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martedì, 11 ottobre 2011

CRONACHE DI INIZIO MILLENNIO

cronache-di-inizio-millennioChe cosa rimane del decennio che ci stiamo lasciando alle spalle?

Qual è l’evento “caratterizzante” degli anni 2001-2011?

Se vi venisse chiesto di redigere una classifica degli eventi più importanti che si sono avvicendanti in questi dieci anni… come la stilereste? (per ordine di importanza…)

Quali eventi, a vostro giudizio, sono rimasti “in sordina” e meriterebbero, viceversa, maggiore risalto nella nostra memoria?

E come si differenzia il decennio che si sta per concludere da quelli che lo hanno preceduto?

Vi invito a rispondere a queste domande, ispirate dalla recentissima pubblicazione del volume “Cronache di inizio millennio” (Historica, 2011) curato dal duo letterario Laura Costantini e Loredana Falcone. Si tratta di una antologia che ha come sottotitolo “32 autori italiani raccontano gli anni 2001/2011” a cui ho partecipato anch’io con grande piacere, invogliato dallo scopo benefico del progetto (come meglio precisato di seguito).
Dalla scheda del libro: “Dieci anni densi di avvenimenti, cambiamenti, cataclismi climatici, politici e sociali che vale la pena raccontare per lasciarne traccia e, senza avere la pretesa di un’interpretazione sociale e antropologica, poter restituire il sapore degli anni che ci siamo trovati a vivere”.
Dicono le curatrici: “Quello che abbiamo chiesto agli autori che hanno aderito (32 tra famosi ed esordienti) è di raccontare uno di questi anni, di questi avvenimenti. Dalle Torri Gemelle all’avvento di Facebook, dallo Tsunami ai Mondiali di calcio 2006, dal G8 di Genova al terremoto dell’Aquila. Sono solo esempi nella massa di stimoli che il decennio ha potuto fornire a tutti noi che scriviamo esercitando la passione della memoria e della parola.”

Il ricavato delle vendite verrà devoluto all’A.V.S.I. per il progetto “Al lavoro! Attività di formazione professionale e avvio al lavoro per i giovani di Rio de Janeiro”.
Mi piacerebbe che partecipassero al dibattito tutti gli autori coinvolti nel progetto (magari potrebbero raccontarci perché hanno scelto proprio quella data e quell’evento).

Laura Costantini mi aiuterà ad animare e a moderare la discussione.
Di seguito, l’elenco degli autori che hanno aderito al progetto e la bella prefazione firmata da Marino Sinibaldi.

(Inutile aggiungere che siete tutti invitati a rispondere alle domande del post).

Massimo Maugeri
(continua…)

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sabato, 14 giugno 2008

GUIDA PRATICA ALL’ETERNITA’. Racconti tra cielo e terra di Fabrizio Centofanti

Vi presento una raccolta di racconti.
Il titolo è al tempo stesso dolce e ambizioso: Guida pratica all’eternità, racconti tra cielo e terra.
L’autore è Fabrizio Centofanti: poeta, scrittore, ma anche sacerdote diocesano che opera a Roma dal 1996, soprattutto nel campo della spiritualità e dell’approfondimento della Sacra Scrittura.
Remo Bassini ha firmato la prefazione della raccolta. Potrete leggerla di seguito insieme al racconto Agatino.
“Donne e uomini piccoli ma ingombranti, da buttare nel cassonetto. Da rimuovere. Perché scomodi, a volte puzzano. Andate via, via”.
Così Bassini descrive i personaggi di Centofanti.Persone da buttare.
E forse, da buttare è pure Agatino.
Mi piacerebbe dibattere su questo volume, partendo dalla prefazione di Remo. E mi piacerebbe discutere di Agatino: “un losco figuro mascherato da becchino del vecchio west con tanto di cappello a larghe tese.”
La presenza di Agatino crea paura, imbarazzo, diffidenza. Soprattutto nei confronti di chi si ferma alle apparenze, di chi guarda il nero (esteriore) degli uomini senza riuscirne a cogliere la luce… che pure, quasi sempre, c’è.
Ecco, vorrei che discutessimo anche delle apparenze. Quelle che ci condizionano. Quelle che sono capaci di far pendere le nostre decisioni da una parte o dall’altra.
L’apparenza inganna, dice il proverbio. Inganna nel bene, come inganna nel male.
Mi domando (e vi domando):
Fino a che punto bisogna fidarsi delle apparenze?
E fino a che punto è lecito abbassare le proprie barriere per tentare di vedere l’altro, oltre il nero della sua esteriorità, fino a coglierne la luce?

