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mercoledì, 18 gennaio 2017

L’ORA LEGALE

La nuova puntata di Letteratitudine Cinema è dedicata al film “L’ora legale” di Ficarra e Picone (dal 19 gennaio al cinema).

* * *

lora-legale-trama-e-poster-2.jpg

L’ora legale
di Salvo Ficarra e Valentino Picone

con Salvo Ficarra, Valentino Picone, Leo Gullotta, Tony Sperandeo, Vincenzo Amato, Eleonora De Luca, Ersilia Lombardo, Alessia D’Anna, Antonio Catania, Sergio Friscia, Alessandro Roja, Angelo Tosto.

Recensione di Ornella Sgroi

La verità è che non abbiamo più scuse. Perché se l’Italia va a rotoli è colpa di tutti. Nessuno escluso, se almeno una volta abbiamo posteggiato l’auto in seconda fila o scavalcato una coda facendo i furbi.
Ma come fare capire agli italiani che è troppo facile puntare il dito sempre e solo contro chi governa e che invece è arrivata l’ora di fare i conti anche con il nostro senso civico e la nostra integrità?
“L’ora legale”, verrebbe da dire. Portando avanti le lancette dell’orologio e proiettandoci in un futuro prossimo venturo in cui un nuovo sindaco, portatore sano di onestà, cercherà finalmente di fare rispettare le regole del vivere comune e del buon senso, inimicandosi però l’intero paese che lo ha votato in nome del cambiamento.
Un sogno ad occhi aperti, forse. Di sicuro, un’intuizione geniale per la nuova commedia, acuta e tagliente, diretta e interpretata da Salvo Ficarra e Valentino Picone che, insieme ad Edoardo De Angelis, Nicola Guaglianone e Fabrizio Testini, hanno scritto un film corale in cui si ritrovano – dopo varie peripezie, tra minacce e sabotaggi – a guidare la rivolta dei concittadini, prete compreso, incapaci di adattarsi all’inusuale ondata di legalità.
Eccolo, dunque, il grande paradosso della contemporaneità: un mondo che va alla rovescia, in senso opposto e contrario a quello in cui sarebbe giusto e logico che andasse. Un mondo in cui è l’onestà ad essere il cancro da estirpare, mentre la furbetteria e il tornacontismo regnano sovrani, radici e nutrimento di corruzione e criminalità. Tra imboscati, lavativi, raccomandati, che saccheggiano il presente e il futuro di chi vuole vivere invece da persona perbene.
lora-legale-trama-e-poster-2.jpgDi tutto questo materiale umano e sociale offerto dalla vita vera, di ogni giorno, Salvo Ficarra e Valentino Picone fanno sapiente uso, mettendo a segno una commedia fulminante, divertentissima ma anche molto amara, come la realtà che ci circonda. (continua…)

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sabato, 3 settembre 2016

FRANTZ di François Ozon (dal Festival Cinema Venezia 2016)

Pubblichiamo il primo degli articoli dalla 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia a cura di Ornella Sgroi (curatrice della rubrica Letteratitudine Cinema).

Venezia73 – Concorso

“Frantz” di François Ozon

di Ornella Sgroi

(Venezia, 3 settembre 2016)

Ci sono registi che riconosci senza difficoltà per uniformità di stile e linguaggio, a volte persino guardando anche un solo fotogramma. E poi ci sono registi come François Ozon che riconosci subito nonostante ogni suo film sia sempre diverso dal precedente e sebbene sia praticamente impossibile classificare il suo cinema dentro una sola precisa categoria.
Mai uguale a se stesso e sempre pronto ad esplorare nuovi generi, il regista francese torna alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia per la terza volta in concorso con “Frantz”, dopo avere debuttato proprio al Lido nel 1999 con “Amanti criminali” e avere realizzato con questa nuova pellicola il suo sedicesimo film.
Forte dei suoi ultimi successi, da “Potiche” a “Giovane e bella”, da “Nella casa” a “Una nuova amica”, passando dalla commedia colorata e brillante all’indagine più intima e psicologica, oggi Ozon porta in competizione una storia che gioca ancora con il tema dell’identità, questa volta viaggiando indietro nel tempo e portandoci nel bianco e nero della Germania e della Francia del 1918. Con quella che sembra una semplice storia d’amore spezzata dalla guerra e pronta a rinascere in un nuovo potenziale innamoramento capace di andare oltre l’odio per il nemico e che invece si trasforma, poco alla volta, nella ricerca di una nuova dimensione individuale e affettiva che trova nella splendida protagonista, la Anna di Paula Beer, romanticismo e forza, grazia e furore, passione e senso di protezione per chi le ha fatto da genitore. Tutto questo Ozon lo racconta con un bianco e nero elegante, sfumato di passaggi a colore sbiadito dal tempo, facendosi perdonare un inizio apparentemente banale che invece si trasforma in un nuovo punto di vista, conquistando con discrezione e garbo l’attenzione – e perché no, anche il cuore – dello spettatore. Complice la nota cinefilia del regista francese, che anche in “Frantz” rievoca tanto bel cinema del passato. Da cercare negli sguardi, come in quello dell’attrice Marie Gruber che sussurra la poesia di Giulietta Masina. Nelle inquadrature, come quella che incornicia la giovane Anna sulla panca del Louvre davanti al quadro di Manet, rimandando la memoria a Vertigo di Hitchcock. E nella fotografia, che evoca il cinema di Charlie Chaplin ed Ernst Lubitsch, autore di “Broken Lullaby”, adattamento per il grande schermo dello spettacolo teatrale di Maurice Rostand cui anche il film di Ozon si ispira.
È così che “Frantz” si propone come un film da esplorare con pazienza e da assaporare con lentezza, facendo decantare le suggestioni che suscita oltre la più scontata delle apparenze. Prendendosi il tempo – e la libertà – di ritrovarvi un disperato bisogno di rinascere, protetto e custodito dentro una bugia bianca. Coraggiosa e folle, come solo l’amore sa essere. In tutte le sue declinazioni. (continua…)

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martedì, 24 maggio 2016

LA PAZZA GIOIA (e altro ancora)

La nuova puntata di Letteratitudine Cinema con un pezzo “multiplo” sulle novità cinematografiche della settimana: La pazza gioia di Paolo Virzì; Money Monster di Jodie Foster; Microbo e Gasolina di Michel Gondry.

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La settimana al Cinema

recensioni di Ornella Sgroi

La pazza gioia di Paolo Virzì. Con Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti e Valentina Carnelutti

La vitalità della disperazione e la disperazione della vitalità. In un faccia a faccia che toglie il respiro, spezzato dalla bellezza e dalla forza dirompente della compassione e dell’umanità. Il regista Paolo Virzì dipinge così due ritratti femminili straordinari, di cui traccia i segni sulla carne e sul cuore di due attrici altrettanto straordinarie. Micaela Ramazzotti, mai stata così convincente in una pellicola come in questo ultimo film diretto dal marito Virzì, e Valeria Bruni Tedeschi, incantevole e travolgente nella sua femminilità mortificata dalla follia e appassionante nella sua interpretazione piena di pathos, sfumata di mille colori e tonalità affettive. Eccentrica, adorabile e irrefrenabile. Portatrice sana, nella sua insana verità, di un sentimento capace di rimettere in circolazione la vita nelle vene affrante e dolenti di una ragazza schiacciata dal senso di colpa. Questa delicata e al contempo potente storia di donne Paolo Virzì la racconta con garbo e discrezione, avvicinandosi quasi in punta di piedi ai volti delle sue due protagoniste, per coglierne l’anima attraverso sguardi e lacrime. E lo fa talmente bene che alla fine del film si sente quasi il bisogno di custodire dentro di sé, in silenzio, in segreto, tutte le emozioni provate insieme alle due protagoniste, mentre piano risale dal profondo il desiderio di correre fuori dalla sala per condividerle, quelle suggestioni emotive, con chi può farsi partecipe di tanti stati d’animo. Che passano, sullo schermo come in sala, dal sorriso e persino dalla risata esorcizzante alla commozione più intima e sincera.
Tutto parla di vita, nel film di Paolo Virzì. Persino i paesaggi e i colori. Senza fine, come ci ricordano le note delicate e malinconiche della canzone di Gino Paoli, che ci accompagna verso un finale pieno di speranza. Adagiando il seme di un nuovo inizio dentro un dolcissimo sorriso.

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Money Monster di Jodie Foster. Con George Clooney, Julia Roberts e Jack O’Connell (continua…)

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martedì, 26 aprile 2016

LE CONFESSIONI, TRUMAN (e altro ancora)

La nuova puntata di Letteratitudine Cinema contiene un pezzo “multiplo” sulle novità cinematografiche della settimana: “Le confessioni” di Roberto Andò; “Truman. Un vero amico è per sempre” di Cesc Gay; “I ricordi del fiume” di Gianluca e Massimiliano De Serio; “Abbraccialo per me” di Vittorio Sindoni

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La settimana al Cinema

recensioni di Ornella Sgroi

“Le confessioni” di Roberto Andò. Con Toni Servillo, Daniel Auteuil, Connie Nielsen, Pierfrancesco Favino.

Non è facile riuscire a imprigionare nelle immagini di un film il senso di immanenza che invece pervade e attraversa la nuova pellicola diretta da Roberto Andò, “Le confessioni”. Oltre la filosofia e la religione (intesa più come spiritualità), che si intrecciano fino a diventare l’una imprescindibile dall’altra. Tanto da farsi antagoniste ideali, per Andò, dell’economia e della “astratta nozione di austerità” che ne è diventata ormai il principio fondante senza valutarne davvero le conseguenze, su una vita che diventa sempre più ingiusta e discriminante nei confronti dell’essere umano in quanto tale.

