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venerdì, 31 ottobre 2008

L’INFANZIA È UN TERREMOTO di Carola Susani

Parliamo di terremoto. Lo facciamo oggi, a poco meno di due mesi da una ricorrenza importante: il centenario del terribile, devastante terremoto di Messina del 28 dicembre 1908. L’occasione ce la fornisce questo bel libro di Carola Susani: “L’infanzia è un terremoto” (Laterza, 2008, euro 9, pagg. 142). Un libro che si presta a diversi livelli di lettura.
Di seguito potrete leggere la recensione di Miriam Ravasio (in esclusiva per Letteratitudine) e gli articoli di Francesco Gambaro e Giovanni Russo, apparsi rispettivamente su Repubblica-Palermo e sul Corriere della Sera.
Vorrei che discutessimo di questo libro della Susani e degli argomenti a esso correlati. Già un primo punto di domanda potremmo trarlo, forse, dallo stesso titolo del volume, che si presta a una doppia interpretazione: quando e perché l’infanzia è un terremoto?
E poi…
Il terribile terremoto del Belice, avvenuto quarant’anni fa, è solo un ricordo?
Che tipo di tracce ha lasciato (se ne ha lasciate)?

Gambaro scrive: “A pensarci bene il Sessantotto in Sicilia è cominciato in anticipo a causa del terremoto, connotandosi prima come un grande movimento di solidarietà, poi con la rabbia di chi assisteva all’ambiguo e ritardato spargimento di denaro pubblico, a ricostruzioni balzane, ad appropriazioni indebite di materiali di ogni genere, compresi quelli fotografici che, anziché finire nei centri di documentazione, hanno abbellito le università italiane benedicendo carriere”.
E l’arte? E possibile immaginare una connessione tra “arte” e “ricostruzione”? Tra “arte” e l’esigenza di “riemergere dalle rovine”?
Miriam, nella sua recensione, ha estrapolato dal libro queste frasi/domande: “Ho pensato a Gibellina come a un pamphlet dell’antintellettualismo, un Candide, la dimostrazione della pochezza, dell’inanità dell’arte. Che cos’è l’arte? La cacatina di un uccello presuntuoso. Chi presta attenzione all’arte? Nessuno. Perché dovrebbe? Che ragione c’è? Può giusto servire a richiamare turisti e intellettuali, gente che si diletta di cose senza senso, gente senza problemi”.
Già. Cos’è l’arte? A chi interessa davvero?
Questo e molto altro si evince dall’ottimo volume della Susani. Come scrive Giovanni Russo “L’infanzia è un terremoto è ricerca, biografia, memoria, vicende personali e pubbliche. È una testimonianza dell’idealismo che muoveva tanti a stare nelle baracche, tra i resti dei paesi distrutti”.

Vi invito a discutere di questo libro, magari prendendo spunto dalle domande poste sopra. L’autrice parteciperà al dibattito (Miriam mi aiuterà a coordinarlo).
Infine vi ricordo la già citata ricorrenza: il centenario del terremoto di Messina.
Qualcuno di voi mi ha chiesto di ricordarlo, di parlarne insieme.
Credo che questa sia l’occasione giusta.
Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in SEGNALAZIONI E RECENSIONI   153 commenti »

lunedì, 14 luglio 2008

L’ARTE CHE SI SCRIVE: IMMAGINI E RACCONTI

Accolgo con piacere questa iniziativa lanciata da Miriam Ravasio.
L’idea è quella di stimolare la scrittura di brevi racconti attraverso la “percezione” di immagini: opere, performance, installazioni, dell’Arte contemporanea, realizzate dal 1950 ad oggi nel contesto internazionale.
Per quanto mi riguarda considero la suddetta iniziativa (“L’arte che si scrive: immagini e racconti”) come una sorta di gioco “visual-narrativo” che potrebbe dare esiti molto interessanti.
Naturalmente il successo dipenderà da voi. Dalla vostra partecipazione.
Cominciamo con la proposta delle immagini di due artisti: Yves Klein e Ashley Bickerton.
Troverete dettagli qui in basso.
Vi invito a scrivere racconti non troppo lunghi (meglio se si manterrano entro la soglia delle 5000 battute).
Miriam Ravasio e Carlo S. si occuperanno della cura dell’aspetto organizzativo del gioco (aspetto regolamentare, ecc.).
Vi ringrazio in anticipo per la partecipazione.
Massimo Maugeri

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yves_-klein.JPGYves Klein, Particolare da Dimanche, le Journal d’un seul jour. 27 novembre 1960.
Un uomo nello spazio, è il titolo della famosa foto che ritrae l’artista mentre salta nel vuoto in una strada di periferia. La foto apparve su un giornale prodotto sempre da Klein, e il cui articolo d’apertura titolava “Il teatro del vuoto”.

