LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » monteverde http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 MONTEVERDE di Gianfranco Franchi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/#comments Tue, 26 May 2009 19:33:13 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/ Di Gianfranco Franchi avevamo già avuto modo di parlarne qui, in merito ai volumi “L’inadempienza” e “Pagano“.
Torniamo a incontrare questo giovane intellettuale romano, nato a Trieste, classe 1978, creatore e gestore del popolare Lankelot, nonché scrittore e consulente editoriale di varie case editrici.
L’occasione ce la fornisce l’uscita del suo nuovo lavoro letterario: Monteverde, edito da Castelvecchi.

Trovo che la nota al libro sia molto intrigante. Ve la riporto di seguito: “Nella schiera degli antieroi che solo la migliore letteratura sa regalarci, ecco il protagonista di Monteverde, trentenne laureato e precario sempre in cerca di lavoro, e di volta in volta arbitro, giornalista-magazziniere, inseritore notturno, tirocinante, addetto allo sportello. Un nostalgico che seppellisce il suo vecchio palmare sotto la pianta di rosmarino, tifoso accanito della Magica, spirito rock, collezionista di mug. Un esule, un italiano, un letterato che rivendica orgogliosamente il suo ruolo. Uno a cui ogni tanto appare all’improvviso un cane, per strada, con un occhio più chiaro dell’altro. Ma chi è davvero Guido, che percorre avanti e indietro la sua isola, Monteverde, sulle tracce di Pasolini, e che fa strani incontri al cimitero, tra le tombe di Keats e Gramsci? Un duro o un romantico? Un asociale? Uno che si innamora? Ascoltalo: è tutto ciò che non ha patria e si ribella, e sembra non voler morire mai”.

Monteverde inizia con queste frasi:
Sono una foglia che pesa ottanta chili. Sogno refoli di vento.
Sono una batteria che si sta ricaricando. Voglio ricaricare in pace, senza sbalzi di corrente. Sono un navigatore senza programma, non so orientarmi con le stelle. Sono lo stipite stanco di una vecchia porta. Sono un contratto firmato in bianco, sono una lettera senza mittente. Sono una tela d’acqua su una cornice di carta, un telecomando che non spegne niente; se mi punto sul cielo m’accendo, funziono. Sono un orologio che batte secondi sulle tempie della sua cassa. Sono un pallone bucato.
Sono una sigaretta che non si spegne, fuma soltanto.
Sono queste mani che dovresti mutilare.

Guido Orsini è l’alter ego di Gianfranco Franchi. Un personaggio che ci fornisce alcune indicazioni sulla condizione di alcuni giovani intellettuali italiani.

Ho chiesto ad Andrea Di Consoli e a Barbara Gozzi di dire la loro su questo libro, e vorrei discuterne con voi insieme all’autore (che parteciperà al dibattito). E poi vorrei interrogarmi (e interrogarvi) sulla figura e sul ruolo dei giovani intellettuali oggi in Italia.

Così mi domando (e vi domando)…

Qual è la condizione dei giovani intellettuali oggi in Italia? Quale il ruolo?

Gli intellettuali trentenni di oggi, in cosa si differenziano da quelli di venti, trenta, quarant’anni fa? In cosa si assomigliano? I loro sogni sono uguali o sono cambiati?

Inoltre ho chiesto a Gianfranco di mettermi a disposizione uno dei bellissimi racconti di Monteverde. Ho scelto Catafalco (potete leggerlo in coda al post), per un motivo ben preciso. È un racconto che affronta il tema della morte dal punto di vista dei bambini. Un racconto che mi ha fatto tornare indietro nel tempo. Che mi ha fatto domandare: quand’è stata la prima volta che ho preso consapevolezza della morte?
Giro la stessa domanda a voi. E aggiungo quest’altra.
Secondo voi, è giusto parlare della morte ai bambini? E in che termini?

Ne approfitto per sottolineare che, oltre che con Monteverde, Gianfranco Franchi è in libreria con: “Radiohead. A Kid. Testi commentati” (Arcana).