Dopo il magnifico “Viva la libertà”, in cui la politica veniva osservata con un guizzo di magistrale follia eccentrica, come se solo la follia potesse riuscire a sbloccarne la meccanica inceppata dalla menzogna tornando a gridare senza paura la verità delle cose, il regista Roberto Andò con “Le confessioni” sposta il suo sguardo sul mondo della macroeconomia che finisce per schiacciare quanto di umano è rimasto intorno a noi, in questa triste e asettica e calcolata contemporaneità. E questa volta lo fa affidandosi alle nuance del genere giallo, citando espressamente Hitchcock e creando un mistero intorno all’improvvisa morte del direttore del Fondo Monetario internazionale (Daniel Auteuil) nel corso di un summit che riunisce i pochi veri potenti della Terra, nelle cui mani si tiene il destino del mondo e delle nazioni. Immerso in equilibri artefatti e fragili, incrinati dall’intrusione di un monaco certosino (Toni Servillo) che potrebbe essere rimasto unico custode di un segreto che non può essere svelato. (continua…)

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lunedì, 18 aprile 2016

IL CINEMA CHE CELEBRA LE DONNE

La nuova puntata di Letteratitudine Cinema contiene un pezzo “multiplo” sulle novità cinematografiche: questa settimana, il cinema… celebra le donne

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a cura di Ornella Sgroi

Il cinema, questa settimana, celebra le donne. Con due commedie brillanti che hanno per protagoniste due coppie femminili dinamiche e sopra le righe, interpretate con grande ritmo e carisma da attrici in gran forma.

Da una parte Margherita Buy e Claudia Gerini, nella commedia italiana “Nemiche per la pelle” di Luca Lucini. Due donne che hanno avuto in comune lo stesso uomo, dal quale ereditano all’improvviso un bambino cinese di sette anni. Un espediente narrativo che mette in moto una serie di situazioni e di duetti irresistibili, sotto la guida di un regista che si mette completamente al servizio delle sue attrici, dotate di tempi comici perfetti come fossero una coppia comica più che collaudata. La Gerini, cattiva e tornacontista, scorrettissima nel suo approccio inatteso con la maternità “testamentaria”. La Buy, adorabile nel suo essere goffamente femminile e materna. Al loro fianco, Paolo Calabrese e Giampaolo Morelli, ruoli a margine di una commedia che finalmente rende protagoniste assolute le donne anche nella comicità. Cosa piuttosto insolita nel panorama italiano.

* * *

Dall’altra parte dell’Oceano arrivano invece Greta Gerwig e la più giovane Lola Kirke, protagoniste della commedia americana “Mistress America” di Noah Baumbach. (continua…)

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martedì, 12 aprile 2016

DUE VENTATE DI ARIA FRESCA E VITALE SUL CINEMA ITALIANO

La nuova puntata di Letteratitudine Cinema contiene un pezzo “multiplo” con le recensioni a due belle novità del cinema italiano

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Recensione di Ornella Sgroi

Il mese di aprile ha portato con sé due belle sorprese tutte italiane. Che fanno soffiare aria fresca e vitale sul panorama del cinema nazionale.

La prima è “Veloce come il vento” di Matteo Rovere. Storia di famiglia e di motori, di passione, adrenalina e affetti mancati, persi e ritrovati. Disperatamente. Dietro al volante di una porche, a correre e rischiare in pista, c’è Giulia (Matilde De Angelis), diciassette anni e un grande talento da scoprire e dimostrare, anche per salvare la casa di famiglia ed evitare che il fratellino più piccolo vada in affidamento. Disperata e determinata, al punto da mettere tutto nelle mani del fratello maggiore, Loris (Stefano Accorsi), ex promessa delle corse distrutto dalla tossicodipendenza.
Tratto da una storia vera, il film di Matteo Rovere vola davvero sulla scia del vento. Con un inizio folgorante nel nome di “nostro Signore del sangue che corre nel buio delle vene”. Un’attrice protagonista, la giovane esordiente Matilde De Angelis, che cattura e ipnotizza anche con la voce oltre che con lo sguardo. Una regia e un montaggio “gas e freno” e una colonna sonora che scaraventa lo spettatore in pista. E anche Stefano Accorsi, brutto, sporco e tossico, è convincente con le sue ciabatte che gli scappano dai piedi, mentre insegue fantasmi e incita la sorella minore a non pensare alla curva che ha davanti, ma a quella che ancora non vede.

L’altra bella sorpresa è, in realtà, un atteso ritorno. Quello dell’altrettanto folgorante “Lo chiamavano Jeeg Robot”, primo lungometraggio di Gabriele Mainetti. Dopo 16 candidature ai David di Donatello, in consegna il 18 aprile, torna in sala un film che è già cult e che con originalità ha molto da dire, in fatto di cinema (anche sotto l’aspetto produttivo), in fatto di generi e di emozioni. Il regista Gabriele Mainetti, segnatevi questo cognome, fa esplodere il genere dei supereroi made in Italy – già sperimentato da Gabriele Salvatores con “Il ragazzo invisibile” – mettendo insieme il fumetto classico con la periferia italiana e i suoi tormenti, l’amore per Jeeg Robot con le impronte digitali Marvel e la passione per il cinema con la competenza registica. Costruendosi un’identità tutta sua, forte e coerente. Il risultato è imprevedibile e imperdibile, anche grazie a due attori che fanno a botte da veri fuoriclasse. Claudio Santamaria e un Luca Marinelli eccentrico ed esilarante, assolutamente magnifico. Che ha fatto tesoro di questa sua interpretazione per il ruolo, altrettanto riuscito, in “Non essere cattivo” di Claudio Caligari. Il risultato? È quello che Mainetti chiama “sospensione dell’incredulità”. Anche perché – come dice l’eroina fragile del film, interpretata dall’esordiente Ilenia Pastorelli – «un supereroe con le scarpe di camoscio non s’è mai visto!» (continua…)

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venerdì, 19 febbraio 2016

NESSUNO È COME SEMBRA

La nuova puntata di Letteratitudine Cinema contiene un pezzo “multiplo” con le recensioni di quattro film attualmente in sala che hanno tutti uno stesso comune denominatore: l’identità e l’apparenza.

* * *

Recensione di Ornella Sgroi

Nessuno è come sembra. Nessuno è chi dice (o crede) di essere. Un tema intrigante, quello dell’identità, nella dissonanza tra realtà e apparenza. E sono ben quattro i film attualmente in sala che lo affrontano, ognuno a proprio modo. Quattro diverse divagazioni sul tema, firmate da registi altrettanto diversi. Per linguaggio, stile, narrazione, sentimento e atmosfera. Oltre che per nazionalità. Ognuno al comando di attori che lasciano il segno e che contribuiscono in modo impeccabile alla riuscita di ciascun film. Da non perdere, nessuno dei quattro, perché nessuna buona ragione sarebbe davvero una buona ragione.

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The Hateful Eight di Quantin Tarantino, con Samuel L. Jackson, Kurt Russel, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern, Demiàn Bichir, Channing Tatum

Un Tarantino insolito.  Per la neve che fiocca sull’ispirazione dichiaratamente western del regista, dopo l’esperienza di “Django Unchained”. E per l’evoluzione in classico del giallo alla maniera di Agatha Christie e del suo “…E poi non rimase nessuno”. Anche se invece dei dieci piccoli indiani, Tarantino schiera otto assassini “odiosi” e irresistibili. Visivamente potentissimo, il nuovo film di Tarantino è scritto e girato con le parole ancora più che con l’azione cui il regista ci ha abituato, ma anche con la musica del Maestro Ennio Morricone, che escogita partiture da horror tra Dario Argento e John Carpenter, complici anche i suoni d’ambiente. Il vento, soprattutto e fuori di tutto, mentre dentro il rifugio i fiocchi di neve filtrano dalle fessure imbiancando la bellissima fotografia firmata da Robert Richardson. Dialoghi scoppiettanti e brutali, attori tutti in stato di grazia. Contagiati dal divertimento duro e puro che è tutto del regista statunitense e della sua banda di fuorilegge sempre in cerca di documenti che attestino una qualche verità. Un divertimento, quello di Tarantino, che fa scacco matto anche allo spettatore, costretto a fatica a mandare giù il coniglio uscito dal cilindro o, meglio, dalla botola che Tarantino avrebbe fatto bene a non aprire. Perché se giallo deve essere, allora bisogna giocarlo ad armi pari.  Anche se i suoi “hateful eight”, probabilmente, non sarebbero d’accordo. (continua…)

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lunedì, 11 gennaio 2016

QUO VADO?

Locandina Quo Vado?

La nuova puntata di Letteratitudine Cinema è dedicata al nuovo film di Checco Zalone

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QUO VADO?

di Gennaro Nunziante
con Luca Medici, Eleonora Giovanardi, Sonia Bergamasco, Lino Banfi, Maurizio Micheli

Recensione di Ornella Sgroi

Quo vado? Siamo in tanti a chiedercelo. Di ogni età, cultura ed estrazione sociale. Ma di una sola nazione, l’Italia. E siamo tutti italiani, i destinatari del film che in questi giorni sta letteralmente facendo esplodere sale cinematografiche e botteghino, scatenando la fantasia analitica di giornalisti, sociologi, produttori, intellettuali e spettatori. Tutti a chiedersi perché.
Perché? Forse perché se c’è qualcuno che viene preso di mira da Luca Medici e Gennaro Nunziante in “Quo vado?”, attraverso la maschera di Checco Zalone, quello è proprio l’italiano. Né medio, né alto, né basso. Semplicemente italiano. Spettatore e soprattutto cittadino, senza fare sconti a nessuno.
Del resto, se di questi tempi non facciamo altro che chiederci “dove stiamo andando?” la colpa è anche nostra. Come dice Checco, non si tratta di corruzione né di concussione, ma di educazione. Salvo poi decidere da che punto di vista affrontare la questione, considerato che nei suoi film non ce n’è mai uno soltanto e tutto può essere guardato da prospettive speculari ed inverse.
Corruzione e concussione in Italia sono all’ordine del giorno, purtroppo. Ma la principale fonte di nutrimento per certe derive è senz’altro la mancanza di educazione e di senso civico nella maggior parte degli italiani, pronti a puntare il dito – a ragione – contro politici e amministratori, ma mai disposti a fare un po’ di sana autocritica.
Ciò che più colpiva dei film di Luca Medici, che è persona ben diversa dal Checco che impersona, per quanto cerchi di farci credere il contrario, era quel paradosso scatenato in sala dalle risate convulse di quella parte di pubblico che solo Zalone riusciva a trascinare al cinema e che sembrava non rendersi conto di essere il destinatario mirato della satira stessa che lo faceva tanto ridere.
Adesso in “Quo vado?”, dietro luoghi comuni e stereotipi, che un fondo di verità ce l’hanno sempre, Luca Medici e Gennaro Nunziante fotografano l’Italia intera e tutti gli italiani con il ritratto di un Checco Zalone che non è più l’eccezione, alieno dal quale difendersi, ma la regola in cui si specchia un’intera nazione. La nostra.
Il risultato è una fotografia lucida, divertentissima e profondamente amara, ben oltre il mito del posto fisso che è stato un tarlo per diverse generazioni alimentando quel circolo vizioso di favori e clientele che hanno mandato a picco il sistema Paese. Non è solo questo, infatti, il nodo narrativo della questione “Quo vado?”, ma anche l’immobilismo nel quale è precipitata l’Italia, ancora oggi impantanata in una palude di finte riforme che rottamano tutto, per poi riproporre gli stessi articoli con nomi nuovi e nuove etichette, comprese le province prima abolite e poi ripescate come aree metropolitane. Per la felicità di Zalone e dei tanti come lui. (continua…)

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venerdì, 3 aprile 2015

Film da vedere e da recuperare. Oppure no.

