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mercoledì, 8 aprile 2009

L’ITALIA IRRAZIONALPOPOLARE. Luca Mastrantonio, Francesco Bonami

Tempo fa Enrico Manca, nel ruolo di Presidente della Rai, marchiò Pippo Baudo con l’epiteto di nazionalpopolare.
Luca Mastrantonio (scrittore e responsabile delle pagine cultura e spettacoli del «Riformista») e Francesco Bonami (curatore internazionale di arte contemporanea, direttore della Biennale di Venezia nel 2003, critico d’arte) sono andati oltre coniando un neologismo poi sfociato nella scrittura di un saggio a quattro mani edito da Einaudi: Irrazionalpopolare (pag. 288, euro 17,50).
Il riferimento è a tutti quei casi in cui il successo di qualcuno o di qualcosa non è spiegabile razionalmente. Sul libro aleggia questa frase: “Siamo una quasi nazione che vive una perenne condizione irrazionalpopolare. Dove l’apocalisse è sempre presente e la verità è un’altra versione dei fatti”.
Un libro pungente, critico, a tratti sferzante dove non manca l’elenco dei personaggi (ma anche degli oggetti) che – a detta degli autori – hanno beneficiato di un successo inspiegabile o ingiustificato. Dunque, irrazionalpopolare.
Come si evince dal libro, nell’irrazionalpopolare è bello ciò che piace senza un motivo. Anzi, è proprio la mancanza apparente di un motivo a rendere qualcosa incredibilmente piú bella.
Gli autori colgono l’occasione per raccontare un’Italia in crisi dove la tecnologia è la nuova teologia, le città sono centri di ragionata follia e quelli commerciali un reality urbanistico. Una “società dello spettacolo” dove c’è informazione piú che formazione, situazione e non circostanza, divertimento piú che intendimento, de-costruzione e non invenzione (le frasi in corsivo sono tratte dalla scheda del libro).
Ce ne parla più in dettaglio Francesca Giulia Marone (che mi aiuterà ad animare e coordinare il post) nell’articolo che segue.
A me interessera tentare di scoprire con voi – e con il supporto degli autori del volume – i meccanismi (arcani?) che portano alla irrazionalpopolarità… magari prendendo spunto per tentare di capire – ancora una volta – l’Italia di oggi e confrontarla con quella del passato.
Per favorire la discussione pongo qualche domanda:
- Convenite sull’esistenza di fenomeni… irrazionalpopolari nella società italiana?
- A vostro avviso questi fenomeni riguardano solo (o principalmente) l’Italia, o sono generalizzati?
- Secondo voi cosa è “irrazionalpopolare”?

(Potremmo tentare di fare un elenco degli oggetti più irrazionalpopolari)
- Quali meccanismi nascosti decretano l’immagine del successo agli occhi della massa?
- Siamo sicuri che l’Italia di oggi sia più irrazionalpopolare e meno nazionalpopolare di quella di ieri?

A voi la parola.
Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in PERPLESSITA', POLEMICHE, PETTEGOLEZZI E BURLE, SEGNALAZIONI E RECENSIONI   148 commenti »

lunedì, 9 marzo 2009

UN ANGELO CLANDESTINO

mano-tesa.JPGNon sempre capita di avere intuizioni giuste. A volte accade.
Accadde quella volta che, parlando con Simona Lo Iacono – scrittrice e magistrato – le accennai alla possibilità di elaborare una nuova poetica capace di unire letteratura e diritto, parola e processo. Leggendo le sue pagine ebbi la chiara percezione che quelle due identità di giurista e amante della letteratura potessero confluire dando vita a una voce ulteriore. Così mi venne in mente la frase: letteratura è diritto, letteratura è vita. Le proposi uno spazio, su questo blog, utilizzando quella frase come titolo. Accettò con entusiasmo.
Con altrettanto entusiasmo introduco la nuova puntata di questa rubrica a metà tra diritto e letteratura. Il tema trattato è attualissimo. Parliamo di clandestini.
Simona Lo Iacono ci racconterà, da par suo, una storia nata in un’aula del tribunale che dirige. Una storia che ha come protagonisti un ragazzo – un clandestino – e il potere taumaturgico della parola. Il ragazzo si chiamerà Angelo, anche se non è il suo vero nome. Un nome fittizio, ma evocativo, che forse sarebbe giusto tributare anche all’avvocato che ha seguito questo caso a titolo gratuito (e che parteciperà alla discussione con un nome altrettanto inventato).
La storia di Angelo è una storia forte, dura. Vedrete.
Ma vorrei andare oltre…
Vorrei tentare di moltiplicare le voci, alternare i punti di vista, mischiare storie vere a storie letterarie. Perché letteratura è diritto, letteratura è vita.
E allora mi viene in mente che la storia di Angelo è la storia di un senzaterra. Chi è più senzaterra di un clandestino? Un clandestino fugge dalla propria terra d’origine, dunque la perde; mette piede in una terra che non può accoglierlo in maniera regolare, dunque non la trova. Un clandestino è doppiamente senzaterra. Ha perso la terra in cui ha aperto gli occhi, non trova quella in cui li ha posati.
Senzaterra è anche il titolo di un romanzo di Evelina Santangelo: scrittrice, traduttrice ed editor della Einaudi. Questo di Evelina è “un libro durissimo sul nostro Sud e su tutti i Sud: una storia di spaesati in cerca di una terra” che racconta – tra le altre cose – le vicende di clandestini che arrivano su barconi, si disperdono nelle campagne, si acconciano a lavorare per una mancia di euro nelle serre che, come «un mare finto», dilagano nel paesaggio. Così è stato anche per Alì, un nordafricano che, espulso dalla propria terra, ha scelto la clandestinità e l’anonimato di quei tunnel di plastica. E proprio in un’azienda che produce ortaggi in serra s’incrociano i destini di Gaetano (un ragazzo di un remoto paese della Sicilia) e Alì. Una serra gestita da un boss della zone, don Michele, che apprezza i «bravi lavoratori» che non «parrano ammatula», che sanno cioè tenere la bocca chiusa. Le due vicende umane, quella di Alì e quella di Gaetano, finiscono così quasi per sovrapporsi, diventare una lo specchio dell’altra. Alì è un «senzaterra», in balìa del suo destino d’immigrato. Gaetano è uno che crede di averla, una terra, solo che, a poco a poco, sarà costretto a vedersela sfarinare sotto i piedi.
Ho invitato Evelina Santangelo a partecipare al dibattito per raccontarci la storia di questo suo libro, confrontarla con quella di Angelo e interagire con Simona e l’avvocato che tutela il ragazzo.
Un’altra voce di questo post sarà quella di Christiana de Caldas Brito, psicoterapeuta e scrittrice nata a Rio de Janeiro, ma che oggi vive e lavora a Roma. Ha iniziato a scrivere in Italia grazie al Concorso Eks&Tra. In antologie e on line ha pubblicato racconti e saggi. Da due anni svolge insieme a Livia Bazu, il laboratorio di scrittura con partecipanti italiani, romeni e francesi all’interno del progetto Grundtvig European Programme – Arte Terapia Sociale.
Queste voci, naturalmente, si mischieranno alle vostre. Il tema – dicevo – è quello della clandestinità e del potere della parola.
La parola è diritto, la parola è vita.
Di seguito potrete leggere il bel racconto di Simona Lo Iacono.

