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lunedì, 11 febbraio 2008

LA LETTERATURA DELLA FOLLIA

Il tema della follia è uno di quelli più ricorrenti in letteratura.

Di seguito troverete un pezzo di Flaviana Zaccaria (pubblicato su letterariamente) e due recensioni. La prima è firmata da Ruggero Bianchi (pubblicata su Tuttolibri del 29 dicembre 2007) e riguarda il nuovo romanzo di Patrick McGrath che – dopo Follia (1998), Il morbo di Haggard (2002) e Port Mungo (2004), torna in libreria con Trauma (edito da Bompiani).

La seconda recensione è firmata, invece, da Silvia Leonardi e riguarda il libro di Pasquale Esposito (nome in codice: Eventounico), intitolato Come pagina bianca (edito da Aletti).

Due libri che, in un modo o nell’altro, rientrano nel tema.

Vi invito a discutere sia sul tema, prendendo come spunto il pezzo della Zaccaria, sia sui due libri recensiti.

A proposito… c’è un “romanzo folle” a cui siete particolarmente legati?

Chiudo con la domanda finale posta dalla Zaccaria.

Chi non ha mai lottato contro i mulini a vento?

(Massimo Maugeri)

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Da sempre la follia ha imperversato nella letteratura mondiale assumendo forme e valenze diverse; dagli antichi saltimbanchi ai romanzi di Dostoevskij e Pirandello, la follia non ha fatto altro che puntare il dito, focalizzando l’attenzione del pubblico su qualcosa di fondamentalmente universale: l’Io, i desideri e le espressioni più pure di se stessi. Cos’è infatti l’atto o le parole di un folle se non una espressione limpida, senza mediazioni raziocinanti, della propria mente, del proprio sentire?

L’arte ha adottato questa libertà per mostrare l’Altro, l’esistenza di qualcosa al di là della norma convenzionale sociale, alzando la sua polemica contro la “conformità-a-tutti-i-costi” e il rifiuto per il diverso: basta leggere qualche pagina del Sosia o delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, o l’ancor più famoso Uno, nessuno, centomila di Pirandello, per rendersi conto della profondità in cui scende l’analisi umana nella sincerità della follia.

La “Follia seria” ha così accolto su di sé il difficile compito di esprimere l’angoscia, le ansie e il male di vivere dell’uomo; ma esiste anche un’altra faccia della follia: quella “che ride”, la follia giocosa dei saltimbanchi che nasconde dietro il suo riso le stesse inquietudini, che esorcizza i “mostri” e l’Altro mostrandone le contraddizioni e le irrazionalità. Ma ciò non significa che la sua sia un’opera di distruzione, al contrario, come scrive anche Bergson, la follia in tal modo dà consistenza e valore ad un modello, ad una determinata forma; che un personaggio, un avvenimento sia bersaglio del riso, non è che il riconoscimento della forza e dell’importanza di questo stesso.

Ariosto nell’Orlando Furioso mette in pratica proprio ciò: nella follia d’Orlando, che vaga seminudo nel bosco vaneggiando parole senza molto senso, che usa uomini a mo’ di mazza per colpirne altri e scorrazza per la foresta simile ad un animale, c’è l’affermazione di quell’uomo e del suo amore tanto grande da togliere il senno….. costringendo Astolfo ad arrivare fin sulla luna per riportarlo in sé!

Così nel “Don Quijote” di Cervantes, dove tra le risate davanti agli improbabili cavalieri e giganti sfidati, le gentildonne travestite da contadine e popolane e le locande trasformate in castelli, non si può far a meno di ammirare la forza d’animo e il coraggio con cui egli porta avanti il suo ideale cavalleresco e i suoi sogni di una gloria d’altri tempi, ove il cuore e la nobiltà d’animo erano i capisaldi di un grande uomo. Ciò ovviamente non lo esonera dagli scherzi del suo scudiero, il quale anzi, quando non è malconcio per le conseguenze delle avventure del cavaliere suo padrone, lo incalza nella sua follia arricchendola di nuovi personaggi e vicissitudini; ma la costanza e l’ammirazione con cui egli segue comunque il cavaliere errante al suo fianco, mostrano tutta la stima e l’elogio per un animo tanto grande.

Senza alcun dubbio ci sono delle differenze, e notevoli, tra i due componimenti, mentre infatti la follia ariostesca investe solo un aspetto ben preciso dell’opera e del carattere del suo protagonista, in Cervantes questa sembra investire tutti, traendo nella sua ridente tela tutti i personaggi, trasformando l’intera opera in una miscellanea di rocambolesche e divertenti circostanze; la follia sembra diventare la normalità e tanta è la partecipazione del lettore che non si può far a meno di fare il tifo per Don Quijote, sperando nella buona riuscita di almeno una delle diverse imprese, e proprio qui c’è l’affermazione del modello, del carattere del personaggio.

Il senso della follia che ride forse è proprio qui, nella partecipazione emotiva e nella leggerezza d’animo che suscita nei lettori, rendendoli con la magia del sorriso un po’ più consapevoli e più vicini all’Altro, chi mai infatti, se non altro durante la lettura, non si è sentito un po’ Don Quijote, senza sogni ad occhi aperti? Chi non ha mai lottato contro i mulini a vento?

