentimenti, paure, timori, gioie, preoccupazioni e ansie. L’umanizzazione della fauna marina è finalizzata all’immedesimazione dei piccoli lettori, i quali vengono letteralmente catturati dalla simpatia del mare, dei suoi colorati e buffi abitanti, del suo linguaggio ironico e talvolta beffardo. E i piccoli lettori si immedesimano perfettamente, si divertono; e divertendosi, imparano. Salvo Zappulla e Carla Manea (mirabile interprete del pensiero dell’autore) ci suggeriscono di proporre ai nostri giovani figli, ai nipoti, agli allievi un nuovo orizzonte di pensiero: quello dell’amore ANCHE per tutto ciò che vive e che non è esclusivamente umano: è un’incredibile, affascinante sfida.
Questo autore, la cui fervida inventiva “burlesca” nasconde una vena di malinconia lascia intendere che il futuro del pianeta non è più esclusivamente nelle mani degli adulti, ormai; il futuro del nostro pianeta, il “futuro migliore di cui tutti sognano” alla fine della fiaba, è nelle mani di coloro che potranno salvarlo solamente prendendo coscienza del suo stato di perenne sofferenza. Che la salvezza del pianeta sia strettamente legata a princìpi quali la comprensione reciproca, l’ascolto, il rispetto, la buona educazione, la solidarietà, la cordialità tra simili e tra dissimili; e infine la fratellanza è un concetto che attraversa l’intero racconto in modo implicito e leggero, come un sottile filo azzurro.

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recensione di Simona Lo Iacono

Tutti i bambini crescono, eccetto uno…leggevo ad alta voce a mio figlio quella sera in cui mi chiese di Peter Pan.
Ma forse avrei dovuto dire: tutti i bambini crescono, tranne gli scrittori. Tranne chi – con la penna -allunga uno sguardo oltre, dove lo smacco della quotidianità si stempera in gioco, dove le regole dell’ordinario rispondono a una sovversione segreta: l’avventura, il magico che s’intesse negli oggetti, nelle forme, negli animali. Il mondo che parla con le voci che gli uomini non possono udire e che – forse – catturano e riproducono quelle degli angeli.
Ecco. Nello “Sciopero dei pesci” di Salvo Zappulla (corredato dalle immaginifiche visioni di Carla Manea, ed. Il pozzo di Giacobbe, € 11,90), lo scrittore è quel bambino che conserva la logica del contrario e che la fa assurgere – anche – a grido di giustizia, perché niente come l’infanzia è giusto, niente come l’innocenza sovverte l’ordine del mondo.
E allora non stupirà che i pesci si diano convitto misterioso nel cuore del mare, che il mare stesso li inciti alla rivolta, che l’odioso reflusso di rifiuti e scarichi li convinca, infine, a uno sciopero ad oltranza…in zona di montagna. Le acque salate che scalano vette, i pesci che si bardano da alpinisti, i salmoni che fendono i fiumi facendo da apripista.
Il mondo capovolto o, forse, il mondo come dovrebbe essere se davvero potesse scioperare, prendere tempo, spezzare la marcia della velocità e concedersi una tregua.
Il mondo bambino o come lo vedrebbe un bambino. Colorato, acquoso.
Vivo.

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da REPUBBLICA del 6 marzo 2009