Di seguito, le recensioni di Andrea Di Consoli e Barbara Gozzi.

Massimo Maugeri

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MONTEVERDE di Gianfranco Franchi
recensione di Andrea Di Consoli (nella foto)

Monteverde (Castelvecchi, 310 pagine, 16,00 euro), di Gianfranco Franchi, è un romanzo di formazione (Franchi è uno scrittore nato nel 1978, è romano, ma ha sangue triestino, mitteleuropeo). I romanzi di formazione sono, specialmente se costruiti sulla falsariga della propria esperienza personale, romanzi totali, generosi, magmatici – e l’unico rischio che corrono (un rischio tutto rivolto al futuro) è quello di “dire tutto”, di mettere tutte le carte sul tavolo, di bruciare in un unico fuoco legni accatastati nell’arco di due decenni. Mettiamola così: il rischio è tutto di Franchi (ripeto, per il suo futuro di scrittore), ché il lettore ha la possibilità di leggere “un mondo” e una vita con un solo libro. Questa generosità, voglio iniziare così, è il primo tratto “generazionale” di Franchi. Ne sono profondamente convinto: Monteverde è un romanzo generazionale. Ma non lo è nel senso del “target”, ma in un senso più profondo, perché riesce a dire la vitalità e il dolore e lo spaesamento tachicardico dei trentenni italiani (ripeto, senza volerlo) come nessuno lo aveva mai fatto prima. Franchi, cioè, delinea – e vi riesce, sia letterariamente che sociologicamente – la “linea d’ombra” che ha separato quelli nati negli anni ’70 da un “prima” e da un “dopo”, sia privato che collettivo, perché a questa strana generazione è capitato in sorte uno strano “passaggio” epocale, ovvero quello dal Novecento “rudimentale” e sostanzialmente romantico a un Duemila ipertecnologico, afasico, post-comunitario, globale e non più provinciale (ecc.); pure, a quelli nati negli anni ’70 è accaduto, come capita a tutte le generazioni del mondo, il “passaggio” dalla vita giovane a quella adulta. Ecco: come ebbe a dire Eduardo a Napoli, durante i bombardamenti, alla prima di Napoli milionaria al Teatro San Carlo (parafrasandolo): “Gianfranco Franchi ha detto il dolore di tutti noi”. Ripeto, ne sono profondamente convinto. E ora provo a spiegare una cosa che per me è fondamentale, ovviamente sperando di riuscirci. Mi è capitato di leggere recentemente romanzi anche interessanti come, per esempio, La futura classe dirigente di Peppe Fiore. Qual è la grande differenza che c’è, poniamo, tra Franchi e Fiore? La mia risposa è questa: che in Franchi grida e canta la tradizione e la storia sociale e letteraria italiana, perché nonostante Franchi racconti il “pop” o il cosiddetto moderno (la musica, il calcio, il precariato, gli amori spezzettati, ecc.) il collo di Franchi guarda avanti e guarda anche molto indietro (è un collo tormentato), cioè verso i padri, verso le cose perdute, verso una tradizione che continua a parlare, sia pure nell’ombra. Non è nostalgia, ma qualcosa di più profondo, ovvero, per citare Pound, “la contemporaneità di tutte le epoche”. C’è anche un’altra cosa che rende Franchi “generazionale” e sostanzialmente novecentesco, creatura divorata dalla tradizione ultima, figlia delle altre: lo stile non calcolato, non algido, non controllato, ma oscillante, con punte di incandescenza sentimentale e lirica davvero commoventi. Ecco, anche in questo Franchi rischia, rischiando, sempre, la fraternità. E’ un cuore messo a nudo, Monteverde. E vorrei dire un’altra cosa. Molti reportagisti si sono provati a raccontare Roma per mezzo della realtà (operazione utile, ricca di informazioni); ma l’anima di Roma, ecco, quella chi l’ha raccontata? L’anima di Roma l’ha raccontata Franchi. Non avevo mai visto così profondamente appalesarsi l’anima provinciale romana (Michele Plastino, i negozi di dischi, le strade d’estate, Giuseppe Giannini il giorno dell’addio, i concerti, ecc.), senza il compiacimento del provincialismo, della “trovata” sociologica. Ora so finalmente – ne ho il catalogo, le parole, lo stile – le cose che ho perduto in questi ultimi vent’anni di vita. Ora so che non sono solo – scusate la confessione – in questo disperato tentativo di fare il pieno della vita, di dare un senso a tutte le cose perdute, alle paure, al tempo, di entrare nella letteratura con tutti gli sbandamenti (dell’umore, dello stile, della cultura) che rendono certi nostri libri così poco calcolati. Ecco, finalmente, un “compagno di strada” che cercavo da tempo.