Massimo Maugeri

—-

LO CHIAMERÒ ANGELO
di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGLo chiamerò Angelo.
Gli darò un nome di ali e di cielo.
Ma è l’unica cosa che gli presterò. I suoi occhi rimarranno quelli con cui mi guardò quel giorno: acquosi. Sgranati come acini pesti. Le sue mani scure. Più bianche nei palmi. Addomesticate a trattenersi.
I denti perfettamente allineati sulle gengive nere. Sul sorriso perplesso.
Le parole a sillabe e a tratti. Poi un fiume. Come inabissate e affiorate da una feritoia imprevista. Balzate da un’ impensabile via.
Il giorno in cui conobbi Angelo l’udienza fermentava di voci. Sudore. Avvocati annoiati. Testi reticenti.
Era una di quelle giornate in cui giudicare stanca. L’umanità stanca. L’errore, la falla, la sentenza o l’ordinanza sembrano niente più che una firma, svolazzata su una scartoffia annerita. Polverosa. Senza emozione.
Il cancelliere non mi annunciò Angelo. Mi disse solo: dottoressa, quel ricorso.
Quale ricorso?
Quello del clandestino.
Ah, lo faccia entrare. E chiuda la porta. (continua…)

Pubblicato in LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono)   145 commenti »

mercoledì, 25 febbraio 2009

NEW ITALIAN EPIC. Incontro con Wu Ming 1

Avete mai sentito parlare di New Italian Epic? Si tratta di un «memorandum» di teoria letteraria pubblicato on-line, e scaricato da piú di trentamila persone, poi diventato libro per i tipi di Einaudi Stile Libero. Il volume è firmato dai Wu Ming.
In queste settimane si è sviluppato un dibattito molto acceso, prima sul web e poi sulle pagine dei quotidiani. Secondo i Wu Ming, negli ultimi anni, molti romanzi italiani si sono attratti e incontrati fino a formare una vasta nebulosa, una sorta di “campo elettrostatico” letterario
La prima domanda che viene spontaneo porsi è: ma esiste davvero una “nuova epica italiana”? Sulle pagine de Il Riformista Luca Mastrantonio scrive: “No. Perché “nulla è nuovo sotto il sole”, come sta scritto nell’Ecclesiaste”; per poi aggiungere: “Sì. Se ammettiamo che qualcuno l’ha scritta per la prima volta quella frase, come ricordava Szymborska nel discorso per il Nobel”. Mastrantonio sviluppa un ragionamento molto interessante senza risparmiare critiche motivate al lavoro dei Wu Ming (vi invito a leggere il pezzo cliccando sul link indicato sopra, o qui… in coda al post).
Di seguito, invece, potete leggere un’intervista (inedita) che mi ha rilasciato Wu Ming I. La speranza è che da questa intervista, e dal pezzo di Mastrantonio, possano sorgere un’occasione di confronto e un dibattito… sereni (niente risse, please!).
Intanto vi chiedo… a vostro avviso, esiste una nuova nebulosa letteraria italiana (nel senso inteso dai Wu Ming)?

Wu Ming I parteciperà alla discussione per rispondere a vostre eventuali domande o considerazioni.

Massimo Maugeri
(continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI   317 commenti »

lunedì, 8 settembre 2008

IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI CESARE PAVESE

Il 9 settembre decorre il centenario della nascita di Cesare Pavese. Mi piace ricordarlo qui, sulle pagine di questo blog, proponendovi gli interventi di Raffaele Manica e Raffaele La Capria – pubblicati sulla pagina cultura del quotidiano Il Mattino del 7 settembre – e quello di Raffaele Liucci – pubblicato sul Domenicale de Il Sole 24Ore del 31 agosto.
(Questo post potrebbe anche intitolarsi: “un triplo Raffaele per Pavese”).
Vi invito a leggere i suddetti interventi e a dire la vostra per ricordare la figura di questo grande intellettuale: scrittore, poeta, traduttore, editore (per Einaudi).
E a proposito del rapporto di collaborazione di Pavese con la Einaudi, vi segnalo l’uscita di un’antologia delle sue «lettere editoriali» fra il 1940 e il 1950 (Officina Einaudi, a cura di Silvia Savioli, con introduzione di Franco Contorbia, pp. 433, euro 22). Il libro è stato presentato domenica a Santo Stefano Belbo in un convegno organizzato dal premio Grinzane Cavour. Su Tuttolibri di sabato, per gentile concessione di Einaudi e degli eredi, sono stati anticipati alcuni brani tratti dalle lettere.
Riporto qui questo stralcio di lettera (“Meno imprese sceme”) che Pavese scrisse a Giulio Einaudi, da Roma, il 28 febbraio 1946