Peter Pan il bambino magico figlio di Alice

di Pietro Citati

IL NOSTRO universo, dove regnano il Peso ed il Numero, dove il tempo è rettilineo e gli oggetti impenetrabili, dove i libri si leggono da sinistra a destra e dal principio alla fine, affida il compito di conoscere l’ “altro” universo al più amabile dei suoi messaggeri, nei due capolavori di Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio. I grandi, limpidi occhi infantili di Alice rispecchiano fedelmente ogni minima notizia nel lago serio e incuriosito delle pupille. Ma, sebbene Carroll la credesse una “creatura di sogno”, Alice appartiene saldamente e interamente al mondo che noi abitiamo. Nessuna creatura è più terrestre di lei, e possiede come lei lo “spirito della realtà”: ragionevolezza, buon senso, buona educazione, cortesia, diplomazia innata, capacità di giudizio, istinto pratico, tutte le qualità che ci aiutano a vivere sulla terra si combinano nella figura di questa deliziosa bambina vittoriana. Lewis Carroll comprese che la lingua non combacia con la realtà. La lingua è arbitraria, come diceva de Saussure. Da un lato, sta la “cosa” – questo pezzo di pane, q u e s t a p i e t r a , questo paesaggio sul quale si posano indolentemente i miei occhi , che, a rigore, non può essere nominata: dall’ altra, il “nome”; e fra loro si apre un abisso incolmabile. Se egli avesse spiato attentamente nella dissonanza tra l’ oggetto e la parola, se avesse scrutato nella fessura apertasi nel blocco compatto della realtà, forse sarebbe riuscito a descrivere l’ “altro mondo”. Giacché la lingua è arbitraria, egli poteva desumere dai suoni che ne formano la superficie un universo del tutto differente dal nostro. Bastava rispettare la lingua, come noi non facciamo: intendere alla lettera i suoi suggerimenti; ricordare che i nomi non sono consequentia rerum, ma, al contrario, le cose sono le conseguenze dei loro nomi. Così, per esempio, se in inglese i rami si pronunciano bau essi abbaieranno “dietro lo specchio”: i fiori sonnecchieranno pigramente perché “aiuola” vale, in inglese, “letto di fiori”; e se la farfalla si chiama butterfly, essa aprirà delle sottili ali di pane e di burro. In questo modo, egli poteva scivolare dolcemente “di là” senza violare leggi di nessuna specie, senza sconvolgere la convenzione della sintassi, senza nemmeno crearsi una lingua personale, c o m e s u g g e r i v a H u m p t y Dumpty, questo grottesco precursore di ogni avanguardia. Egli non era disceso sulla terra per infrangere delle leggi, ma per aggiungere nuove regole, tanto convenzionali quanto assurde, a quelle che già conosciamo. Soccorso dalla logica della lingua, Carroll cominciò dunque a descrivere il mondo che costeggia il nostro. Senza affidarsi mai alle pericolose invenzioni della fantasia pura, partiva da un dato della lingua e della tradizione; e poi, via via, tesseva intorno a questi dati variazioni sempre più vaste, combinazioni sempre più ricche, rivelando una immaginazione rigogliosissima, seconda soltanto, nel suo tempo, a quella di Dickens. Mentre scriveva, dimenticava se stesso. Sacrificava i suoi sogni, le sue nostalgie amorose, la sua dolorosae traboccante morbidezza. La mano impeccabile segnava sulla carta linee esatte, parole senz’ ombra, ambiguità in piena luce, mosse di scacchi:i prodigi continuamente rinnovati di una mente malinconica abitata dalle bizzarre chiarezze della matematica. Come i filosofi di ogni tempo, speculava arditamente intorno ai grandi problemi della metafisica e della conoscenza. Quanto più il pensiero toccava la vertigine della complicazione, tanto più egli amava nasconderlo dietro piccole farse, giochi, guizzi allusivi infinitamente delicati. Il massimo della concentrazione nel contenuto si alleava col massimo di futilità nella forma: la ricchezza filosofica con l’ amore per gli indovinelli, la gravità con la leggerezza. Come i Vangeli e le parabole buddiste, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio sono insieme dei libri esoterici e dei libri popolari. Ogni bambino continua a leggerli, abbandonandosi perdutamente alle vicende di Alice e del Coniglio Bianco; e ognuno di noi deve riprenderli, sfogliarli, consultarli, tornare a rileggerli, se vuole orientarsi negli spazi troppo vasti tra la terra ed il cielo. “Di là”, Alice incontra delle leggi, interamente diverse dalle nostre. Non esiste il Peso: né il Numero, e la tavola pitagorica impazzisce. L’ “io”, del quale noi siamo tanto fieri, si perde, insieme a quel supremo simbolo della identità che è la memoria. Tutto viene rovesciato. Per raggiungere un luogo, dobbiamo voltargli le spalle: per restare fermi, dobbiamo correre: per arrivare in un punto, dobbiamo averlo già superato; e il tempo corre all’ indietro, – prima il futuro, quindi il presente, infine il passato. Quando Alice recita una poesia, le parole si trasformano sulla sua bocca: sapeva a memoria dei versi edificanti; ed ecco che il suo inconscio, governato tirannicamente dalle leggi “di là”, le impone di pronunciare parodie, nonsensi, parole stravolte. Così non ci meravigliamo se finisca per tramontare lo stesso principio di contraddizione, sul quale è fondata l’ esistenza terrestre: se il sì e il no, il negativo e il positivo, il più e il meno, l’ “importante” e il “non-importante” significhino la medesima cosa. Ora il tempo corre all’ indietro, ora avanti: ora l’ anarchica lingua individuale di Humpty Dumpty abolisce ogni convenzione linguistica, ora tutti parlano con le parole dell’ uso quotidiano. L’ unica, grande legge, che regge senza eccezione sia Alice sia Attraverso lo specchio è quella della Metamorfosi, che trasforma le persone e le cose, dissolvendole nella fantastica pantomima della possibilità. Nel primo libro, Alice cresce mostruosamente e snoda il collo come un serpente tra le cime degli alberi: poi rimpicciolisce fino alle dimensioni di un topo, rischiando di annegare nel lago delle proprie lacrime. Nel secondo libro, la Metamorfosi diventa il principio stesso della narrazione. Non sappiamo chi muova gli scacchi sopra l’ immensa scacchiera, distinta, come la terra, da siepi, ruscelli, prati, stagni, boschi e campagne. Ogni volta che uno dei giocatori sposta una pedina, la narrazione si interrompe di scatto, e il paesaggio e i personaggi si dissolvono. Entriamo in un nuovo spazio-tempo: un treno nasce dal bianco tipograficoe vi scompare, una bottega diventa una barca e un gruppo d’ alberi, un uovo si trasforma in Humpty Dumpty, il russare della Regina Rossa e della Regina Bianca cede a un’ aria musicale… Così l’ altro mondo rivela finalmente la propria essenza. Mentre la struttura superficiale del nostro mondo è compatta e continua, quella dell’ universo dietro lo specchio è discontinua e frammentaria: briciole, pezzettini, tessere di mosaico, caselle di scacchi, atomi, tenuti insieme da una forza che non conosciamo.

Peter Pan nei giardini di Kensington e Peter e Wendy, (ripubblicati da Einaudi con uno scritto di Giorgio Manganelli, un’ introduzione di Luca Scarlini e la traduzione di Milli Dandolo, pagg. 248, 16 euro), non sarebbero mai stati scritti senza i libri di Carroll, ma il loro significato è esattamente opposto. Qui i protagonisti non sono una bambina vittoriana, ma gli uccelli, i bambini-uccelli, oppure un giovanissimo-vecchissimo bambinouccello. Prima di diventare esseri umani, i bambini sono stati uccelli, lo sono rimasti per sette giorni,e nelle prime settimane di vita sentono un lieve pizzicore alle spalle, dove prima erano attaccate le ali. Come gli uccelli, sono allegri, innocenti e senza cuore, e volano appunto perché sono allegri, innocenti e senza cuore. Quando non lo sono più quando hanno ceduto alla maturitàe normalità che li minaccia da ogni parte – dimenticano di volare. Con le fate hanno rapporti molto stretti. Quando ridono per la prima volta, il loro riso si spezza in mille frantumi ghiacciati che si spargono saltellando; e in quel momento nasce una nuova fata. Peter Pan è un bambino-uccello: come dicono nei giardini di Kensington, è un mezzo-emezzo. Vola come un uccello, ma in parte si comporta come un bambino: tenta di afferrare le mosche con le mani invece che con il becco; ma, al tempo stesso, non è un vero bambino perché gioca in modo sbagliato, ignora cosa siano i secchielli o i palloncini colorati o cosa siano i baci. Vive sempre sul margine, sul limite, senza appartenere ad un mondo. È velocissimo, perché è molteplice e stravagante: è onnipresente e nascosto. Detesta gli adulti, le persone normali, la scuola, le abitudini e le istituzioni. Sta sempre da un’ altra parte. Non vuole crescere e abbandonare le ali: ma, qualche volta, sembra stranamente senile. Non finisce mai di tentare i bambini, portandoli via con sé, in un eterno volo. La madre l’ ha abbandonato: Peter Pan non riesce a ritornare da lei, varcando le finestre chiuse: e questa acutissima nostalgia è l’ unica cosa che egli possegga di veramente umano. Nei giardini di Kensington, vivono le fate: tra loro e il mondo umano non esiste nessuna vera distinzione; un antropomorfismo possente come quello di Carroll si insinua in tutto ciò che è feerico e lo trasforma. Le fate preparano la colazione, mungono le vacche, segano i funghi, tirano su l’ acqua. Sono sempre indaffarate, come se non avessero un momento da perdere, ma non fanno mai niente di utile. Stanno in piedi quando dovrebbero sedere, e siedono quando dovrebbero stare in piedi: sono sveglie quando dovrebbero dormire, e dormono quando dovrebbero andare alla festa. Spesso si comportano male: mettono le dita nel burroo bevono troppo vino; sono dispettose, eccentriche, stravaganti. Qualche volta, avere rapporti con loro, come con tutto ciò che è feerico, è rischioso: senza accorgersene, ti fanno diventare una quercia sempreverde. Se escludiamo l’ Elogio degli uccelli di Leopardi, Peter Pan è il più bel testo uccellesco che abbia mai letto: per questo piace tanto ai bambini. James Barrie chiacchera, chiacchera, anzi cinguetta, vola, fa il nido, si nutre di vermi, ci becchetta, si dimentica, deride le fate, gli adulti, i bambini e i pirati; e il suo cinguettio brilla come una conversazione mondana. Non conosce l’ assoluto rigore matematico di Alice e di Attraverso lo specchio: pare sempre lievemente ebbro, come si fosse ubriacato con un liquore di corniole, distillato dalle fate. La sua è una fiaba, un vaudeville, un’ avventura fantastica, una farsa, un racconto piratesco, un racconto filosofico, una fantasticheria, un arcobaleno, un gioco funambolico, una sonata di flauto – che deve assolutamente venire eseguita nel paese che non c’ è.