Yves Klein (Nizza, 1928 – Parigi, 1962) fu artista neo-dadaista e Nouveaux Réaliste, molto amico di Arman. Lavorò a lungo intorno al concetto di “Vuoto”, inteso in un senso ispirato dalla filosofia Zen, una realtà esistente al di là della sua rappresentazione.
In questo senso vanno lette le sue “pitture monocrome” , principalmente di colore blu, la sua “Sinfonia Monotona” fatta della ripetizione di una sola nota, le sue “performance” di eventi (la più famosa fu la vendita di spazio vuoto in cambio di oro, che poi finì tutto nella Senna). Due anni prima di questa foto aveva realizzato una mostra VUOTA, nella Galleria parigina di Iris Clert.
La fotografia, in questione “Saut dans le vide” (Salto nel vuoto) o anche “volo lunare” aveva anche un forte intento ironico verso la NASA, cercando di mostrare che le spedizioni spaziali erano “hybris” e pura follia.

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hashley_bickerton.JPGAshley Bickerton, Them, 1998, New York, Ileana Sonnabend. La paura del vuoto si “vince” con l’ossessione dei dettagli. Due tipi deformi e dall’aria demente irridono allo spettatore, mentre sullo sfondo c’è tutto l’apparato di insegne al neon, comune all’Occidente e all’Oriente.

Ashley Bickerton (Barbados, 1959- viv. a Bali), star della scena americana anni ‘80 insieme ad altri artisti della corrente “Neo Geo” (Peter Halley, Jeff Koons, ecc). Il gruppo si rifà alla Pop Art ed alle “geometrie minimali, riflesso fedele del paesaggio visivo delle grandi metropoli, interamente determinato da industria, tecnologia e pubblicità” (Sebastiano Grasso sul “Corriere della Sera”).
“Bickerton assembla nelle sue opere collages di foto, acrilico, noci di cocco, ossa, semi… con forti richiami alla terra, all’origine biologica della vita, a tutto ciò che si cela sotto la scorza della nostra esistenza…” (Elena Uderzo).
In qualche modo anche in questa immagine si insinua il tema del vuoto. Il vuoto mentale dei personaggi che indicano l’osservatore, il vuoto di senso suggerito dalle insegne e dai marchi pubblicitari, il vuoto di pensiero che dobbiamo affrontare quotidianamente, in una società dei consumi sempre più priva di valori e di significato. C’è un forte senso di “rimbalzo” in questa immagine, come in uno specchio: sono loro o siamo noi i veri dementi?

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AGGIORNAMENTO DEL 28 LUGLIO 2008

Dopo i numerosi racconti pervenuti (ispirati dalle suddette immagini) e dopo la votazione effettuata dagli stessi partecipanti, si è giunti alla determinazione dei tre finalisti (di seguito in ordine alfabetico): Laura Costantini, Enrico Gregori, Simona Lo Iacono.

Il vincitore è: Enrico Gregori con il racconto L’ILLUSIONE DI ABRAXAS

Di seguito il testo del racconto vincitore e quelli delle altre due finaliste

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L’ILLUSIONE DI ABRAXAS di ENRICO GREGORI

Signore e signori. Ragazzi e militari metà prezzo.
Eccomi qui, su questa pubblica piazza. Tra nani del circo, saltimbanchi, giocolieri e artigiani del monile.
Ma io, il grande Abraxas, mi concedo a voi con la mia nuova illusione. L’incantesimo per i vostri occhi e il vostro cuore…bambino lasciami lavorare…E non vi chiedo danaro e non vi chiedo cibo. Ma cinque minuti del vostro tempo e del vostro silenzio. Perché qualunque rumore e l’incantesimo svanisce…bambino vai a prenderti lo zucchero filato ché questo non è posto per te…cinque minuti per sognare e per stupirvi.
Come si stupirono nel mercato di Zanzibar, nella casbà di Tunisi e nel parco comunale di Novi Ligure. Lì, col cuore in gola, tutti ad ammirare il grande Abraxas che oggi regala a voi la magia, il sogno e la follia…bambino hai finito lo zucchero? E vai alle frittelle, ché qui Abraxas ha da fare…e tornerete nelle vostre case con il grande Abraxas nelle pupille e nella testa. Un sogno che continuerà a farvi visita ogni notte. Perché solo ciò che sembra ma non è sa stupire più di ogni miracolo.E scalò lentamente il palazzo antico in muratura mattonata.
Raggiunta la ringhiera vi salì, allargò le braccia come per spiccare un volo d’angelo.
Io, il grande Abraxas! disse. E si lasciò andare rimanendo sospeso al nulla. Lui, parallelo al suolo, mentre chiunque si portava le mani sulle labbra e sugli occhi.
Ammirate, disse, il grande Abraxas. Cosa mi tiene così levitato? Non è la forza, non è il trucco, non è il padreterno. E’ l’arte del grande Abraxas e il vostro silenzio.Due acrobati volteggiarono tra il pubblico con capriole e salti mortali. Applausi per loro. Uno scroscio frastornante……NO!, provò a supplicare Abraxas….NO!…bambino aiutami tu….NO!