Massimo Maugeri

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PREFAZIONE di Remo Bassini

Pare di vederli, leggendo. Vanno a capo chino, hanno lo sguardo di chi è solo, disperato, affamato. Sono i personaggi-protagonisti di questi racconti. Sono donne e uomini piccoli ma ingombranti, da buttare nel cassonetto. Da rimuovere. Perché scomodi, a volte puzzano. Andate via, via.
Siete gli “ultimi”, accontentatevi del regno dei cieli.
Non c’è spazio per voi in questo tempo di usa e getta, di computer dell’ultima generazione e di generazioni cresciute tra computer, line e la tivù “dei belli” e dell’effimero.
Ha fatto un lavoro storico e narrativo, don Fabrizio Centofanti, con questi frammenti di disperazioni e speranza.
Il lavoro storico – ma che compete (o così dovrebbe) a ogni intellettuale – è stato quello di annotare fatti e persone, cercandone il cuore, magari nascosto da un cappotto ricuperato chissà dove. Sono storie, queste, più vere del vero, che fanno male anche.
Sono microstorie – che tanto piacerebbero alla scuola delle Annales di Le Goff – che Fabrizio Centofanti ha scritto con tempi e ritmi di una narrazione a volte secca e dura, a volte, invece, vicina al lirismo.
Non ha usato la fantasia, Fabrizio Centofanti, ché la fantasia in certi casi depista e distorce. Ha usato i suoi ricordi, i suoi appunti, perché la memoria, si sa, è capricciosa. Ed eccoli, ora, questi racconti toccanti, che arrivano al lettore, lo commuovono, lo fanno pensare. Ci fanno pensare: ai disperati, certo, ma anche alla speranza; e il trait d’union tra questi due aspetti si chiama don Mario, la cui figura, sebbene mite, caritatevole, francescana, si staglia prepotente in questo mondo, sì, mondo di lacrime, ché è questa la dicitura adatta, giusta.
E ha saputo fondere, Fabrizio Centofanti, in queste sue scritture ri-pescate dalla memoria, le sue due anime: quella di chi vive pensando al Vangelo come un’altra Storia di disperazione e speranza da mettere in pratica, e quella dell’umile testimone che trascrive e racconta. Sono venuti fuori, da questa doppia anima, questi racconti: che trasudano umanità e che ci insegnano. Ci insegnano che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior” non sono solo versi di una canzone di successo.
Perché la dignità “degli ultimi” sia per davvero. E non parole vuote, dell’usa e getta.