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IL DOLORE PIU’ GRANDE. ORFANA DI MIA FIGLIA di Morena Fanti http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/12/il-dolore-piu-grande-orfana-di-mia-figlia-di-morena-fanti/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/12/il-dolore-piu-grande-orfana-di-mia-figlia-di-morena-fanti/#comments Fri, 12 Sep 2008 19:55:47 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/12/il-dolore-piu-grande-orfana-di-mia-figlia-di-morena-fanti/ Questo è un post molto particolare, che tratta un argomento delicatissimo.
Ho scelto questo titolo (Il dolore più grande) non a caso.
Qual è, secondo voi, il dolore più grande?
Secondo me è la perdita di un figlio.
Ed è proprio di questo che parla Orfana di mia figlia, il libro di Morena Fanti che presentiamo qui. Un libro che racconta una storia vera, come avrete modo di capire leggendo il pezzo di Salvo Zappulla (che ha firmato la nota in quarta di copertina).

Federica muore a soli 24 anni… investita da un’auto mentre attraversa la strada davanti casa.
È il 2 ottobre del 2001.
Un mese dopo l’incidente, Morena apre un diario… lasciando confluire in esso il dolore per la perdita dell’unica figlia.
Quel diario è diventato libro.
E i proventi saranno devoluti a scopo benefico.

Vi lascio una domanda…
Com’è possibile superare il dolore di una perdita così terribile?
Morena Fanti sarà ospite di questo post. Salvo Zappulla mi aiuterà a moderarlo.
Vi invito a discuterne con loro.
Massimo Maugeri

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Orfana di mia figlia, di Morena Fanti – Il pozzo di Giacobbe – euro 16 – pagg. 200

Un libro forte e violento come un pugno sullo stomaco. Violento, come violenta è la mano crudele che cala a ghermirti una figlia di ventiquattro anni prossima alla laurea. Quando muore un figlio la vita si ferma. Muore anche la vita dei suoi genitori, ne devono creare una nuova. Questo non è un romanzo ma una storia vera, la storia di una vita spezzata, anzi di tante vite spezzate. Una famiglia che vive serenamente fino a quando un banale incidente stradale non le ruba la cosa più preziosa: l´unica figlia. L’unica adorata figlia. Morena racconta il suo calvario con lucidità estrema, ci sono pagine di straordinario lirismo in questo libro, intense, crudeli, terribili. Cala un velo negli occhi di quanti hanno perduto una persona cara e quegli occhi non riavranno più la stessa lucentezza. Molti lettori si riconosceranno e si identificheranno in questa storia. Il dramma, il vortice dell´abisso, sentirsi sprofondare giù senza intravedere una via d´uscita. L’annullamento della propria persona, l’abbrutimento fisico, l’apatia, il desiderio di farla finita. E poi lentamente il risveglio, la rinascita, la voglia di dare ancora un senso a questa nostra fragile precaria esistenza. Una testimonianza importante questa di Morena, su un argomento troppo spesso taciuto: la morte. Ma è anche una storia di rinascita e di positività. Uno spiraglio di luce che penetra le tenebre e apre alla speranza. Ed ecco allora che la storia di Morena diventa un documento prezioso da trasmettere agli altri, quasi un manuale che ci insegna come combattere il dolore o almeno imparare a conviverci; ci spiega come riappropriarci della nostra vita, che in fondo vale sempre la pena di essere vissuta.
Salvo Zappulla.

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IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI ELIO VITTORINI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/04/il-centenario-della-nascita-di-elio-vittorini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/04/il-centenario-della-nascita-di-elio-vittorini/#comments Mon, 04 Aug 2008 13:32:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/04/il-centenario-della-nascita-di-elio-vittorini/ elio-vittorini-ritratto.JPGCent’anni fa – per esattezza il 23 luglio 1908 – nasceva Elio Vittorini.
Dedichiamo uno spazio (e un dibattito) a questo grande intellettuale e scrittore siracusano.
Di seguito avrete la possibilità di leggere quattro interventi.
Il primo è firmato da Ernesto Ferrero ed è stato pubblicato su Tuttolibri del 26 luglio.
Gli altri sono stati realizzati, dietro mia richiesta, dagli amici scrittori siracusani che frequentano questo blog: Maria Lucia Riccioli, Salvo Zappulla, Simona Lo Iacono (Maria Lucia, Salvo e Simona mi daranno una mano per moderare e animare il post).