Tra la folla festante e sorridente, piombò giù.
La testa esplosa sul porfido della piazza e un torrente di sangue fin sotto i piedi degli acrobati.
Il suo corpo scavalcato e oltrepassato da una fanfara in ghingheri. Meraviglioso Abraxas, dicevano tutti, stupefacente Abraxas. Dopo l’illusione dell’angelo sospeso anche l’incantesimo della morte.
Frittelle per tutti, grande Abraxas. Quando ti sarai rialzato ti aspettiamo al chiosco.

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LAGGIU’ di SIMONA LO IACONO

Mi dicevi laggiù dove muoiono i dannati, laggiù, amico, mi troverai. Mi dicevi guarda, mi dicevi resta, mi dicevi laggiù, dove vivono i dannati, laggiù, amico, mi troverai.
E sorridevi. Nudo l’inguine, vecchia la barba, perso lo sguardo su un punto inafferrabile che ti ostinavi a indicare.
Chi sono i dannati? Ti chiedevo mentre ti lasciavi prendere dall’infermiere di turno. Lavare. Vestire. Portare in bagno senza resistenza, scivolandomi addosso quella risata vuota – gengive e saliva – che si ostinava a imitare la felicità.
Proprio lì, in manicomio, dove la felicità non esiste.
Ma dicevi esiste, esiste, e te ne venivi con quell’ombrello a scaglie gialle e nere, me lo issavi in groppa roteandolo a tempo, esiste , esiste, e mi prendevi la mano. Continuavi a ridere. A lasciarti afferrare.
A dire laggiù dove muoiono i dannati, laggiù, amico, mi troverai.
Ma il giorno dopo non ti trovai.
Il giorno dopo in manicomio è una finzione, un letto chiuso con un nome che vacilla.
Volto le spalle all’infermiere di turno. Afferro un lembo del tuo lenzuolo. Un resto di te.
Poi ripenso, laggiù dove muoiono i dannati. Laggiù dove vivono i dannati…
Tra le lenzuola. Nel letto.
Abbasso lo sguardo, sollevo le coperte. Ne aspiro l’odore di disinfettante. Di piscio.
Le trovo incise di parole. Di versi. Di inchiostro che balla sotto i miei occhi e si intrama sulla lanugine.
La prima frase che leggo è laggiù, dove muoiono i POETI, laggiù, amico, mi troverai.

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TRE ANNI PER NON CAPIRE di LAURA COSTANTINI

Gianni guardò la foto incorniciata e pensò che Simona era una donna intelligente. Non che questa fosse una scoperta dell’ultima ora. Aldilà delle innegabili doti fisiche, Simona lo aveva conquistato proprio con la sua intelligenza, così poco comune tra le donne.
Sorrise, Gianni, a quel pensiero. Lo avesse detto ad alta voce avrebbe per sempre rovinato la propria reputazione di persona aperta e moderna e avrebbe dovuto spiegare a quale tipo di intelligenza si riferisse.
La foto di Yves Klein (una copia ma ben incorniciata) avrebbe potuto essere d’aiuto. Di solito le donne, anche le più dotate intellettualmente, pretendono conferme dagli uomini. Conferme prima, scelte irrevocabili poi. Pur essendo creature così leggere e fragili, nei rapporti interpersonali hanno bisogno di grossolani pilastri cui agganciare la loro esistenza. Simona no, Simona non era così. Simona era intelligente e quella foto era lì a dimostrarlo.
Gianni la guardò ancora una volta e il sorriso si fece più dolce. Si frequentavano da tre anni con Simona. Tre anni pieni di emozione fisica e mentale. Lei era stata il suo rifugio contro la noia delle apparenze, contro la monotonia del rapporto a due istituzionalizzato. Simona era la fuga, il distacco dalla realtà, il volo oltre le convenzioni.
Il volo, proprio come nella foto.
Non aveva mai chiesto niente, Simona. Si era creata il suo spazio in quella relazione adulterina che si nutriva di magia e leggerezza. Uno spazio piccolo, ma grazioso e comodo, proprio come la mansardina dove si incontravano una volta la settimana: il giovedì.
Un’abitudine, certo. Ma quanto diversa da tutte le abitudini che intessevano la sua vita come maglie di una rete. Di giovedì in giovedì il loro rapporto era cresciuto, si era consolidato.
Gianni non avrebbe mai creduto possibile che quell’appuntamento settimanale potesse diventare il centro stesso della sua esistenza. La meta cui giungere nel trascorrere dei giorni. Il ricordo da portare con sé per rendere più sopportabili tutti i venerdì, i sabati, le domeniche che seguivano inesorabili.
Il tempo, quando era con Simona, assumeva un sapore e una consistenza diversi. Era morbido, dolce, soavemente vischioso come una crema montata col burro.
E poi Simona, per tre anni, non aveva mai chiesto niente. Era stata questa la sua forza, la sua intelligenza, la sua marcia in più. Per Gianni lei era stata sempre e solo un valore aggiunto nella partita doppia della vita. Mai gli aveva creato un problema, mai gli aveva messo il broncio. Mai si era lamentata di essere sempre e solo l’altra, quella che doveva mettersi da parte quando arrivavano le feste comandate, le occasioni ufficiali o semplicemente la febbre del bambino piccolo, l’esame importante della grande o le paturnie di sua moglie.
Poi era arrivata quella foto. Gianni l’aveva trovata lì, sul tavolino della mansardina, incartata come un regalo. Un regalo per lui. Gianni ripensò che Simona era stata intelligente anche in questo: mai preteso regali, mai preteso uno stupido mazzo di rose, un gioiello pacchiano, niente. Il loro reciproco dono era incontrarsi lì, aprire la finestra sui tetti della città e rotolarsi tra le lenzuola fino allo sfinimento.
Un donarsi che alla fine era diventato importante. Tanto importante che Gianni scopriva ora, attraverso quella foto di Yves Klein, ciò che Simona desiderava.
Lei non lo avrebbe mai detto, intelligente ancora e sempre.
Nella foto c’era un uomo che saltava nel vuoto, con un’espressione di grande beatitudine. Esattamente l’espressione che aveva Gianni adesso mentre guardava la città dall’alto del minuscolo balcone. Un salto nel vuoto, una scelta. Voltare le spalle alla noia di una vita di regole e convenzioni e saltare nel caos gioioso di una storia d’amore vera.
Ecco, pensò, l’ho detto: amore. Di questo si tratta.
Gianni sentì la porta aprirsi. I passi leggeri di colei che aveva saputo guidarlo fin lì, in silenzio. Avvertì la presenza di Simona ma non si voltò. Le mani di lei sulla schiena, improvvisamente forti e pesanti.
Nel volo dal balcone della mansarda fino al marciapiede, sei piani più giù, Gianni non ebbe il tempo di capire. D’altronde, non gli erano bastati tre anni.