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‘Monteverde’ di Gianfranco Franchiappunti di lettura di Barbara Gozzi (nella foto)

barbara-gozzi-2009.jpgMonteverde, il quartiere romano dove vive il protagonista – Guido Orsini – è luogo di memorie, amarezze, di lucide e crude registrazioni che gli occhi dell’autore, Gianfranco Franchi, ‘prestano’ al protagonista (alter ego apparso per la prima volta in ‘Disorder’ pubblicato da le Edizioni Il Foglio nel 2006). Occhi acuti, dunque, ironici quanto precisi, capaci di annegare nel dolore, nel malessere di un vivere faticoso, incerto e perennemente in bilico, ma anche delicati, desiderosi di esplorare, tentare ancora, e ancora.
‘Monteverde’ conclude un percorso preciso, iniziato con il già accennato ‘Disorder’, passando per ‘Pagano’ ( Edizioni Il Foglio, 2007). Un percorso costruito su frammenti, tasselli uniti e slegati che poco alla volta si insinuano, delineano una strada tortuosa eppure nitida.
Guido Orsini è un laureato alla disperata ricerca di quella che, per le generazioni precedenti era un passaggio obbligato, ovvero un posto se non propriamente definibile ‘fisso’ quanto meno stabile, la possibilità dunque di dedicarsi all’unica vera e inviolabile passione-ossessione ovvero la Letteratura. Ma Guido è anche sensibile osservatore della società che lo circonda, di questo ‘Monteverde’ specchio del suo vivere tra limitazioni volute e imposte eppure immerso in tanti sottili interessi importanti. In perenne contorsione, tra ricerche fallimentari, amori sfocati, musica e calcio, orari e vizi.
La struttura stessa del romanzo fornisce una prima guida alla decodifica: sei macro oggetti letterari, un antefatto che è uno ‘spot’ di ciò che il lettore affronterà, e cinque interludi tra gli argomenti principali. Su questi ultimi, gli interludi, vorrei soffermarmi.
Nel primo c’è un cane, che muta nella razza, con gli occhi di due colori diversi e che lo fissa (‘lo’ riferito a Guido sebbene in queste pagine che staccano volutamente la struttura amalgamandola, mi è parso di sentire prepotente e trasparente, la volontà, la voce unica dell’autore). Il cane è un simbolo, un messaggero, ripreso con intelligenza nella copertina e che ritorna anche nel secondo interludio.

“… e mi spieghi se mi stanno venendo a prendere o se c’è qualcosa che sta per capitare oppure se devo smettere di cercare Letteratura e quindi incanto, magia, segno, assurdo e meraviglia in tutte le cose. Io vedo simboli e significati in tutto. Sono un giocattolo giocato da mani sempre nuove, e tutto è un mio giocattolo. Forse anche la morte.” (pag.55)

Attraverso questo simbolo, dunque, la voce inizia a denudarsi, a svuotarsi di contenuti, a riconoscersi in perenne lotta. Non è una guida dunque, il cane, è probabilmente la necessaria virata che attraversa gli oggetti tematici e ne affonda tra le carni.