Vi pongo alcune domande, estrapolate dagli articoli che leggerete di seguito.
Le prime sono di Ferrero (pensate con riferimento a Vittorini):
Chi è, cosa deve fare uno scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società? Cosa può fare per la collettività?
E poi (pescando dal pezzo della Riccioli)…
Cosa rimane di Elio Vittorini?
Quali sono stati i frutti della sua opera? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?

Insomma… Vittorini.
Un’occasione per ricordarlo. E per parlarne.
Massimo Maugeri

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Il centenario della nascita di Elio Vittorini
di Ernesto Ferrero (da Tuttolibri del 26 luglio 2008)

Non c’era davvero miglior modo di ricordare il centenario della nascita di Elio Vittorini (23 luglio 1908) che evitare la melassa buonista di simili occasioni e stare ai testi: come questo secondo e ultimo tomo che raccoglie i suoi articoli e interventi 1938-1965 (il primo copriva gli anni 1926-37, in cui ebbe tanta parte il soggiorno a Firenze e la furiosa attività traduttoria).
Sono oltre mille pagine, curate come meglio non si potrebbe da Raffaella Rodondi, degna allieva di Dante Isella. Dico subito che le sue note sono così approfondite ed esaustive che chi vuole occuparsi della cultura italiana del periodo dovrà passare di lì. Vi troverà una miniera di notizie e documenti.
Lo si frequenta poco, Vittorini, a parte Conversazione in Sicilia, che tiene ancora benissimo.
Da tempo è sparita dal nostro orizzonte la sua fervida progettualità utopistica a 360 gradi. Non parliamo poi della sua pretesa di concorrere attraverso la letteratura a una rigenerazione collettiva, addirittura alla nascita di un uomo nuovo. La tensione appassionata e sciamanica con
cui il Gran Siracusano insegue il moderno, inventandoselo anche quando non se ne vedono tracce, ripercorsa adesso risulta commovente.
Uscito da un arcaico mondo contadino, lo conosce troppo bene per abbandonarsi a idilli e nostalgie, che anzi non si stanca di deprecare. Gli interessa l’incontro-scontro con le metropoli, con l’industria, il nuovo mondo che dovrebbe nascere da una sorta di palingenesi collettiva. Ha la bulimia del futuro prossimo. Se le domande sono sempre le stesse (chi è, cosa deve fare uno
scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società, cosa può fare per la collettività?), ricorrenti sono anche le risposte, pur nel variare di quell’«irta vegetazione di metafore» di cui parla Italo Calvino (ma forse più avvolgente che irta): scoprire qualcosa che ancora non si conosce, aggiungere qualcosa di nuovo all’umana coscienza, fuori dai lacci delle ideologie e dei concetti astratti. Certo non «suonare il piffero per la rivoluzione», come scrisse a Togliatti nel corso della famosa polemica su «Politecnico». Vittorini sognava una letteratura che sapesse interagire al livello più alto con tutte le attività umane, che ne fosse il lievito, lo stimolo permanente.
Era (dice ancora Calvino) totalmente immune dalla negatività esistenziale, dalle voluttà del nichilismo, dalle scissioni dell’Io che connotano il Novecento degli sconfitti contenti di esserlo. Anteponeva l’urgenza di un rinnovamento vero alla sua stessa creatività personale, esempio unico di disinteresse.
Nel volume c’è di tutto: saggi, articoli di varia occasione, recensioni, i risvolti per i «Gettoni» einaudiani (sempre imprevedibili, spesso a contropelo), schede di lettura, interviste autobiografiche (tenerissime), risposte a inchieste e dibattiti, elzeviri, corsivi, scritti sull’arte (Dosso Dossi ma anche Cassinari e Guttuso), dibatti sul fumetto (con Eco), abbozzi di storie letterarie, lucidi ripensamenti dei propri libri, ma si possono comunque identificare alcuni nuclei forti. Il gran lavoro sugli americani, anche in vista dell’antologia poi pubblicata da Bompiani (Saroyan, James Cain, Caldwell, Faulkner, Steinbeck, Wright, John Fante); gli interventi febbrili su Politecnico (1945-47), poi sul Menabò (1959-65), principalmente centrati sul solito dolente nodo dei rapporti tra cultura e politica e sull’impegno.
Non c’è campo in cui l’autodidatta non scateni le sue curiosità, creando collegamenti fulminei,
sorprendendo il lettore laddove meno se lo aspetta.
Parla schietto, trasferendo nello scritto la vivacità orale. Gran comunicatore, incantatore nato,
immune da rigidezze accademiche e specialistiche, mercuriale sempre. Così pronto ad ammettere i propri errori che anche un nemico non può che rassegnarsi ad amarlo. Dichiara
odi e amori con il candore degli innocenti. Dice (negli Anni 30) di detestare Voltaire e Balzac,
Kipling, Rilke e Kafka, D’Annunzio e Dostoevskij e idolatra Hemingway al di là del ragionevole,
ma è capace di mandare a Montale, dalle colonne di un periodico giovanile, un saluto di ringraziamento per le Occasioni appena uscite («il fatto più importante, oltreché il più felice, dei nostri ultimi mesi di storia umana»).
Perché nel cuore di Vittorini, felice perché sempre in movimento, lanciato verso il prossimo
ostacolo, non c’è la letteratura, c’è l’uomo. La letteratura è uno strumento da usare bene, come tanti altri. Per questo si sdegna perché nel primo governo repubblicano non è stata chiamata una sola donna, nemmeno come sottosegretario.
Ripete che il più umile dei problemi di una città ha un significato per la cultura in assoluto. Richiesto di autodefinirsi, si iscrive nella categoria dei «poeti civili», lui che non ha scritto un verso. E nel 1964 arriva a dire che la letteratura è ormai destituita d’importanza, si è fatta semplice mediatrice di cose scoperte da altri.
Che la nostra fantasia è vecchia, governata da una concezione del mondo che risale a Tolomeo. Negli ultimi anni, per coerenza, si butta a leggere di scienza, matematica, biologia,
astrofisica. Dice che bisogna continuare a scrivere senza la presunzione di credere che sia importante.
Come sarebbe bello che il calore delle indomite passioni di questo «indiano delle riserve» (come si definiva autoironicamente, ma senza indietreggiare di un pollice) arrivasse fino a noi, al nostro deserto di cenere governato dal marketing.