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lunedì, 3 dicembre 2007

BAMBINE, TRA LETTERATURA E VITA

Molto ambizioso questo post.

Proviamo ad affrontare un tema complesso e delicato coinvolgendo alcuni libri e le rispettive autrici.

Il tema è il seguente: bambine, tra letteratura e vita. Un tema di forte attualità, ma – in fondo – antico. Attorno a esso girano problematiche varie e irrisolte.

Ospiti di questo post sono: Dacia Maraini, Loredana Lipperini, Catena Fiorello, Beatrice Masini, Elisabetta Lodoli, Elena Ferrante.

Un post al femminile, dunque. Un post di donne scrittrici, che hanno trattato – con i loro libri – tematiche riguardanti le bambine. Mi piacerebbe parlarne con voi nell’ambito di un grande dibattito, insieme – ripeto – alle autrici citate.

A ognuno dei libri presentati ho affiancato una sorta di sottotema per favorire le possibilità di discussione e confronto.

(Massimo Maugeri)

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BuioDacia Maraini, autrice notissima, nel 1999 ha vinto il Premio Strega per l’ottima raccolta di racconti intitolata “Buio” (Rizzoli). Dodici storie che raccontano della violenza sull’infanzia e sull’adolescenza. Sono pagine che raccontano fatti realmente accaduti, storie di “ordinaria follia” in cui le vittime sono i più deboli: donne e bambini.

Castaldi, su L’Indice dei libri del mese, n. 7, del 1999 ne ha scritto così: “Buio, come dice il titolo, è una raccolta di racconti che testimoniano dell’oscurità del mondo contemporaneo che sembra consegnarsi alla catastrofe, attraverso le guerre, la pedofilia, la prostituzione infantile, l’uccisione di donne inermi, la violenza carnale operata sui figli dai genitori stessi. Le vittime sono quasi sempre donne, bambini, immigrati: i più deboli nella società del benessere. Molti episodi sembrano o sono tratti da articoli giornalistici. Ma forse proprio questo distacco permette all’autrice di fabbricare con l’arma letteraria un tessuto di azioni e reazioni dei suoi personaggi in cui sempre spicca la dinamica aguzzino-vittima che, come nei campi di concentramento, dove l’autrice è stata internata da bambina, crea una connivenza di surreale complicità, perchè, in mancanza di tutto, cioè in presenza del niente, anche un aguzzino può essere qualcosa, un riconoscimento di quella identità che proprio da lui è stata annullata, come succede nell’ultimo racconto in cui la bambina Agatina viene avviata alla prostituzione dalla nonna vistosa e ancora piacente. Alla storia di Agatina si affiancano altre terribili storie, quella del bambino Grammofono ucciso da un pedofilo, quella della bambina albanese Vollca, inebetita dall’alcol e dagli stupefacenti perchè si prostituisca. (…) Da “Voci” (Rizzoli, 1994), il precedente romanzo della Maraini, torna la figura della commissaria Adele Sòfia. (…) La commissaria, attraverso le sue indagini, cercherà di tessere il filo degli eventi per ricomporre la violenza in un tessuto riconoscibile. Ma il tessuto si slabbra, il narrato si spezzetta in racconti (…)”.

Propongo il libro della Maraini per il tema: bambine e violenza.

