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martedì, 4 ottobre 2011

VIAGGIO ALL’ALBA DEL MILLENNIO

VIAGGIO ALL’ALBA DEL MILLENNIO” VINCE LA V EDIZIONE DEL PREMIO INTERNAZIONALE SEBASTIANO ADDAMO

La cerimonia di consegna avrà luogo venerdì 7 ottobre alle 18, nella sala C1 del Centro culturale “Le Ciminiere” di viale Africa, Catania, con ingresso gratuito.

* * *

viaggioallalba-delmillennioCari amici, sono molto felice di poter condividere con voi la notizia dell’uscita di un mio nuovo libro. Si tratta di una raccolta di racconti molto particolare, intitolata “Viaggio all’alba del millennio” (pubblicata da Perdisa Pop, nella collana Corsari). Ho avuto il piacere di presentarlo al Salone del libro di Torino (sala autori, spazio b, padiglione 2), sabato 14 maggio, ore 10:30, insieme all’amica Michela Murgia (vincitrice del Premio Campiello 2010): alla fine del post, trovate i video della presentazione.
Vi ringrazio in anticipo per l’affetto con cui (spero) accoglierete questo mio nuovo lavoro.
Dal sito di Perdisa Pop è possibile scaricare e leggere il primo racconto della raccolta.
Vi riporto, di seguito, la scheda stampa del libro predisposta dalla redazione della casa editrice…

* * *

Viaggio all’alba del millennio si presenta come un’originalissima miscellanea di generi, di toni e registri stilistici: una raccolta peculiare, in cui ogni racconto si collega all’altro per dare forma a un unico grande affresco.
Un bizzarro viaggio in aereo racconta l’ansia da attentato terroristico; una tragedia consumata all’interno delle pareti domestiche tratta il tema dell’incomunicabilità tra familiari; i preparativi di un matrimonio rivelano alcune nevrosi contemporanee.
Si va poi dagli incontri virtuali nelle chat erotiche a una lettera folle che un’assassina scrive al commissario che l’ha arrestata. E ancora: una comica conversazione telefonica tra una nonna e un nipote, un giovane in coma, un ridicolo dialogo sull’immigrazione clandestina e uno scambio di battute che ha come oggetto la schizofrenia, per finire con un racconto dai tratti grotteschi, che ha per protagonisti un gruppo di giovani e una Catania trasfigurata, e ricollega tutti i racconti precedenti per agganciarsi infine al primo, in una struttura circolare.

Leggere questo libro è come guardare in uno specchio deformante. Maugeri unisce il grottesco al drammatico, lo scherzo alla suggestione, per mostrarci gli anni in cui viviamo attraverso le nostre nevrosi, le ansie e gli inganni della mente. La sua scrittura scompiglia le identità, rimescola le carte e altera la visione, dando forma a un libro magnetico, diverso, in grado di raccontare il caos del nostro tempo come non lo abbiamo mai letto.”

Di seguito, invece, vi propongo il booktrailer del libro realizzato dall’ottimo Carmelo Caramagno…

Di seguito, i video della presentazione al Salone del libro di Torino con Michela Murgia.
(continua…)

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mercoledì, 16 giugno 2010

A PROPOSITO DI RACCONTI…

Nel gennaio del 2008, pubblicai questo post dedicato alle narrazioni brevi (i racconti)… sottolineando come il mercato premiasse le narrazioni lunghe (i romanzi).
A due anni di distanza, mi sento di dire che (forse) qualcosa è cambiato… che (forse), oggi, i racconti trovano più spazio rispetto a un paio di anni fa…
Cosa ne pensate? Siete d’accordo
?
Vi ripropongo il post con le domande originali. I vecchi frequentatori del blog potranno rileggersi e verificare se hanno cambiato idea, i nuovi avranno la possibilità di dire la loro.
(Massimo Maugeri)

—————–

C’ERA UNA VOLTA IL RACCONTO
(post del 24 gennaio 2008)

Su un articolo culturale del Corriere della Sera del 23 gennaio – che raccoglie testimonianze varie (da Stephen King, ad Andrea Di Consoli, a Massimo Onofri) – si evidenziano le “difficoltà” del racconto o short story (per dirla all’anglosassone). Badate bene… non difficoltà di scrittura, o di lettura. Si tratta, purtroppo, di mere questioni di marketing.

Il racconto non piace granché… dicono.

I lettori prediligono storie-fiume… dicono.

In altre parole: il racconto non vende.

Quindi, di conseguenza, gli editori si adeguano.

Certo, raccolte di racconti continuano a essere pubblicate (forse più dalla piccola editoria che dalla media o grande), ma le “difficoltà” di cui sopra sembrano lampanti.

Vi invito a discuterne.

Perché i lettori prediligono i romanzi lunghi ai racconti?

È così per voi?

Se così fosse, perché continuare a scrivere ancora racconti?

Quali sono i pro e i contro delle short stories?

(Massimo Maugeri)

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lunedì, 11 gennaio 2010

LA RAGAZZA DI VIA MAQUEDA. Incontro con Dacia Maraini

Dacia Maraini torna a essere ospite di Letteratitudine (avevamo già avuto modo di incontrarla qui e qui).
L’occasione ce la fornisce la recente uscita di questa sua nuova opera letteraria: “La ragazza di via Maqueda” (Rizzoli, pp. 270, € 18,50).
Si tratta di una raccolta di racconti (alcuni già pubblicati su riviste e giornali, altri inediti) che compone una sorta di geografia dell’anima dell’autrice. Ci sono gli anni dell’adolescenza, qui. E quelli dei grandi incontri (Pasolini, la Callas, ovviamente Alberto Moravia). Ma è anche un libro che, mescolando la pura fiction con racconti della memoria, abbraccia i “luoghi per eccellenza” di Dacia Maraini: la Sicilia, Roma, l’Abruzzo.
Fornirò ulteriori informazioni nel corso della discussione.
Per il momento vorrei concentrarmi sul bel racconto che dà il titolo al volume (La ragazza di via Maqueda, appunto)… un racconto lungo ambientato a Palermo, una storia di denuncia che stigmatizza una sorta di doppio abuso, trattando due temi forti, duri: quello dello smaltimento illegale di sostanze radioattive e quello della prostituzione minorile. Il protagonista del racconto è un ingegnere palermitano, indicato con le sole iniziali: D.B.
Pur essendo un uomo onesto – e un buon padre di famiglia – finisce con il rivelarsi come un inetto, un debole. Per certi è una vittima del sistema. Una di quelle vittime, però, che non avendo la forza e il coraggio di ribellarsi finiscono, loro malgrado, per diventare parti del sistema stesso. Ingranaggi. Anelli della catena.
L’uomo si trova costretto ad apporre la propria firma su un foglio che – di fatto – (come avrà poi modo di scoprire) consente alla ditta per cui lavora di procedere allo smaltimento illegale (e occulto) di materiale radioattivo. L’ingegnere, all’inizio, tenta una timida protesta… che non sortisce alcun effetto. Poi si trova a vivere un conflitto che potrebbe sintetizzarsi nella seguente domanda: decidere di denunciare l’illecito (rischiando di perdere il posto di lavoro), oppure non reagire (ché in fondo lui stesso non è altro che una vittima)?
Mi fermo qui…
Sulla scorta di quanto accenato, provo a porre un paio di domande per favorire una discussione parallela a quella incentrata sul libro.