Locandina del film Latin Lover Film da vedere e da recuperare. Oppure no.

A cura di Ornella Sgroi

* * *

Latin Lover

Regia di Cristina Comencini
Con le mogli: Virna Lisi e Marisa Paredes. Le figlie: Angela Finocchiaro, Valeria Bruni Tedeschi, Candela Peña, Pihla Viitala, Nadeah Miranda e Cecilia Zingaro. Il latin lover Francesco Scianna, l’unico marito Jordi Molla, e gli altri uomini Lluís Homar e Neri Marcorè

Un omaggio al cinema italiano e ai suoi grandi attori, affidati al latin lover Francesco Scianna, ma anche un racconto familiare “allargato e intercontinentale” che diverte, commuove e fa sognare. Con un ultimo nostalgico saluto a Virna Lisi, donna incantevole e attrice superlativa, qui pungente, sarcastica e con quel pizzico di cattiveria che, insieme a quella dell’altrettanto brava Marisa Paredes, dà sapore a tutta la commedia. Tra Almodovar, Ozpetek e il Monicelli di “Speriamo che sia femmina”, in una concatenazioni di eventi e colpi di scena scritti con brio per un cast tutto da applaudire.

* * *

Locandina del film La prima volta (di mia figlia) La prima volta (di mia figlia)

Regia di Riccardo Rossi
Con Riccardo Rossi, Anna Foglietta, Stefano Fresi, Fabrizia Sacchi, Benedetta Gargari

C’è tutta la simpatia di Riccardo Rossi nella sua opera di esordio dietro la macchina da presa, al fianco di un altro attore irresistibile, Stefano Fresi. E questa storia, di un padre alle prese con “la prima volta” della figlia appena adolescente, si riempie di tenerezza, in un film semplice, ma affettuoso e ironico al punto giusto, che ti fa sentire un invitato al tavolo, come un vecchio amico, durante una cena di famiglia (con tranello).

* * *


Locandina del film La solita commedia - Inferno La solita commedia – Inferno

Regia di Fabrizio Biggio, Francesco Mandelli e Martino Ferro
Con Fabrizio Biggio, Francesco Mandelli, Giordano De Plano, Tea Falco, Marco Foschi, Walter Leonardi, Paolo Pierobon, Gianmarco Tognazzi, Daniela Virgilio

Un netto passo in avanti per il duo Biggio&Mandelli, rispetto ai due “Soliti idioti” che con il cinema avevano davvero poco a che vedere. In questo terzo lungometraggio “dantesco”, dissacrante e comico ma con intelligenza, Biggio e Mandelli raccontano l’inferno quotidiano, alimentato dalla contemporaneità sempre più concentrata sul niente e da un’umanità che ha messo in crisi persino Dio e gettato nel caos il regno di Lucifero. Le risate non mancano e Mandelli, vestito da sommo poeta che declama in versi antichi la modernità per campionare i nuovi peccati umani, è un vero spasso. Lasciate ogni movida, oh voi che entrate. “It’s amazing!”

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Locandina del film Fino a qui tutto bene Fino a qui tutto bene

Regia di Roan Johnson (continua…)

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martedì, 20 gennaio 2015

IL SALE DELLA TERRA

Il sale della terra

di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado

Recensione di Ornella Sgroi

La nomination agli Oscar 2015 come miglior documentario è solo una conferma di ciò che già sapevamo. E cioè che “Il sale della terra” di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado è un film potente, emozionante ed evocativo. Un’esperienza visiva ed umana cui nessuno spettatore, neanche il più disattento, dovrebbe rinunciare. Come del resto conferma la longevità del film in sala, inaspettata e meritatissima, resa possibile soprattutto dal passaparola scatenatosi a partire da quando è uscito in Italia, lo scorso 23 ottobre, resistendo ancora oggi in diversi cinema della penisola. In programmazione effettiva o anche solo in rassegna, spesso su esplicita richiesta del pubblico.
Il merito è senz’altro delle meravigliose fotografie di Sebastião Salgado e del suo sguardo lirico nascosto dietro l’obiettivo. Capace di cogliere la maestosa bellezza della Natura, in tutte le sue manifestazioni, mettendola in rotta di collisione con l’orrore delle guerre e la crudeltà stupida, folle e arrogante dell’uomo. Creando un cortocircuito che Wim Wenders – e qui il merito è tutto del regista tedesco – scatena sul grande schermo, alternando poi agli scatti di rara suggestione del fotografo brasiliano immagini private filmate dal figlio Juliano Ribeiro Salgado e interviste in primo piano al protagonista del documentario, immortalate in bianco e nero da Wenders in omaggio ai chiaroscuri bicromatici caratteristici dell’opera di Salgado, come se Salgado fosse chiuso in una camera oscura dalla quale si rivolge direttamente allo spettatore mentre in trasparenza scorrono le sue fotografie. Estatiche e struggenti. Fotografie con cui «il fotografo descrive e ridisegna il mondo con luci ed ombre», proprio come afferma lo stesso Wenders nel corso del documentario, ammirato e rapito dal lavoro del maestro al punto da mettersi in disparte, presenza discreta e appena percepibile in un viaggio che attraversa il pianeta e la sua storia geopolitica scandendo il tempo con l’ordine cronologico dei reportage di Salgado come fossero ere, senza mai perdere di vista la gente che lo abita. Perché «dopo tutto, la gente è il sale della terra» così come lo è dell’intero lavoro del fotografo brasiliano. Che, anche quando ritrae sofferenza e miseria di uomini, donne e bambini resi scheletri dalla fame vera, lo fa con una poetica che restituisce loro sempre e comunque una grande dignità. Scatenando nello spettatore pulsioni commosse e addolorate. Rabbiose e incredule di fronte alle prove evidenti della ferocia umana. Emozioni che lo stesso Salgado ha vissuto in prima persona tanto da sentire il bisogno, ad un certo momento della sua vita personale e professionale, dopo la dolorosa esperienza in Ruanda, di ritornare in Brasile ad Aimorés nella tenuta di famiglia insieme alla moglie Lelia, presenza costante e fondamentale nella vita del fotografo, curatrice di tutte le sue mostre e pubblicazioni. In Brasile i coniugi Salgado iniziano così una nuova avventura ecologista per contrastare la deforestazione che aveva devastato il paesaggio circostante, oggi rinvigorito da oltre due milioni di nuovi alberi, robusti e rigogliosi. Una sfida che si intreccia con il progetto fotografico “Genesi” dedicato alla Natura e alla sua monumentalità prodigiosa. Quella stessa natura che, come racconta Wenders, ha aiutato il fotografo a non perdere fiducia nell’uomo, da sempre al centro della sua opera fotografica. (continua…)

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lunedì, 30 giugno 2014

LE COSE BELLE – Agostino Ferrente, Giovanni Piperno

I registi Agostino Ferrente e Giovanni Piperno raccontano il loro ultimo documentario “Le cose belle”, in sala dal 26 giugno

Intervista di Ornella Sgroi

Si dice che il tempo aggiusta tutto, ma chissà se il tempo esiste davvero. Forse è solo una scaramanzia, forse è solo una canzone. Una di quelle tra le cui note si rifugia Enzo, uno dei quattro protagonisti de Le cose belle, il nuovo documentario di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno che dopo dodici anni tornano nei luoghi geografici e interiori del loro precedente Intervista a mia madre per scoprire cosa è rimasto dei sogni di quei quattro bambini nati nella periferia di Napoli. Enzo e Fabio, aspirante cantante uno, calciatore professionista già mancato l’altro. Con loro, Adele e Silvana e la rispettiva ambizione di ballerina e di modella.

Qualunque cosa sia il tempo, Ferrente e Piperno lo hanno inchiodato sul grande schermo attraverso le loro storie e i loro sguardi. Li avevano lasciati nel 1999 appena adolescenti e li ritrovano oggi quasi adulti, ognuno alle prese con la difficoltà del vivere quotidiano, ancora più complesso se ci si trova ad affrontarlo in un contesto di disagio e abbandono istituzionale in cui passato presente e futuro sono solo parole vuote senza alcuna possibilità concreta.

“Quando li abbiamo rincontrati” ci racconta Agostino Ferrente “la prima impressione è stata di dolore, di fronte alla conferma di ciò che già dieci anni fa era prevedibile viste le premesse. E cioè che se cresci in un contesto sociale difficile, difficilmente riesci ad avere le opportunità che ha chi cresce in ambienti più protetti. Poi abbiamo capito invece che, nonostante questo, loro sono dei fiori cresciuti tra le rovine, perché hanno resistito alle sirene della camorra e sono riusciti a condurre un’esistenza dignitosa, cercando le cose belle nel loro quotidiano”.

Mentre le immagini della loro adolescenza, quei pezzi di intervista lasciati fuori dal primo documentario, si intrecciano con gli ultimi quattro anni delle loro vite, il cambiamento dei loro sguardi attraverso il tempo è una lama ostile che chiede ragione di tanta fatica e tristezza. L’ironia ruffiana di Fabio e la sfrontatezza smaliziata di Adele si sono spente dietro i loro occhi. Mentre la malinconia ingenua di Enzo e l’espressione disorientata di Silvana sono ancora lì.