“Forse il cane voleva avvertirmi che stava per tornare il male, che si avvicinava e che avrei dovuto soffrire ancora per un pezzo.” (pag.113)

Ma anche più avanti, nel terzo interludio, si insiste e si riprende l’antefatto, si incastrano, sovrappongono sensi e significati, l’eco è forte, urgente e necessario. Disperato.

“… e non trovo riposo e non conosco più gioia. Sono una sigaretta che non si spegne mai, e un calice che non s’esaurisce. Sono un caffè troppo amaro, così ti stomaco.
Il malessere fatico a tollerarlo. Ogni mattina peggiora, non so come arginarlo.
Il lavoro è un’ossessione, o un ricordo grottesco che ogni tanto fa male.
Voglio dormire. Fammi dormire.” (Pag. 177)

Il malessere è un leitmotiv pressante, sintomo evidente di un vivere che è trascinarsi tra precariato, esperienze lavorative fallimentari, deriva degli affetti, disagio economico e confusione. C’è molto dolore in questo romanzo, molta fatica da acido e sangue, molta tenace affermazione di quei ‘sogni’ schiacciati ma mai dimenticati, impossibili da accantonare del tutto, perfino nelle scene più grottesche e ironiche, che strappano sorrisi amari, consapevoli.

“… e maledetto il dio della sofferenza, che sia verità o menzogna poco cambia e poco importa: per tutto quel dolore che t’intorpidisce, per quel veleno che s’insinua, e che sordo scava, scava. Sordo, scava. Ma quanto a fondo può scavare, quanto avido ancora può essere, per ossa, e sangue infetto, e polvere e cenere, cenere. Scava. “ (pag.235)

Infinte, nell’ultimo interludio l’immagine del ponte. Che è più d’un simbolo. È chiave di decodifica. Ognuna delle sei tematiche-oggetto di cui accennavo sopra, ovvero: casa, lavoro, donne, musica, la Roma e Patrie letterarie; ognuna è ponte dell’altra, sottile collegamento capace di far traballare l’equilibrio instabile senza disperderlo del tutto, la caduta pare vicina ma mai definitiva.
C’è speranza in questo libro, nella lotta, nel cogliere i fallimenti, il dolore, il male feroce quanto l’insanabile conflitto dei sentimenti, senza imporre conclusioni. I brevi capitoli, ognuno a suo modo indipendenti, possono – sì – cadere ma subito dopo c’è una risalita, una ripartenza, un tentare e ri-tentare in una visione complessa, onesta dell’essere giovani oggi, tra titoli di studio che paiono carta straccia, mestieri inutili, illusori e legami faticosi.
Guido non è persona facile, solitario, poco incline alle mediazioni, mal disposto a cedere ai compromessi, che non accetta la rassegnazione che vede nella sua generazione, inutilità che non ha sapore né odore, senza ‘quel’ fuoco che invece è così prepotente dentro di lui: la Letteratura, amore inviolabile, passione violenta, ragione di vita probabilmente.

“Ho scelta come patria la Letteratura in lingua italiana con opportune commistioni dialettali e linguistiche perché io sono amalgamato così; ho scelto come patria la Letteratura perché è terra di menzogna e oasi di invenzioni e meraviglia, non ha pretese d’essere vera o realistica ad ogni costo, né d’essere Storia: è storia delle storie, è tante storie assieme.” (pag.306)

È un romanzo amaro, ‘Monteverde’, pieno zeppo di scene, dettagli, schegge taglienti mai pietose. Ma anche sottilmente colmo di amore e sentimenti forti quanto pieni, intensi.
Franchi è autore poliedrico, acuto e preciso. La sua lingua si plasma, è materia in evoluzione dove nulla è lasciato al caso o all’intuizione del momento. In questo romanzo, il progetto iniziato con ‘Disorder’ raggiunge una maturazione notevole, nell’intensità, gli intenti incastrati, numerosi. La lunghezza, elemento di stacco dalle precedenti opere, è pregio e difetto di un’opera che non può essere vissuta come mero romanzo. Richiede tempo e pazienza, analisi e recupero dei frammenti, delle ‘storie nelle storie’. La suddivisione in oggetti narrativi semplifica al lettore parte della comprensione, dà modo all’autore di spogliare quel Guido alter ego amato e odiato, all’interno di precise tematiche. È dunque possibile che il lettore perda la ‘strada’ nel corso della lettura, eviti di oltrepassare un certo ponte, ad esempio quello della ‘Roma’ se non ha precisi interessi per il calcio o ‘Musica’. Franchi sa essere tecnico, intinge la sua materia narrativa in elementi fortemente caratterizzati dalla stessa vita che conosce e cerca. E sono rischi calcolati, io credo, necessari per collocare Guido e il suo raccontare in un contesto preciso e inequivocabile.