- La letteratura, oggi, ha ancora la forza e la capacità di denunciare, di stimolare le coscienze?

- Si diceva che il protagonista del primo racconto, in fondo, è un buon padre di famiglia a cui viene a mancare la forza e il coraggio di reagire a certe situazioni (anche se poi sfoga la propria frustrazione in maniera ulteriormente vergognosa e disdicevole)…
Oggi, il rischio di ritrovarsi (proprio malgrado) nello scomodo ruolo di “eroi” per perseguire il proprio “ordinario” senso di responsabilità… è più alto o più basso rispetto al passato?

Vi invito a intervenire e a porre domande a Dacia Maraini che parteciperà al dibattito.

Massimo Maugeri

Qui potete ascoltare l’intervista che Dacia ha rilasciato a Fahrenheit

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lunedì, 26 ottobre 2009

CITTA’ PER LE STRADE. ROMA E ALTRI LUOGHI

citta-per-le-stradeParliamo di città… di città e di strade, di quartieri urbani e letteratura.
L’occasione ce la fornisce questo progetto lanciato dalla casa editrice AZIMUT, a cui ho aderito con piacere ed entusiasmo.
Come prima cosa ci tengo a evidenziare che Città per le strade è un progetto editoriale NO PROFIT: i proventi degli autori, dei curatori, degli agenti, e dell’editore saranno devoluti ad ospedali, associazioni, centri che si occupano dell’infanzia. Il progetto consiste in una serie di raccolte di racconti incentrate su alcune città e le loro strade… sui loro quartieri, sui loro luoghi. Una sorta di stradario, un “Tuttocittà” dei narratori… i quali non hanno alcuna limitazione espressiva se non quella di collocare la propria storia in un quartiere o in una via della città. Prende così corpo un mosaico di avventure e intrecci, di personaggi e situazioni: il tutto per creare la mappa di una città che va svelandosi nella sua topografia attraverso la fantasia di chi scrive.
E – proprio come nelle città nuovi quartieri vanno aggiungendosi a quelli antichi e conosciuti – anche nella collana Città per le strade, narratori esordienti si affiancano a nomi già affermati nel panorama letterario nazionale e internazionale.
Sono già stati pubblicati i volumi Milano per le strade, Napoli per le strade e un primo volume dedicato a Roma. (continua…)

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giovedì, 4 giugno 2009

METTERE IN PIEGA UNA STORIA. “I racconti del parrucchiere” di Elvira Seminara

Che caratteristiche deve avere un racconto breve per “funzionare”?
L’incipit di questo post coincide con una domanda (ovviamente vi invito a rispondere). Lo spunto per la discussione ce lo offre la nuova opera narrativa di Elvira Seminara: “I racconti del parrucchiere” (Gaffi, 2009). [Peraltro siete tutti invitati alla libreria Giunti, di Piazza Duomo, a Catania (giorno 5, intorno alle h. 18,30) dove la stessa Elvira, insieme al sottoscritto e a Luigi La Rosa offrirà una sorta di workshop sul racconto presentando - contestualmente -"I racconti del parrucchiere"].

In questi racconti l’autrice dimostra di essere eclettica: la scrittura e lo stile si trasmutano da racconto in racconto – da voce in voce – mantenendo una qualità narrativa molto elevata e mettendo in scena un campionario umano completo, complesso e perfetto nella sua differenziazione.
C’è una sciampista dotata di poteri arcani di cui non era consapevole e che le consentono di carpire i pensieri delle clienti ogni volta che, per fare lo shampoo, tocca con le sue dita l’altrui cuoio capelluto. C’è un’extra comunitaria che decide di farsi bionda e che immola la lunga e nera treccia – curata per anni sotto il burqa – sull’altare dell’integrazione in un mondo che è diversissimo da quello d’origine (il taglio della treccia può essere visto come metafora della recisione delle proprie radici). C’è un poeta transessuale che decide di tagliarsi i capelli e di cambiarne la tinta: (E poi perché ci chiamano trans? Vuol dire attraverso, l’ho cercato sul dizionario. Attraverso cosa, la materia e lo spirito, gli ormoni e il silicone? E allora perché non chiamarci mutanti, sconfinanti, o che ne so. Vivere sul bordo, sulla linea, sul margine, vivere in punta di piedi facendo un fracasso del diavolo. In modo furtivo e smaccato). C’è il marito che si apposta poco fuori la bottega del parrucchiere per fare una sorpresa alla moglie. C’è la figlia di un detenuto che scrive la propria storia per inviarla a una rivista (qui lo stile e la scrittura della Seminara si trasfigurano per uniformarsi a quello del personaggio a cui si presta la voce… in questo caso la penna, caratterizzata dalla punteggiatura un po’ bizzarra). C’è una donna che una mattina si risveglia con gli occhi di colore viola e che vive, con leggerezza, una sorta di provvisorio risveglio kafkiano (la donna asseconderà il cambiamento tagliando i capelli cortissimi e tingendoli di rosso; ma la mattina dopo gli occhi torneranno a essere castani). C’è una giovane suora, dalla fervida immaginazione, che – prima di entrare in convento – decide di passare dal parrucchiere: (Ho capelli castani lunghi, né belli né brutti. Ma per ficcarli tutti sotto il velo, e tenere la testa pulita senza perdere tempo e fantasia, devo per forza tagliarli).
C’è il racconto struggente di un padre separato che, in compagnia del figlio (che non riesce più a vedere ogni giorno come vorrebbe), attende in macchina l’ex moglie che sta per uscire dalla bottega del parrucchiere.
E c’è altro. Molto altro. Perché i capelli hanno anche un forte valore simbolico e, in fondo, esprimono noi stessi. La nostra personalità, la nostra cultura, le nostre origini. E attorno ai capelli e al parrucchiere si accavallano e si alternano storie, caratteri, esistenze, destini. Voci che si mischiano e confluiscono fino a formare un unico particolarissimo coro.
Di seguito potrete leggere la recensione di Sabina Corsaro, direttore editoriale del magazine Lo Schiaffo (chiedo a Sabina collaborazione per animare e moderare il post relativamente ai racconti di Elvira).
Invito Luigi La Rosa ad aiutarmi per portare avanti la discussione sui racconti in generale.
Naturalmente interverrà anche l’autrice della raccolta.

In coda al post potrete leggere una storia tratta da “I racconti del parrucchiere”. L’ho scelta perché è una delle più dolenti… e anche perché proverò a “interpretarla” alla libreria Giunti (Piazza Duomo, Catania) giorno 5. Vi aspettiamo!