Caro Giulio,
sono costretto a ricordarti che la repubblica sociale di Mussolini cominciò a perdere veramente il credito e a essere condannata da tutti i benpensanti il giorno che i suoi impiegati non ricevettero più regolarmente gli stipendi, e un po’ alla volta li si ridusse a contentarsi di acconti. Per una volta passi, ma quando di mese in mese lo stesso fatto tornò a ripetersi, allora fu finita. Devo dirti che dal mese di ottobre u.s. io non ho più ricevuto regolarmente tutto in una volta lo stipendio; e passi. Ora mi accorgo che la stessa cosa si minaccia agli altri impiegati, specialmente quelli d’ordine, e allora dico basta, per me e per tutti. (…)
Se i soldi non ci sono, si facciano meno imprese sceme – si spediscano meno lampi; si aboliscano sedi – ma insomma si provveda. E soprattutto smettetela coi giornali che in altri tempi servivano a mandarci in prigione, e adesso tutt’al più a mandarci in fallimento. Ho pazientato tutto l’inverno perché la situazione era tale che nessuno pareva averci colpa; ora le cose cambiano. Se come primo risultato della tua politica di risanamento e ripresa, gli impiegati romani – compreso io – devono rimandare a domani il pranzo e la cena, allora ti consiglio di cambiare mestiere e lasciare il campo a gente dalla testa sul collo.(…)
Pavese

E ora, vi invito a dire la vostra.
Massimo Maugeri (continua…)

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, OMAGGI, RICORRENZE, ANNIVERSARI E CELEBRAZIONI   118 commenti »

lunedì, 4 agosto 2008

IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI ELIO VITTORINI

elio-vittorini-ritratto.JPGCent’anni fa – per esattezza il 23 luglio 1908 – nasceva Elio Vittorini.
Dedichiamo uno spazio (e un dibattito) a questo grande intellettuale e scrittore siracusano.
Di seguito avrete la possibilità di leggere quattro interventi.
Il primo è firmato da Ernesto Ferrero ed è stato pubblicato su Tuttolibri del 26 luglio.
Gli altri sono stati realizzati, dietro mia richiesta, dagli amici scrittori siracusani che frequentano questo blog: Maria Lucia Riccioli, Salvo Zappulla, Simona Lo Iacono (Maria Lucia, Salvo e Simona mi daranno una mano per moderare e animare il post).

Vi pongo alcune domande, estrapolate dagli articoli che leggerete di seguito.
Le prime sono di Ferrero (pensate con riferimento a Vittorini):
Chi è, cosa deve fare uno scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società? Cosa può fare per la collettività?
E poi (pescando dal pezzo della Riccioli)…
Cosa rimane di Elio Vittorini?
Quali sono stati i frutti della sua opera? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?

Insomma… Vittorini.
Un’occasione per ricordarlo. E per parlarne.
Massimo Maugeri

————–

Il centenario della nascita di Elio Vittorini
di Ernesto Ferrero (da Tuttolibri del 26 luglio 2008)

Non c’era davvero miglior modo di ricordare il centenario della nascita di Elio Vittorini (23 luglio 1908) che evitare la melassa buonista di simili occasioni e stare ai testi: come questo secondo e ultimo tomo che raccoglie i suoi articoli e interventi 1938-1965 (il primo copriva gli anni 1926-37, in cui ebbe tanta parte il soggiorno a Firenze e la furiosa attività traduttoria).
Sono oltre mille pagine, curate come meglio non si potrebbe da Raffaella Rodondi, degna allieva di Dante Isella. Dico subito che le sue note sono così approfondite ed esaustive che chi vuole occuparsi della cultura italiana del periodo dovrà passare di lì. Vi troverà una miniera di notizie e documenti.
Lo si frequenta poco, Vittorini, a parte Conversazione in Sicilia, che tiene ancora benissimo.
Da tempo è sparita dal nostro orizzonte la sua fervida progettualità utopistica a 360 gradi. Non parliamo poi della sua pretesa di concorrere attraverso la letteratura a una rigenerazione collettiva, addirittura alla nascita di un uomo nuovo. La tensione appassionata e sciamanica con
cui il Gran Siracusano insegue il moderno, inventandoselo anche quando non se ne vedono tracce, ripercorsa adesso risulta commovente.
Uscito da un arcaico mondo contadino, lo conosce troppo bene per abbandonarsi a idilli e nostalgie, che anzi non si stanca di deprecare. Gli interessa l’incontro-scontro con le metropoli, con l’industria, il nuovo mondo che dovrebbe nascere da una sorta di palingenesi collettiva. Ha la bulimia del futuro prossimo. Se le domande sono sempre le stesse (chi è, cosa deve fare uno
scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società, cosa può fare per la collettività?), ricorrenti sono anche le risposte, pur nel variare di quell’«irta vegetazione di metafore» di cui parla Italo Calvino (ma forse più avvolgente che irta): scoprire qualcosa che ancora non si conosce, aggiungere qualcosa di nuovo all’umana coscienza, fuori dai lacci delle ideologie e dei concetti astratti. Certo non «suonare il piffero per la rivoluzione», come scrisse a Togliatti nel corso della famosa polemica su «Politecnico». Vittorini sognava una letteratura che sapesse interagire al livello più alto con tutte le attività umane, che ne fosse il lievito, lo stimolo permanente.
Era (dice ancora Calvino) totalmente immune dalla negatività esistenziale, dalle voluttà del nichilismo, dalle scissioni dell’Io che connotano il Novecento degli sconfitti contenti di esserlo. Anteponeva l’urgenza di un rinnovamento vero alla sua stessa creatività personale, esempio unico di disinteresse.
Nel volume c’è di tutto: saggi, articoli di varia occasione, recensioni, i risvolti per i «Gettoni» einaudiani (sempre imprevedibili, spesso a contropelo), schede di lettura, interviste autobiografiche (tenerissime), risposte a inchieste e dibattiti, elzeviri, corsivi, scritti sull’arte (Dosso Dossi ma anche Cassinari e Guttuso), dibatti sul fumetto (con Eco), abbozzi di storie letterarie, lucidi ripensamenti dei propri libri, ma si possono comunque identificare alcuni nuclei forti. Il gran lavoro sugli americani, anche in vista dell’antologia poi pubblicata da Bompiani (Saroyan, James Cain, Caldwell, Faulkner, Steinbeck, Wright, John Fante); gli interventi febbrili su Politecnico (1945-47), poi sul Menabò (1959-65), principalmente centrati sul solito dolente nodo dei rapporti tra cultura e politica e sull’impegno.
Non c’è campo in cui l’autodidatta non scateni le sue curiosità, creando collegamenti fulminei,
sorprendendo il lettore laddove meno se lo aspetta.
Parla schietto, trasferendo nello scritto la vivacità orale. Gran comunicatore, incantatore nato,
immune da rigidezze accademiche e specialistiche, mercuriale sempre. Così pronto ad ammettere i propri errori che anche un nemico non può che rassegnarsi ad amarlo. Dichiara
odi e amori con il candore degli innocenti. Dice (negli Anni 30) di detestare Voltaire e Balzac,
Kipling, Rilke e Kafka, D’Annunzio e Dostoevskij e idolatra Hemingway al di là del ragionevole,
ma è capace di mandare a Montale, dalle colonne di un periodico giovanile, un saluto di ringraziamento per le Occasioni appena uscite («il fatto più importante, oltreché il più felice, dei nostri ultimi mesi di storia umana»).
Perché nel cuore di Vittorini, felice perché sempre in movimento, lanciato verso il prossimo
ostacolo, non c’è la letteratura, c’è l’uomo. La letteratura è uno strumento da usare bene, come tanti altri. Per questo si sdegna perché nel primo governo repubblicano non è stata chiamata una sola donna, nemmeno come sottosegretario.
Ripete che il più umile dei problemi di una città ha un significato per la cultura in assoluto. Richiesto di autodefinirsi, si iscrive nella categoria dei «poeti civili», lui che non ha scritto un verso. E nel 1964 arriva a dire che la letteratura è ormai destituita d’importanza, si è fatta semplice mediatrice di cose scoperte da altri.
Che la nostra fantasia è vecchia, governata da una concezione del mondo che risale a Tolomeo. Negli ultimi anni, per coerenza, si butta a leggere di scienza, matematica, biologia,
astrofisica. Dice che bisogna continuare a scrivere senza la presunzione di credere che sia importante.
Come sarebbe bello che il calore delle indomite passioni di questo «indiano delle riserve» (come si definiva autoironicamente, ma senza indietreggiare di un pollice) arrivasse fino a noi, al nostro deserto di cenere governato dal marketing.