“Di fronte ai loro sguardi così cambiati abbiamo provato un senso di impotenza, almeno all’inizio, finché non abbiamo capito che ci stavano dando una grande lezione di vita. Ci dimostravano ogni giorno che il successo non è diventare una modella famosa o un celebre calciatore, ma riuscire a vivere dignitosamente senza prendere facili scorciatoie. Sono diventati più consapevoli e realisti, il che non vuol dire meno felici”.

La straordinarietà del film di Ferrente e Piperno, in sala dal 26 giugno e già premiato al Taormina Film Fest come miglior documentario italiano dell’anno e prima ancora con un Nastro d’Argento Speciale, sta proprio in questo intersecarsi di piani temporali in cui sono i volti degli stessi protagonisti a maturare e cambiare seguendo lo scorrere ineludibile delle loro età. Non c’è finzione, non c’è make-up. E il confronto con il riflesso di quelle vite cresciute è spietato anche con lo spettatore.

“L’incontro con il proprio futuro è una macchina del tempo che restituisce anche la crudezza della vita, ma al contempo rende eroi del quotidiano coloro che cercano di non perdere la propria bellezza nonostante tutto. Io e Giovanni abbiamo fatto un patto con quei ragazzi tanti anni fa e lo abbiamo rinnovato una seconda volta, noi abbiamo messo tre anni della nostra vita nelle loro mani e loro hanno messo la loro intimità nelle nostre, con un rapporto di fiducia reciproca che non è mai stata tradita”.

(continua…)

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martedì, 15 aprile 2014

LEI, THE SPECIAL NEED E NYMPH()MANIAC VOL. I

Lei, The Special need e Nymph()maniac vol. I

Il Cinema e quel disperato bisogno d’amore che c’è.

Recensione di Ornella Sgroi

Il segreto di tutto è l’amore. E a ricordarcelo è ancora una volta il Cinema, con tre film usciti quasi contemporaneamente. Diversissimi tra di loro, eppure accomunati da uno stesso senso intimo e profondo che riconduce tutto a quel sentimento misterioso, imprescindibile tanto da diventare un vero e proprio bisogno. Un bisogno speciale. In tutte le sue forme, le sue manifestazioni, le sue sfumature. Persino le sue degenerazioni.

Proprio il desiderio di riscoprire la bellezza dei sentimenti e l’urgenza di tornare a scambiarseli in modo tangibile e reale sono il cuore pulsante di “Lei” di Spike Jonze, un inno alla voglia di emozionarsi e di esplorare il rapporto con l’altro e con gli altri. Per (ri)scoprire la cosa più preziosa che solo gli uomini possiedono, vale a dire proprio quell’umanità che rischia di estinguersi.

Tutto questo il regista Spike Jonze lo racconta con grande sensibilità ed una buona dose di umorismo, brillante e sottile, acuto, raffinatissimo. Partendo da un grande paradosso che, seppur proiettato in un futuro non troppo lontano, è molto più vicino al nostro oggi e alla deriva verso cui stanno andando i rapporti umani (non solo di coppia), nella realtà contemporanea sempre più persa nella dimensione virtuale. Quella che rende possibile l’amore tra un uomo (Joaquin Phoenix) ed un sistema operativo “donna” (cui dà voce Scarlett Johansson, doppiata in Italia da Micaela Ramazzotti, purtroppo non all’altezza dell’originale). Una partner immateriale, eppure viva e vitale, tanto da permettere al regista Jonze di rendere credibile una delle più belle scene d’amore che il cinema abbia mai concepito e che culmina in uno schermo a nero in cui tutto è affidato alle voci fuori campo, alla musica e all’immaginazione emotiva dello spettatore.

Con questa e tante altre intuizioni potenti, quasi magiche, sicuramente visionarie come lo è Spike Jonze, il regista di “Lei” ci regala un film incantevole ma anche inquieto nella sua dolce malinconia, un racconto cinematografico superlativo in cui la solitudine dell’uomo viene tagliata da una luce raggiante e il bisogno di amore sottinteso in un trascinante sentimento anche musicale, nella bellissima colonna sonora firmata dagli Arcade Fire. Soprattutto a mano a mano che nel protagonista matura la consapevolezza della propria surreale condizione, quindi del proprio isolamento, spingendolo a (ri)cercare quel contatto, quel tocco che (continua…)

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martedì, 18 marzo 2014

ALLACCIATE LE CINTURE, di Ferzan Ozpetek

ALLACCIATE LE CINTURE, di Ferzan Ozpetek

con Kasia Smutniak, Francesco Arca, Filippo Scicchitano, Carolina Crescentini, Francesco Scianna, Carla Signoris, Elena Sofia Ricci, Paola Minaccioni

Recensione di Ornella Sgroi

“A mano a mano ti accorgi che il vento/ ti soffia sul viso e ti ruba un sorriso/ la bella stagione che sta per finire/ ti soffia sul cuore e ti ruba l’amore”. Inizia così la splendida canzone “A mano a mano” di Rino Gaetano. E inizia così anche il nuovo film di Ferzan Ozpetek, “Allacciate le cinture”, dopo un acquazzone estivo pugliese che fa scontrare sotto la pensilina di una fermata degli autobus i due protagonisti di un amore appassionato. E turbolento. Anticipato dal titolo di questa storia d’amore che “a mano a mano si scioglie nel pianto/ quel dolce ricordo sbiadito dal tempo/ di quando vivevi con me in una stanza/ non c’erano soldi ma tanta speranza”.
Non poteva scegliere colonna sonora migliore, Ferzan Ozpetek, per rappresentare in musica i vuoti d’aria nel viaggio di Elena (Kasia Smutniak) e Antonio (Francesco Arca). Dentro una storia semplice, quotidiana, che potrebbe appartenere a chiunque. Fatta di opposti che si attraggono, di coppie che si scoppiano e di altre che si formano, di amici fidati che rendono più preziosa la vita (questo il ruolo del sempre più bravo Filippo Scicchitano), di famiglie allargate e reinventate (come quella di Carla Signoris ed Elena Sofia Ricci, che insieme fanno scintille). Una storia fatta di sorrisi e tradimenti, sogni e progetti, paure, ansie e malattia.
E tutto questo Ferzan Ozpetek lo racconta, in un salto temporale di tredici anni, con il suo sguardo inconfondibile, (continua…)

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sabato, 22 febbraio 2014

Il film SMETTO QUANDO VOGLIO e la campagna “#coglioneNO”

Giovani, precari e altruisti per necessità. Il dramma della disoccupazione e dello sfruttamento raccontato dal cinema e dal web

Recensione di Ornella Sgroi

“La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”.
Le parole di Corrado Alvaro, incise nel suo “Ultimo diario (1948-1956)”, sono lame sottili che squarciano la realtà di oggi ancora più di ieri. Oggi, che il fenomeno della disoccupazione in Italia è cresciuto a dismisura e sembra essere inarrestabile. Con più di tre milioni di cittadini senza lavoro, una disoccupazione giovanile che tocca il 41,6% e la metà degli assunti con contratto “a progetto” nel 2012 compresi tra i 30 e i 49 anni.
Mentre la politica si volta dall’altra parte millantando una ripresa economica che non c’è e offrendo esempi di scaltrezza e disonestà squallida e impunita, non stupisce la frequenza con cui capita di sentire dire sempre più spesso che, stando così le cose, converrebbe mettere da parte l’onestà e cominciare a fare i furbi. Perché, tanto, vivere onestamente non paga.
Prendendo spunto da questa constatazione, di fronte ad una classe politica che continua a tergiversare su una questione primaria come quella della mancanza del lavoro, si sono messi in moto il cinema e il web. Attenti invece all’umore del Paese e pronti a registrate una situazione allarmante, per poi riproporla a spettatori e naviganti con intuito, concretezza e una dose massiccia di ironia.
È appena arrivato nelle sale italiane un film che, registrata la situazione catastrofica in cui versa l’Università italiana, o meglio, in cui versano i ricercatori universitari estromessi “per merito” dai giochi di potere politici, dai baronati accademici e dai nepotismi genealogici e clientelari, viviseziona con intelligenza spiazzante la più che reale condizione lavorativa del nostro Paese e la mette in relazione con questa dilagante attrazione magnetica verso l’illegalità, ritagliandosi una dinamica davvero brillante.
Scritto e diretto dall’esordiente salernitano Sydney Sibilia, classe 1981, “Smetto quando voglio” racconta infatti la rocambolesca ascesa criminale di un’improbabile banda di aspiranti delinquenti che vantano curriculum accademici prestigiosi, pagati con il sangue. Sette ricercatori universitari – ragazzi seri, onesti e in gamba – che per dire basta alla loro condizione di precari a vita, squattrinati e repressi, uniscono le rispettive competenze scientifiche per produrre una nuova droga sintetizzata “a norma di legge”. Il loro motto: “meglio ricercati che ricercatori”. Mente dell’intera operazione è Pietro Zinni (Edoardo Leo), neurobiologo trentasettenne vittima dei tagli alla ricerca. Al suo seguito, due latinisti che lavorano in nero di notte come benzinai per un cingalese (Valerio Aprea e Lorenzo Lavia); un chimico che fa il lavapiatti in un ristorante cinese (Alberto Petrelli); un economista che sbarca il lunario con il gioco d’azzardo (Libero De Rienzo); un antropologo culturale che a causa di un errore di gioventù – la laurea – rischia di perdere l’apprendistato da sfasciacarrozze (Pietro Sermonti); un archeologo costretto a farsi offrire il pranzo dagli operai degli scavi che sovraintende (Paolo Calabrese).
Condizioni lavorative surreali? (continua…)

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lunedì, 27 gennaio 2014

CINEMA E GIORNATA DELLA MEMORIA

Cinema e Giornata della Memoria - Due ritratti femminili “eversivi” per raccontare la Shoah: “Anita B.” e “Hannah Arendt”