Dunque: discuteremo sia di questi racconti della Seminara che dell’arte del racconto in generale.
Vi ri-formulo la domanda: Che caratteristiche deve avere un racconto breve per “funzionare”?
E aggiungo questa (in tema): che rapporto avete con i vostri capelli?
A voi!
Massimo Maugeri

(continua…)

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lunedì, 14 luglio 2008

L’ARTE CHE SI SCRIVE: IMMAGINI E RACCONTI

Accolgo con piacere questa iniziativa lanciata da Miriam Ravasio.
L’idea è quella di stimolare la scrittura di brevi racconti attraverso la “percezione” di immagini: opere, performance, installazioni, dell’Arte contemporanea, realizzate dal 1950 ad oggi nel contesto internazionale.
Per quanto mi riguarda considero la suddetta iniziativa (“L’arte che si scrive: immagini e racconti”) come una sorta di gioco “visual-narrativo” che potrebbe dare esiti molto interessanti.
Naturalmente il successo dipenderà da voi. Dalla vostra partecipazione.
Cominciamo con la proposta delle immagini di due artisti: Yves Klein e Ashley Bickerton.
Troverete dettagli qui in basso.
Vi invito a scrivere racconti non troppo lunghi (meglio se si manterrano entro la soglia delle 5000 battute).
Miriam Ravasio e Carlo S. si occuperanno della cura dell’aspetto organizzativo del gioco (aspetto regolamentare, ecc.).
Vi ringrazio in anticipo per la partecipazione.
Massimo Maugeri

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yves_-klein.JPGYves Klein, Particolare da Dimanche, le Journal d’un seul jour. 27 novembre 1960.
Un uomo nello spazio, è il titolo della famosa foto che ritrae l’artista mentre salta nel vuoto in una strada di periferia. La foto apparve su un giornale prodotto sempre da Klein, e il cui articolo d’apertura titolava “Il teatro del vuoto”.

Yves Klein (Nizza, 1928 – Parigi, 1962) fu artista neo-dadaista e Nouveaux Réaliste, molto amico di Arman. Lavorò a lungo intorno al concetto di “Vuoto”, inteso in un senso ispirato dalla filosofia Zen, una realtà esistente al di là della sua rappresentazione.
In questo senso vanno lette le sue “pitture monocrome” , principalmente di colore blu, la sua “Sinfonia Monotona” fatta della ripetizione di una sola nota, le sue “performance” di eventi (la più famosa fu la vendita di spazio vuoto in cambio di oro, che poi finì tutto nella Senna). Due anni prima di questa foto aveva realizzato una mostra VUOTA, nella Galleria parigina di Iris Clert.
La fotografia, in questione “Saut dans le vide” (Salto nel vuoto) o anche “volo lunare” aveva anche un forte intento ironico verso la NASA, cercando di mostrare che le spedizioni spaziali erano “hybris” e pura follia.

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hashley_bickerton.JPGAshley Bickerton, Them, 1998, New York, Ileana Sonnabend. La paura del vuoto si “vince” con l’ossessione dei dettagli. Due tipi deformi e dall’aria demente irridono allo spettatore, mentre sullo sfondo c’è tutto l’apparato di insegne al neon, comune all’Occidente e all’Oriente.

Ashley Bickerton (Barbados, 1959- viv. a Bali), star della scena americana anni ‘80 insieme ad altri artisti della corrente “Neo Geo” (Peter Halley, Jeff Koons, ecc). Il gruppo si rifà alla Pop Art ed alle “geometrie minimali, riflesso fedele del paesaggio visivo delle grandi metropoli, interamente determinato da industria, tecnologia e pubblicità” (Sebastiano Grasso sul “Corriere della Sera”).
“Bickerton assembla nelle sue opere collages di foto, acrilico, noci di cocco, ossa, semi… con forti richiami alla terra, all’origine biologica della vita, a tutto ciò che si cela sotto la scorza della nostra esistenza…” (Elena Uderzo).
In qualche modo anche in questa immagine si insinua il tema del vuoto. Il vuoto mentale dei personaggi che indicano l’osservatore, il vuoto di senso suggerito dalle insegne e dai marchi pubblicitari, il vuoto di pensiero che dobbiamo affrontare quotidianamente, in una società dei consumi sempre più priva di valori e di significato. C’è un forte senso di “rimbalzo” in questa immagine, come in uno specchio: sono loro o siamo noi i veri dementi?

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AGGIORNAMENTO DEL 28 LUGLIO 2008

Dopo i numerosi racconti pervenuti (ispirati dalle suddette immagini) e dopo la votazione effettuata dagli stessi partecipanti, si è giunti alla determinazione dei tre finalisti (di seguito in ordine alfabetico): Laura Costantini, Enrico Gregori, Simona Lo Iacono.

Il vincitore è: Enrico Gregori con il racconto L’ILLUSIONE DI ABRAXAS

Di seguito il testo del racconto vincitore e quelli delle altre due finaliste

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L’ILLUSIONE DI ABRAXAS di ENRICO GREGORI

Signore e signori. Ragazzi e militari metà prezzo.
Eccomi qui, su questa pubblica piazza. Tra nani del circo, saltimbanchi, giocolieri e artigiani del monile.
Ma io, il grande Abraxas, mi concedo a voi con la mia nuova illusione. L’incantesimo per i vostri occhi e il vostro cuore…bambino lasciami lavorare…E non vi chiedo danaro e non vi chiedo cibo. Ma cinque minuti del vostro tempo e del vostro silenzio. Perché qualunque rumore e l’incantesimo svanisce…bambino vai a prenderti lo zucchero filato ché questo non è posto per te…cinque minuti per sognare e per stupirvi.
Come si stupirono nel mercato di Zanzibar, nella casbà di Tunisi e nel parco comunale di Novi Ligure. Lì, col cuore in gola, tutti ad ammirare il grande Abraxas che oggi regala a voi la magia, il sogno e la follia…bambino hai finito lo zucchero? E vai alle frittelle, ché qui Abraxas ha da fare…e tornerete nelle vostre case con il grande Abraxas nelle pupille e nella testa. Un sogno che continuerà a farvi visita ogni notte. Perché solo ciò che sembra ma non è sa stupire più di ogni miracolo.E scalò lentamente il palazzo antico in muratura mattonata.
Raggiunta la ringhiera vi salì, allargò le braccia come per spiccare un volo d’angelo.
Io, il grande Abraxas! disse. E si lasciò andare rimanendo sospeso al nulla. Lui, parallelo al suolo, mentre chiunque si portava le mani sulle labbra e sugli occhi.
Ammirate, disse, il grande Abraxas. Cosa mi tiene così levitato? Non è la forza, non è il trucco, non è il padreterno. E’ l’arte del grande Abraxas e il vostro silenzio.Due acrobati volteggiarono tra il pubblico con capriole e salti mortali. Applausi per loro. Uno scroscio frastornante……NO!, provò a supplicare Abraxas….NO!…bambino aiutami tu….NO!

Tra la folla festante e sorridente, piombò giù.
La testa esplosa sul porfido della piazza e un torrente di sangue fin sotto i piedi degli acrobati.
Il suo corpo scavalcato e oltrepassato da una fanfara in ghingheri. Meraviglioso Abraxas, dicevano tutti, stupefacente Abraxas. Dopo l’illusione dell’angelo sospeso anche l’incantesimo della morte.
Frittelle per tutti, grande Abraxas. Quando ti sarai rialzato ti aspettiamo al chiosco.

