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sabato, 21 marzo 2009

FIABE, FAVOLE E LO SCIOPERO DEI PESCI

fiabe-e-favole.JPGQuando si parla di fiabe e favole è abbastanza diffusa la convinzione che esse siano rivolte in via esclusiva ai bambini e che, dunque, rientrino nel genere della letteratura dell’infanzia. Questa convinzione, naturalmente, ha un suo fondamento giacché fiabe e favole sono principalmente rivolte a un pubblico di giovanissimi, di bambini appunto. Del resto, proprio nei confronti dei più piccoli, la fiaba (così come la favola) svolge una importante funzione di intrattenimento e talvolta (più nella favola che nella fiaba) anche di formazione, laddove troviamo – come spesso accade – una morale. Tuttavia pensare che fiabe e favole siano un prodotto letterario rivolto esclusivamente all’infanzia è un errore. Così come sarebbe un errore pensare che fiabe e favole siano la stessa cosa. Nella lingua italiana le favole vengono distinte dalle fiabe (anche se entrambi i termini derivano dalla radice latina “fabula” – “racconto” – e i due generi hanno molti punti di contatto): la fiaba è caratterizzata dalla presenza di personaggi e ambienti fantastici; mentre la favola – di norma – è popolata da animali i cui vizi e virtù rappresentano quelli degli uomini.
Come ho già evidenziato, considerare fiabe e favole come prodotti letterari rivolti esclusivamente all’infanzia non è del tutto condivisibile. Di recente mi è capitato di ri-leggere testi di saggistica letteraria che, in un modo o nell’altro, confermano questa mia tesi. Mi viene in mente, per esempio, il saggio di Umberto Eco (costituito da una raccolta di interventi) intitolato “Sulla letteratura”. Nel primo capitolo (ovvero il testo di un intervento nel festival della letteratura di Mantova del 2000) Eco parla della letteratura e della trasmigrazione dei personaggi letterari. In questo contesto (accanto a titoli celeberrimi) Eco, a un certo punto, cita come esempio la nota fiaba “Cappuccetto rosso” analizzando in particolare le differenze tra la versione di Perrault e quella dei fratelli Grimm e il diverso destino del personaggio della fiaba.
E, naturalmente, non si può non citare il grande Italo Calvino che nel 1954 iniziò a svolgere, per la casa editrice Einaudi, un lavoro simile a quello intrapreso nel secolo precedente, in Germania, dai fratelli Grimm. Calvino scelse e trascrisse, in una raccolta intitolata appunto “Fiabe italiane”, ben 200 racconti popolari delle varie regioni italiane dalle raccolte folkloristiche ottocentesche. Peraltro, l’amore di Calvino per le fiabe è ravvisabile anche nel saggio “Lezioni americane – sei proposte per il prossimo millennio”. Troviamo riferimenti alle fiabe nelle prime due lezioni: quelle relative, rispettivamente alla “Leggerezza” (dove vengono citati i lavori dell’antropologo russo Propp e la nota raccolta di fiabe araba “Le mille e una notte”) e alla “Rapidità” (in riferimento a una delle caratteristiche della fiaba, ovvero alla rapidità intesa come essenzialità); in Sicilia chi racconta le fiabe usa una formula: “lu cuntu nun metti tempu”, “il racconto non mette tempo” quando vuole saltare dei passaggi o indicare un intervallo di mesi o anni; oppure “Cuntu ‘un porta tempu”, o ancora “’Ntra li cunti nun cc’è tempu”. (Pare che queste siano espressioni di Agatuzza Messia l’anziana donna analfabeta che dettò le fiabe popolari al palermitano Giuseppe Pitré, che le trascrisse). E comunque nella lezione dedicata alla “Rapidità” Calvino ribadisce che ad attrarlo verso la fiaba è stato un “interesse stilistico e strutturale per l’economia, il ritmo, la logica essenziale con cui sono raccontate.”
Naturalmente esistono altre motivazione che hanno spinto intellettuali e studiosi a considerare l’importanza di fiaba e favola. Intanto perché, proprio in riferimento alla sua oralità (“fabula” deriva dal verbo “fari = parlare”), si è ritenuto necessario (da parte dei cosiddetti trascrittori di fiabe) recuperare una tradizione che correva il rischio di andare perduta. Per esempio, i fratelli Grimm partono dall’idea che ogni popolo ha una sua anima che si esprime con la massima purezza nella lingua e nella poesia, nelle canzoni e nei racconti. Essi però sostengono che, con il trascorrere del tempo, i popoli hanno perduto in parte la propria lingua e la propria poesia, soprattutto nei ceti più elevati e può, quindi, essere ritrovata solamente negli strati sociali inferiori. In questa ottica, le fiabe sono i resti dell’antica cultura unitaria del popolo e costituiscono una fonte preziosa per la ricostruzione di quella cultura più antica.
Poi si sono avvicendate diverse teorie sulle fiabe. Secondo l’antropologo russo Vladimir Propp, per esempio, le fiabe popolari, soprattutto quelle di magia, sono il ricordo di una antica cerimonia chiamata “rito d’iniziazione” che veniva celebrata presso le comunità primitive. Durante questo rito veniva festeggiato in modo solenne il passaggio dei ragazzi dall’infanzia all’età adulta. Essi venivano sottoposti a numerose prove con le quali dovevano dimostrare di saper affrontare da soli le avversità dell’ambiente e di essere pertanto maturi per iniziare a far parte della comunità degli adulti.
Questa premessa è finalizzata a evidenziare l’importanza della fiaba e della favola e la loro valenza letteraria. Quando parliamo di fiabe e favole, dunque, parliamo di letteratura. E non di letteratura secondaria.