————–

Cosa rimane di Vittorini?
di Maria Lucia Riccioli

maria_lucia-riccioli.JPG23 luglio 1908 – 23 luglio 2008.
Vittorini cent’anni dopo la sua nascita.
Cosa rimane di uno scrittore? Ce lo chiediamo spesso, in particolare quando si verificano ricorrenze come quelle dei cinquantenari o in questo caso dei centenari.
La figura e l’opera di Vittorini sono state fondamentali per la cultura italiana tra le due guerre e oltre. Ma quali ne sono stati i frutti? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
Siracusa dedica da anni un premio letterario ad Elio Vittorini e quest’anno è stata curata la pubblicazione di un volumetto che raccoglie estratti dalle sue opere più note, dei disegni realizzati da Guttuso per un’edizione di “Conversazione in Sicilia” che però vide la luce solo nel 1986. Speriamo che si realizzi il sogno di Siracusa di fare di più – magari una casa museo, una biblioteca – per onorarlo degnamente.
La Sicilia è stata sempre mater poco materna con i suoi figli più illustri e con Vittorini non ha fatto eccezione. Il figlio del ferroviere, cognato di Salvatore Quasimodo, che vide la luce nell’isola di Ortigia, alla Mastrarua, poi Via Vittorio Veneto, dopo i primi studi, il formarsi di una precoce coscienza politica e le febbrili entusiastiche letture, ha fatto la sua fortuna “in continente”.
Cosa resta, dicevamo, di Vittorini? Le istanze della denuncia civile? L’ideale riscatto degli umiliati e offesi? Vittorini patì anche l’ottusità ideologica degli stessi compagni di partito (Togliatti e il suo becero “Vittorini se n’è gliuto e soli ci ha lasciato”), oltre alla sostanziale incomprensione e indifferenza dei conterranei.
La sprovincializzazione della nostra letteratura? Grazie all’antologia “Americana”, grazie ad uno stile che risente della lezione degli autori statunitensi. L’esperienza neoilluministica de “Il Politecnico” fu fondamentale, come la sua opera di “talent scout”.
Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?
Certo rimane memorabile il lirismo dell’incipit di “Conversazione in Sicilia”:

Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica che ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, i qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero a capo chino.vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo.
Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.

Rimangono la passione per i libri e la letteratura, scoperta e passione giovanile:

È una fortuna aver letto quando si era ragazzi. È doppia fortuna aver letto libri di vecchi tempi e vecchi paesi, libri di storia, libri di viaggi e le Mille e una notte in special modo. Uno può ricordare anche quello che ha letto come se lo avesse in qualche modo vissuto, e uno ha la storia degli uomini e tutto il mondo in sé, con la propria infanzia.

Vorrei che iniziassimo un dibattito innescato dalle mie domande e da quelle che ci verranno in mente. Sono onorata di scrivere su Vittorini per orgoglio di comune siracusanità e spero che i miei concittadini prima o poi si sveglino dall’apatica quiete della non speranza.