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AGATINO

Agatino aveva la barba nera e vestiva di nero. Questo gli era costato una pessima fama, a volte, come quando andò a trovare don Mario in ospedale, il quale don Mario, però, quando Agatino varcò la soglia della porta, non c’era. Chi c’era, e cioè un vicino di letto, vedendo entrare un losco figuro mascherato da becchino del vecchio west con tanto di cappello a larghe tese, chi c’era, dicevo, si spaventò. Assai.
Ma Agatino si preoccupava poco della sua fama, anzi pareva che facesse di tutto per avere aspetti e modi che potessero provocare paura, imbarazzo, diffidenza. In più, parlava da solo. Per strada, alla fermata dell’autobus, dovunque si trovasse, non mancava mai di fare rapidi botta e risposta con se stesso, come se dovesse trovare un accordo su difficili questioni che unicamente lui poteva capire e sviscerare.
Agatino era solo. Viveva in giro per le incombenze che raccoglieva qua e là per la metropoli e la sera andava a riposare nel dormitorio della Caritas di via Marsala, insieme con tipi come lui, neri e barboni, come ci fosse una specie di cittadinanza a parte, il lato oscuro di Roma, nerovestito e barbuto; come se tutti i lustrini e i sorrisi e i dialoghi a due o più persone avessero un loro rovescio di sguardi cupi, appesantiti dalla sommaria pulizia, e di discorsi tra sé e sé come i pazzi del paese.
Agatino era un uomo del buio, e veniva nel mondo della luce solo per causa di forza maggiore, per sbarcare il lunario con le sue incombenze da fattorino fuori sede. Nel territorio luminoso si sentiva straniero, come un topo in trappola; forse per questo parlava da solo, per esorcizzare un disagio invincibile, l’impressione di essere l’unico estraneo in una riunione famigliare. Gli altri, in generale, lo confermavano in questa sensazione. Perché a vederlo così, nero e barbuto, immagine cupa che farfugliava con se stessa, veniva veramente da considerarlo di un’altra famiglia, se non di un altro mondo, sconosciuto e inconoscibile, da cui sarebbe stato meglio, molto meglio, tenersi distanti.
Lui lo capiva, e ne soffriva. Pur stando dalla parte del buio, si rendeva conto che l’altra parte presentava dei vantaggi: innanzitutto un dialogo a due o a tre, più ortodosso del suo parlare da solo. Poi, la varietà dei colori, che poteva distrarre dalla nota scura che era la sua vita, sempre uguale a se stessa, con le incombenze raccolte in giro, le fermate dell’autobus, i sonni inquieti nel dormitorio della Caritas.
Ma i suoi colori li trovava altrove: le storielle che scriveva dappertutto, sulle ricevute postali, le pagine dei giornali, la carta in cui avvolgeva i modesti regali che non mancava mai di confezionare per i committenti. Barzellette, poesie, dialoghi in due battute, che finivano col riempire il vuoto della vita, col trasfigurare in sfumature sempre diverse la massa nera del vestito e della barba, degli stivali e del cappello. Questo, naturalmente, dal suo punto di vista. Gli altri continuavano a vedere, invece, l’Agatino scuro e cupo di sempre.
Un giorno, una beghina della parrocchia chiese di una persona che potesse lavorare nel giardino. Don Mario si rivolse ad Agatino, nella speranza che potesse farcela; lui si mise a dormire su una sedia a sdraio e pretese, alla fine, di essere pagato, senza aver mosso un dito. La donna s’infuriò e cominciò a urlargli sulla faccia. Agatino le rispose per le rime: “Zoccola, zoccola!”. Lei, figùrati, che zoccola non gliel’aveva detto mai nessuno, andò di corsa dal parroco a gridare: “O lui o io!”. Don Mario disse: “Lui”. Quando don Mario rispose “Lui”, l’anziana signora sbiancò, incredula.
La figura di quest’uomo nero rischiava, giorno dopo giorno, anno dopo anno, di trasformarsi in mito. Andava a pagare anche le bollette della nostra chiesa. Il prete gli consegnava le montagne di soldi spicci delle questue, che lui infilava in una cartella rigorosamente nera. Una volta, quando don Mario era stato bruciato ed era in coma in ospedale, l’uomo nero mi disse che mancavano dei soldi per pagare le fatture. Io mi infuriai, perché avevo contato le monete a una a una, e gli dissi di non provarci più, se non voleva essere cacciato. Lui se ne andò via, offeso. Non sapevo che l’avrei rimpianto, e tanto anche, quando fu sostituito da gente senza scrupoli che cercò in ogni modo di rubare il poco che avevamo. Non disse mai più che mancavano dei soldi; tornava con le ricevute piene di poesie e di barzellette, che a poco a poco tendevano a specializzarsi e a concentrarsi in serie tematiche.
La cosa strana è che quando cercammo qualche testo per ricordarlo degnamente, non trovammo più neppure un verso o una battuta, come se l’opera sconfinata che aveva composto giorno dopo giorno fosse misteriosamente evaporata. Lo trovarono seduto su una sedia del dormitorio della Caritas di via Marsala, morto. Volevamo organizzargli il funerale, ma i parenti, che non conoscemmo mai, non furono d’accordo.
Se ne andò così, senza una messa, a pagare le bollette della vita in un ufficio postale tutto nuovo, dove il nero del cappello, del vestito, degli stivali da becchino del far west è un colore come un altro, che non spaventa nessuno, dove si può parlare con se stessi senza essere pazzi, dove uno è finalmente libero di spendere la sua felicità di uomo del buio, ma segretamente amante della luce e dei colori del mondo, fosse anche l’altro mondo, un ufficio postale che non avrebbe mai immaginato, Agatino, così bello.

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lunedì, 3 marzo 2008

LA DONNA CHE PARLAVA CON I MORTI di Remo Bassini

Il 12 settembre 2005 lessi questo articolo di Piero Colaprico pubblicato su Repubblica.it.

Vi riporto l’incipit.