Recensione di Ornella Sgroi

“Quanta goccia c’è nell’oceano? Quanta stella c’è nel cielo? Quanto capello sulla testa dell’uomo? E quanto male nel cuore?”. Da questo primo verso di una ballata del poeta ungherese Sándor Petöfi prende titolo il romanzo autobiografico della sua connazionale Edith Bruck,Quanta stella c’è nel cielo” (Garzanti), la cui trasposizione cinematografica nei giorni scorsi è arrivata nelle sale italiane (penalizzata purtroppo da una distribuzione a volte ottusa) con il film “Anita B.” del regista torinese Roberto Faenza.
Quest’anno, per il Giorno della memoria, il cinema ha deciso di raccontare la Shoah con due ritratti femminili eversivi e coraggiosi.
Uno è appunto quello di Anita, protagonista di una storia che è prima di ogni altra cosa una storia d’amore. Amore per la vita, soprattutto, che rinasce dopo la morte e che guarda al futuro con speranza. Anita, poco più che bambina sopravvissuta ad Auschwitz, costretta a fare i conti con il silenzio che avvolse il dramma della Shoah persino tra gli stessi ebrei. Un po’ per rimozione di un trauma con cui era difficile fare i conti. Un po’ per pudore. E un po’ per vergogna di una colpa che non c’era. La sua lotta per la vita è commovente, come la dolcezza di questa piccola eroina, cui l’attrice Eline Powell restituisce al contempo fragilità e forza. Sotto lo sguardo affettuoso di Roberto Faenza, maestro nel costruire con i suo attori (nel cast anche Andrea Osvart, Robert Sheehan, Antonio Cupo e Moni Ovadia) un rapporto di cura, che traspare nel sentimento del film. Immerso da Arnaldo Catinari in un’atmosfera elegante e densa che si può quasi toccare, complici le musiche del siciliano Paolo Buonvino, che innalzano le emozioni del film e ne accompagnano la scena più bella, spiegando al pianoforte il mistero dell’amore. (continua…)

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venerdì, 13 dicembre 2013

LA MAFIA UCCIDE SOLO D’ESTATE, di Pierfrancesco Diliberto

LA MAFIA UCCIDE SOLO D’ESTATE, di Pierfrancesco Diliberto

con Pierfrancesco Diliberto (in arte, Pif), Cristiana Capotondi, Alex Bisconti, Ginevra Antona, Ninni Bruschetta, Claudio Gioè

Recensione di Ornella Sgroi

La mafia ci uccide tutti, un pochino, ogni giorno. E così la politica corrotta che ne è diventata la principale alleata.
Questo, il film di esordio di Pif, “La mafia uccide solo d’estate”, lo racconta benissimo. E fino in fondo. Sempre con il sorriso sulle labbra, ma con una forza emotiva che cresce, travolge e commuove. Mostrando come ogni singolo agguato mafioso abbia provocato una battuta d’arresto non solo nella vita del piccolo Arturo (Alex Bisconti) e nel suo sogno d’amore che si chiama Flora (Ginevra Antona), ma nella vita di ognuno di noi. Anche quando non ce ne siamo accorti.
Sì, perché il film di Pierfrancesco Diliberto non riguarda soltanto la sua formazione sentimentale e civile nella Palermo degli ultimi trent’anni, ma quella dei siciliani suoi coetanei formati da una nuova coscienza e da una nuova identità. Figli tutti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e di quanti li hanno preceduti. Figli tutti delle loro idee, che continuano a camminare sulle nostre gambe.
Il film di Pif, peraltro, non riguarda solo la Sicilia, ma l’Italia intera come Paese e come Stato. Che troppe volte ha chiuso gli occhi davanti a ciò che accadeva e che accade ancora. E la figura ingombrante di Giulio Andreotti, cui il piccolo Arturo guarda come modello dando per scontata l’onestà di cui ogni Presidente del Consiglio dovrebbe essere portatore, ne è l’emblema. Prova anche del fatto che Pierfrancesco Diliberto è riuscito a costruire un film coraggioso e intelligente, che denuncia i legami tra politica e mafia e chiama i boss con il loro nome, Totò Riina su tutti, delineando ritratti che – pur conservando la ferocia dei gesti di cui sono stati capaci – ne ridimensionano l’aurea granitica di potere forte, al punto da renderli persino ridicoli.
Ecco allora che, un po’ come accadeva a Forrest Gump, testimone ingenuo e inconsapevole dei grandi fatti della storia americana, anche Arturo vede coincidere molti degli eventi più importanti della sua vita con quelli più spaventosi della storia italiana, mentre sin dalle elementari insegue la donna che ama e il sogno di diventare giornalista. Al centro di un intreccio in cui il pubblico diventa privato e viceversa, costruito con consapevolezza graffiante e orgogliosa.
Un’idea semplice, matura e potente. Che Pif – mettendo a frutto il suo “tirocinio” da aiuto regista sul set de “I cento passi” di Marco Tullio Giordana (2000) e l’esperienza di autore televisivo scomodo come “iena” e come “testimone” – è riuscito a sviluppare in una sceneggiatura originale e divertente che fa tanto ridere ma anche tanto riflettere, toccando il cuore dello spettatore più sensibile e attento. In equilibrio perfetto tra la leggerezza dei sogni e delle speranze (i bambini) e l’amarezza della presa di coscienza (da adulti) che fa crollare i falsi miti e crescere il senso critico e il bisogno di memoria. Soprattutto in un’Italia che, invece, dimentica sempre troppo in fretta.
Per compiere questo viaggio Pierfrancesco Diliberto fa rivivere uomini di spessore come Boris Giuliano, Pio La Torre, Rocco Chinnici e Carlo Alberto Dalla Chiesa, tutti vittime di mafia, e individui ambigui come Salvo Lima e Vito Ciancimino. Ma crea anche personaggi di fantasia esilaranti, come il direttore della piccola emittente televisiva in cui Arturo muove i primi passi professionali, e altri pieni di ispirazione, come il giornalista interpretato da Claudio Gioè. Mentre sullo schermo la finzione scenica si fonde con filmati di repertorio, a tal punto da farvi entrare dentro persino i due protagonisti, Arturo e Flora (che, ventenni, hanno i volti dello stesso Pif e di Cristiana Capotondi). In un costante movimento tra commedia e dramma, che subisce un’impennata emotiva sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Una vera e propria svolta, storica per il cambiamento che la morte dei due giudici ha innescato nella società civile, filmica per la variazione di tono che assume la pellicola accompagnando lo spettatore verso un finale potentissimo, senza alcuna retorica. Dedicato al ricordo, al sacrificio e all’esempio di coloro che si sono battuti per cambiare le cose e che, dopo tutto, non erano supereroi ma esseri umani come noi.

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(continua…)

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venerdì, 29 novembre 2013

VENERE IN PELLICCIA, di Roman Polanski

VENERE IN PELLICCIA, di Roman Polanski

con Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric

Recensione di Ornella Sgroi

Esiste ancora un cinema che è pura folgorazione. E quando ci si imbatte in un film che ti rapisce dalla prima immagine, allora il colpo di fulmine ha ottime possibilità di superare l’innamoramento e diventare amore puro.
È così che succede con “Venere in pelliccia” di Roman Polanski e lo capisci da subito. Non appena si spengono le luci in sala e la macchina da presa ti risucchia dentro lo schermo bagnato da una pioggia battente, lì su quel viale alberato che – in un lungo piano sequenza – ti porta davanti ad un vecchio teatro un po’ malandato che spalanca le porte per svelarti il mondo misterioso e magico che custodisce al suo interno. Come fosse oggetto di un ambiguo e intrigante incantamento, uno di quelli di cui era intriso l’universo dell’antica drammaturgia greca e che pervade il film di Polanski sulle note tintinnanti ed evocative di Alexandre Desplat. Intrecciando “Le Baccanti” di Euripide e i vangeli apocrifi con le trame del romanzo erotico di fine Ottocento “Venere in pelliccia” di quel Leopold von Sacher-Masoch al quale risale l’origine del termine “masochismo”.
Proprio sull’adattamento teatrale di quest’ultima opera sta lavorando Thomas (Mathieu Amalric), regista inquieto e goffo alla ricerca disperata dell’attrice perfetta per il ruolo dell’ammaliante Wanda. E quando si presenta, fuori tempo massimo, per l’audizione una donna volgare in abiti di pelle, con trucco sbavato dalla pioggia e gomma da masticare in bocca, Thomas non può nemmeno immaginare che lei, Vanda a sua volta (Emmanuelle Seigner), possa essere ciò che sta cercando. A quel punto, come recita un vangelo apocrifo, “il Signore onnipotente lo colpì e lo mise nelle mani di una donna”, innescando un gioco a due di cui poco alla volta quell’attrice improbabile diventa magnifica interprete, abile nel conquistarsi con l’arte della seduzione e l’intelligenza un’inversione di ruoli che la porterà al posto di comando.
Come Thomas mette in scena a teatro le pagine di von Sacher-Masoch, così Roman traduce sul grande schermo l’omonima pièce di David Ives. Raggiungendo i massimi livelli dell’Arte con un film che ne racchiude in sé tutte le manifestazioni. Dal cinema alla letteratura, dal teatro alla pittura. E mettendo a segno, soprattutto, un’opera alta contro la misoginia e la sopraffazione che fa dell’acume più beffardo un’arma sofisticata e tagliente. Ancor più efficace se si considera che nasce dalla penna di un uomo, capace peraltro di grande e sensuale ironia.
Se tutto questo arriva allo spettatore, è di certo merito del regista Polanski che torna ad attingere alle atmosfere dissacranti del suo celebre “Per favore… non mordermi sul collo” (1967). Ma un merito altrettanto imponente lo hanno i suoi due interpreti. Davvero sublimi. Mathieu Amalric, suggestivo alter ego del maestro polacco, e Emmanuelle Seigner, Venere trasformista caparbia e capricciosa, che incarna il mestiere stesso della recitazione. Entrando e uscendo dal personaggio, doppio e speculare, con un’agilità spontanea e sbalorditiva che sembra fare il verso alla maschera dell’attore per sottolinearne la sacralità del talento. Così come, del resto, la Vanda che interpreta potrebbe ben essere una mera proiezione onirica del regista Thomas/Polanski, metafora perfetta di quel conflitto che agita l’artista, prigioniero del mondo che crea e schiavo assoluto della propria opera e dei propri personaggi. Persino, o forse ancora di più, quando dai quattro del precedente “Carnage” (2011) si scende ai due di “Venere in pelliccia”. Due soltanto, ma potenti e carismatici tanto da non lasciare vuoti sul palcoscenico né sullo schermo.
Forse nel prossimo film, Polanski, di personaggi ne lascerà solo uno. E poi ancora, magari, nessuno. Anche se in fondo, in qualche modo, a suo modo, riuscirà a renderli pur sempre centomila. Come centomila sono le trame e sottotrame, i testi e sottotesti rintracciabili in questa “Venere in pelliccia” dalle numerose letture possibili, in un andirivieni costante dalla realtà alla finzione guidato magistralmente con i giochi di luci sul palco e persino con i suoni di scena riprodotti secondo copione con grande immaginazione registica. Come il tintinnio del cucchiaino in una tazzina che non c’è o il fruscio del pennino imbevuto d’inchiostro che traccia una firma invisibile destinata a cambiare il destino di Thomas.
Dettagli da maestro che Roman Polanski orchestra con raffinata leggerezza e ingegno sottile, senza mai appesantire il discorso o la messa in scena. Che anzi scorrono con morbidezza e fluidità, perfettamente amalgamati, con una naturalezza e una disinvoltura che non lasciano fiato allo spettatore. Sino al finale, ricalcato su uno dei passaggi più celebri delle “Baccanti”, quello in cui Penteo – travestito da donna su istigazione di Dioniso – perde la dignità propria di ogni eroe tragico per trasformarsi in personaggio grottesco e ridicolo. Vittima un po’ di se stesso e un po’ delle divinità capricciose dell’Olimpo. Siano esse un Bacco vendicativo o una Venere in pelliccia.