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LAGGIU’ di SIMONA LO IACONO

Mi dicevi laggiù dove muoiono i dannati, laggiù, amico, mi troverai. Mi dicevi guarda, mi dicevi resta, mi dicevi laggiù, dove vivono i dannati, laggiù, amico, mi troverai.
E sorridevi. Nudo l’inguine, vecchia la barba, perso lo sguardo su un punto inafferrabile che ti ostinavi a indicare.
Chi sono i dannati? Ti chiedevo mentre ti lasciavi prendere dall’infermiere di turno. Lavare. Vestire. Portare in bagno senza resistenza, scivolandomi addosso quella risata vuota – gengive e saliva – che si ostinava a imitare la felicità.
Proprio lì, in manicomio, dove la felicità non esiste.
Ma dicevi esiste, esiste, e te ne venivi con quell’ombrello a scaglie gialle e nere, me lo issavi in groppa roteandolo a tempo, esiste , esiste, e mi prendevi la mano. Continuavi a ridere. A lasciarti afferrare.
A dire laggiù dove muoiono i dannati, laggiù, amico, mi troverai.
Ma il giorno dopo non ti trovai.
Il giorno dopo in manicomio è una finzione, un letto chiuso con un nome che vacilla.
Volto le spalle all’infermiere di turno. Afferro un lembo del tuo lenzuolo. Un resto di te.
Poi ripenso, laggiù dove muoiono i dannati. Laggiù dove vivono i dannati…
Tra le lenzuola. Nel letto.
Abbasso lo sguardo, sollevo le coperte. Ne aspiro l’odore di disinfettante. Di piscio.
Le trovo incise di parole. Di versi. Di inchiostro che balla sotto i miei occhi e si intrama sulla lanugine.
La prima frase che leggo è laggiù, dove muoiono i POETI, laggiù, amico, mi troverai.

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TRE ANNI PER NON CAPIRE di LAURA COSTANTINI

Gianni guardò la foto incorniciata e pensò che Simona era una donna intelligente. Non che questa fosse una scoperta dell’ultima ora. Aldilà delle innegabili doti fisiche, Simona lo aveva conquistato proprio con la sua intelligenza, così poco comune tra le donne.
Sorrise, Gianni, a quel pensiero. Lo avesse detto ad alta voce avrebbe per sempre rovinato la propria reputazione di persona aperta e moderna e avrebbe dovuto spiegare a quale tipo di intelligenza si riferisse.
La foto di Yves Klein (una copia ma ben incorniciata) avrebbe potuto essere d’aiuto. Di solito le donne, anche le più dotate intellettualmente, pretendono conferme dagli uomini. Conferme prima, scelte irrevocabili poi. Pur essendo creature così leggere e fragili, nei rapporti interpersonali hanno bisogno di grossolani pilastri cui agganciare la loro esistenza. Simona no, Simona non era così. Simona era intelligente e quella foto era lì a dimostrarlo.
Gianni la guardò ancora una volta e il sorriso si fece più dolce. Si frequentavano da tre anni con Simona. Tre anni pieni di emozione fisica e mentale. Lei era stata il suo rifugio contro la noia delle apparenze, contro la monotonia del rapporto a due istituzionalizzato. Simona era la fuga, il distacco dalla realtà, il volo oltre le convenzioni.
Il volo, proprio come nella foto.
Non aveva mai chiesto niente, Simona. Si era creata il suo spazio in quella relazione adulterina che si nutriva di magia e leggerezza. Uno spazio piccolo, ma grazioso e comodo, proprio come la mansardina dove si incontravano una volta la settimana: il giovedì.
Un’abitudine, certo. Ma quanto diversa da tutte le abitudini che intessevano la sua vita come maglie di una rete. Di giovedì in giovedì il loro rapporto era cresciuto, si era consolidato.
Gianni non avrebbe mai creduto possibile che quell’appuntamento settimanale potesse diventare il centro stesso della sua esistenza. La meta cui giungere nel trascorrere dei giorni. Il ricordo da portare con sé per rendere più sopportabili tutti i venerdì, i sabati, le domeniche che seguivano inesorabili.
Il tempo, quando era con Simona, assumeva un sapore e una consistenza diversi. Era morbido, dolce, soavemente vischioso come una crema montata col burro.
E poi Simona, per tre anni, non aveva mai chiesto niente. Era stata questa la sua forza, la sua intelligenza, la sua marcia in più. Per Gianni lei era stata sempre e solo un valore aggiunto nella partita doppia della vita. Mai gli aveva creato un problema, mai gli aveva messo il broncio. Mai si era lamentata di essere sempre e solo l’altra, quella che doveva mettersi da parte quando arrivavano le feste comandate, le occasioni ufficiali o semplicemente la febbre del bambino piccolo, l’esame importante della grande o le paturnie di sua moglie.
Poi era arrivata quella foto. Gianni l’aveva trovata lì, sul tavolino della mansardina, incartata come un regalo. Un regalo per lui. Gianni ripensò che Simona era stata intelligente anche in questo: mai preteso regali, mai preteso uno stupido mazzo di rose, un gioiello pacchiano, niente. Il loro reciproco dono era incontrarsi lì, aprire la finestra sui tetti della città e rotolarsi tra le lenzuola fino allo sfinimento.
Un donarsi che alla fine era diventato importante. Tanto importante che Gianni scopriva ora, attraverso quella foto di Yves Klein, ciò che Simona desiderava.
Lei non lo avrebbe mai detto, intelligente ancora e sempre.
Nella foto c’era un uomo che saltava nel vuoto, con un’espressione di grande beatitudine. Esattamente l’espressione che aveva Gianni adesso mentre guardava la città dall’alto del minuscolo balcone. Un salto nel vuoto, una scelta. Voltare le spalle alla noia di una vita di regole e convenzioni e saltare nel caos gioioso di una storia d’amore vera.
Ecco, pensò, l’ho detto: amore. Di questo si tratta.
Gianni sentì la porta aprirsi. I passi leggeri di colei che aveva saputo guidarlo fin lì, in silenzio. Avvertì la presenza di Simona ma non si voltò. Le mani di lei sulla schiena, improvvisamente forti e pesanti.
Nel volo dal balcone della mansarda fino al marciapiede, sei piani più giù, Gianni non ebbe il tempo di capire. D’altronde, non gli erano bastati tre anni.

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sabato, 14 giugno 2008

GUIDA PRATICA ALL’ETERNITA’. Racconti tra cielo e terra di Fabrizio Centofanti

Vi presento una raccolta di racconti.
Il titolo è al tempo stesso dolce e ambizioso: Guida pratica all’eternità, racconti tra cielo e terra.
L’autore è Fabrizio Centofanti: poeta, scrittore, ma anche sacerdote diocesano che opera a Roma dal 1996, soprattutto nel campo della spiritualità e dell’approfondimento della Sacra Scrittura.
Remo Bassini ha firmato la prefazione della raccolta. Potrete leggerla di seguito insieme al racconto Agatino.
“Donne e uomini piccoli ma ingombranti, da buttare nel cassonetto. Da rimuovere. Perché scomodi, a volte puzzano. Andate via, via”.
Così Bassini descrive i personaggi di Centofanti.Persone da buttare.
E forse, da buttare è pure Agatino.
Mi piacerebbe dibattere su questo volume, partendo dalla prefazione di Remo. E mi piacerebbe discutere di Agatino: “un losco figuro mascherato da becchino del vecchio west con tanto di cappello a larghe tese.”
La presenza di Agatino crea paura, imbarazzo, diffidenza. Soprattutto nei confronti di chi si ferma alle apparenze, di chi guarda il nero (esteriore) degli uomini senza riuscirne a cogliere la luce… che pure, quasi sempre, c’è.
Ecco, vorrei che discutessimo anche delle apparenze. Quelle che ci condizionano. Quelle che sono capaci di far pendere le nostre decisioni da una parte o dall’altra.
L’apparenza inganna, dice il proverbio. Inganna nel bene, come inganna nel male.
Mi domando (e vi domando):
Fino a che punto bisogna fidarsi delle apparenze?
E fino a che punto è lecito abbassare le proprie barriere per tentare di vedere l’altro, oltre il nero della sua esteriorità, fino a coglierne la luce?