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Cosa rimane di Vittorini?
di Maria Lucia Riccioli

maria_lucia-riccioli.JPG23 luglio 1908 – 23 luglio 2008.
Vittorini cent’anni dopo la sua nascita.
Cosa rimane di uno scrittore? Ce lo chiediamo spesso, in particolare quando si verificano ricorrenze come quelle dei cinquantenari o in questo caso dei centenari.
La figura e l’opera di Vittorini sono state fondamentali per la cultura italiana tra le due guerre e oltre. Ma quali ne sono stati i frutti? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
Siracusa dedica da anni un premio letterario ad Elio Vittorini e quest’anno è stata curata la pubblicazione di un volumetto che raccoglie estratti dalle sue opere più note, dei disegni realizzati da Guttuso per un’edizione di “Conversazione in Sicilia” che però vide la luce solo nel 1986. Speriamo che si realizzi il sogno di Siracusa di fare di più – magari una casa museo, una biblioteca – per onorarlo degnamente.
La Sicilia è stata sempre mater poco materna con i suoi figli più illustri e con Vittorini non ha fatto eccezione. Il figlio del ferroviere, cognato di Salvatore Quasimodo, che vide la luce nell’isola di Ortigia, alla Mastrarua, poi Via Vittorio Veneto, dopo i primi studi, il formarsi di una precoce coscienza politica e le febbrili entusiastiche letture, ha fatto la sua fortuna “in continente”.
Cosa resta, dicevamo, di Vittorini? Le istanze della denuncia civile? L’ideale riscatto degli umiliati e offesi? Vittorini patì anche l’ottusità ideologica degli stessi compagni di partito (Togliatti e il suo becero “Vittorini se n’è gliuto e soli ci ha lasciato”), oltre alla sostanziale incomprensione e indifferenza dei conterranei.
La sprovincializzazione della nostra letteratura? Grazie all’antologia “Americana”, grazie ad uno stile che risente della lezione degli autori statunitensi. L’esperienza neoilluministica de “Il Politecnico” fu fondamentale, come la sua opera di “talent scout”.
Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?
Certo rimane memorabile il lirismo dell’incipit di “Conversazione in Sicilia”:

Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica che ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, i qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero a capo chino.vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo.
Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.

Rimangono la passione per i libri e la letteratura, scoperta e passione giovanile:

È una fortuna aver letto quando si era ragazzi. È doppia fortuna aver letto libri di vecchi tempi e vecchi paesi, libri di storia, libri di viaggi e le Mille e una notte in special modo. Uno può ricordare anche quello che ha letto come se lo avesse in qualche modo vissuto, e uno ha la storia degli uomini e tutto il mondo in sé, con la propria infanzia.

Vorrei che iniziassimo un dibattito innescato dalle mie domande e da quelle che ci verranno in mente. Sono onorata di scrivere su Vittorini per orgoglio di comune siracusanità e spero che i miei concittadini prima o poi si sveglino dall’apatica quiete della non speranza.

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Vittorini editore e il suo rapporto con il cinema
di Salvo Zappulla

salvo_zappulla.JPGVittorini è stato uno degli intellettuali più poliedrici del ventesimo secolo, autodidatta, letterato per vocazione, aveva una visione pessimistica della vita, una costante tristezza che esprimeva attraverso la scrittura. E’ stato sempre dalla parte degli ultimi, i lavoratori, gli oppressi. Loro sapevano che di lui potevano fidarsi, e lo amavano. Si definiva un solariano e questo termine ne racchiude altri che intendono antifascista, europeista, antitradizionalista. In poche parole: illuminista. Se consideriamo che egli dichiarava con forza le proprie idee, in un momento storico in cui un sistema autarchico consigliava una certa “prudenza”, ci possiamo rendere conto della grandezza di quest’uomo. E’ nota la sua collaborazione con la Einaudi per la quale curò la collana I gettoni che servì a lanciare autori come Calvino, Fenoglio, Romano, Rigoni Stern, Ottieri, Testori, Bonaviri ed altri. Altrettanto famoso – una macchia sulla sua coscienza di intellettuale – fu il suo rifiuto al romanzo di Tomasi di Lampedusa. Va precisato però che il romanzo subì prima un rifiuto da parte della Mondadori alla quale Tomasi di Lampedusa aveva inviato quattro capitoli tramite il cugino Lucio Piccolo. Il testo letto dai redattori (Ricci, Antonielli e Romanò) pur non ricevendo un giudizio del tutto negativo, non fu ritenuto idoneo alla pubblicazione. Vittorini in quel caso si limitò a dare il suo parere conclusivo senza leggere il dattiloscritto personalmente. Successivamente egli ricevette ancora parte del dattiloscritto affinché il romanzo venisse pubblicato su I gettoni, ma lo ritenne lontano per la sua idea della collana in quanto Il Gattopardo, emblema dell’inettitudine sociale e politica della nobiltà siciliana, era un tema ritenuto da lui piuttosto stantìo. Come sappiamo il romanzo verrà pubblicato da Feltrinelli nel 1958 a cura di Giorgio Bassani. Forse il suo rapporto con il cinema è il meno conosciuto rispetto alle molteplici attività di intellettuale. Alla fine degli anni Trenta non esisteva in Italia una vera e propria critica cinematografica e Solaria fu una delle prime riviste a dare ampio spazio a questo settore. Gli anni fiorentini (1930-1938) sono quelli in cui Elio Vittorini si avvicina alla critica cinematografica, anche se costituisce sempre un’attività marginale rispetto alla sua corposa produzione letteraria. Sono anni di difficoltà economica per la famiglia Vittorini, ed egli si presta persino a interpretare una parte nel film Romeo e Giulietta di Castellani. L’attività dello scrittore è frenetica ma l’impegno dedicato al cinema è autentico ed estremamente competente. Egli afferma: “L’essenza artistica del cinematografo è nel movimento”. E ad esso occorre, se necessario, sacrificare le bellezze accessorie. Quando si riferisce al movimento, di successioni, di immagini, di ritmo, si riferisce al montaggio così come è inteso dai grandi maestri dell’avanguardia russa. Aveva una grande passione per Charlie Chaplin, la cui arte – a suo parere – apparteneva alla storia. Era tale la stima per il grande comico, che nel numero 10 del Politecnico gli dedica un articolo, anche se non firmato, ma la cui impronta stilistica è inconfondibilmente sua. Vittorini attribuiva al cinema un ruolo fondamentale per l’educazione del popolo italiano e già, sempre nel Politecnico, secondo numero, pubblica un breve articolo dal titolo ”Il cinematografo dell’avvenire”, a cui fa seguito nel numero successivo un altro scritto a firma di Carlo Luzzari. Il cinema come specchio dei tempi e dei problemi sociali. Tutta l’attività di Vittorini si sviluppa all’insegna dell’impegno civile e ideologico, un neorealismo che non va inteso nel suo senso più ristretto ma che lascia spazio alla poesia, al lirismo, permeato da grande valenza etica. Sicuramente ha lasciato un segno tangibile sulla storia degli uomini.