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lunedì, 14 ottobre 2013

ANNI FELICI, di Daniele Luchetti

ANNI FELICI, di Daniele Luchetti

con Kim Rossi Stuart, Micaela Ramazzotti, Martina Gedeck, Samuel Garofalo, Niccolò Calvagna

Recensione di Ornella Sgroi

“Indubbiamente erano anni felici. Peccato che nessuno di noi se ne fosse accorto”. Certo per un bambino di 10 anni come Dario era complicato capirlo. Testimone silente, insieme al fratellino più piccolo Paolo, della storia della sua famiglia un po’ eccentrica e dell’estate del ‘74. Quella stessa estate iniziata poco dopo il referendum abrogativo del divorzio, rimasto invece in vigore con la vittoria del NO, con una certa preoccupazione del piccolo Dario per le sorti del matrimonio dei propri genitori. Guido e Serena. Ostinato artista d’avanguardia ancora in cerca del proprio talento, lui. Moglie e madre affettuosa, lei, in costante competizione con la passione del marito per l’arte e le modelle.
Anche se Anni felici, il nuovo film di Daniele Luchetti, è raccontato a ritroso dal punto di vista del loro primogenito Dario e dalla sua voce fuori campo (in realtà quella dello stesso regista, che altri non è se non la sua proiezione adulta), sono proprio Guido e Serena a conquistarsi la scena. Dominata dalla bravura e dalla bellezza dei due interpreti, Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti, che attirano in modo magnetico la macchina da presa – e lo sguardo – del regista, attento e partecipe delle emozioni dei due piccoli protagonisti (sorprendenti anche Samuel Garofalo e Niccolò Calvagna, rispettivamente nei panni di Dario e di Paolo) ma irrefrenabilmente attratto dalle dinamiche affettive e personali di questa coppia tutt’altro che ordinaria.
Nel ripercorrere quella che in fondo è la storia “mitica” della sua famiglia (come recitava il titolo provvisorio del film di ispirazione autobiografica), Daniele Luchetti segue infatti Guido e Serena da una distanza molto ravvicinata, con continui primissimi piani per cogliere anche le più impercettibili espressioni dei loro visi, sempre vivi, sempre veri. Affidando a lievi ma efficaci dettagli le loro emozioni più forti e contraddittorie, le loro identità più profonde.
Quanto ci dice la balbuzie appena accennata da Kim Rossi Stuart della fragilità del suo artista, che per reazione ad una madre che lo ha cresciuto sminuendone il talento e le capacità insegue un’idea di arte contro ogni convenzione, per scoprirsi poi incapace di accettare la libertà sessuale conquistata dalla moglie. E quanto ci dice quel “pulviscolo erotico” che circonda Micaela Ramazzotti della inattesa capacità della sua madre e moglie di rompere tutti gli schemi possibili per assecondare la sua attrazione verso un nuovo modo di vivere la propria femminilità accanto ad un’altra donna (l’altrettanto brava Martina Gedeck). Momenti di scoperta che Daniele Luchetti affida a vecchi filmini amatoriali girati dall’incarnazione infantile di se stesso, Dario appunto, e che coincidono anche con la scoperta personale dell’amore per il cinema e del potere rivelatore della cinepresa.
È forse per compensare tanta potenza emotiva ed evocativa che il regista si affida ad un tocco discreto, classico, quasi d’altri tempi. Ma è quasi certamente per trovare la giusta distanza con una storia vissuta in prima persona che Luchetti di distanza finisce con il metterne troppa. Raffreddando il racconto almeno nella prima parte del film che procede senza riuscire mai a portare lo spettatore davvero dentro la storia, distratto anche dall’uso della voce fuori campo che rimanda costantemente all’idea di un passato ormai compiuto. Ciò nonostante, quella di Anni felici è una storia che alla fine conquista, lasciando allo spettatore un’appagante sensazione di bellezza. La bellezza di un caos che trova il suo ordine, dando un senso – seppur nuovo – ad ogni cosa, anche la più imprevedibile.

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sabato, 6 aprile 2013

UN GIORNO DEVI ANDARE, di Giorgio Diritti

Un giorno devi andare: la locandina ufficiale del filmUN GIORNO DEVI ANDARE, di Giorgio Diritti

con Jasmine Trinca, Pia Engleberth, Anne Alvaro, Sonia Gessner

Recensione di Ornella Sgroi

Succede che un giorno devi andare. Non per obbligo, ma per diritto. Il diritto di seguire quello slancio improvviso che spinge a mettersi in movimento verso qualcosa. Verso se stessi. Un richiamo magnetico che non ammette contrattazioni e che non a tutti capita di avvertire almeno una volta nella vita. Almeno non a chi non ha il coraggio di mettere da parte le proprie evanescenti certezze, per dare ascolto alla concretezza dei propri dubbi.
Succede che un giorno devi andare. A prescindere dal luogo di partenza e dal luogo di arrivo. Anche perché, quando succede, raramente può dirsi a priori dove si arriverà. Magari soltanto sotto casa, con una decisione coraggiosa in tasca. Oppure dall’altra parte del mondo, con nello zaino pochi amabili resti di una vita che non si può ricomporre. Come accade ad Augusta (Jasmine Trinca), giovane donna italiana in bilico sulla cui rotta ci porta con grazia e riserbo il regista Giorgio Diritti, paracadutandoci negli spazi infiniti dell’Amazzonia attraverso una luna argentea che si perde dentro un’ecografia.
È questa la prima, folgorante immagine con cui si apre “Un giorno devi andare”. Un film che prima ancora di essere narrazione è pura esperienza. Un’esperienza immensa, preziosa e rara che va oltre le abitudini e che lascia il segno già dal primo fotogramma, facendo del cinema di Giorgio Diritti un cinema che alla fine della proiezione non vorresti lasciare andare. Che ti entra e che ti resta dentro, per giorni, con tutto il suo bagaglio di bellezza, emozione, contrasti e contraddizioni.
Seguendo il viaggio di Augusta, prima al fianco di Suor Franca (Pia Engleberth) nei villaggi Indios con il libro “Attesa di Dio” di Simone Weil tra le mani, poi da sola nelle favelas di Manaus o in una capanna su una spiaggia deserta, anche lo spettatore si mette in cammino. Lungo un sentiero segnato da parole potenti come interiorità e ricerca spirituale, nello scontro con la prepotenza della natura, che non sempre mostra la propria generosità, e l’arroganza dell’uomo, che avido minaccia l’equilibrio di chi abita luoghi in cui è impossibile non percepire la forza dirompente della vita. Nei suo elementi più essenziali e autentici, da cui ripartire per ritrovare il senso delle cose. Soprattutto di quelle più dolorose, come la maternità negata e la maternità sottratta, in un parallelismo che incrocia il destino di due giovani donne, distanti per luogo di nascita e cultura ma vicine per le esperienze del cuore.
Tutto questo Giorgio Diritti lo racconta con eleganza e verità, bilanciando ciò che è terreno con una profonda e costante percezione del trascendente. Colto nello sguardo infinito dei bambini indios o nei sorrisi, prima solo accennati e poi sempre più pieni, della protagonista che ci parla di sé soprattutto attraverso il silenzio e la musica (di Marco Biscarini e Daniele Furlati), raggiungendo una simbiosi quasi perfetta con l’interprete che non risparmia niente di sé. Merito anche del regista – già acclamato con “Il vento fa il suo giro” e “L’uomo che verrà” – che, lasciandosi coinvolgere in prima persona, arriva a toccare con la macchina da presa l’anima dei suoi personaggi e dei suoi attori, attraverso un dialogo a più voci (e a più sguardi) di cui lo spettatore diventa a sua volta partecipe. Contagiato dalla dimensione di condivisione e di (ri)scoperta che ci abbraccia e ci scalda il cuore. A bordo di quella barca che, sul finale, sembra aver trovato al sua direzione, puntando dritto verso un orizzonte oltre le piante acquatiche che offuscano la visuale.