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Loredana Lipperini ha appena pubblicato il saggio “Ancora dalla parte delle bambine” (Feltrinelli), riprendendo il soggetto di un libro pubblicato negli anni Settanta da Elena Gianini Belotti. Da allora le cose non sono cambiate granché, secondo la Lipperini. Le bambine di oggi somigliano molto a quelle di ieri. Le eroine dei fumetti le invitano a essere belle. Le loro riviste propongono test sentimentali e consigli su come truccarsi. Nei loro libri scolastici, le mamme continuano ad accudire la casa per padri e fratelli. La pubblicità le dipinge come piccole cuoche. Le loro bambole sono sexy e rispecchiano (o inducono) i loro sogni. È vero. I libri, film e cartoni propongono più personaggi femminili di un tempo: ma confinandoli nell’antico stereotipo della fata e della strega. Sembra legittimo chiedersi cosa sia accaduto negli ultimi trent’anni, e come mai coloro che volevano tutto (il sapere, la maternità, l’uguaglianza, la gratificazione) si siano accontentate delle briciole apparentemente più appetitose. Così ne ha parlato Giovanna Zucconi su La Stampa: “Che cosa non può mancare nella tua borsetta? Le gomme da masticare. Un lucidalabbra. Un fermaglio per i capelli. Ma certo, sacrosanto, grazie per avercelo ricordato: il lucidalabbra è indispensabile, dona un’aria glamour. Mentre per ciglia da cerbiatta, com’è universalmente noto, occorre il piegaciglia. Niente di strano. Così fan tutte, così san tutte, o quasi. Solo che questo prontuario di cosmesi e seduzione è dedicato a bambine di quattro anni. Così piccole che una borsetta potrebbero (dovrebbero?) non averla, per non dire del piegaciglia. È un libro per mini-lettrici, o forse ancora neppure lettrici, legato al cartone animato Trollz. A quattro anni le donne non leggono, però consultano Crea il tuo look e mettono il lucidalabbra. The devil is in the details, direbbero gli inglesi. Sono i particolari a svelare. Ma non è soltanto il diavolo ad appassionarsi ai dettagli. Osservando meticolosamente piccini e adulti, nel 1973 Elena Gianini Belotti, insegnante montessoriana, pubblicò Dalla parte delle bambine, per dire che la differenza fra maschi e femmine non è innata ma frutto dei condizionamenti sociali e culturali. Trentaquattro anni dopo, oggi, Loredana Lipperini, giornalista, setaccia puntigliosamente fumetti, riviste, moda, pubblicità, televisione, e pubblica Ancora dalla parte delle bambine. Studiando quello che con termine orribile il marketing chiama re-genderization: ossia il ritorno ai generi, alla differenza. (…) Le fatine Winx, fenomeno del momento, sfoggiano un’impeccabile french manicure e le labbra gonfie come celebrities di Mtv. Le bambole Bratz portano pantaloni a vita bassa. È come se giornaletti e cartoni animati bombardassero i bambini maschi di cinque anni con schiuma da barba, anabolizzanti, tagliasigari. (…)”

Trovate approfondimenti qui.

Propongo il libro della Lipperini per il tema: bambine tra mode e modelli “imposti”.

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PicciriddaCatena Fiorello è autrice del romanzo “Picciridda” (Baldini Castaldi Dalai) ambientato nei primi anni Sessanta in un paesino, Leto (Letojanni), posto lungo la costa della Sicilia orientale tra Messina e Catania.

I genitori della piccola Lucia si trovano costretti a emigrare in Germania e decidono di portare con loro solo il più piccolo dei due figli affidando “la grande” (Lucia), sebbene pur sempre picciridda, alla nonna paterna dal carattere burbero.

La bambina vive questa sua condizione sentendosela addosso come un marchio negativo. È consapevole, Lucia, che per lei – e per tutti coloro che non sono figli “della gallina bianca” – la necessità implica sacrificio e rinunce. Lo sa bene. Lo dicono tutti. Lo ripete la nonna. Ma qual è il prezzo che bisogna pagare? E fino a che punto il gioco può valere la candela?

Lucia non può che accettare la situazione e concentrarsi sul rapporto, non sempre facile, con la nonna, la quale deve tenere le redini di questa famiglia sui generis, spezzata dalla temporanea assenza della generazione di mezzo e ridotta a un rapporto a due. E allora giù con gli ammonimenti e con i rimbrotti, ché male non fanno.

Nella parte finale del libro, nell’epilogo, incontriamo la Lucia dei nostri giorni: una donna che, ormai realizzata, ha chiuso i conti con il passato (un passato che, come il lettore avrà modo di scoprire leggendo, è macchiato da un evento traumatico e inatteso). L’epilogo chiude le sottotrame aperte nel corso della narrazione. Rimane aperta, invece, la coscienza di doversi misurare con “un passato che pare riproporsi, oggi, in un’altra veste, ma con lo stesso triste spirito…”

E il ricordo dei genitori e dei sacrifici sopportati diventa occasione d’accusa per additare una vergognosa condizione di disagio che, mutati attori e palcoscenici, si ripropone con scenari simili.

Trovate qui curiosità e approfondimenti.