Ciò premesso, ne approfitto per presentare una favola appena arrivata in libreria per i tipi di Il pozzo di Giacobbe. Il titolo è “Lo sciopero dei pesci”. L’autore del testo è Salvo Zappulla. Le illustrazioni sono di Carla Manea.
Di seguito leggerete le recensioni di Roberta Murgia (che mi aiuterà ad animare e a coordinare il dibattito) e di Simona Lo Iacono. Infine, in fondo al post, troverete un bel pezzo di Pietro Citati (uscito giorni fa su Repubblica) dedicato ad Alice nel paese delle meraviglie e a Peter Pan (e poi un video “in tema”).

Come sempre, oltre a invitarvi a discutere sul libro presentato, propongo una discussione “generale” partendo da alcune domande:
- che rapporti avete con fiabe e favole?
- quali sono quelle che preferite? E perché?
- quali sono, a vostro avviso, le favole e le fiabe con il più alto valore formativo?

A voi…

Massimo Maugeri
(continua…)

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venerdì, 12 settembre 2008

IL DOLORE PIU’ GRANDE. ORFANA DI MIA FIGLIA di Morena Fanti

Questo è un post molto particolare, che tratta un argomento delicatissimo.
Ho scelto questo titolo (Il dolore più grande) non a caso.
Qual è, secondo voi, il dolore più grande?
Secondo me è la perdita di un figlio.
Ed è proprio di questo che parla Orfana di mia figlia, il libro di Morena Fanti che presentiamo qui. Un libro che racconta una storia vera, come avrete modo di capire leggendo il pezzo di Salvo Zappulla (che ha firmato la nota in quarta di copertina).

Federica muore a soli 24 anni… investita da un’auto mentre attraversa la strada davanti casa.
È il 2 ottobre del 2001.
Un mese dopo l’incidente, Morena apre un diario… lasciando confluire in esso il dolore per la perdita dell’unica figlia.
Quel diario è diventato libro.
E i proventi saranno devoluti a scopo benefico.

Vi lascio una domanda…
Com’è possibile superare il dolore di una perdita così terribile?
Morena Fanti sarà ospite di questo post. Salvo Zappulla mi aiuterà a moderarlo.
Vi invito a discuterne con loro.
Massimo Maugeri

____________

Orfana di mia figlia, di Morena Fanti – Il pozzo di Giacobbe – euro 16 – pagg. 200

Un libro forte e violento come un pugno sullo stomaco. Violento, come violenta è la mano crudele che cala a ghermirti una figlia di ventiquattro anni prossima alla laurea. Quando muore un figlio la vita si ferma. Muore anche la vita dei suoi genitori, ne devono creare una nuova. Questo non è un romanzo ma una storia vera, la storia di una vita spezzata, anzi di tante vite spezzate. Una famiglia che vive serenamente fino a quando un banale incidente stradale non le ruba la cosa più preziosa: l´unica figlia. L’unica adorata figlia. Morena racconta il suo calvario con lucidità estrema, ci sono pagine di straordinario lirismo in questo libro, intense, crudeli, terribili. Cala un velo negli occhi di quanti hanno perduto una persona cara e quegli occhi non riavranno più la stessa lucentezza. Molti lettori si riconosceranno e si identificheranno in questa storia. Il dramma, il vortice dell´abisso, sentirsi sprofondare giù senza intravedere una via d´uscita. L’annullamento della propria persona, l’abbrutimento fisico, l’apatia, il desiderio di farla finita. E poi lentamente il risveglio, la rinascita, la voglia di dare ancora un senso a questa nostra fragile precaria esistenza. Una testimonianza importante questa di Morena, su un argomento troppo spesso taciuto: la morte. Ma è anche una storia di rinascita e di positività. Uno spiraglio di luce che penetra le tenebre e apre alla speranza. Ed ecco allora che la storia di Morena diventa un documento prezioso da trasmettere agli altri, quasi un manuale che ci insegna come combattere il dolore o almeno imparare a conviverci; ci spiega come riappropriarci della nostra vita, che in fondo vale sempre la pena di essere vissuta.
Salvo Zappulla.

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