————–

Vittorini editore e il suo rapporto con il cinema
di Salvo Zappulla

salvo_zappulla.JPGVittorini è stato uno degli intellettuali più poliedrici del ventesimo secolo, autodidatta, letterato per vocazione, aveva una visione pessimistica della vita, una costante tristezza che esprimeva attraverso la scrittura. E’ stato sempre dalla parte degli ultimi, i lavoratori, gli oppressi. Loro sapevano che di lui potevano fidarsi, e lo amavano. Si definiva un solariano e questo termine ne racchiude altri che intendono antifascista, europeista, antitradizionalista. In poche parole: illuminista. Se consideriamo che egli dichiarava con forza le proprie idee, in un momento storico in cui un sistema autarchico consigliava una certa “prudenza”, ci possiamo rendere conto della grandezza di quest’uomo. E’ nota la sua collaborazione con la Einaudi per la quale curò la collana I gettoni che servì a lanciare autori come Calvino, Fenoglio, Romano, Rigoni Stern, Ottieri, Testori, Bonaviri ed altri. Altrettanto famoso – una macchia sulla sua coscienza di intellettuale – fu il suo rifiuto al romanzo di Tomasi di Lampedusa. Va precisato però che il romanzo subì prima un rifiuto da parte della Mondadori alla quale Tomasi di Lampedusa aveva inviato quattro capitoli tramite il cugino Lucio Piccolo. Il testo letto dai redattori (Ricci, Antonielli e Romanò) pur non ricevendo un giudizio del tutto negativo, non fu ritenuto idoneo alla pubblicazione. Vittorini in quel caso si limitò a dare il suo parere conclusivo senza leggere il dattiloscritto personalmente. Successivamente egli ricevette ancora parte del dattiloscritto affinché il romanzo venisse pubblicato su I gettoni, ma lo ritenne lontano per la sua idea della collana in quanto Il Gattopardo, emblema dell’inettitudine sociale e politica della nobiltà siciliana, era un tema ritenuto da lui piuttosto stantìo. Come sappiamo il romanzo verrà pubblicato da Feltrinelli nel 1958 a cura di Giorgio Bassani. Forse il suo rapporto con il cinema è il meno conosciuto rispetto alle molteplici attività di intellettuale. Alla fine degli anni Trenta non esisteva in Italia una vera e propria critica cinematografica e Solaria fu una delle prime riviste a dare ampio spazio a questo settore. Gli anni fiorentini (1930-1938) sono quelli in cui Elio Vittorini si avvicina alla critica cinematografica, anche se costituisce sempre un’attività marginale rispetto alla sua corposa produzione letteraria. Sono anni di difficoltà economica per la famiglia Vittorini, ed egli si presta persino a interpretare una parte nel film Romeo e Giulietta di Castellani. L’attività dello scrittore è frenetica ma l’impegno dedicato al cinema è autentico ed estremamente competente. Egli afferma: “L’essenza artistica del cinematografo è nel movimento”. E ad esso occorre, se necessario, sacrificare le bellezze accessorie. Quando si riferisce al movimento, di successioni, di immagini, di ritmo, si riferisce al montaggio così come è inteso dai grandi maestri dell’avanguardia russa. Aveva una grande passione per Charlie Chaplin, la cui arte – a suo parere – apparteneva alla storia. Era tale la stima per il grande comico, che nel numero 10 del Politecnico gli dedica un articolo, anche se non firmato, ma la cui impronta stilistica è inconfondibilmente sua. Vittorini attribuiva al cinema un ruolo fondamentale per l’educazione del popolo italiano e già, sempre nel Politecnico, secondo numero, pubblica un breve articolo dal titolo ”Il cinematografo dell’avvenire”, a cui fa seguito nel numero successivo un altro scritto a firma di Carlo Luzzari. Il cinema come specchio dei tempi e dei problemi sociali. Tutta l’attività di Vittorini si sviluppa all’insegna dell’impegno civile e ideologico, un neorealismo che non va inteso nel suo senso più ristretto ma che lascia spazio alla poesia, al lirismo, permeato da grande valenza etica. Sicuramente ha lasciato un segno tangibile sulla storia degli uomini.

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Vittorini e l’Isola
di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGSi dice che l’uomo sia una scaglia di terra. Che sia nato da fango misto a saliva. Si dice che è questo a suggerirgli i passi. Che è la forma di quella terra a dar corpo al suo corpo. Parola alla sua parola. Sguardo al suo sguardo.
Si dice.
Ma non si dice soltanto.
Si sente.
Si sente se è grumo di montagna, goccia di lago, o sale di mare.
Si sente se è uomo di isola o di continente.
Ecco. Elio Vittorini fu uomo di isola. E lo fu due volte.
Perché non fu solo siciliano. Ma Siracusano. E di quella parte di Siracusa che è isola dell’isola: Ortigia.
Il nome pare venga da “quaglia”, perché Ortigia è un isolotto arpionato alla città e che dall’alto richiama la fisionomia di questo uccello.
Ma io che ci abito, io che ne respiro l’accroccato divincolarsi tra strade dai nomi ebrei, arabi, greci, io che saluto lo scudo della dea Atena che svetta dal Duomo sol che apra le mie finestre – io so che Ortigia non è nome di quaglia.
E che – anzi – non è neanche nome.
Piuttosto modalità dell’essere. Del vivere.
Del morire.
Tanto che non se ne può prescindere per comprendere l’opera di Vittorini. Né si può ignorare il suo essere contemporaneamente dentro la Sicilia e fuori di essa, quasi su un battello pencolante, che con uno sboffo di corrente potrebbe mollare gli ormeggi.
Doppia isola, dunque. E doppia solitudine. Doppio errare.
Doppio esilio.
Perché l’isolano è esule. E’ straniero.
Ma l’isolano che dall’isola passa ad un’altra isola è quasi un pellegrino di mare. Un eterno viandante. Un Ulisse meno precario che deve fare i conti con una stabilità sempre da rincorrere.
A tal punto scava in noi, la forma della terra.
A tal punto un duplice rimando ci costringe ad allungare lo sguardo – avanti e ancora avanti – a tal punto ci impone di sognare due volte.
E poi, allontanarsi due volte. Tornare due volte. Intascarsi non una, ma due manciate di nostalgia.
Credo che in questa somma di ostacoli sia da cercare anche il senso del viaggio. Della navigata che in “Conversazione in Sicilia” non solca solo lo stretto di Messina, non Scilla e Cariddi, non una fetta di mare.
Ma un portale. Un ingresso in una dimensione e poi in un’altra. Un varco tagliato da uno Stige.
Quando questo confine viene oltrepassato la memoria di ciò che ci precede vacilla. Perché rientrando in Sicilia e poi ancora in Ortigia, il passo si abitua all’ondeggio del mare.
Lo vedi che ti assale ovunque, se vai avanti, se guardi indietro, se torni a casa.
Ovunque, ovunque. L’acqua a frastagliarti addosso come un dolore. Di non poter che essere questo. Questo oscillare e questo complicato rientro che non si accontenta di compiersi come per gli altri.
Che per te si raddoppierà sempre.
A tal punto scava in noi, la forma della terra.

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, LETTERATURA È DIRITTO... È VITA (a cura di Simona Lo Iacono), OMAGGI, RICORRENZE, ANNIVERSARI E CELEBRAZIONI   132 commenti »

giovedì, 31 luglio 2008

IL CASO FIRMINO

Credo che Firmino si sia conquistato, in breve, il titolo di topo più celebre delle nostre librerie. Un topo da biblioteca? Senza dubbio. Ma anche un topo capace di far tanti bei quattrini, dato che il romanzo omonimo – di Sam Savage - (“Firmino”, Einaudi, 2008, euro 14, pag. 179), staziona da parecchio tempo ai vertici delle classifiche dei libri più venduti. Un libro che ha fatto discutere anche per via dell’ipotesi di plagio (dettagli qui).
Ma in questa sede mi interessa occuparmi principalmente del fenomeno editoriale.
Perché Firmino ha avuto (e sta avendo) un così grande successo?
Ho affidato la lettura del romanzo alla scrittrice Tea Ranno, che lo ha recensito per Letteratitudine (Tea mi darà una mano a moderare questo post).
Leggete qui sotto…
Poi potrete dire la vostra.
Nel contempo vi invito a partecipare a un gioco legato al libro.
Bisognerebbe rispondere a due semplici domande.
1. Se doveste “divorare” un libro – al punto da riuscire a metabolizzarlo – quale scegliereste? (Non dev’essere il vostro libro preferito, ma quello più utile per voi).
2. Nel destino di quale personaggio letterario potreste riconoscervi?
A voi.