Massimo Maugeri

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PREFAZIONE di Remo Bassini

Pare di vederli, leggendo. Vanno a capo chino, hanno lo sguardo di chi è solo, disperato, affamato. Sono i personaggi-protagonisti di questi racconti. Sono donne e uomini piccoli ma ingombranti, da buttare nel cassonetto. Da rimuovere. Perché scomodi, a volte puzzano. Andate via, via.
Siete gli “ultimi”, accontentatevi del regno dei cieli.
Non c’è spazio per voi in questo tempo di usa e getta, di computer dell’ultima generazione e di generazioni cresciute tra computer, line e la tivù “dei belli” e dell’effimero.
Ha fatto un lavoro storico e narrativo, don Fabrizio Centofanti, con questi frammenti di disperazioni e speranza.
Il lavoro storico – ma che compete (o così dovrebbe) a ogni intellettuale – è stato quello di annotare fatti e persone, cercandone il cuore, magari nascosto da un cappotto ricuperato chissà dove. Sono storie, queste, più vere del vero, che fanno male anche.
Sono microstorie – che tanto piacerebbero alla scuola delle Annales di Le Goff – che Fabrizio Centofanti ha scritto con tempi e ritmi di una narrazione a volte secca e dura, a volte, invece, vicina al lirismo.
Non ha usato la fantasia, Fabrizio Centofanti, ché la fantasia in certi casi depista e distorce. Ha usato i suoi ricordi, i suoi appunti, perché la memoria, si sa, è capricciosa. Ed eccoli, ora, questi racconti toccanti, che arrivano al lettore, lo commuovono, lo fanno pensare. Ci fanno pensare: ai disperati, certo, ma anche alla speranza; e il trait d’union tra questi due aspetti si chiama don Mario, la cui figura, sebbene mite, caritatevole, francescana, si staglia prepotente in questo mondo, sì, mondo di lacrime, ché è questa la dicitura adatta, giusta.
E ha saputo fondere, Fabrizio Centofanti, in queste sue scritture ri-pescate dalla memoria, le sue due anime: quella di chi vive pensando al Vangelo come un’altra Storia di disperazione e speranza da mettere in pratica, e quella dell’umile testimone che trascrive e racconta. Sono venuti fuori, da questa doppia anima, questi racconti: che trasudano umanità e che ci insegnano. Ci insegnano che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior” non sono solo versi di una canzone di successo.
Perché la dignità “degli ultimi” sia per davvero. E non parole vuote, dell’usa e getta.

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AGATINO

Agatino aveva la barba nera e vestiva di nero. Questo gli era costato una pessima fama, a volte, come quando andò a trovare don Mario in ospedale, il quale don Mario, però, quando Agatino varcò la soglia della porta, non c’era. Chi c’era, e cioè un vicino di letto, vedendo entrare un losco figuro mascherato da becchino del vecchio west con tanto di cappello a larghe tese, chi c’era, dicevo, si spaventò. Assai.
Ma Agatino si preoccupava poco della sua fama, anzi pareva che facesse di tutto per avere aspetti e modi che potessero provocare paura, imbarazzo, diffidenza. In più, parlava da solo. Per strada, alla fermata dell’autobus, dovunque si trovasse, non mancava mai di fare rapidi botta e risposta con se stesso, come se dovesse trovare un accordo su difficili questioni che unicamente lui poteva capire e sviscerare.
Agatino era solo. Viveva in giro per le incombenze che raccoglieva qua e là per la metropoli e la sera andava a riposare nel dormitorio della Caritas di via Marsala, insieme con tipi come lui, neri e barboni, come ci fosse una specie di cittadinanza a parte, il lato oscuro di Roma, nerovestito e barbuto; come se tutti i lustrini e i sorrisi e i dialoghi a due o più persone avessero un loro rovescio di sguardi cupi, appesantiti dalla sommaria pulizia, e di discorsi tra sé e sé come i pazzi del paese.
Agatino era un uomo del buio, e veniva nel mondo della luce solo per causa di forza maggiore, per sbarcare il lunario con le sue incombenze da fattorino fuori sede. Nel territorio luminoso si sentiva straniero, come un topo in trappola; forse per questo parlava da solo, per esorcizzare un disagio invincibile, l’impressione di essere l’unico estraneo in una riunione famigliare. Gli altri, in generale, lo confermavano in questa sensazione. Perché a vederlo così, nero e barbuto, immagine cupa che farfugliava con se stessa, veniva veramente da considerarlo di un’altra famiglia, se non di un altro mondo, sconosciuto e inconoscibile, da cui sarebbe stato meglio, molto meglio, tenersi distanti.
Lui lo capiva, e ne soffriva. Pur stando dalla parte del buio, si rendeva conto che l’altra parte presentava dei vantaggi: innanzitutto un dialogo a due o a tre, più ortodosso del suo parlare da solo. Poi, la varietà dei colori, che poteva distrarre dalla nota scura che era la sua vita, sempre uguale a se stessa, con le incombenze raccolte in giro, le fermate dell’autobus, i sonni inquieti nel dormitorio della Caritas.
Ma i suoi colori li trovava altrove: le storielle che scriveva dappertutto, sulle ricevute postali, le pagine dei giornali, la carta in cui avvolgeva i modesti regali che non mancava mai di confezionare per i committenti. Barzellette, poesie, dialoghi in due battute, che finivano col riempire il vuoto della vita, col trasfigurare in sfumature sempre diverse la massa nera del vestito e della barba, degli stivali e del cappello. Questo, naturalmente, dal suo punto di vista. Gli altri continuavano a vedere, invece, l’Agatino scuro e cupo di sempre.
Un giorno, una beghina della parrocchia chiese di una persona che potesse lavorare nel giardino. Don Mario si rivolse ad Agatino, nella speranza che potesse farcela; lui si mise a dormire su una sedia a sdraio e pretese, alla fine, di essere pagato, senza aver mosso un dito. La donna s’infuriò e cominciò a urlargli sulla faccia. Agatino le rispose per le rime: “Zoccola, zoccola!”. Lei, figùrati, che zoccola non gliel’aveva detto mai nessuno, andò di corsa dal parroco a gridare: “O lui o io!”. Don Mario disse: “Lui”. Quando don Mario rispose “Lui”, l’anziana signora sbiancò, incredula.
La figura di quest’uomo nero rischiava, giorno dopo giorno, anno dopo anno, di trasformarsi in mito. Andava a pagare anche le bollette della nostra chiesa. Il prete gli consegnava le montagne di soldi spicci delle questue, che lui infilava in una cartella rigorosamente nera. Una volta, quando don Mario era stato bruciato ed era in coma in ospedale, l’uomo nero mi disse che mancavano dei soldi per pagare le fatture. Io mi infuriai, perché avevo contato le monete a una a una, e gli dissi di non provarci più, se non voleva essere cacciato. Lui se ne andò via, offeso. Non sapevo che l’avrei rimpianto, e tanto anche, quando fu sostituito da gente senza scrupoli che cercò in ogni modo di rubare il poco che avevamo. Non disse mai più che mancavano dei soldi; tornava con le ricevute piene di poesie e di barzellette, che a poco a poco tendevano a specializzarsi e a concentrarsi in serie tematiche.
La cosa strana è che quando cercammo qualche testo per ricordarlo degnamente, non trovammo più neppure un verso o una battuta, come se l’opera sconfinata che aveva composto giorno dopo giorno fosse misteriosamente evaporata. Lo trovarono seduto su una sedia del dormitorio della Caritas di via Marsala, morto. Volevamo organizzargli il funerale, ma i parenti, che non conoscemmo mai, non furono d’accordo.
Se ne andò così, senza una messa, a pagare le bollette della vita in un ufficio postale tutto nuovo, dove il nero del cappello, del vestito, degli stivali da becchino del far west è un colore come un altro, che non spaventa nessuno, dove si può parlare con se stessi senza essere pazzi, dove uno è finalmente libero di spendere la sua felicità di uomo del buio, ma segretamente amante della luce e dei colori del mondo, fosse anche l’altro mondo, un ufficio postale che non avrebbe mai immaginato, Agatino, così bello.