Propongo il libro della Fiorello per il tema: bambine tra emigrazione e disagi

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Che fata che seiBeatrice Masini ha pubblicato di recente il volume “Che fata che sei” (Einaudi ragazzi). Una raccolta di racconti di fate pensati per un pubblico di bambine. Ci sono fate della tradizione popolare, come la fata dei dentini, e di tradizioni più alte, come la banshee scozzese; fate vere, come quelle di Cottingsley che tre ragazzine riuscirono a fotografare nell’Inghilterra degli anni Venti, convincendo anche Arthur Conan Doyle dell’esistenza di piccoli esseri alati; fate leggendarie, come Melusina dal corpo di serpente che viveva immersa in una fontana, nel profondo del bosco; fate maleducate; fate che stentano a trovare la loro vocazione nel grigiore della vita quotidiana contemporanea… Un po’ per sfatare (già) il mito che debbano essere per forza creaturine zuccherose, tutte scintillii e paillettes; un po’ per ridare loro la dignità che meritano.

Sono fate dai poteri inaspettati, capaci di entrare nella vita quotidiana e di compiere magie non comuni: la fata babysitter, che si occupa con piena soddisfazione di due bambini, la fata fuori moda che indossa sempre una tutina, la fata cavalcatopi che al posto del solito unicorno preferisce spostarsi a bordo di un umile topo bianco. Fate che stanno “dalla parte delle bambine” di oggi e che devono affrontare le difficoltà e le sfide della vita quotidiana.

C’era una fata che aveva letto troppi libri di fiabe e si era fissata su un certo tipo di abbigliamento che le fate del nostro tempo non usano più. A lei piacevano i cappelli a cono, con la punta alta alta e un ciuffo di tulle fissato in cima, oppure quelli a tricorno che la facevano assomigliare a un bufalo col vestito della festa; e poi le gonne ampie e fruscianti lunghe fino ai piedi, le scarpe con la punta arricciata che si legavano alla caviglia coi nastri, e i mantelli, oh, andava pazza per i mantelli, soprattutto se erano orlati di pelliccia. Be’, lei si vestiva così, anche se ovviamente questo stile antiquato la impacciava molto nei movimenti…”

Propongo il libro della Masini per il tema: bambine tra fate di oggi e di ieri

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Elisabetta Lodoli, autrice del volume “Il mare non è il mio mare” (Fabbri), racconta la storia di Sewa: una ragazzina irrequieta che si troverà ad affrontare una serie di problemi tutt’altro che trascurabili. Sewa viene dallo Sri Lanka e giunge a Roma per ricongiungersi con i genitori, immigrati per ragioni di lavoro. Inserirsi in una grande città straniera non è facile per lei, che è già grande al suo arrivo. La ragazzina compie, così, un viaggio alla scoperta della metropoli romana. Certo, al suo arrivo tutto è estraneo, e sembra inevitabilmente ostile, a cominciare dall’amato litorale: “Questo mare qui non è bello come il mare al paese mio. Lì al paese mio non è mare, è oceano, trasparente a riva, poi azzurro, blu, sempre più blu come il cielo. La sabbia è bianca, granulosa, luccicante, zucchero che s’appiccica ai piedi.” Ma sono ormai solo ricordi quelli della propria terra, un passato intriso di dolce serenità ormai incompatibile con il presente che maltratta la sua anima come il suo paese, straziato dalle catastrofi naturali: “Quanto tempo è che non vede il suo mare? Due anni? Quasi tre. Non era in Sri Lanka quando il suo mare si è infuriato tanto da risucchiare via la costa, le case, le persone, gli animali… Il suo ricordo è fermo al mare pacifico dell’infanzia e da lì non vuole spostarsi, anche se ha visto le immagini, terribili, in televisione.”

E così la nostalgia e la sfiducia si incontrano e scontrano con la necessità di adattarsi al nuovo paesaggio naturale, sociale, e umano della Capitale, in un’emozionante percorso di ricerca dell’integrazione per trovare un proprio posto nel mondo tra mille difficoltà, accresciute dalle complicazioni naturali dell’adolescenza.

Propongo il libro della Lodoli per il tema: bambine straniere e integrazione

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Elena Ferrante, ha da poco pubblicato il volume “La spiaggia di notte” (Edizioni E/O).

Miriam Ravasio lo ha recensito per Letteratitudine.

Il tema di questa fiaba di Elena Ferrante è la paura, non timore e ansia per ciò che è noto o ignoto, quindi comune e riconosciuta, ma sentimento oscuro; paura, resa nella sua forma più astratta e per questo, ignota. Un frammento di scrittura, poche pagine, per un messaggio forte: come riconoscere il passaggio che segna la fine dell’età dei giochi e l’inizio del lungo e faticoso percorso dell’adolescenza? Chi ci aiuta, se sulla spiaggia veniamo abbandonati ai loschi traffici di un mondo crudele? Che apre la bocca, mangia la cacca, beve la piscia e la beve liscia. Canta così, il Bagnino Crudele del Tramonto.