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Vittorini e l’Isola
di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGSi dice che l’uomo sia una scaglia di terra. Che sia nato da fango misto a saliva. Si dice che è questo a suggerirgli i passi. Che è la forma di quella terra a dar corpo al suo corpo. Parola alla sua parola. Sguardo al suo sguardo.
Si dice.
Ma non si dice soltanto.
Si sente.
Si sente se è grumo di montagna, goccia di lago, o sale di mare.
Si sente se è uomo di isola o di continente.
Ecco. Elio Vittorini fu uomo di isola. E lo fu due volte.
Perché non fu solo siciliano. Ma Siracusano. E di quella parte di Siracusa che è isola dell’isola: Ortigia.
Il nome pare venga da “quaglia”, perché Ortigia è un isolotto arpionato alla città e che dall’alto richiama la fisionomia di questo uccello.
Ma io che ci abito, io che ne respiro l’accroccato divincolarsi tra strade dai nomi ebrei, arabi, greci, io che saluto lo scudo della dea Atena che svetta dal Duomo sol che apra le mie finestre – io so che Ortigia non è nome di quaglia.
E che – anzi – non è neanche nome.
Piuttosto modalità dell’essere. Del vivere.
Del morire.
Tanto che non se ne può prescindere per comprendere l’opera di Vittorini. Né si può ignorare il suo essere contemporaneamente dentro la Sicilia e fuori di essa, quasi su un battello pencolante, che con uno sboffo di corrente potrebbe mollare gli ormeggi.
Doppia isola, dunque. E doppia solitudine. Doppio errare.
Doppio esilio.
Perché l’isolano è esule. E’ straniero.
Ma l’isolano che dall’isola passa ad un’altra isola è quasi un pellegrino di mare. Un eterno viandante. Un Ulisse meno precario che deve fare i conti con una stabilità sempre da rincorrere.
A tal punto scava in noi, la forma della terra.
A tal punto un duplice rimando ci costringe ad allungare lo sguardo – avanti e ancora avanti – a tal punto ci impone di sognare due volte.
E poi, allontanarsi due volte. Tornare due volte. Intascarsi non una, ma due manciate di nostalgia.
Credo che in questa somma di ostacoli sia da cercare anche il senso del viaggio. Della navigata che in “Conversazione in Sicilia” non solca solo lo stretto di Messina, non Scilla e Cariddi, non una fetta di mare.
Ma un portale. Un ingresso in una dimensione e poi in un’altra. Un varco tagliato da uno Stige.
Quando questo confine viene oltrepassato la memoria di ciò che ci precede vacilla. Perché rientrando in Sicilia e poi ancora in Ortigia, il passo si abitua all’ondeggio del mare.
Lo vedi che ti assale ovunque, se vai avanti, se guardi indietro, se torni a casa.
Ovunque, ovunque. L’acqua a frastagliarti addosso come un dolore. Di non poter che essere questo. Questo oscillare e questo complicato rientro che non si accontenta di compiersi come per gli altri.
Che per te si raddoppierà sempre.
A tal punto scava in noi, la forma della terra.

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LE DONNE E LE SOCIETÀ DIFFICILI: SALMA E ABEEDA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/16/le-donne-e-le-societa-difficili-salma-e-abeeda/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/16/le-donne-e-le-societa-difficili-salma-e-abeeda/#comments Sun, 15 Jun 2008 22:56:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/16/le-donne-e-le-societa-difficili-salma-e-abeeda/ donne-velo.JPGSalma e Abeeda sono due personaggi letterari.
Due donne che vivono in contesti sociali difficili e che reagiscono alle avversità in maniera diversa.
Salma è condannata a morte nel suo villaggio di beduini per essere rimasta incinta prima del matrimonio.
Per sopravvivere lascia la sua piccola, appena nata, in mano agli abitanti del villaggio e fugge in esilio in Inghilterra, dove si costruisce una nuova vita… in un mondo completamente diverso. Un mondo dove tutto è permesso, dove il sesso è addirittura incoraggiato, dove niente le dovrebbe far rimpiangere il suo passato arabo e musulmano. Eppure…
Abeeda è una donna musulmana che conduce una doppia vita: divorziata, madre di quattro figli, invischiata nel luccicante mondo dei casinò dove sviluppa una vera e propria dipendenza dal gioco.
Abeeda, sotto il velo, nasconde l’ardore di una donna mentalmente libera e indipendente: la sua personalità, per certi versi, scardina una serie di cliché sull’identità culturale e religiosa delle donne musulmane e della società che le circonda.
Salma e Abeeda sono due personaggi simbolo. Due donne a confronto con società (a esse) avverse. Due donne che, in un modo o nell’altro, lottano per la loro emancipazione.
Un tè alla salvia per Salma” di Faqir Fadia (edito da Guanda) ci viene presentato da Silvia Leonardi.
Salvo Zappulla ha recensito “Confessioni di una giocatrice d’azzardo” di Rayda Jacobs (edito da Del Vecchio editore): cliccando qui potrete leggere il primo capitolo del libro.
Silvia e a Salvo mi daranno una mano a moderare questo post.
Colgo l’occasione per invitare Pietro Del Vecchio a presentare il progetto editoriale della casa editrice che dirige.
A voi chiedo di discutere sull’argomento “donne e società difficili”.
Vi domando:
Le società che ospitano donne come Salma e Abeeda sono davvero così opprimenti nei confronti del genere femminile? O la nostra visione risente, almeno in parte, di stereotipi (come ci suggerisce il personaggio Abeeda)?
E in ogni caso, quale dovrebbe essere la strada perché queste donne possano beneficiare di una maggiore emancipazione?
E quante, tra queste donne, desiderano davvero una maggiore emancipazione?
E poi… fino a che punto è possibile generalizzare? Quante sub-società esistono all’interno di una società?