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venerdì, 4 aprile 2008

DUE RACCONTI DA PANCHINA. DORA ALBANESE, GERMANO MILITE

Nuovo post sulla rubrica “Giovani scrittori crescono (selezione under 30)”.

Vi propongo due racconti diversi, ma che si assomigliano.

Gli autori sono Dora Albanese (di cui ho già pubblicato due racconti qui e qui) e Germano Milite (che ha pubblicato altri suoi racconti sulla rubrica Iperspazio creativo).

Due racconti “intimisti” e introspettivi. Due racconti che presentano voci narranti alla ricerca di qualcosa o di qualcuno. Atmosfere diverse, ambientazioni diverse. Ma è proprio la “ricerca” ad accomunare le due storie.

E poi le panchine. In entrambi i racconti troverete panchine dove i protagonisti, a un certo punto, si siedono. Nel racconto di Dora la panchina è di pietra; in quello di Germano – invece – è di marmo.

La duplice comparsa dell’elemento panchina è puramente casuale. Eppure mi sembra che abbia una sua significatività. Per questo ho deciso di intitolare questo post: “Due racconti da panchina.”

Vi invito a leggerli e a commentarli, interagendo con i due giovani autori.

Buona lettura.

Massimo Maugeri

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I LUMI SPENTI DI PIAZZA NAVONA

di Dora Albanese

L’anima mia, uno strumento a corde,

canta toccata dall’invisibile

una canzone di gondoliere,

trepida di colori e beatitudine.

C’era qualcuno forse – ad ascoltarla?…”

Nietzsche, Le poesie

 

“… questa giovinezza tanto vantata

il più delle volte mi appare come un’epoca ancora rozza della nostra esistenza,

un’età opaca e informe,

malsicura e fuggevole .”

Yourcenar, Memorie di Adriano

 dora-albanese.jpg

Ho camminato a piazza Navona da sola questa sera, stretta nel mio paltò doppiopetto beige. E’ la prima volta dopo tanti anni che torno qui, sola. E’ così cambiata da allora, così buia e vuota, che quasi m’intenerisce lei, invecchiata e stanca e pure ancora calpestata da piedi e da carrozze.

E come il volto di una donna vecchia che getta i trucchi nel gabinetto, rassegnata alla perduta giovinezza, anche lei cessa d’indossare i trucchi che sono i lampioni, e non gli accenderà questa sera e chissà per quante altre sere ancora. Nel cielo volano come brevi fuochi d’artificio le stelline colorate degli ambulanti pachistani, corteggiatori giullari di donne e bambini.

Il mio sguardo come anche la mia memoria, difficilmente sostengono questo cielo romano lasciato spento, indi nero. Il buio anima le mura curve della chiesa, che sembra si inchinino ai piedi di chi passa, indi anche ai miei; e suggestionata piego il capo sul petto, mentre i ricordi mi riempiono gli occhi.

Entra nelle mie narici, come l’avessi ancora al mio fianco, il profumo di tabacco secco della pipa di Giorgio; e il cuore mi duole quando volto la testa e cerco il suo corpo con ancora addosso il paltò doppiopetto beige che adesso riscalda me. Lo cerco disperatamente, credendo ancora alle favole, ma ovviamente non lo trovo e non lo troverò mai più, non vedrò mai più questo paltò addosso a chi condivise con me il suo passeggio, sempre stretto al mio fianco; anche la mia ombra sembra avverta l’assenza di Giorgio: è forse per questo che adesso sul muro si torce.

Un capogiro mi stordisce un istante mentre vengo trascinata dal vorticoso sentimento nostalgico che si prende cura di me ora che sono sola.

Respiro savia il suo ricordo e mi cingo il busto con le mani, come avrebbe fatto lui stringendomi al petto, poi nascondo il mento in gola, e mentre cammino cerco con lievi movimenti oscillatori del capo, di accomodarlo il meglio possibile; come una gallina che si accovaccia nel suo nido: è una danza disperata la mia.

Oh, inconsolabile malinconia che circoli nelle vene come fossi sangue malato, liberami dal peso di questi ricordi che tanto mi lasciano in pena.

L’aria statica sembra ascolti il demone della malinconia che si gioca di me: per questa ragione è ferma di fronte alla mia danza.

Non basterà tutta la vita per accettare la sua scomparsa, non basterà il suo ricordo a consolarmi: lo rivorrei e null’altro poi potrebbe gioirmi.

Rivorrei indietro il suo modo di pronunciarmi al mattino e la sua urgenza di amarmi.

Ludo’ Ludo’ Ludovica, amore mio” ecco, diceva proprio così caro Lettore; con un lieve accento spagnolo ereditato dal padre, chinava le labbra sulle mie, carezzandole dolcemente, e con ancora la bocca impastata dalla notte – non temevamo il confronto, ci amavamo senza freni – la apriva al bacio, e io senza alcun indugio facevo lo stesso, gustando così ognuno il sapore dell’altro.

E certamente con un bacio salutava i miei occhi e con una mano i miei capelli, accomodandoli con le dita dal disordine della notte.

- Quanto l’ho amato – penso mentre mi siedo su una panchina di pietra, e penso pure che questa solitudine mi ammazza ogni giorno più fortemente. Mentre con una mano mi levo dagl’occhi il pianto fatto, con l’altra cerco – frugando nella borsa e scompigliando ogni cosa, com’avendo in corpo la stessa ansietà di un ladro, come fossi estranea delle mie stesse cose – cerco l’accendino e una Cartier, la tiro fuori dalla borsa tenendola già tra l’indice e il medio, poi l’accendo senza portarla alla bocca e subito prende vita: ho così la certezza che l’aria ha ripreso a muoversi.

