LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » letteratura pugliese http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 IL PAESE DELLE SPOSE INFELICI, di Mario Desiati http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/06/il-paese-delle-spose-infelici-di-mario-desiati/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/06/il-paese-delle-spose-infelici-di-mario-desiati/#comments Mon, 06 Oct 2008 14:19:07 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/06/il-paese-delle-spose-infelici-di-mario-desiati/ il-paese-delle-spose-infelici.jpgNell’immaginario collettivo la sposa, soprattutto il giorno delle nozze, deve essere necessariamente felice e inevitabilmente sorridente (perdonate il doppio avverbio).
Ma è davvero così, o si tratta di uno dei tanti usurati luoghi comuni?
Voi che ne dite?
Secondo una diceria, a Martina Franca, provincia di Taranto, in certi luoghi circolerebbero i fantasmi di spose infelici che si sono uccise nel giorno delle nozze. Su questa leggenda si basa il titolo del nuovo romanzo di Mario Desiati: “Il paese delle spose infelici” (Mondadori, p. 229, euro 17,50).
Mi piacerebbe che discutessimo di questo libro di Desiati (di seguito potrete leggere la recensione di Ranieri Polese pubblicata su “Il Corriere della Sera” del 5 settembre 2008); libro che, a mio avviso, è caratterizzato da una scrittura densa e ricca, a tratti onirica, messa al servizio di una storia che affonda le radici in una terra che è stata definita come “laboratorio del post-moderno” italiano.
Contestualmente vi invito a raccontare aneddoti particolari che hanno come protagonista la sposa nel giorno delle nozze.
Insomma, queste spose sono sempre felici… o no?
Massimo Maugeri

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IN PROVINCIA DOPO DUE ROMANZI DI CITTÀ, L’ AUTORE TORNA ALLE ORIGINI CON «IL PAESE DELLE SPOSE INFELICI»
Mario Desiati, ricomincio dal Sud: «La mia terra ha un sapore romanzesco, la fantasia non serve»

di Ranieri Polese

«A Martina Franca, la mia città, circola una diceria: tutti dicono che quella è la capitale dei suicidi. Ma la stessa voce la trovi in altre città del Sud, ancora affette da quella predisposizione all’infelicità che già aveva diagnosticato molti anni fa Giustino Fortunato quando parlava della “chiusura” della gente del Mezzogiorno. Certo, seppure non da primato, il numero di persone che si tolgono la vita a Martina Franca e dintorni è piuttosto alto, tanto che ogni volta che torno mi raccontano di nuovi casi. Nell’ ultimo anno, per esempio, ci sono state tre donne, ragazze fra i venti e i trent’anni, che hanno scelto di morire. E il modo preferito – cito dai verbali della questura – è per “precipitazione”: ovvero, buttandosi nel vuoto o in uno dei tanti pozzi che ci sono nelle campagne. Mi ha sempre colpito questa espressione, “precipitazione”, che pare suggerire la fretta di farla finita, l’urgenza di levarsi dal mondo». Mario Desiati spiega così il titolo (Il paese delle spose infelici) e il tema di fondo del suo terzo romanzo, uscito per Mondadori, un ritorno alla terra di origine dopo due romanzi di città –la Roma dei barboni del Giubileo, Neppure quando è notte, e quella dei lavori a tempo, Vita precaria e amore eterno – per rintracciare ricordi, riallacciare legami, rivisitare un passato che non passa mai. Come la diceria delle spose infelici che si uccidono nel giorno delle nozze e i cui fantasmi popolano le notti di quel remoto pezzo d’Italia compreso tra le meraviglie della Valle d’ Itria («trulli, muri a secco, masserie bianche di calce»: il nuovo paradiso dove tutti vogliono essere, l’Itriashire dopo il Chiantishire) e il cielo color ruggine e il mare chimico di Taranto. Se Desiati, 31 anni, se n’è andato via presto (tre mesi a Milano e poi, subito, Roma), così non avverrà per i suoi personaggi: Francesco, studente borghese detto Veleno per la passione per il calcio; Domenico detto Zazzà, proletario violento e generoso; Annalisa, la ragazza di tutti, che colleziona cartoline d’Italia e di notte parla con le femmine morte. I maschi giocano in una squadretta amatoriale su campi di terra battuta e sognano l’arrivo di un procuratore che venga, li noti e li porti via, verso la grande squadra. E intanto creano risse, vanno a fare il tifo sulle curve degli ultras del Taranto, si rincorrono tra feste brutte e nottatacce sporche, e poi qualcuno finisce male come Zazà che entra ed esce dal carcere. Tutti amano Annalisa che sembra non considerarli, è libera e per tutti è una ragazza strana: Francesco più volte spera di andarci insieme, dovrà rassegnarsi e capire che l’unico che lei ama è Zazà. Mentre le stagioni passano, arriva la distrazione del truffatore che dice di fare il regista, cerca volti per il cinema ma intanto spilla soldi a sprovveduti sponsor locali. Francesco, l’intellettuale, s’improvvisa sceneggiatore per raccontare la storia sua e dei ragazzi del gruppo. Poi, con una raccomandazione, la famiglia lo spedisce a Torino a far da galoppino e autista presso un avvocato che ha fatto fortuna al Nord. Intorno a questi ragazzi di provincia si consuma la crisi dell’industria di Taranto, la rapida fortuna del sindaco Giancarlo Cito, populista e demagogo, creatore della Lega d’azione meridionale, quello che usa con grande anticipo la commistione fra politica e tv impiegando la sua rete privata Antenna Taranto 6. Ma anche Cito finisce male: condannato per «concorso esterno in associazione mafiosa», si farà quattro anni di carcere. Fra una città, Taranto, che sembra una sorta di laboratorio del post-moderno («la crisi dell’ industria pesante, il populismo, il tifo calcistico che mescola destra e sinistra, una folta schiera di giovani no-global, l’emergenza della spazzatura verificatasi qui molto prima che a Napoli», dice Desiati) e una provincia ancora legata a riti e miti atavici (Desiati parla di «ferinità») si consuma questo bel romanzo di formazione. Un’educazione sentimentale votata al fallimento. I provinciali non andranno in città, i nipoti poveri dei vitelloni per paura di perdersi scelgono di restare. Annalisa si sposa segretamente, si ammala e muore. Per lei Zazà costruisce con le pietre un sepolcro che riproduce le bellezze d’Italia viste solo in cartolina (la Torre di Pisa, il Colosseo, eccetera). Francesco torna da Torino. E come in un pellegrinaggio visita il lebbrosario, il luogo degli «Hanseniani» dove ancora vivono, nascosti, reclusi, cinquanta ammalati. Luoghi (il lazzaretto, i monumenti d’ Italia costruiti con le pietre) che esistono, ci dice Desiati; così come, seppure trasfigurati e romanzati, esistono dei personaggi simili ai protagonisti. «È una terra, la mia terra, che ha un sapore romanzesco, che quasi ti costringe a scrivere senza troppo sforzo, non richiede grandi lavori d’ immaginazione». Basta affidarsi all’eco persistente di un mondo a parte, il cui dialetto sembra fatto solo di consonanti, in cui il confine tra realtà e leggenda sfuma continuamente. E a questo serve molto la scrittura di Desiati, che racconta il reale «con gli occhi del provinciale, disincantato e insieme pieno di stupore» che, seppure debitore nei confronti di tanta letteratura meridionale, guarda a certa letteratura americana (McCarthy, Eugenides: non è il titolo una cripto-citazione dalla Casa delle vergini suicide?). E che, di fronte al dilemma tra un riduttivo neorealismo e un’ aura di leggenda, alla fine decide di «print the legend».
Ranieri Polese