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mercoledì, 13 febbraio 2013

RE DELLA TERRA SELVAGGIA di Benh Zeitlin

Re della Terra Selvaggia.jpgRE DELLA TERRA SELVAGGIA
di Benh Zeitlin

con Quvenzhané Wallis, Dwight Henry, Gina Montana

Recensione di Ornella Sgroi

È proprio una folgorazione, questo piccolo e prezioso film, indipendente e a bassissimo costo. In cui il Re della terra selvaggia è una bambina di sei anni (Quvenzhané Wallis) che ci mostra attraverso il suo sguardo le coordinate dell’esistenza, a mano a mano che ne fa esperienza. In una terra inospitale, umida e paludosa, che la piccola Hushpuppy descrive come la “grande vasca”e che è poi il Sud della Louisiana, devastato da uragani e continue inondazioni. Un luogo che il regista esordiente Benh Zeitlin, trentenne newyorkese a capo di un collettivo di artisti (il Court13) costituito nel 2004 con i compagni di college, conosce bene, essendosi trasferito a New Orleans dopo la tragedia dell’uragano Katrina del 2005 per documentare con la macchina da presa la distruzione che ha lasciato dietro di sé.
La sua esperienza di documentarista e la sua vocazione per il surreale, esplorato già con diversi cortometraggi, sono la cifra stilistica originale e potente di questo primo lungometraggio che gli è valso ben quattro nomination ai prossimi Oscar: miglior film, miglior regia, migliore attrice protagonista (peraltro la più giovane mai candidata nella storia dei Premi), miglior sceneggiatura non originale (tratta da una pièce teatrale). Un vero record per una pellicola di “outsider”.
Ma allo stile, Re della terra selvaggia aggiunge un elemento imprescindibile. Almeno per un film di questo tipo. Vale a dire il cuore, il cui battito si sintonizza da subito – in un’emozionante sequenza iniziale già piena di ispirazione – con quello della giovane protagonista e degli animali che vivono con lei e con suo padre Wink. Tutti parte di un’unica comunità, quella delle “bestie del selvaggio sud” (Beasts of the Southern Wild è il titolo originale), bianchi e neri, adulti e bambini, ubriaconi e maghe, uomini e animali, cui si aggiungono immense creature preistoriche frutto dell’immaginazione e delle paure di Hushpuppy, il cui sguardo infantile ma coraggioso diventa nelle mani del regista il filtro attraverso il quale sfumare l’aspetto doloroso del film con i toni del realismo magico. Usato con sapiente equilibrio e con grande commozione, come nei momenti di solitudine che Hushpuppy affronta disegnandosi i genitori con un pezzo di carbone. Mentre documenta la sua storia per gli scienziati del prossimo millennio, chiamati a studiare il fenomeno della grande vasca e di coloro che vi hanno abitato, tanto radicati alla propria terra da non volersene separare neanche di fronte ad un’evidente invivibilità.
È un profondo e caparbio senso di appartenenza (e di sopravvivenza) che segna il sentimento del film, ambientato in un Sud che potrebbe essere un qualunque Sud del mondo. Povero, degradato, senza futuro, ma pur sempre “casa”, che chi c’è nato e cresciuto non vuole abbandonare neanche quando dovrebbe. Un non-luogo in cui, nel confronto/scontro con l’uomo, convergono tutte le forze della natura per segnare l’inizio e la fine, in un modo che il regista sublima sfocando il confine tra varie interpretazioni possibili. Tanto da non poter stabilire con certezza se la fine del mondo scatenata da una Natura rabbiosa sia causa o effetto della malattia di Wink, da cui dipende senza dubbio il crollo dell’intero universo per la sua intrepida Hushpuppy. Protagonista assoluta di un’avventura epica e potente, in cui l’immagine – esaltata dalle musiche di Dan Romer e dello stesso regista Benh Zeitlin – fanno di questo “piccolo” film (distribuito in Italia in sole 26 copie) un’esperienza grandiosa, poetica e folgorante.

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giovedì, 24 gennaio 2013

DJANGO UNCHAINED di Quentin Tarantino

DJANGO UNCHAINED
di Quentin Tarantino

con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson

Recensione di Ornella Sgroi

O si ama o si odia. E con Quentin Tarantino è più che mai vero. Non solo perché nei sui film non esiste mai una via di mezzo tra questi due sentimenti, ma anche perché è questa la frase più usata quando si parla di lui. Eppure il compromesso si può raggiungere anche nel caso del suo cinema, semplicemente apprezzandolo, soprattutto per il modo in cui Tarantino si addentra nella sperimentazione di un vecchio genere per farlo rivivere in assoluta autonomia. Trasformando persino le citazioni in elemento integrante della narrazione, a tal punto da non poterle più scindere dall’insieme che si conquista la sua originalità.
Lo ha fatto con i B-movie e i film d’exploitation, da cui è un dipendente conclamato e da cui ha estrapolato violenza estrema e fiotti di sangue per inventarsi quello stile singolare tutto suo, il pulp. Che possa piacere oppure no. E lo ha fatto con un genere classico come il western, che con “Django Unchained” ritrova una sopita vitalità, risvegliata e reinventata alla maniera di Tarantino, dichiarato estimatore in particolare degli spaghetti-western cui rende omaggio non solo nel titolo ispirato alla pellicola di Sergio Corbucci. Con il rischio di conquistarsi la simpatia di un nuovo pubblico, lungo un percorso già iniziato con il precedente “Bastardi senza gloria”. Film che segna una svolta nel cinema del regista contemporaneo forse più cinefilo, con l’ingresso della Storia (quella con la maiuscola) non solo sullo sfondo del racconto, di cui diventa anch’essa grande e irrinunciabile protagonista.
Tolto lo scalpo ai nazisti per mano di un gruppo di ebrei vendicativi, Quentin Tarantino prende di mira un’epoca ancora più lontana nel tempo, ma poi non così distante dall’oggi e da certi suoi orrori. E spara a zero contro il razzismo più crudele e cruento, che in certe scene ci mostra in tutta la sua disumana efferatezza. Senza sconti. Come, del resto, sconti i negrieri bianchi non ne facevano alle loro vittime. E come – ahimè – sconti non ne fa certo cinema più recente che usa la violenza con una disinvoltura inutile ed inquietante.
Gli elementi che caratterizzano il cinema di Tarantino ci sono tutti in “Django Unchained”, come sempre, questa volta però puntati verso una nuova direzione. Il gioco delle parti e lo scambio dei ruoli, la strategia del terrore e l’esibizione della violenza, persino la vendetta, hanno infatti anche un altro scopo. Quello di garantire il lieto fine ad una grande storia d’amore e di dolore, che fa da cassa di risonanza alla rivendicazione del bene più grande: la libertà, con la dignità che ne deriva. E ciò senza mai rinunciare ad un modo di fare cinema che è puro divertimento. Per il regista e per chi ne ammira il lavoro di precisione, fatto di scrittura e quindi di dialoghi potenti ed ironici, ma anche di messa in scena accattivante ed immagini evocative che omaggiano il western all’italiana con primi piani e sguardi, lanciati però all’improvviso, con colpi di zoom rapidissimi come uno scatto fotografico o un colpo di pistola, che per contrasto rimandano alla leggendaria lentezza di Sergio Leone.
In “Django Unchained” la tradizione ed il classico confluiscono così nella dimensione del nuovo e dell’originale, anche nella suggestiva colonna sonora con le note evocative di Luis Bacalov e il tocco magico di Morricone con la sua “Ancora qui” interpretata da Elisa per il film di Tarantino. Che, oltre al piacere della scrittura e della regia, si gusta fino in fondo il piacere della musica e il piacere di dirigere i suoi magnifici attori, portando oltre ogni possibile aspettativa le interpretazioni di un cast, i cui volti restano scolpiti nella memoria dello spettatore, come i singoli personaggi che rappresentano. La coppia Jamie Foxx e Christoph Waltz, da una parte. I singoli Leonardo DiCaprio e Samuel L. Jackson, dall’altra. Protagonisti e antagonisti, bianchi e neri, vittime e carnefici. Gli uni con gli altri. Gli uni contro gli altri. In uno scontro frontale in cui anche i buoni devono fare i conti con la propria ferocia.
Se tutto questo è “Django Unchained”, allora anche solo per questo è un film che vale la pena vedere. Comunque. Perché Quentin Tarantino o si ama o sia odia. In ogni caso, si apprezza.

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Il trailer del film
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venerdì, 11 gennaio 2013

LA MIGLIORE OFFERTA, di Giuseppe Tornatore

La migliore offerta: la locandina del filmLA MIGLIORE OFFERTA, di Giuseppe Tornatore

con Geoffrey Rush, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, Donald Sutherland

Recensione di Ornella Sgroi

Non c’è modo di sapere quale sia la migliore offerta. Almeno in amore, quando il cuore si abbandona senza conoscere più alcuna razionalità. Incapace di distinguere ciò che è reale da ciò che altro non è se non la proiezione di come vorrebbe che fosse.
Un inganno al quale non riesce a sottrarsi neanche un uomo come Virgil Oldman (Geoffrey Rush), battitore d’asta celebre in tutto il mondo, che ha fatto del suo talento nel discernere l’autentico dal falso una vera ragione di vita. Determinato e infallibile, finché si muove nel mondo dell’arte che conosce senza segreti. Confuso e vulnerabile, nel momento in cui, sfilati i guanti che lo proteggono da ogni contatto umano, decide di toccare con mano il calore delle emozioni. Per arrivare al cuore della giovane e misteriosa Claire (Sylvia Hoeks), principessa bella e dannata che non riesce ad uscire oltre le mura scrostate del suo prezioso castello in rovina.
Il loro incontro è fatale, il tormento inevitabile, la felicità irraggiungibile. E Giuseppe Tornatore, autore della storia (pubblicata da Sellerio) che porta sullo schermo con il suo ultimo film, “La migliore offerta”, lo rende chiaro sin dall’inizio. Con un’eleganza cinematografica che conquista e ipnotizza già dopo il primo sguardo che il regista – e con lui lo spettatore – posa sui protagonisti e sui luoghi, immersi in un’atmosfera mitteleuropea decadente che esalta la tensione sentimentale e l’inquietudine costante da cui è dominata l’intera pellicola. Senza tregua. Con il ritmo di un thriller in cui ogni rapporto si gioca sulla contrapposizione tra il vero e il falso, non solo in materia di arte ma anche nel campo dei sentimenti, che finiscono sempre con il nascondere qualcosa di autentico anche quando si riesce a simularli.
In questo gioco di specchi che confonde verità e illusione, Tornatore ricorda e omaggia il cinema di Alfred Hitchcock, in particolare quello che fu uno dei suoi capolavori assoluti, “Vertigo” ovvero “La donna che visse due volte”, e riprende il percorso intrapreso già con “Il camorrista”, “Una pura formalità” e “La sconosciuta” per esplorare i meandri più nascosti della psiche umana. Con un risultato intrigante e avvincente, cucito alla perfezione con le note inconfondibili di Ennio Morricone che anche questa volta, ne “La migliore offerta”, sottolinea ogni sentimento del film, in un crescendo musicale tormentato e carico di suspense. Soprattutto a mano a mano che i pezzi dell’ingranaggio iniziano ad attrarsi l’uno con l’altro come quelli dell’antico automa di Jacques de Vaucanson che Virgil tenta di ricomporre con l’aiuto del giovane Robert (Jim Sturgess) e che tanto fa pensare al libro illustrato “La straordinaria invenzione di Hugo Cabret” di Brian Selznick portato sullo schermo con grande meraviglia da Martin Scorsese.
Nel compiere questo nuovo viaggio psicologico nel mondo dell’arte e dell’antiquariato, pieno di ingannevole fascino, Giuseppe Tornatore si conferma ancora una volta un vero amante del cinema, maestro indiscusso nella cura dei dettagli, estetici e narrativi, senza mai perdere la visione di insieme. Che anzi il regista siciliano riesce a fare trionfare con sapiente pazienza, accompagnando lo spettatore verso un finale intuibile ma altrettanto inevitabile. Sebbene nel tirare le somme dell’intrigo si conceda qualche spiegazione esplicita di troppo, che avrebbe invece potuto affidare alla sensibilità dello spettatore puntando sull’eloquenza del cast (tutto internazionale), della scrittura e del montaggio. Che scena dopo scena svela vari finali possibili, affidandosi all’unico elemento in grado (forse) di rimettere ogni cosa al proprio posto: il tempo.