Ultima annotazione personale: Franchi che scrive d’amore è secondo me perla rara. Già in Disorder alcuni capitoli sono delicati sfarfallii, inni ai sentimenti fondi, lirici senza scivolare nella dolcezza filante che stomaca.

“Una goccia di spirito cade nel silenzio d’un, e aspetto ogni giorno un pezzo di te. Se tu sapessi, che.
Amare (davvero) è pericoloso e brucia; e quando non, è la fine. “
(pag.49 – capitolo ‘Pelle’, ‘Disorder’)

In ‘Monteverde’ ho ritrovato pagine di una dolcezza meno celata, più spudorata, che si mostra fiduciosa e nulla chiede, nulla aggiunge a se stessa. C’è ‘un’ bianco che rimbomba con la forza che toglie il respiro, un bianco che può essere tutto e niente, non colore che facilmente, da un momento all’altro, rischia di finire fagocitato dalle altre tinte eppure brilla, irradia.

“Scende dal cuscino e si mette col muso contro il mio, naso contro naso, occhi negli occhi. Oddio amore mio che occhi che hai, dovresti guardarmi sempre, io questi tuoi occhi li sento dentro sempre, anche quando non ci sei.
[…]
Bianca quella notte che non voleva finire, bianco il telefono che la mattina suonava, bianca la carta delle pizze, bianca la vasca del mio bagno, bianco il pacchetto delle sigarette, bianche le mie scarpe che dovevi sporcare. Bianco il foglio che hai sporcato, bianca la luce del domani.
«Non sono mai stata così».
«Ti amo».
«Ti voglio ancora. Vieni qua».
(pag.131-133)

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CATAFALCO
da Monteverde (Castelvecchi), di Gianfranco Franchi

Un bambino non accetta un concetto in particolare. Che qualcuno o qualcosa possa morire, perché significherebbe che quel qualcuno non è più vero, non è più reale e quindi non è possibile, le cose cambiano ma non si dissolvono, niente si disintegra. Soltanto i soldatini quando li butti nel fuoco, ma qualcosa rimane e poi non sono vivi, sono veri, è diverso. Un essere umano è vivo e vero. La forma mentis del bambino si fonda su tutta una serie di implacabili sicurezze, date per acquisite e mai più smarrite. Una di queste è che le persone che lo stanno allevando saranno protagoniste per sempre della sua vita. Credo che cominciai a capire che potevano levarmi qualcuno pochi giorni prima che mio nonno morisse. Rimase chiuso in ascensore per un tempo che mi sembrò sconfinato, in realtà saranno stati quindici minuti, venti, non lo so. Avevo quasi otto anni, stavo aspettando che tornasse da lavoro, ero là sulla porta, come sempre. Magari mi aveva comprato un giocattolo. Oppure mi avrebbe raccontato un’altra storia. Un sabato pomeriggio, d’un tratto il rumore dell’ascensore s’interrompe. Sento una campana. Chiamo nonno, nonno, e nonno non risponde poi da lontano dice sono rimasto dentro e io mi spavento. Corro da nonna, lei s’è già precipitata a chiamare il portiere. I minuti passano e io non vedo chi doveva tornare. Allora m’accorgo che qualcosa può portarmi via nonno. Non so perché ma in quel momento ero convinto che non tornasse più. Nessuno era mai rimasto chiuso in ascensore, nella mia memoria, e quindi pensavo significasse qualcosa di terribile e di doloroso e di definitivo. Mi dispero, batto i pugni sul divano, piango. Non tornerà mai più, grido. Qualcosa di incomprensibile mi stava portando via nonno. Poi riescono a sbloccare l’ascensore, nonno torna, mi tranquillizza ma non serve a niente. Ho capito che c’è qualcosa che sfugge alla mia logica di bambino, qualcosa di triste e di doloroso e non è come quando un genitore se ne va per mesi interi, perché poi so che torna, questo è qualcosa di cattivo e di invincibile e imprevedibile. Qualcosa di meccanico. Tutto quel che è meccanico è sbagliato. È così. E qualche notte dopo, l’avvertimento diventa reale. Dormiamo nei letti vicini, io sto nel sonno profondo. Ricordo che qualcuno mi prende in braccio e mi porta a dormire altrove. Solo questo, mi sveglio un attimo ma mi confortano e mi ripetono dormi, dormi dai, dormi ciccio. La mattina c’è un parente in salone. Dico Marco come mai, è mattina presto. Una visita, risponde.