Niente parole / Solo tagliole / Senti che pace / Se tutto tace

Chi ci aiuterà a sfuggire agli ami del Grande Rastrello? Ai suoi colpi di spazzola?

La bambola Celina, abbandonata sulla spiaggia dalla mamma-bambina Mati, affronterà la notte, il fuoco caldo che poi brucia, si abbandonerà alla speranza dell’Onda e alla fine sarà tratta in salvo. Il suo annullamento non avverrà! Né dentro, né fuori!

Svuota la gola / Resterai sola

Al termine della notte, in sé e attorno a sé, Celina trova la forza del lieto fine, e riabbraccerà la sua MA-MA SÌ- MAMMA.

Nelle case dei nonni, al buio giocano le cose; nella tristezza tutto si trasforma in anima. Invece qui al mare, è solo alla luce del sole che la sopravvissuta Celina ritrova le voci e i “nomi” simpatici. Al buio tutto brucia, non c’è poesia, nemmeno con lo Scarabeo.

E’ un testo a disposizione, un regalo per mamme e figlie, perché il Bagnino Crudele del Tramonto non muore, resta là, in compagnia del Grande Rastrello, ad aspettare altri bottini, altre pance e gole da svuotare per vendere i tesori al Mercato delle Bambole.

Ti pungo il cuore / Finché non muore.

Fedele a sé stessa, Elena Ferrante, scrive per le donne, non in contrapposizione all’altro genere, ma perché, grandi o piccole, bambole o bambine, la femmina è madre, generatrice, è terra che ospita la vita. Pragmatica, la scrittrice insiste: che si abbia figli o no, che si deciderà di averne oppure no, ogni donna è responsabile, nel suo rapporto di madre e figlia, verso il senso della vita. Ogni figlia è madre e viceversa; Celina e Mati imparano, guardando al futuro nella proiezione di un gioco. Bambina che cresce, è donna che “si sorveglia”. La spiaggia di notte è una fiaba, ha un lieto fine ed è per tutte le età. Il rischio corso dalla protagonista si legge come un’allegoria dello sbaglio, pedagogia della paura; lo smarrimento che segue un’azione, la paura per l’ignoto, la caduta causa ed effetto, la risalita e il riconoscimento.

Accanto al muro / S’è fatto scuro…

Se condivisa fra piccoli e grandi, come fra Mati, Celina e il maschile Minù, la paura aiuta. Perché il Tesoro da proteggere non è un Anello, un simbolo del male da gettare nel fuoco, ma un patrimonio di Parole, un progetto di crescita comune. Le illustrazioni di Mara Cerri scandiscono il racconto con precisione e forte partecipazione emotiva; colori scuri, polverosi, impalpabili come la sabbia più fine e insidiosa, avvolgono la bambola e il suo smarrimento. I primi piani del viso danno il ritmo alla storia e sono l’interpretazione più viva della turpe filastrocca, che, per l’inquietudine dei lettori, si snoda fra le pagine. Propongo il libro della Ferrante per il tema: bambine tra età dei giochi e adolescenza

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lunedì, 3 settembre 2007

CAPITOLO I – “L’OCCHIO ALATO: storie di disumanizzazione scolastica” (di Miriam Ravasio)

Le nuvole. Il plesso delle prime. “Forse” aveva vinto. Sudavo. I cieli romantici. Niente matita. Un momento critico. Le nuvole sulla cattedra. Come Raffaello.

Non entravo in una classe da oltre 20 anni. Avevo la febbre e solo da pochi giorni era morto mio padre. Improvvisamente, per un infarto, mentre attraversava la strada sotto casa, era morto sorridendo. Chissà a cosa stava pensando…

Il giorno prima, la direzione didattica, o meglio Giovanna Portavoce, mi aveva postato una mail, come al solito un po’ così , ma il senso era chiaro: il progetto che avevo scritto, e che loro avevano presentato alla Regione “forse” aveva vinto. In attesa della comunicazione ufficiale, potevo iniziare subito ” magari con un altro argomento somigliante”; dovevo impegnarmi per 195 ore divise in tutte le classi della scuola. Ero felice, con 7 interventi per classe potevo sbizzarrirmi e aggiungere attività più complesse: potevo realizzare un buon lavoro, ma lo stile della comunicazione mi faceva sperare ben poco.

In mente avevo sempre mio padre, ma pensavo anche alle dimensioni della scuola a quanto avrei dovuto camminare per muovermi dalle aule alla stanza del materiale. Contavo mentalmente i passi e i metri che avrei dovuto percorrere. Pensavo alle gambe, agli spiacevoli esiti e a quell’intervento che continuavo a rinviare; e a questo nuovo capitolo della vita che si stava aprendo. Speranzosa e triste, alle 14 esatte mi presentai a scuola. Con me avevo tutto, i libri con i segni di diverso colore, l’astuccio con le gomme pane i quadrelli di creta e le matite 6B, il quaderno degli appunti, un po’ di fogli colorati in tinte pastello sui quali, avremmo incollato i primi lavori: le nuvole chiare, le nuvole rosa, le nuvole nere.