da Il Corriere della Sera del 5 settembre 2008

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Dalle prime pagine del romanzo “Il paese delle spose infelici” di Mario Desiati

La sposa

In un luogo dove le spose erano infelici fece stupore quello che accadde un marzo mite del 1990. Il Taras era il torrente sottile che si attorcigliava al Siderurgico. La sorgente che lo generava veniva dal sottosuolo, si dice fosse miracolosa. Anni prima un cavallo zoppo e morente fu gettato nel ruscello, invece di annegare riprese vitalità ed emerse correndo per il lungofiume. Per molto tempo la gente di Taranto pensò di curarsi dalle malattie e dai sortilegi con i bagni nel Taras. Quel giorno erano le due, il letto era semiasciutto, ma un piccolo rigagnolo dai colori melmosi percorreva i dossi formando cascate. In inverno quell’acqua era tiepida come la conca di un bagno termale, emanava zaffate di vapore come se dentro si raffreddassero le carcasse bollenti dell’acciaio del Siderurgico. Non era chiaro se quella mitezza fosse dovuta al grande impianto o alla sorgente. Alcuni operai in quelle giornate di tepore improvviso dopo un inverno tetro passavano la pausa pranzo cibandosi sopra uno strapunto a forma di stivale. Questo cresceva a pochi metri dalla sorgente del torrente, dove l’acqua era miracolosamente limpida, colorata di riflessi rosati mutuati dal cielo rosso che solo Taranto ha e il fondofiume granata della bauxite. Era marzo, il sole era già generoso, ci si poteva spogliare e restare in camicia e salopette, mettere gli occhi chiusi contro i raggi lievi e ricevere il miracolo dell’arrossamento di quelle facce gialle di altoforno. La dozzina di operai che mangiavano panini, piluccavano spicchi di arance irradiando nell’aria l’aroma acre di agrumi; ebbero un miraggio collettivo, una visione che avrebbe sbalordito chiunque: una donna vestita da sposa veniva dall’orizzonte fosco delle campagne. Camminava altera con la gonna alzata, le scarpe bianche erano infangate, le calze di nylon da bambola brillavano, le spalle nude ardevano sotto il sole invernale. I capelli chiari erano raccolti in su e acconciati a strati come tanti nidi di pernici, il collo lungo sfiniva in un viso con l’espressione premonitrice. Gli occhi parevano dipinti, nei sistemi solari delle deliziose efelidi attorno alla bocca c’era come il manifestarsi di una divinazione. La sposa regalò una sbirciata maliziosa a gli spalti di maschi appisolati, appena saziati da panini frugali. E poi entrò nel fiume senza neanche togliersi le scarpe, mollando improvvisamente la gonna che si alzò sul pelo dell’acqua come la rete di un peschereccio. E fu la cosa più bella che videro quegli operai, uomini che ogni giorno si bardavano come soldati disperati, i sopravvissuti di una guerra nucleare, i liquidatori di una centrale atomica. La gonna parve aprirsi come un ventaglio. La sposa apparve come un cigno bianco e gli uomini non potettero resistere. Perché? Forse la posa statuaria, il viso impassibile dentro l’acqua, l’abito che si gonfiò e sembrava allargarsi quanto tutto il fiume. Tutto sembrò finire sotto la mongolfiera di tessuto prezioso. Così gli uomini sfidarono il freddo e spogliandosi con concitazione, zampettando su una gamba per togliersi i pantaloni il più in fretta possibile, si gettarono dietro quella sirena, quel mistero di bianco, oro e avvertimenti. La donna smise di andare verso l’acqua alta e attese lo sciame disperato di muscoli bruniti, petti ispidi, braccia ingiallite, occhi stregati.

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Il book-trailer del libro

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