Massimo Maugeri

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UN TE’ ALLA SALVIA PER SALMA di Faqir Fadia

recensione di Silvia Leonardi (nella foto)

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Un romanzo dolceamaro, in un ossimoro che non può essere separato. Un periodare che intreccia presente, passato, immaginario e vissuto senza confondere né spiazzare. Come essere nella mente della protagonista, filtrare la luce attraverso i suoi occhi, osservare immagini tremolanti corrotte da lacrime in bilico.
“Un tè alla salvia per Salma” è la storia di una donna beduina e della sua fuga dalla Giordania all’Inghilterra. Un passaggio tra due culture in cui Salma difende se stessa e il suo diritto ad essere donna a dispetto di tutto.
Condannata a morte per aver amato un uomo prima del matrimonio, è costretta a farsi arrestare per aver disonorato la sua gente e la famiglia. Minacciata di morte dallo stesso fratello che vuole lavare col sangue la vergogna, la sua salvezza sarà prima l’umida cella che la ospita e poi la fuga in una cittadina inglese. Qui Salma prova a inventarsi una nuova vita, annaspa alla ricerca di un appiglio e capisce, ogni giorno sempre meglio, che dimenticare è impossibile. Un vento freddo, un pianto lontano, un segreto pesante come un macigno sul cuore, troppe sono le cose e le persone che ha lasciato e che non può dimenticare.

Personaggio contraddittorio e malinconico, Salma si nutre delle sue incertezze e nello stesso tempo cerca e trova appigli nella solidarietà delle donne. Quelle che ha perso e quelle che incontra nella sua nuova vita. Fortissimo in lei il sentimento di estraniazione, il suo sentirsi “aliena” in un paese così diverso dal suo, dove essere libera e occidentalizzata non vuol dire altro che adattarsi a nuove regole.
Così ogni tanto Salma si spreca, si butta via, convinta di non valere niente e di meritare il disprezzo della gente. E mentre impara a leggere riviste di moda, a parlare inglese, a camminare sui tacchi, continua a sentirsi inadeguata. Fuori posto. Una pastora nera in un mondo di donne bionde, belle e chiare.
Ma Salma, a suo modo tenace, conquista piano il suo spazio senza fare rumore. Tutto quello che ha è tutto quello che nel tempo si è guadagnata e finalmente – dopo tanti anni – nella sua vita così diversa comincia a farsi spazio l’ombra lieve della felicità.
Sentimento fuggevole per Salma, colomba scura che vive in bilico perenne tra ricordi, pianto e sorrisi. Tra amori che ha lasciato e amori nuovi.
Adesso che potrebbe fermarsi a riposare, Salma sente che quello che ha lasciato nella sua terra di “capre, vigne, ulivi, e prugni e mandorli e fichi e meli” è molto più che un ricordo. E sarà questa la spinta di un viaggio in cui Salma ritroverà se stessa.

Un brano tratto dal libro:
“Nel buio della notte o alle luci dell’alba, restino i tuoi petali serrati, strette e chiuse le gambe! Io invece ricevetti Hamdan come un fiore avventato che si spalanca al sole.
Salma, adesso sei una donna… Sei mia, sei la mia schiava.»
«Sì, sì, sì» gli dicevo. Niente fazzolettini di carta, preservativi o spermicidi, solo l’odore della terra fertile arata di fresco. Mi lavai i calzoni nel ruscello e tornai a casa stordita. Da quel momento, notte dopo notte lo aspettai distesa sotto il fico.
«La mia puttana è ancora qui!» mi diceva, poi mi prendeva in fretta.
«Ancora» gli sussurravo.
Quando Hamdan non girò più su se stesso e io smisi di baciare cavalli, capre e alberi, le nostri madri cominciarono a insospettirsi. «Piccola sgualdrina, che cosa hai fatto?» Mia madre mi trascinò per i capelli.
«Madre, ti prego…»
«Hai ricoperto di pece il nostro nome! Tuo fratello ti sparerà in mezzo agli occhi.»
«Madre!»
I miei petali vennero strappati a uno a uno. Mi tirò i capelli, mi diede morsi, cinghiate finché non fui tutta chiazze e sprofondai serena nell’oscurità.”

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CONFESSIONI DI UNA GIOCATRICE D’AZZARDO di Rayda Jacobs

recensione di Salvo Zappulla (nella foto)

salvo_zappulla.JPGAbeeda, la protagonista di questo avvincente romanzo, è una donna musulmana praticante, divorziata, madre di quattro figli, di cui uno omosessuale (il minore) muore per AIDS. Abeeda porta il velo nel rispetto delle tradizioni ma le vicissitudini della vita, le frustrazioni accumulate sviluppano in lei un senso di ribellione, un desiderio furente di scardinare cliché religiosi e culturali da farla assurgere a simbolo dell’emancipazione femminile. Il suo miraggio di libertà è il casinò dove dilapida il suo patrimonio; si libera dei pesanti fardelli psicologici inebriandosi nella trasgressione, nel vizio, in definitiva nel peccato.
Rayda Jacobs manipola con sapiente tecnica narrativa una storia dal forte impatto sociale, gioca con i sentimenti contrastanti di una protagonista sempre sull’orlo del baratro: la tresca con il cognato, la storia di sesso con il proprio datore di lavoro, il rapporto ambiguo con la sorella, le amicizie perdute e poi ritrovate, le affannose corse al casinò, i conflitti interiori con se stessa, i brevi lampi di lucidità, lo spasmodico desiderio di vita, le debolezze proprie dell’umanità.