Mi mandano a scuola. Papà viene a prendermi prima della fine, parla con la maestra, la maestra fa un sorriso e mi dice puoi andare. Non capisco, c’è qualcosa che non va. In macchina papà tira su col naso ma non piange, mi dice che nonno se n’è andato in cielo e io immagino che ci sia una scaletta, qualcosa del genere, magari dei gradini a chiocciola come nei palazzi, che appaiono soltanto quando lo decidi tu, per cui ha preso e ha deciso di arrampicarsi sino in cima, quindi non dovrebbe esserci più fisicamente, non dovrebbe più essere visibile, immagino. Come se fosse a lavoro o in un’altra città. Mi sento triste ma ancora non capisco. Saliamo su in ascensore che stavolta non si rompe e la porta di casa è spalancata e ci sono delle corone di fiori. Un’amica di famiglia mi leva il grembiule nero della scuola Sant’Ivo, mi fa poggiare la borsa prima dell’uscio, la consegna a qualcuno e non vedo chi è. Nel grande salone c’è una sorta di baldacchino che non ho mai visto, è di legno e sembra un letto ma letto non è, papà mi dice si chiama catafalco, sul catafalco c’è nonno disteso, intorno tante persone e non tutte le conosco ma tutte mi guardano con aria mista di dispiacere e di malinconia e di attesa. Nonna da una parte con delle amiche attorno. Papà mi prende per mano e mi dice vieni a salutare nonno. Nonno è là con le mani giunte e mi sembra tanto bianco. Papà cos’è successo chiedo, dice nonno è stato male. Posso toccargli la fronte dico papà dice vai e mi fa un sorriso poco convinto. Ho paura perché è freddo e penso ora gli parlo e si sveglia come dopo che era rimasto chiuso in ascensore, torna. Non torna. Nonno ciao. Non dice niente.

Arriva una babysitter e mi portano altrove, a giocare vorrebbero, e qualcuno dice il bambino non capisce i bambini non capiscono fatelo stare lontano da qua ma io voglio stare con nonno, così si sveglia. Saliamo al piano di sopra, ma io so già che dal piano di sopra se apro la porta a vetri posso sbirciare in salone e nel salone c’è il catafalco e sul catafalco c’è nonno che se n’è andato in cielo ma invece è rimasto qua. Mia sorella rimane con la babysitter al piano di sopra, io sgattaiolo via come posso e vado a guardare il catafalco, guardo nonno e penso ora si muove, ora si alza, ora parla e tutti sorridono e invece niente, sale su la compagna di mio padre e mi dice cosa fai dico nonno è morto e voglio stare con nonno mi fa una carezza e sussurra andiamo di là da tua sorella e io voglio stare con nonno. Ci penso tutto il giorno mentre mi fanno giocare e sento il campanello suonare anche se la porta è aperta, penso che sia una forma di educazione o di rispetto che non conosco, ma trovo giusta e però non mi sembra giusto che tutti vanno da nonno e io no.