Avevo quindici anni e una zingara alla stazione Tiburtina, trattenendomi con un sorriso dorato, chiese di potermi leggere la mano; feci finta di niente, ero troppo piccola, non avevo soldi a sufficienza e forse ella mi avrebbe solamente derubata. Non so perché mi ritorna in mente dopo tanti anni, non so perché caro Lettore mi ritorna in mente quel sorriso dorato e quella verità che la mia mano trattiene ancora adesso che la guardo, è come quando si volge lo sguardo al cielo ricordandosi di Dio.

Poco distante da me c’è un’altra panchina resa opaca dall’umidità. Due ragazzi ci si siedono sopra non badando a quel leggero strato di bagnato. Certo, queste accortezze non si hanno a sedici anni, perché è di quell’ età che si tratta caro Lettore, sono i loro zaini che me ne danno conferma: sempre presenti, mai fuori luogo, consumati e scarabocchiati, abbelliti da ciondoli e da sonagli. Si baciano nell’ombra di questa piazza ammalata, con i busti uniti e le gambe incrociate, imitando un amplesso che presto arriverà, magari quando lei sarà diventata maggiorenne. E’ bello pensare che per adesso si stanno solo immaginando nel gesto d’amore; e mentre lei, più piccola e dolce si contenta di essere pensata, lui di qualche anno più maturo, si diverte a fantasticare le labbra della sua giovane amica schiuse al godimento quando per la prima volta lo troveranno dentro.

- Mi piacerebbe avere un po’ del loro tempo.

Un violino e un’armonica suonano accompagnati dalle corde di una chitarra pizzicate come fossero teneri polpacci di fanciulla.

Il ragazzo che le fa vibrare ha la pelle colorata di nero, ed è così bello anche se la notte gli maschera il volto, che resto a guardarlo mentre lui indifferente continua ad amare quella donna-chitarra e a carezzarle il ventre col plettro, non alzando mai lo sguardo.

Lo guardo, provando ad accettare un’altra bellezza maschile, provando a emozionarmi ancora.

Capisco dopo poco che sono gli altri due strumenti – il violino e l’armonica – ad accompagnare le corde della chitarra. Il bel ragazzo suona una musica d’addio e canta graffiando la voce. Il mio corpo… una sensazione strana lo pervade, sarà forse il risveglio di chi abita in me: una dama dell’Ottocento, o forse un principe azzurro rimasto ancora rana.

Ecco, è di tristezza che sto parlando; essa si sveglia e si attorciglia al cuore come una serpe a contatto con la voce rauca del bel ragazzo che canta la sua vita, e che non chiede nulla: né spiccioli né pane, solo la possibilità di rivolgere il suo canto profondo al cielo e agli astri, a qualche messaggero che si nasconde tra le nuvole e che ci guarda, guarda i nostri corpi caro Lettore, banali contenitori del tempo che passa; li osserva mentre vanno avanti e indietro, girano a vuoto sempre alla ricerca dell’altro, magari di un gesto, uno qualunque, il più lontano possibile dalle proprie dimore, dai propri affetti; l’importante è che non li assuefaccia, che non li rimetta rapidamente nello scorrere quotidiano della vita.

La sigaretta finisce e la spengo premendo il filtro bruciato sulla panchina, poi la getto nel cestino verde che mi è accanto. I due ragazzi continuano a baciarsi e a guardarsi, il chitarrista gitano continua a cantare e suonare coi suoi due amici, sicuramente gitani pure loro.

Vorrei accompagnare questa melodia danzando all’aria aperta, senza vergogna; come quando ero bambina e nella terra di Calabria nel mese di agosto, mi divertivo la sera a ballare la musica di certi extracomunitari arabi.

Indossavo sempre una gonna rossa e un bustino a fiori – rossi pure loro – su uno sfondo bianco: risaltava così il mio seno acerbo e mai sfiorato, pronto a offrirsi al primo amore, come quello della ragazza che si bacia sulla panchina di fronte alla mia, e che porta addosso gli anni che portavo io allora.

Ballavo per trasgredire le regole, per far impazzire di rabbia e gelosia i miei genitori, per conquistare i sogni di certi uomini sposati. Adesso però, caro Lettore, ballerei solo per ricordare lui, diventerei una prefica danzante, getterei il pianto ai piedi e li muoverei a ritmo di rumba.

Giorgio era molto più grande di me, e mentre la mia vita stava iniziando ad affrontare la salita – la stessa che tutti, dopo aver compiuto la maggiore età si trovano ad affrontare – la sua iniziava a percorrere una lenta discesa, cosicché col tempo la sua immagine si aggravava maggiormente, perdendo i vivaci contorni maschili di cui mi ero innamorata.

Non avrei mai creduto di dover tornare in questa piazza senza di lui, eppure è successo, sono rimasta sola.

Mi aggiravo per Roma aggrappata al suo braccio, come un cieco aggrappato al suo cane, imparavo a memoria le vie, le strade, le piazze, senza ragionare, non occorreva allora che io ragionassi l’urbanistica romana, avrei camminato sempre con lui, oppure attraverso i ricordi, seguendoli fedelmente.

Mi abituai all’idea di essere in coppia, di apparecchiare per due, di raddoppiare la pasta da bollire, di stirare camicie, di attendere con ansia – sempre la stessa di un cane col suo padrone – la porta aprirsi.

Avrei voluto invecchiare con lui invece che crescere.

I due giovani innamorati stanno andando via, stretti nei loro zaini tenendosi per mano : chissà se li rincontrerò. Adesso che sono passati tanti anni da quando anch’io ero giovane, mi piacerebbe per un attimo voltare le spalle e trovare qualcosa che mi appartenne un tempo, magari un fermaglio colorato o forse degli orecchini, qualcosa insomma che mi colorasse il volto, o forse la prova che il destino lascia traccia di sé, di ciò che è stato.

- Vorrei non aver perso la strada.

Una coppia di turisti è ferma di fronte a una baracca, si fa ritrarre il volto da un’artista ambulante. Sembrano statue di cera i loro volti esposti al colore artificiale di una piccola lampadina giallo scuro attaccata da un filo rosso al tetto del piccolo riparo, e pare un faro in mezzo al mare, con i suoi bagliori sfocati.

I pachistani giullari rimettono a posto i balocchi in una sacca di corda consumata, mentre i bambini ritornano a casa con le loro madri: è l’ora di cena.

Anche le altre piccole baracche di souvenir – che illuminano leggermente la piazza anche loro con delle piccole lampadine – stanno chiudendo. Tolgono dal banchetto il Panteon e il Colosseo, imballandoli scrupolosamente, poi mettono in una sacca di tela i ritratti fatti e li conservano in un camioncino per esporli l’indomani senza neanche una grinza. E’ tutto quello che hanno: volti di stranieri ritratti in pochi secondi.

I musicisti hanno cessato di suonare, bevono una birra seduti sulle scale dell’istituto di cultura Cervantes, proprio di fronte alla mia panchina; a dividerci è solo la strada luccicante di umidità. Continuo a pensare che mi piacerebbe ballare la loro musica gitana, ma non lo faccio e mai più lo rifarò. Non ballerò mai più caro Lettore, ho capito che i ricordi devono rimanere tali, o forse solo delle perdute nostalgie.