 

Questo romanzo è la storia di un’ infinita solitudine, che trova sfogo nei bagliori pirotecnici e ammalianti delle macchinette da gioco, nell’abisso vorticoso della dipendenza dal gioco d’azzardo in cui Abeeda precipita senza più trovare la via di uscita, fino a escogitare il falso furto della propria auto per cercare di risanare i debiti. Il ritmo incalzante, gli intrecci conturbanti, la prosa limpida e accattivante ne hanno fatto un best-seller tradotto in diverse lingue, e ottimo fiuto ha avuto Pietro Del Vecchio ad accaparrarsene i diritti per l’Italia. Il film sudafricano tratto dallo stesso romanzo Confessions of a gamber (Les confessions d’une joueuse), di Rayda Jacobs e Amanda Lane, in concorso al Dubai International Film Festival, è ambientato nella comunità indiana di Lape Town e vede protagonista la stessa Rayda Jacobs la quale interpreta il ruolo di Abeeda.

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RECENSIONI INCROCIATE N. 3: Salvo Zappulla, Roberto Mistretta http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/28/recensioni-incrociate-n-3-salvo-zappulla-roberto-mistretta/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/28/recensioni-incrociate-n-3-salvo-zappulla-roberto-mistretta/#comments Mon, 28 Apr 2008 13:05:35 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/28/recensioni-incrociate-n-3-salvo-zappulla-roberto-mistretta/

Nuova puntata delle “recensioni incrociate”.
I due autori/recensori invitati sono entrambi siciliani e – tra le altre cose - si occupano di critica letteraria sulle pagine culturali del quotidiano “La Sicilia”.

Tutti e due sono legati alla piccola casa editrice di Caltanissetta Terzo Millennio (ci spiegheranno loro stessi in che modo).

I libri, oggetto delle recensioni a incrocio, sono “In viaggio con Dante all’Inferno” di Salvo Zappulla e “Il canto dell’upupa” di Roberto Mistretta.

Vi invito a dialogare con entrambi gli autori (che parteciperanno al dibattito).
Massimo Maugeri

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In viaggio con Dante all’Inferno” di Salvo Zappulla – Fermento – 164 pag. – € 12

recensione di Roberto Mistretta

Ci sono libri che hanno la capacità di stemperare nell’ironia gli italici vizi e l’imperante corruttela riprendendo l’antico motto: “Una risata vi seppellirà”. E Salvo Zappulla, prolifico autore di Sortino sostiene questo dono con scrittura elegante e scorrevole che rendono la sua prosa godibile e arguta.
Come abbiamo già scritto in altre occasioni, Zappulla coltiva, con la notte in generale e i sogni in particolare, rapporti privilegiati, appartenendo a quella categoria di scrittori visionari che hanno raccolto, nella normalità dell’assurdo, la lezione di Dino Buzzati e, nell’autocostruzione continua dell’universo, l’insegnamento di Italo Calvino.
In questo esilarante romanzo, leggero nella forma ma corposo nella sostanza, torna il sogno. Dante Alighieri in piena notte si presenta al protagonista, lo sveglia e gli intima di seguirlo all’Inferno: ha necessità di riscrivere alcuni capitoli del suo immortale capolavoro adeguandolo al mutar dei tempi.
Protagonista e insperato compagno di viaggio del Sommo poeta, il gigionesco Salvo Zappulla non si lascia sfuggire l’occasione per ironizzare sul malcostume e incidere con inchiostro avvelenato sulle nequizie di politicanti di professione, corruttori ambiziosi e tutta l’assortita umanità dei potenti di turno che affollano i gironi. Dante ha necessità di trovare posto ai nuovi misfatti e confida a Zappulla: “Giungevano all’Inferno frotte di politici. Nei primi tempi è stata dura. Che fare? mica potevamo rimandarli indietro! Era gente che si era ben guadagnata la dannazione eterna. Ladrocini, intrallazzi, corruzione, clientelismo, associazione a delinquere. Autentici artisti della criminalità. Con quale coraggio avremmo negato loro una sede idonea? E poi siamo onesti, al giorno d’oggi una bolgia non si nega a nessuno”.
Un libro da leggere accanto al presepe, per contrasto e per sorridere amaro.

Roberto Mistretta

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Il canto dell’upupa di Roberto Mistretta – Cairo editore – pagg. 253 – euro 15

recensione di Salvo Zappulla

Con questo romanzo Roberto Mistretta entra da protagonista sulla scena del noir italiano. Lo scrittore di Mussomeli, paesino a due passi dal paese di Camilleri (sarà solo un caso?), imbastisce trame avvincenti, veri dipinti neorealistici, alternando momenti venati di tenera ironia e tinte nere dal violento impatto emotivo. C’è un maresciallo lunatico e sempre ossessionato da diete mai rispettate, ci sono i suoi collaboratori con le loro manie. E c’è tanto orrore infiltrato negli abissi dell’anima, dove si annidano le voglie e i desideri più turpi. I personaggi di Mistretta sono autentici, scolpiti nelle pietre di Villabosco. E sono destinati a rimanere scolpiti anche nella mente dei lettori, perché difficilmente si possono dimenticare. Il pregio maggiore di questo giovane scrittore è la capacità di dare alle sue storie una costruzione così articolata, così certosina che sembrano quasi un lavoro di ricamo, dove nulla è lasciato al caso. Non una svista, non una incongruenza. Mistretta è scrittore impegnato, non scrive per diletto o per il piacere di evadere dalla realtà; ne “Il canto dell’upupa” la realtà, in tutte le sue misere sfaccettature, è sempre presente, diventa materia letteraria, plasma sanguigno da offrire ai lettori. Il romanzo tratta argomenti scabrosi che spesso si preferirebbe far finta di ignorare e voltare il capo colpevolmente dall’altra parte, tratta la pedofilia e l’incesto, ce li pone davanti, ci costringe a respirarne l’odore rancido di uomini andati a male. E lo fa con rabbia e indignazione. E’ sofferenza autentica la sua, un urlo che si leva dal cuore, un cancro che vorrebbe estirpare. Ma Mistretta è scrittore, non un magistrato o un chirurgo, usa la penna al posto del bisturi e incide, scava nei recessi più reconditi delle umani aberrazioni fino a tirarne fuori tutto il marcio. Il suo è uno stile accattivante, da professionista che conosce alla perfezione il proprio mestiere, sa come costruire un giallo che tenga in sospeso il lettore fino all’ultima pagina, con colpi a effetto, pause di studiata meditazione e di profonde riflessioni. Svia, indaga, ci porta lontano con falsi indizi, per poi piazzare il colpo di coda che lascia di stucco. Un libro bello. Bello e coinvolgente. Sicuramente non facile, che vale la pena di leggere.

Salvo Zappulla

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