Sarà stata un’intuizione. O forse sarà davvero che esiste una medium che ascolta con le proprie orecchie le voci dei morti. Ma non c’è dubbio che ieri mattina, molto presto, una donna di 55 anni abbia guidato un corteo di subacquei sulla riva del lago di Como e abbia detto: “E’ qui”. E là c’era davvero l’auto, inabissata, di una trentenne scomparsa da tempo. Un robot con telecamera ne ha letto la targa. La stessa telecamera ha inquadrato l’interno, ed ecco il giubbotto beige. Ogni dubbio è sparito e questa mattina si cercherà di recuperare quello che resta di Chiara Bariffi, inghiottita nel nulla nella notte tra il 30 novembre e il primo dicembre 2002.

Come ha fatto la donna, che si chiama Maria Rosa Busi, 55 anni, a dire: “E’ qui”?

Lei sostiene che gliel’ha detto la ragazza morta: “Voleva essere trovata”.

Ecco. Quando ho letto per la prima volta il titolo del nuovo romanzo di Remo Bassini, La donna che parlava con i morti (Newton Compton, Roma, 2007, pp. 238, euro 9,90) ho pensato subito a quell’articolo. E quella donna: Maria Rosa Busi.

La donna che parla con i morti.

Su Books and other sorrows di Francesca Mazzucato, Leandro Piantini – riferendosi a questo romanzo – scrive che Bassini “si slancia nel mondo tenebroso dell’occulto, del paranormale, dei morti che non sono morti del tutto ma ritornano, e con cui si può entrare in comunicazione”.

Su Queer (Liberazione), Franz Krauspenhaar ne parla così:

“Remo Bassini non è solo uno scrittore di valore, è anche un prodigio e una macchina – umanissima – da scrittura: è direttore de La Sesia, storico bisettimanale di Vercelli e provincia, collabora con Il Corriere Nazionale, commenta sul suo seguitissimo blog e ne La poesia e lo spirito,- il blog letterario multiautore fondato da Don Fabrizio Centofanti – scrive romanzi di buon successo. Per il suo ultimo libro, quarto di una fortunata serie, ha scelto un titolo d’inquietudine un pò anni 70, La donna che parlava con i morti, (…) un romanzo giallo di tinte (come da copertina) ma dai sapori popolari e al contempo raffinati. La storia inquietante di una donna e della provincia italiana profonda nella quale vive, una serie di personaggi difficilmente dimenticabili. E soprattutto la scrittura felice di Remo Bassini: a volte vorticosa, sempre funzionale e fatta spesso di pennellate veloci, precise, multistrato. Godibile ma anche capace di strapparti un replay, per ricatturare – felicemente- un momento, una sfumatura particolarmente interessante”.

Su Famiglia Cristiana Laura Bosio scrive di questo romanzo evidenziandone l’ambientazione nella provincia italiana: “La provincia ha una grande, sotterranea vitalità. Non è soltanto un luogo fisico: è un luogo dell’anima, la “provincia” che tutti noi ci portiamo dentro, con i nostri sogni, i nostri fallimenti, le nostre aspirazioni e le onde della nostra vita più segreta. E’ una provincia di risaie, di campagne umide e di piccole città, quella raccontata nel suo ultimo libro, “La donna che parlava con i morti” (Newton Compton), da Remo Bassini: romanziere civile, ruvido e dolce, capace di illuminare con la sua scrittura precisa, veloce, a tratti vorticosa, un’Italia minore e insieme “esemplare”, dove il passato ramifica le sue radici inquiete in un presente disorientato. E con il passato fanno i conti tutti i personaggi del suo romanzo, a partire dalla protagonista, Anna Antichi: esistenze spezzate da lutti familiari, tormentate da rimpianti e rimorsi, e turbate da un fantasma insanguinato che torna a pretendere attenzione e affetto. Un giallo, a voler assecondare sempre più labili definizioni di genere, ma soprattutto una coinvolgente storia di morte e amore che ricuce gli strappi della memoria per ritrovare i fili di un possibile futuro.

Vi propongo un dibattito su due linee. La prima è in riferimento all’articolo di Colaprico di cui sopra, la seconda è più strettamente legata al romanzo di Bassini.

Così vi domando:

Cosa pensate dei cosiddetti medium? Credete a chi dice di parlare con i morti? Avete aneddoti da raccontare, in proposito?

E poi… Remo Bassini è ospite di questo post ed è pronto a dialogare con voi.

Seguono degli estratti gentilmente concessi dall’autore e dalla Newton Compton.