Massimo Maugeri

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IL SAPORE DELLE PAGINE
di Tea Ranno (nella foto)

tea-ranno.jpg“Io sono stato sgravato, deposto e allattato sulla carcassa defoliata del capolavoro più non-letto del mondo” (Finnegans Wake di Joyce).
Oppure:
“Avevo sempre immaginato che la storia della mia vita, se un giorno l’avessi scritta, sarebbe cominciata con un capoverso memorabile: lirico come “Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi” di Nabokov o, se non altro, di grande respiro come il tolstojano: “Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.
Oppure:
“I miei affari erano i libri: consumo e scambio”.
L’autore di queste affermazioni? Firmino, soggetto partorito da una grassa ragazza di malaffare che frequenta luoghi di malaffare, si ubriaca, scappa da marinai che la rincorrono, va a sbattere per un calcio sulle costole contro una parete e si salva da morte sicura come in genere ci si salva in queste situazioni. Come? “Per puro miracolo” suggerisce il narratore. Così, per puro miracolo, la grassa Flo, all’interno della quale si agitano molte cose (ben tredici), riesce a trovare un buco che le salva la vita. E lo trova proprio qualche istante prima che nel suo corpo le “cose” decidano di ubbidire al destino mettendo in atto un Felice Evento. C’è giusto il tempo di sbrindellare un grande libro, farne una conca, accucciarvisi sopra.
Perché proprio un libro? Perché Flo, scappando, ha trovato rifugio in un seminterrato che conserva, come un mausoleo, migliaia di volumi.
Che la grassa Flo sia una pantegana, sarà svelato dopo. Che Firmino (Fur-man, uomo-pelo) sia un ratto (ma davvero poi lo sarà?) lo capiremo più tardi. All’inizio c’è una nidiata di tredici bocche per dodici capezzoli. E dodici di quelle bocche sono talmente voraci e agguerrite da mettere fuori gioco la tredicesima, che riuscirà a lappare poche gocce residue di latte solo quando le altre saranno troppo sbronze (il tasso del latte è altamente alcolico) per succhiare ancora.
Ma la fame è fame, e quando si ha fame si è disposti a mangiare di tutto, perché il fatto stesso di masticare e inghiottire, se non nutre il corpo quantomeno alimenta i sogni. Così Firmino comincia a nutrirsi dei brandelli di carta su cui è ruzzolato fuori dal corpo di sua madre. Li mastica, li appallottola contro il palato, li ingoia: un piacere che diventa abitudine, poi dipendenza, poi fame insaziabile. All’inizio si avventa su qualunque pagina gli venga sottomano: un boccone di Faulkner è come un boccone di Flaubert; ben presto, però, s’accorge che ogni libro ha un sapore diverso, che ogni frase suscita nella mente “un insieme di immagini e rappresentazioni di cose” a lui sconosciute a causa della sua limitata esperienza del mondo reale. Così smette di mangiare e comincia a leggere. E, leggendo, intraprende il viaggio dentro la vita raccontata nei romanzi. Perché le vite degli uomini – e dei ratti – nei romanzi hanno sempre un Destino, acquistano cioè un fine, una dignità e un senso. Anche le più balorde. E siccome Firmino aspira ad avere un Destino ecco che comincia a cercarlo nei libri, viaggiando nello spazio e nel tempo.
Il suo approccio con l’esterno è minimo: brevi escursioni fuori dalla tana per arraffare cibo, notti – e talvolta giorni – trascorsi dentro la sala d’un cinema che trasmette western, film di gangster e musical (Fred Astaire diventerà il suo modello e Ginger Rogers una Bellezza che lo infiammerà di desiderio struggente). Un approccio minimo e tuttavia tale da permettergli una conoscenza profonda di quello che accade fuori dal suo universo.
Con un tono ironico, un linguaggio privo di compiacimento, una malinconia subito rintuzzata dalla punta aspra del disincanto, Firmino scrive il romanzo della sua vita partendo da un incipit che avrebbe volto memorabile e che memorabile proprio non gli sembra, anche se poi, a chi legge, quell’incipit resta nella mente perché esprime perfettamente l’aspirazione alla grandezza e la sua concreta negazione. La realtà, infatti, è ben diversa dal sogno, e di sogni (quando la pancia è vuota) si può anche morire. Ma se ne vive quando si carpisce dal reale ciò che basta alla sopravvivenza magnificando poi quella sopravvivenza, appunto, con lo sconfinamento nell’irrealtà.
I libri dunque. Per procurarsi un antidoto allo sconforto, confezionarsi un futuro abitato da compagni inusuali che trascinano nell’avventura, schiudono alla sorpresa, parlano d’amore, compiono atti eroici. Personaggi che la fantasia del lettore può svincolare dalle maglie strette di una trama imposta dal narratore e portare altrove, magari regalando un happy end risarcitorio.
Questo romanzo di Sam Savage, nella sua apparente semplicità, mi pare esprima molto bene il senso di “diversità” che caratterizza quanti hanno contratto il vizio di masticare libri e nutrirsi di essi per viaggiare con la mente. Firmino è una metafora del lettore, è stato detto. E’ vero. Ma è anche altro: la voce di uno scrittore che si interroga sui processi della scrittura, sul modo di inoltrarsi dentro una storia (a partire da un ottimo incipit), di scegliere tra le varie possibilità di narrazione l’unica in grado di creare un Destino e rappresentarlo, anche quello di un balordo, o di un Grande che si nasconde sotto le spoglie di un ratto. E di usare la follia come strumento di comprensione della realtà, perché solo il folle possiede l’azzardo necessario per popolare di Eroi lo sgabuzzino in cui abita e rendere in tal modo più sopportabile la vita. Anche se poi la vita tradisce e di essa resta solo una pagina, non più dolce o agrodolce, ma amara, come il rimpianto, come la solitudine e la pazzia.