All’istante ho capito come sarebbe stata e che prima di affrontare la classe avrei dovuto ogni volta spiegare tutto e molto bene alle maestre. Guardavo i bambini che avevo di fronte e alcuni mi conoscevano, un po’ emozionata iniziai presentando il “magnifico programma d’arte” che avrei svolto con loro, cominciai parlando dei cieli, di come è bello guardarli e dei pittori che li dipingono nei quadri. Loro, attenti, incuriositi, volevano vedere i libri, la novità li eccitava e la maestra esercitava il controllo alzando la voce. Il raffreddore, che nel giro di poche ore sarebbe diventato febbrone da cavallo, mi aggrediva. Il naso gocciolava, avevo un gran caldo, sudavo e temevo di infettare i piccoli; loro invece erano attenti. Pendevano teneramente dalle mie labbra e anche se la condizione non era delle migliori, mostrai i libri con le immagini già divise fra le nuvole serene, quelle bianche e soffici; quelle gialle o rosa che salutano il sole; quelle nere cariche di pioggia, grandine e tempesta. La scelta cadeva sui pittori tedeschi e inglesi, sui cieli romantici. Secondo la mia scaletta, questa cosa dei libri non doveva durare più di 15-20 minuti al massimo, perché la loro attenzione è limitata e anche il disegno non doveva prendere più di un’oretta. In teoria tutto era stato calcolato.

E nonostante la tosse e il raffreddore, ogni cosa si stava svolgendo come previsto e con occhio fisso all’orologio seguivo le tappe. Bambini rapiti dall’idea di toccare e sfogliare i miei libri, rumorosi ma disciplinati, toccavano incantati i tramonti e i cieli azzurrissimi di quelle vecchie opere che si avvicinavano al vero.

Davanti ad un foglio bianco, con un pastello blu oppure rosso, giallo o rosa, aspettavano il resto delle indicazioni. ”Niente matita”, perché rovina l’effetto pittorico dei gessetti; e poi volevo che pensassero, che memorizzassero, e lavorassero con attenzione, senza la possibilità di cancellare. Giravo fra i banchi e tutti mi chiamavano contemporaneamente, chiedevano; tutti insieme volevano, pretendevano consigli, colori, esprimevano dubbi, mi volevano al loro banco. Un piacevole caos che temevo di non controllare.

I tempi dei bambini sono, per ognuno, diversi. Alcuni hanno fretta di dimostrare d’aver capito tutto, altri sono incerti se prendere la cosa come un compito serio o un divertimento nuovo, altri ancora hanno bene in mente cosa vogliono fare, ma temono la novità dei nuovi mezzi. Il pastello, usato al posto della matita, creava all’inizio una grande diffidenza, è sempre così; la paura di non poter cancellare si risolveva nel tentativo di cambiare il foglio. Dovevo intervenire per tranquillizzare tutti, prestare attenzione alla maestra, rispondere alle sue domande, spiegarle ogni cosa e farmi aiutare. Un momento faticoso, il punto critico di ogni lezione, un momento che dura poco ma con un livello d’attenzione massimo.

Ho lavorato con molte insegnanti e sono pochissime quelle che hanno l’intuito giusto nei confronti del disegno, la maggior parte di loro è attratta solo dall’ordine, e da un segno che non sia troppo marcato. E’ dura dover insegnare un metodo nuovo senza inibire i bambini, lasciandoli liberi nella loro espressività, e confondere le idee alle maestre. Bisogna improvvisare i commenti giusti e guadagnare tempo. Quello necessario alla consegna dei primi lavori, che guardo e metto da parte per rivederli con loro prima della fine della lezione.

La lezione piacque a tutti, i lavori uno dopo l’altro raggiungevano la cattedra. Belli, alcuni intensi, altri imprevedibili, altri tranquilli, esageratamente simpatici, coloratissimi, o appena accennati.

I gessetti colorati rendono. Sono un mezzo molto gratificante, efficace, veloce, rassicurante. Anche se ci si sporca, in un attimo tutto è subito risolto. L’uso della gomma pane aiuta a conferire l’effetto vaporoso e i bambini imparano in fretta. Le nuvole disegnate parlano del tempo, delle ore del giorno e della sera, della luce colorata del tramonto e dell’aurora, del buio della notte e dei temporali. Un buon lavoro. Ma non è una cosa straordinaria, a quella età la sicurezza di descrivere ciò che si conosce, o si ha appena imparato, o visto è intatta.

“Quando avevo l’età di questi bambini sapevo disegnare come Raffaello; mi ci è voluta tutta una vita per imparare a disegnare come loro.” Picasso.

Miriam Ravasio

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Miriam Ravasio abita a Lecco, si occupa di educazione all’immagine nelle scuole; un lavoro a cui è arrivata “per caso”, dopo una vita dedicata alla moda e alla ricerca di immagini per abiti, tessuti e ricami. L’impatto con la scuola, e in particolare, con il frastuono pedagogico della didattica, è stato così forte e violento da indurla a scrivere.

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