(Massimo Maugeri)

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Incipit

Si parlava poco di lei. Quando se ne parlava i vecchi dicevano, ma solo in certe occasioni, banchetti funebri, domeniche nebbiose trascorse tra amici e parenti a mangiar castagne, dicevano, questi vecchi, che era «come una santa». Santa Nunzia del bosco. O dei castagni.
Aveva poco più di vent’anni quando lasciò il Palazzone per andare a vivere come in clausura nel cascinale in fondo alla valle, costruito in una sola estate dai muratori venuti da lontano con muli e cavalli da tiro, in fretta, e un capomastro che urlava, e gente armata su cavalli e mule, a controllare.

E di lei per anni e anni si disse, ma si seppe poco. Si seppe, ma si disse poco del suo peccato: aveva tradito il marito, tre volte più vecchio di lei, per un giovane, bel fattore che poi fu trovato morto, dissero per disgrazia, in un torrente.

La pena per Nunzia la decisero, con la benedizione del marito disonorato, i suoi due cognati; clausura a vita, controllata a vista da due contadine, carceriere spietate in cambio di un piatto di minestra, vino buono, un letto per dormire e per altri piaceri, chissà.

* * *

Seconda parte

Lo scrittore maledetto

Aveva il mondo in tasca e non lo sapeva. Ma quella notte di marzo, piovigginosa, che sapeva di glicini in fiore, Mario ebbe la percezione, chiara, quando imboccò il piccolo viale alberato che puntellava la sua bella villa, che il suo mondo non era più quello di prima.
La villa era l’ultima. Ancora trecento metri. Sembrava più vicina, però. Perché illuminata, da una luce che non sembrava vera. Una luce, irreale, implacabile, che annuncia il dolore più grande, il peggio del peggio del peggio. Erano le quattro del mattino ma c’era gente attorno a quella luce. Che abbagliava, quasi. E un’ambulanza e due pattuglie dei carabinieri, anche.

Si mise a correre, lui, come un pazzo. Non aveva preso l’auto, uscendo, dopo cena.
Il corpicino di Giuliano era già stato avvolto in un lenzuolo. Corse e si fermò quando intravide, circondata dai vicini, Margherita, seduta sui gradini, con la bocca spalancata e le labbra che sembravano paralizzate da una smorfia eterna, nel tentativo disperato di immettere aria nei polmoni incapaci a respirare. Il corpo impazzisce e non dà retta più quando un figlio piccolo muore, suicida.

L’aveva trovato lei. Impiccato con un lenzuolo, nella sua stanzetta. Sul letto l’ultimo libro che aveva scritto suo papà. Con la dedica: “A Giuliano, che capisce il suo papà”.
Mentre correva, Mario, per un attimo, ma poi cacciò quel pensiero, ripensò e rivide una moneta: per terra, che non aveva raccolto, ore prima, quando era uscito. Non era nella sua tasca, quella moneta.

Avrebbe dovuto: se lui non si fosse dimenticato chi era.

Nell’altra tasca, invece, ballonzolava il cellulare. Con un messaggio, che non lesse mai Mario: di Chiara, l’ultima fiamma: “Sei il mio stallone, mi hai fatto vedere le stelle stanotte”.

Vedeva altro, lui, ora. Che chiudevano il portellone dell’ambulanza. Con rabbia.

* * *

In mezzo a queste due maledizioni c’è Anna Antichi, la protagonista

* * *

«Allora, signorina Anna Antichi, lo mettiamo su questo ufficio di investigazioni private?»
«Mi scusi, invece di dire stronzate mi dica piuttosto chi le ha dato il numero del mio cellulare».

Non le sto dicendo stronzate, le sto facendo una proposta…»

«Non sono molto intenzionata a farmi scopare da lei, mi dice chi le ha dato il numero o…».

«E la smetta, chi crede che me l’abbia dato? Fabrizio no?».

Il quasi urlo di quell’omone alto, coi capelli bianco-neve, lo sentì anche una donnina che stava uscendo dal camposanto e che si girò a guardarli. Anna si accese una sigaretta.

«Mi dà fastidio, può spegnere, ce la fa a resistere dieci minuti? Sia gentile».

«Negativo. Se lo scordi, senta mi sono rotta, dica quello che deve dirmi».

«Mi ascolti. Ho un enfisema, spenga quella sigaretta per favore, glielo sto domandando per favore, la prego».

«E non si decidono a mandarla in pensione?», disse Anna lanciando lontano la sigaretta, con l’arte dell’indice che fa pressione sul pollice.

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giovedì, 20 dicembre 2007

LIBRI NATALIZI

Lo sapete meglio di me. Quando si avvicina Natale quotidiani, riviste, allegati letterari fanno a gara per consigliare i titoli dei libri da riporre sotto l’albero.