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giovedì, 17 aprile 2008

NON È UN PAESE PER VECCHI: IL LIBRO, IL FILM

Altre volte abbiamo discusso sul binomio libri-film. Lo abbiamo fatto in maniera approfondita in questo post.


Riprendiamo il discorso per analizzare Non è un paese per vecchi (Einaudi, 2006, euro 17), romanzo di Cormac McCarthy (vincitore del nostro gioco: Letteratitudine book award 2008, con La strada) e film dei fratelli Coen.
Discutiamo sia dell’opera narrativa che di quella cinematografica partendo da due recensioni: la prima, relativa al romanzo, è firmata da Giuseppe Genna (e pubblicata su Carmilla online); la seconda, sul film, proposta da Gabriele Montemagno in esclusiva per Letteratitudine.
Vi invito a dire la vostra: sul libro e sul film.
Poi possiamo discutere sui temi generali connessi alle suddette opere.
Secondo Genna il romanzo di McCarthy è “un attacco formidabile al sistema America, al suo sogno putrefatto, alla sua incapacità di radicarsi storicamente nella sua stessa vicenda”. E aggiunge: “Questo romanzo non è un campanello che squilla: è già la campana a morto di un Paese che, allegorizzato a vent’anni dall’attuale situazione, entra nel ventre molle dell’attualità, e lo squarcia senza remore.”
Secondo Montemagno “si potrebbe pensare che ai Coen non prema tanto mostrare la violenza quanto raccontare un mondo (solo gli Stati Uniti? Solo quelli? O solo la dura legge che vige fra i trafficanti di droga?) in cui l’unico linguaggio appare quello della violenza, in cui è divenuto pienamente consueto e legittimo procurarsi le armi nei negozi, in cui gli uomini sono relegati al rango di animali. Un mondo in cui si preferisce delegare le decisioni al caso o al semplice interesse.”
Vi giro, infine, le domande finali del pezzo di Montemagno:
E’ ormai così pienamente diffuso l’uso della violenza, senza il quale sembra non sia più possibile ripristinare la giustizia? E, comunque, si riesce a ripristinare la giustizia? E’ viva l’importanza attribuita alla vita e alla dignità degli uomini?

E aggiungo queste mie:

Le società di oggi sono più violente di quelle di ieri?

E l’Italia, che è un paese di vecchi… non è un paese per vecchi?
Massimo Maugeri
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Non è un paese per vecchi (il libro) recensione di Giuseppe Genna

A volte gli scrittori hanno problemi – o ne creano ai loro lettori. E’ il secondo caso quello di cui qui si scrive. Sono assolutamente sconcertato dalla inaspettata prova di potenza che Cormac McCarthy, autore della memorabile Trilogia della Frontiera (Meridiano di sangue, Cavalli selvaggi e Città della pianura), offre con questo suo nuovo, chirurgico romanzo, Non è un paese per vecchi. Non è un mondo né per vecchi né per giovani, quello in cui McCarthy ambienta il più classico inseguimento a tre dell’hard-boiled anni Cinquanta, pura occasione narrativa per costruire la premessa maggiore alla conclusione di un sillogismo sorprendente, che ha tappe consimili a un’operazione endoscopica: la spietatezza pura, la spietatezza del tempo in generale e di questo tempo in particolare, e di quest’epoca americana ancor più in particolare.
E ciò nonostante il tutto si svolga agli inizi degli anni Ottanta, fatti i debiti calcoli sull’età del più empatico tra i protagonisti, il trentaseienne Moss, reduce dal Vietnam, di professione saldatore, che sarebbe reduce anche da una sfortunata giornata di caccia all’antilope, se non trovasse, immersi in un silenzio assoluto, alcun SUV con a bordo trafficanti di droga, messicani, morti o quasi. C’è stata una sparatoria. Qualcuno è fuggito coi soldi. Quel qualcuno, Moss, lo ritrova: è morto a poca distanza ed è a lui che l’ormai già ex saldatore strappa di mano una borsa contenente due milioni di dollari. E’ l’inizio di una fuga devastante, che ha per protagonista il vecchio sceriffo Bell insieme a un sicario di professione, l’impronunciabile Chigurh, psicopatico, dotato di un’arma allucinante per potenza e modalità di esplosione dei colpi – un aggeggio ad aria compressa che lo rende estraneo a qualunque contesto narrativo, esattamente come il suo sguardo gelido, descrivendo il quale sembra di avvertire tremare il polso perfino al vecchio cuoiato McCarthy, lo scrittore che, con Ellroy, dispone attualmente dell’immaginario più tenebrosamente implacabile del comparto letterario Usa.
A un ritmo che non è frenetico perché viene calmato dai frequenti dialoghi, spesso monosillabici, ma che rimane velocissimo (esattamente come a uno psicotico si dà il Serenase e questo non muta di una virgola la situazione generale), la fuga si snoda in un on the road cupissimo e al calor bianco, sul confine col Messico: stanze di motel affittate e riguardate come tane di serpenti, auto noleggiate o rubate per viaggi che non sono scorribande ma precisi spostamenti che costruiscono la geometria solida di un inseguimento che non lascia respiro, confronti all’arma non bianca che sono freddissime scene di devastazione organica, un profluvio di sangue congelato dallo stile del geniale autore ritiratosi in Texas. Il corredo c’è tutto. Sarebbe già un gran libro a 2/3, ma a 2/3 il giallo ha la sua soluzione più devastantemente impietosa e lascia aperta una porta che nessuno sarà in grado di chiudere.
E’ a questo punto che McCarthy, improvvisamente, al di fuori di ogni logica canonica, inserisce una sorta di secondo romanzo, che è l’esatto opposto del romanzo di formazione: un romanzo di addio, una narrazione di congedo, la profezia enunciata nel momento in cui si avvera e si consuma. La voce fondamentale è quella del vecchio Bell (ma c’è chi è anche più vecchio di lui, che parla e dice cose pesanti), e non resta che assistere, inebetiti come davanti a un miracolo, a questa anticipazione della disgregazione: personale e civile, sociale e morale. Si cammina sul filo di un rasoio: da una parte c’è il rischio del moralismo reazionario tipico degli Stati del sud, mentre dall’altra parte si rischia l’abisso della verità: si cade da questa parte, credo, si affonda in questo abisso. Il romanzo di McCarthy potrà anche sembrare un atto d’accusa alla modernità in genere, ma è uno specchietto per le allodole: si tratta in realtà di un attacco formidabile al sistema America, al suo sogno putrefatto, alla sua incapacità di radicarsi storicamente nella sua stessa vicenda, come dimostra l’apice poetico del libro, nelle pagine finali: uno scolatoio scalpellato in pietra due secoli prima, che, come scrive McCarthy, poteva durare diecimila anni: ma non durerà tanto.
Occhio raggelante che vede tutto, quello dello scrittore di Non è un paese per vecchi: vede la decadenza americana e la descrive, seppure con brachilogismi magistrali, secondo le metriche delle grandi epopee, quelle che noi europei consideriamo minori, vergate dagli antichi quando gli imperi crollavano. Questo romanzo non è un campanello che squilla: è già la campana a morto di un Paese che, allegorizzato a vent’anni dall’attuale situazione, entra nel ventre molle dell’attualità, e lo squarcia senza remore.