Il giorno dopo quando mi sveglio a casa non ci sono ospiti, c’è odore di caffè e la nonna sta in vestaglia e piange con la signora domestica e papà invece sta in salone vicino a nonno allora vado là, dico papà perché stai qua, risponde perché è l’ultima volta che vede suo padre, dico perché ha le labbra viola, dice è normale quando te ne sei andato, allora questa morte è meno astratta, sei freddo, hai le labbra viola, sei muto, non guardi e non rispondi a nessun segno, sei come spento, papà è come quando spengo qualcosa con la differenza che non so come si riaccende ma ci deve essere un modo. E il modo no, non c’è. Cos’è questo catafalco che non capisco, la parola ha un suono che non c’entra niente con la morte, in mente ho De Falco che gioca centravanti nella Triestina appena tornata in serie B e non capisco che c’entri il calciatore De Falco col catafalco, il catafalco è un antico uso borghese, dice, quando qualcuno importante muore in casa e non all’ospedale succede che si lascia esposto nel salone sul catafalco, è un segno di rispetto. Si muore quindi si va sul catafalco. E tutti vengono a salutare il morto.

E poi arrivano dei signori con la cravatta, con l’aria seria, e portano sulle spalle una bara. E nonna piange forte e non mi fanno guardare mentre nonno va dal catafalco sulla bara, quindi vedo loro con la bara sulle spalle e escono dalla porta nonna dice qualcosa sulla bara che esce dalla porta e credo di aver capito che questo è qualcosa di odioso e di insopportabile ma è nelle cose di quando qualcuno muore e non si può fare a meno, non c’è alternativa, finisce così, con quattro estranei che ti caricano sulle spalle chiuso in una scatola di legno. E il catafalco rimane vuoto e tu non ci sei più nemmeno per i saluti.

Non capivo tutte quelle persone, a dire cose che non capivo magari sottovoce a papà e nonna, e poi era rimasto il catafalco vuoto. Era caldo. Negli anni, a partire da allora, non credo di avere più visto nessun catafalco in nessuna casa, quando è successo che qualcuno s’è arrampicato sulla scala che porta sin lassù sino a non essere più visto; ho visto persone distese sul letto, con le mani giunte, con o senza crocifissi. Tutti bianchi, labbra viola e via dicendo ma nessuno disteso sul catafalco. Questo vuol dire che nonno era proprio importante e che quando è morto tutti dovevano andare a salutarlo, perché aveva fatto cose buone e giuste per tante persone. Questo vuol dire che ci sono tradizioni italiane che non si sono spente col passare dei secoli. Questo vuol dire che nella morte siamo una volta ancora tutti diversi, a dispetto della propaganda. L’uomo grande, forte e intelligente che ha cambiato la storia della mia famiglia per generazioni s’è disteso su un catafalco, e là ha consumato gli ultimi incontri con la luce preziosa e prepotente della nostra vita. Non sapevo che in casa avessimo un catafalco, e non ricordo che sia stato portato in salone da qualcuno: non l’ho mai visto entrare, non l’ho mai visto uscire. Non voglio nemmeno sapere se è stato nascosto da qualche parte. Credo di no ma non voglio andarlo a cercare. So che dal 1985 ci sono due metri, nel salone, in cui non cammino volentieri: là, tra i due divani di pelle, di fronte al camino, dove ho incontrato la morte di un uomo che mi amava più di ogni altra cosa al mondo, e che non aveva finito di prepararmi alle cose della vita. Avevo quasi otto anni e lui sessantaquattro, non aveva una gamba da dieci anni, doveva morire nove anni prima ma invece lavorava e mi insegnava tante cose, aveva un grande ufficio con quattordici dipendenti, tante amanti, tante case, tanti progetti e tanto orgoglio per il nipote primogenito, romanista e sveglio. Non ho capito come sia possibile che una persona così possa morire, so che quando muore la mettono in salone su un catafalco, e da quel momento il salone cambia per sempre.

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