Facciamolo anche noi.

Vi chiedo di indicarmi:

1. Il titolo di un libro che vi piacerebbe ricevere in regalo.

2. Il titolo di un libro che regalerete (o che vi piacerebbe regalare).

Magari potremmo specificare anche i motivi delle scelte.

Che ne dite?

Infine vi pongo una terza domanda. Quali libri pensate, o vi proponete, di leggere durante le vacanze?

Gli autori dei miei quattro “libri natalizi” sono i seguenti:

Ian McEwan (Chesil Beach), Philip Roth (Patrimonio), Ivan Cotroneo (La kryptonite nella borsa), Remo Bassini (La donna che parlava con i morti). Difficilmente riuscirò a leggerli tutti e quattro entro la fine delle feste (non è che per caso qualcuno di voi li ha già letti?).

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Un libro che ho letto e che vi consiglio è 1982. Memorie di un giovane vecchio del “nostro” Roberto Alajmo. Avremo modo di discuterne in dettaglio dopo le feste.

Un importante consiglio per l’acquisto ce lo fornisce qui di seguito Sabrina Campolongo e riguarda un’iniziativa meritevole di sostegno.

(Massimo Maugeri)

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Quelli che… invece di comprarti il solito regalo di Natale, ho comprato uno yak a nome tuo!

di Sabrina Campolongo

Dite la verità: avete letto il titolo di questo pezzo e vi siete sentiti un po’ infastiditi, un po’ incastrati?

Sì, perché se qualcuno, invece di pensare a un regalo per noi, ha deciso di fare beneficienza a nome nostro… sì, ecco, un po’ può anche roderci.

Uno si può anche dire: ma, scusa, non potevi evitare di comprarti il televisore nuovo, invece? Perché hai deciso che io potevo fare a meno del mio regalo di Natale, affinché tu potessi fare beneficienza?

Ma di certo questo non si può dire. E non si può nemmeno darlo a vedere: tocca sorridere a 32 denti, esclamare: “M-ma che splendida idea! Pensa, ne stavo proprio per comprare uno! Gli hai dato il mio nome, (allo yak ovviamente)? Ma guardalo (nella busta c’è anche la foto del ruminante che ora porta il vostro nome, giusto per non farvi mancare l’ emozione) ma quant’è cariino!”

Però.

Se invece siete voi quelli che stavano pensando di comprare yak a nome di tutti i vostri amici e ora siete inorriditi scoprendo quanto può essere piccola e meschina la mente umana

Oppure

Se invece il televisore nuovo non ve lo siete potuti permettere, e non potreste nemmeno permettervi di fare regali inutili e costosi ai vostri amici e contemporaneamente di donare a chi ne ha veramente bisogno,

se, insomma, vorreste fare un regalo di Natale che venga gradito, e allo stesso tempo aiutare il prossimo… credo proprio di avere pronta la soluzione al vostro dilemma.

Lo yak lo comprate a nome vostro (l’iniziativa, fuori di ironia, mi sembra lodevole) e ai vostri amici regalate un libro.

Non uno qualsiasi.

Innanzitutto un bel libro. Un libro che racchiude ventitrè belle storie per grandi e piccini, un libro che non vi farà fare brutta figura, piacevole da leggere e da guardare, un libro che fa bene all’anima, da leggere a voce alta, da recitare per appagarsi del suono delle parole, per tornare un po’ tutti bambini.

E poi un buon libro, un libro buono in ogni senso, perché il ricavato della vendita andrà a un bambino che ha un disperato bisogno di aiuto.

Un bambino ostaggio di una malattia feroce, di un mostro di quelli veri, che bisogna tenere a bada, nutrendolo con un cibo speciale e un farmaco più raro e prezioso della polvere magica di Campanellino.

State certi che i vostri amici vi ringrazieranno. E non solo loro.

Sabrina Campolongo

GLI AUTORI DI QUESTO LIBRO DEVOLVONO INTERAMENTE I LORO COMPENSI
ALL’ASSOCIAZIONE CITY ANGELS DI ROMA ONLUS (
www.cityangelsroma.it) , IN FAVORE DI GRAMOS GASHI, 11 ANNI, AFFETTO DA UNA GRAVE MALATTIA RARA.

LE FIABE DI GRAMOS” É ORDINABILE UNICAMENTE A QUESTO INDIRIZZO: https://www.lulu.com/content/1423738

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