Il ragazzo della chitarra, solo adesso sembra si sia accorto di me, indi mi guarda intensamente, come se ne avesse il diritto; e proprio adesso che mi sta guardando, già io non lo vedo più.

Decido di andare via; l’ora si è fatta tarda, e una donna non può sostare a lungo coi propri pensieri all’area aperta; tiro fuori dalla borsa – questa volta senza fatica – un’altra sigaretta, e l’accendo tenendola stretta tra le labbra; saluto la piazza carezzando la panchina fredda, stringo in vita la cinta del paltò e gettando un ultimo sguardo ai lumi spenti, mi incammino con ancora gli occhi pieni di ricordi.

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Dora Albanese è nata a Matera e ha 23 anni. Studia lettere moderne e pubblica racconti su giornali e riviste. Vive a Roma ed è già mamma di un bimbo.

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INFINITO

di Germano Milite

 

 

 germano.JPG

Un giorno di circa tre mesi fa, fui colto da un’angoscia indescrivibile. Mi sembrava di impazzire dalla voglia di evasione. Avrei avuto bisogno di un viaggio, lungo e lontano… un viaggio che, come tutti i viaggi spirituali, non sarebbe servito solo per fuggire da qualcosa o da qualcuno ma, anche e soprattutto, per effettuare una ricerca interiore che solo lontano dalle cose che conosci a menadito può riuscirti.

Non avendo però a disposizione abbastanza soldi, dovetti accontentarmi di qualcosa di molto più banale. Presi l’auto e i miei risparmi e mi fiondai in un negozio di articoli sportivi… con 80 euro acquistai un bel paio di pattini in linea. Quel giorno pioveva ma non mi scoraggiai: li misi ai piedi e pattinai per circa due ore, senza avere idea di dove andare e senza curarmi della pioggia che in breve mi aveva infradiciato i vestiti, né degli sguardi un po’ straniti delle persone o del fatto che potessi prendermi una polmonite.

La prima cosa che potreste pensare è: vabè, bravo il pirla; alla fine volevi riprodurre la classica scena da film dove lui, solo e con il cuore a pezzi, se ne va passeggiando sotto la pioggia impietosa. Immagine trita e ritrita, utilizzata in migliaia di romanzi e di pellicole che parlano di storie d’amore finite male. Ammetto che, all’epoca, avevo l’animo straziato da una lei, la classica lei che ferisce i tuoi sentimenti, che ti abbandona e che ti dice, fredda come il ghiaccio, dopo aver condiviso con te un oceano di emozioni: “Mi dispiace, non ti amo più”. Tuttavia, quella mia pattinata “under the rain”, non rappresentò un modo per rendere cinematograficamente scontata la pena d’amore di un ragazzo sentimentale e ancora innamorato.

Quel gesto servì a farmi sentire libero; libero dal tempo, dall’ombrello, dal giorno e dalla notte, dalle prediche dei miei, dai consigli degli amici, dagli esami all’università e dalla voglia di non prendermi la polmonite. Quell’episodio, rappresentò l’appagamento del mio bisogno di tensione verso l’infinito. Ero arrivato a sentirmi così schiacciato dalle dimensioni spazio-temporali, da aver bisogno di spaccarle e di illudermi, almeno per un po’, che non esistessero.

Pensavo agli orologi, ai calendari, alle batterie che si scaricavano, ai pacchetti di gomme che finivano, al serbatoio della mia moto che si svuotava, alle date degli esami che si avvicinavano, al ciclo lunare, al petrolio che si stava esaurendo; persino all’aria che respiravo e mi sentivo così schiavo del tempo, delle cose che finivano e della vita stessa che mi sembrava sul serio di andar fuori di testa. Del resto il tempo nessuno lo può fermare, il tempo passa dall’inizio dei tempi… e allora?! Perché, all’improvviso, vedevo me e il mondo così schiavi delle scadenze?!

In particolare mi angosciavano le batterie che si scaricavano e il continuo bisogno di ricaricarle; il ciclo infinito carica/scarica mi inquietava in maniera indicibile. La batteria del cellulare si esauriva in un giorno, quella del mio lettore mp3 durava al massimo 2 ore; per non parlare di quella della macchina fotografica digitale… e poi quella dello spazzolino elettrico, del cordless. Io stesso, mi sentivo come una batteria e avevo l’impressione che il mondo mi stesse consumando, o meglio, scaricando.

Solo che, una volta finita la mia carica, non potevo attaccarmi a nessun trasformatore e ricominciare da zero…una volta finita l’energia sarei stato out, per sempre. E avrei voluto urlare ai passanti: “Fermatevi; fermatevi cazzo… risparmiate energie, sentite la pioggia, sedevi e non correte, godetevi il mondo, imparate a sentirlo; a viverlo e non a consumarlo”. Ma chi avrebbe dato retta ad un disperato bagnato fino al midollo con un paio di pattini ai piedi?! Non mi restava che godermi la pioggia, donandole i miei vestiti, la mia testa fradicia e tutto il mio corpo come luoghi di schianto. Sentivo di dover essere solidale con lei, visto che, i miei simili, facevano di tutto per scansarla. In effetti, da quando avevo smesso di girovagare e mi ero seduto su di una panchina di marmo, non facevo altro che pensare a quanto dovessero sentirsi sole le gocce d’acqua che scendono dal cielo: scaricate dalle nuvole ed evitate dagli esseri umani… nemmeno fossero schizzi di acido muriatico.

Così chiusi gli occhi, per sentire solo il rumore dell’acqua che veniva giù dall’alto, sempre più vogliosa di inondarmi di scrosciante affetto e mi parve, per qualche istante, di riuscire ad afferrare l’infinito e di avere davanti a me altri mille anni da vivere, confortato dalle lacrime del cielo e con il passo alleggerito dalle rotelle di un paio di pattini.

Su quella panchina, d’un tratto, il mondo mi sembrò incredibilmente semplice, elementare e insieme inspiegabile, proprio come il senso di infinito di cui avevo bisogno e che mi colpì, sparato da nuvole nere le quali, di solito, mi spingevano a ripararmi. Stille di infinito mi colpivano di continuo, senza sosta e mi ricaricavano. Poi aprii gli occhi e rividi il mondo così com’era: uomini con gli sguardi spenti nelle auto, donne che tiravano sfinite i loro pargoli urlanti, una coppia di amanti che si baciava, sotto un portone e io che, all’improvviso, mi sentivo un povero matto schiavo dei suoi viaggi onirici. L’auto era lontana dal punto in cui mi ero fermato e, la cosa, adesso, mi preoccupava non poco. Mi sentivo i piedi stanchi e il freddo dei vestiti bagnati sulla pelle; poi guardai l’orologio e, in quel preciso momento, realizzai che ero tornato nel mondo reale, nel mondo finito… nel mondo dove, chi resta immobile su di una panchina a prendersi la pioggia, si prende anche una polmonite e in cui, chi non guarda costantemente l’orologio, arriva in ritardo.

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Germano Milite ha 21 anni e studia Scienze Politiche Dell’Amministrazione. Lavora come giornalista praticante per la Julichannel (canale 921 di Sky) e scrive articoli sul sito di redazione. Gestisce un blog.

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