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mercoledì, 24 ottobre 2012

IL COMANDANTE E LA CICOGNA di Silvio Soldini

IL COMANDANTE E LA CICOGNA di Silvio Soldini

con Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Giuseppe Battiston, Luca Zingaretti, Claudia Gerini, Maria Paiato, Luca Dirodi e Serena Pinto

Recensione di Ornella Sgroi

Cosa penserebbero oggi di noi i condottieri, navigatori, poeti e filosofi che hanno reso grande l’Italia?
Giuseppe Garibaldi o Leonardo Da Vinci, per esempio. O il sempre romantico Giacomo Leopardi.
Niente di buono, probabilmente. Come capita alle loro statue di bronzo o marmo che decorano piazze e giardini pubblici e che dall’alto della loro visuale osservano come siamo diventati.
Se queste statue potessero parlare, magari con la voce di Pierfrancesco Favino o di Neri Marcorè, ne avrebbero di considerazioni da fare. Considerazioni dalle quali prende spunto il nuovo film di Silvio Soldini, Il comandante e la cicogna, per raccontare l’Italia di oggi da due diverse prospettive: quella di chi vive il presente, tra mille difficoltà, e quella di chi dal passato lo osserva, con mille perplessità.
Sotto gli occhi di Garibaldi, Leonardo, Leopardi e di un cavaliere Cazzaniga che ricorda tanto Berlusconi, si scontrano e incontrano le vite di Leo (Valerio Mastandrea), idraulico vedovo alle prese con i problemi dei due figli adolescenti Elia e Maddalena, e di Diana (Alba Rohrwacher), artista squattrinata e sognatrice alle prese con un padrone di casa eccentrico, Amanzio (Giuseppe Battiston), e un datore di lavoro truffaldino (Luca Zingaretti). Insieme a loro c’è pure Agostina, una cicogna che sorvola tetti e strade di un’Italia alla deriva, tanto da spingerla ad andare a cercare in Svizzera una maggiore civiltà.
Scritto con grande creatività da Soldini e la sua storica sceneggiatrice, Doriana Leondeff, e affidato ad un carosello variopinto di strani personaggi, in un’atmosfera che ricorda tanto Pane e tulipani (2002) e Agata e la tempesta (2004) ma con uno sguardo più attento al (mal)costume sociale, Il comandante e la cicogna è un film pieno di idee e magia. Una favola poetica che parla dell’oggi con leggerezza e acume, mettendo insieme i toni della commedia surreale e romantica, la vivacità dei vecchi cartoni animati e la sorpresa dei libri pop up. Ma senza mai perdere il contatto con la realtà, grazie soprattutto al modo in cui il regista riesce a raccontare i suoi personaggi, e cioè mostrando allo spettatore il loro modo di guardare il mondo assumendo direttamente il loro punto di osservazione.
È così che nessuno, né l’idraulico Mastandrea con il sopracciglio imbiancato da un forte shock, né l’artista Rohrwacher che decora l’ingessatura del proprio naso rotto, né il bonificatore urbano Battiston che parla per citazioni svolgendo opera di sensibilizzazione alla bellezza, né l’avvocato Zingaretti che tutela gli imbroglioni e inguaia gli onesti, degenerano mai nella macchietta fine a se stessa. Ricomponendo un quadro armonico in cui persino un gruppo di statue parlanti ed un ragazzino che dialoga con una cicogna risultano a loro modo credibili. E inguaribilmente adorabili.
Merito di un cast indovinato, che trasforma la stravaganza in normalità, e di un regista che sa dirigere magistralmente i suoi attori, che abbiano due gambe, due ali o una testa di bronzo. Un regista, Soldini, che con la macchina da presa riesce persino a fare recitare le sue statue come fosse la cosa più naturale del loro essere immobili, senza fare ricorso agli effetti speciali (tranne in un’ultima scena) e giocando solo con le inquadrature e il montaggio. Che danzano sulle note orchestrate dalla Banda Osiris, seguendo in un unico grande valzer il battito del film.

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mercoledì, 26 settembre 2012

IL ROSSO E IL BLU di Giuseppe Piccioni

IL ROSSO E IL BLU
di Giuseppe Piccioni

con Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Roberto Herlitzka, Silvia D’Amico, Davide Giordano

Recensione di Ornella Sgroi

È tempo di tornare sui banchi di scuola. Non soltanto per studenti e professori che si apprestano a cominciare il nuovo anno scolastico, ma anche per il cinema. Che si prepara per la nuova stagione e torna ad esplorare uno dei suoi ambienti più familiari. La scuola, appunto. Un microcosmo fatto di nozioni ed esercizi, ma soprattutto di interazioni ed emozioni.
Ed è a questo scambio costante di relazioni che è interessato il regista Giuseppe Piccioni, ancora una volta abile nel cogliere con Il rosso e il blu l’osmosi sentimentale e di pensiero tra diverse esperienze di vita che si crea in modo naturale e inconsapevole in luoghi di convivenza forzata come possono essere i licei. Abitati da adulti e adolescenti, le cui esistenze non riescono a tenere separati quel “dentro e fuori” la struttura scolastica di cui parla Giuliana, la preside rigorosa interpretata da Margherita Buy, per frenare l’entusiasmo del giovane supplente di lettere che ha il volto di Riccardo Scamarcio e lo spirito del professore Keating de L’attimo fuggente di Peter Weir.
A fare da contrappeso a queste due posizioni, un superlativo Roberto Herlitzka nei panni di un anziano professore di Storia dell’arte, che tra le pagine di migliaia di libri imparati a memoria ha perso la voglia di vivere e di insegnare. Incarnazione esilarante del cinismo e della frustrazione di una parte della classe docente, che Herlitzka condensa in una scoppiettante declamazione di “Pianto antico” di Carducci assolutamente indimenticabile.
Intorno a loro, tra le mura e lungo i corridoi della scuola, ma anche oltre i confini di quel luogo, un carosello variopinto di ragazzi e professori che incarnano gli stereotipi propri della realtà scolastica con tutte le sue difficoltà, reinventati però con una creatività che affianca loro tipi eccentrici e irregolari come la professoressa di Scienze che non capisce la fotosintesi clorofilliana o lo studente “dimenticato” a scuola da una madre che non si sa dov’è, interpretato dal giovane talentuoso Davide Giordano (già figlio di Antonio Albanese in Qualunquemente). Perfetti per una commedia che riesce a parlare di scuola con leggerezza, con un linguaggio che non insegue la retorica ma il semplice piacere del racconto e che non vuole a tutti i costi proporre modelli ideali. Meno che meno in materia di scuola, tanto umana e quindi imperfetta.
Un po’ come il film di Giuseppe Piccioni (tratto dall’omonimo libro di Marco Lodoli), che diventa una sfilata di volti e di storie non sempre originali, a volte persino stonate come nel caso dell’allievo romeno, ma comunque colorati di una propria identità forte e caratterizzante. Perché ciò che più sta a cuore al regista non è tanto il punto di arrivo di ogni vicenda, quanto piuttosto il percorso che compiono i singoli protagonisti per raggiungere quel cambiamento magari insperato, ma pur sempre possibile. Che arriva, armonioso e vitale, alla fine del film, inesorabile come la promozione o la bocciatura alla fine dell’anno scolastico, facendo tesoro di tutti gli errori commessi. Che siano rossi oppure blu.

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mercoledì, 26 settembre 2012

LETTERATITUDINE CINEMA

ornella-sgroi-filminscenaGià altre volte qui a Letteratitudine ci siamo occupati di cinema. Ricordo in particolare, un post molto interessante dedicato a “Non è un paese per vecchi“, dove abbiamo messo a confronto il libro con il film… per poi allargare la discussione sul rapporto strettissimo che esiste tra cinema e letteratura. E poi, questo post dedicato a Anna Magnani. E quest’altro dedicato a Sergio Leone.
Adesso ho deciso di aprire una finestra specifica dedicata al cinema, a prescindere dalle sue connessioni con la letteratura. Ecco, dunque, questa nuova rubrica, chiamata (molto semplicemente) “Letteratitudine Cinema. Sarà uno spazio curato dalla critica cinematografica Ornella Sgroi (nella foto), che accoglierà l’occhio lungo di Letteratitudine sul grande schermo. Uno spazio che, nella fattispecie, sarà arricchito dalle recensioni di Ornella (che ringrazio sin da subito).

Buon Letteratitudine Cinema a tutti!

Massimo Maugeri

P.s. Di Letteratitudine Cinema ne ha parlato la trasmissione culturale “Pagina3” di RadioRai3

Tutte le recensioni di Letteratitudine Cinema, sono disponibili qui.

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Ornella Sgroi, giornalista culturale e cinematografica, collabora con diverse testate tra carta stampata, radio e televisione, web. Tra le principali collaborazioni, quella con la trasmissione “Cinematografo” di Rai 1, quella con il quotidiano La Sicilia e quella con il Teatro Stabile di Catania, per il quale ha ideato la rassegna “FilminScena. Conversazioni di Cinema in Teatro” che cura sin dalla prima edizione.

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OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

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OMAGGIO A TULLIO DE MAURO

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RATPUS va in scena ratpus

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Ricordiamo VIRNA LISI con un video che è uno "spot" per la lettura

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"TRINACRIA PARK" a Fahrenheit ...

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