Flaviana Zaccaria

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Trauma di Patrick McGrath, Bompiani, 2007, trad. di Alberto Cristofori, pp. 252, euro 17

Torna a volare alto Patrick McGrath in Trauma, un romanzo serrato e avvolgente pubblicato in anteprima mondiale da Bompiani (trad. di Alberto Cristofori, pp. 252, e 17), che ruota attorno alla figura di Charlie Weir, psichiatra newyorchese d’assalto che vive e opera nel cuore della Big Apple, tra la Ventitreesima strada, e dunque a Chelsea e ai margini del Village, e l’alta Park Avenue, e dunque ai bordi della Columbia e di Harlem. E’ lui a narrare e a interpretare la propria storia. O meglio, a cercare di interpretarla, come conviene a ogni seguace di Freud convinto che la vita quotidiana è una forma di continuo e inconsapevole mascheramento ruotante attorno a transfert e rimozioni e quindi – per dirla con le sue parole – lo psichiatra è il «fantasma» di un «assente» del quale il paziente va a caccia. Queste, per Charlie, le basi teoriche e metodologiche sulle quali fonda la sua professione. Ma la pratica è tutt’altra cosa. Un po’ perche’ indulge a contaminare Freud con le nuove dottrine eterodosse alla Laing; un po’ perche’ a volte e’ precipitoso e pasticcione; ma soprattutto perche’, prima di risolvere i traumi e gli shock post traumatici dei suoi clienti, dovrebbe riuscire a risolvere i propri. E di se’ questo anomalo «strizzacervelli» (lui pero’ mal sopporta tale definizione) ne sa meno di Agnes, l’ex moglie sociologa, di Cassie, l’affettuosa figlioletta, di Walt, il rozzo fratello artista e benestante. E forse anche di Nora Chiara, l’amante fascinosa e candidamente perversa, di Fred, il padre eternamente perdente, e persino di Leon, il pompiere secondo marito di Agnes. Nel tentativo di venire a patti con se stesso, Charlie scivola disinvoltamente e dolorosamente tra presente e passato, tra un oggi del quale solo eventi traumatici sanno spezzare il monotono flusso, e uno ieri che risale agli anni di Nixon, dei reduci dal Vietnam e del Movement, delle Twin Towers ancora in costruzione, dei primi successi dei Doors e della moda dello Zippo. Ormai prossimo ai quaranta, psichicamente ed emotivamente ingrigito come certi personaggi di T.S. Eliot, e’ costretto ad ammettere che quanto vale per i suoi pazienti vale anche per se’: lui pure ha il problema del «gemello», fratello o doppio che sia. Lui pure ha un Edipo non risolto che gli fa vivere moglie e amante come surrogati materni e anelare alla «casa» come a un ritorno all’utero. E, soprattutto, lui pure vede lo psicanalista come un ficcanaso che vuole aiutare, spesso con disastrose conseguenze, persone che non vogliono essere aiutate ma solo farsi confessare ed essere assolte: un ruolo a mezza via tra il medico e l’amante che offre compassione a chi invece ha urgenza di amore. Non e’ facile d’altronde applicare nei propri confronti regole e metodi usati con gli altri, convincersi che anche la propria esistenza e’ il tentativo di dar corpo a un «modello drammaturgico di vita sociale» e che dunque la propria memoria non e’ un «deposito» di fatti e dati oggettivi bensi’ un «imprinting somatico dinamico», cioe’ una falsificazione e una reinvenzione delle esperienze passate. La psicanalisi, insomma, sembra essere un modo di apprendere piu’ che di insegnare. E Charlie dovra’ rendersi conto che certe scelte finali dei suoi pazienti – magari spararsi in bocca o buttarsi dal cornicione di un edificio – potrebbero essere anche le sue. Ma la chiusa del romanzo – con il colpo di scena d’obbligo, peraltro lievemente forzato e smorzato – lascia scorgere una soluzione pacificatoria, in linea con l’andamento cullante e pacatamente attutito di tutto il romanzo.

Ruggero Bianchi

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Come pagina bianca di Pasquale Esposito, Aletti, pag. 104, euro 14

In un mondo dove il normale altro non è che il valore che ognuno vuole dare a questo termine, i ruoli sembrano ribaltarsi. Chi è sano è il vero malato, e viceversa. Resta sospeso nell’aria questo dubbio, aleggia furtivo tra le parole del protagonista, internato in un manicomio con la sola “colpa”- se di colpa si possa parlare – di non essersi omologato al mondo, alle convenzioni, alle abitudini che negli altri determinano la normalità. Nessun riferimento a date, a luoghi che non siano la stanza da cui il protagonista scrive le sue lettere, il romanzo resta volutamente su un piano astratto, quello di uno spazio e di un tempo da immaginare liberamente. L’uomo, nella sua esistenza in solitudine, non può far altro che affidarsi alla penna, immaginando un amore ideale a cui scrivere, come a raccogliere i pensieri, concentrarli e fissarli per evitare – questa volta davvero – di impazzire, di restare “come pagina bianca”. Inespressiva e inascoltata. Inquietante la lucidità di pensiero del protagonista, azzeccata l’idea di non usare nomi se non uno, che comunque non è reale, quello di Girolamo, l’unico personaggio che infine sembra comprenderlo senza parole e senza giudizio.

Le lettere sono il contorno, la cornice perfetta di quelle piccole perle in versi che Pasquale Esposito incastona. Tra le rime c’è tutto quello che in altro modo è difficile spiegare e comprendere. Un caleidoscopio emotivo in cui prosa e poesia si alternano e si integrano. E se anche il protagonista dichiara fin dall’inizio di non essere avvezzo all’uso delle parole, mirabilmente le giostra, le plasma, in un linguaggio dal sapore vagamente retrò. Di certo non c’è ansia nel libro, tutto scorre come acqua sotto i ponti, e il lettore intuisce che di sorprese non deve aspettarsene. E’ la vita, quella vita, che va come deve.

Silvia Leonardi

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