Giuseppe Genna
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Non è un paese per vecchi (il film) recensione di Gabriele Montemagno

Bisogna vedere Non è un paese per vecchi, il nuovo ed ultimo film dei fratelli Coen. Bisogna proprio vederlo. Non solamente perché è stato il vincitore all’ultima serata degli Oscar (miglior film, migliore regia, migliore sceneggiatura non originale e attore non protagonista). Anzi, si potrebbe dire che ciò non sia essenzialmente rilevante, poiché è successo che l’attribuzione di premi Oscar non abbia garantito una reale qualità ad una pellicola. Bisogna vederlo, invece, perché questo film si propone come uno sguardo lucido e pienamente disincantato sul nostro presente, a partire proprio dal titolo (che nell’originale inglese suona come quello italiano: No country for old men), che è, come si nota, assertivo. La vicenda, ambientata nel 1980 e che si snoda nei territori al confine fra Texas e Messico, è ispirata all’omonimo romanzo di Cormac McCarthy; ma i Coen sembrano rileggerla attraverso quello stile grottesco ed iperbolico presente nei loro precedenti film. L’inseguimento tra un cacciatore che, giunto su un luogo desertico, teatro di una strage fra trafficanti di droga, trova per caso la valigia piena di due milioni di dollari (vero e proprio bottino del traffico di droga), uno spietato (quanto feroce) killer che insegue detto bottino e vuole uccidere il cacciatore, ed un anziano sceriffo che tenta vanamente di proteggere il cacciatore fuggito con detta valigia, ha momenti di fredda ed implacabile violenza che appare allo spettatore, appunto, iperbolica e quasi non reale. Alcune uccisioni non vengono addirittura raccontate, ma viste nelle loro conseguenze. Si potrebbe pensare che ai Coen non prema tanto mostrare detta violenza quanto raccontare un mondo (solo gli Stati Uniti? Solo quelli? O solo la dura legge che vige fra i trafficanti di droga?) in cui l’unico linguaggio appare quello della violenza, in cui è divenuto pienamente consueto e legittimo procurarsi le armi nei negozi (i frequenti acquisti di armi da parte dei protagonisti), in cui gli uomini sono relegati al rango di animali (nel detto luogo della strage dei trafficanti, giacciono gli uni accanto gli altri i cadaveri degli uomini e quelli dei cani). Un mondo in cui si preferisce delegare le decisioni al caso o al semplice interesse. E tuttavia, un mondo in cui l’essere uomini non pare essere del tutto assente se è vero che il personaggio dello sceriffo (interpretato da un ottimo Tommy Lee Jones) si arrovella nella ricerca del terribile killer per proteggere il cacciatore e la giovane moglie. E si arrovella perché avverte la sua impotenza nel far rispettare la giustizia, il senso dell’importanza della vita degli essere umani, l’assegnazione dei “cattivi” alla legge. Quindi quello che tutti noi pensiamo debba essere “l’ordine” e lo stato delle cose. Ma lui è anziano ed è pervaso da un senso di disincanto circa la possibilità di poter far rispettare tale “ordine”. Appunto, il paese cui appartiene non è più per “vecchi”; non c’è più spazio per quel “vecchio” modo di vedere le cose. Ottimi i Coen che ci fanno riflettere su ciò attraverso una pellicola dura, eccessiva, ma lucida.
E verrebbe da porsi qualche domanda. E’ ormai così pienamente diffuso l’uso della violenza, senza il quale sembra non sia più possibile ripristinare la giustizia? E, comunque, si riesce a ripristinare la giustizia? E’ viva l’importanza attribuita alla vita e alla dignità degli uomini?

Gabriele Montemagno

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Il trailer del film

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lunedì, 14 aprile 2008

MANITUANA. INCONTRO CON WU MING 4

Tempo fa, in questo post, ebbi modo di accennare all’uscita di Manituana (Einaudi, 2007, pagg. 613, euro 17,50), nuovo romanzo collettivo dei Wu Ming.

 

Oggi approfondiamo la conoscenza di questo libro/progetto grazie all’intervista che Wu Ming 4 ha rilasciato a Giulia Gadaleta in esclusiva per Letteratitudine.

Mi piacerebbe discuterne con voi.

Per favorire il dibattito ho estrapolato alcune frasi pronunciate da Wu Ming 4 (vi invito, però, a leggere con attenzione l’intera intervista) precisando, per dirla come gli stessi Wu Ming, che questo non è un romanzo a tesi, e nemmeno un romanzo-manifesto:

-               Basta sbarazzarsi delle storielle edificanti che ci hanno raccontato a scuola e immergersi nelle cronache, nelle testimonianze dirette, per rendersi conto di quanto il mito fondativo degli Stati Uniti d’America sia frutto di una grandiosa operazione ideologica.

-               L’esito del conflitto fu determinato piuttosto dalla discesa in campo al fianco dei ribelli delle grandi potenze avversarie dell’Inghilterra. Molto più delle “buone ragioni storiche”, furono Francia, Spagna e Olanda, con le loro truppe, navi e casse d’oro, a garantire il successo di Washington e compagni.

-               Nel romanzo un ufficiale britannico pronuncia una frase illuminante: “La guerra non è guerra finché il fratello non uccide il fratello”. Molto più che una rivoluzione, la guerra d’indipendenza fu una guerra civile, tra fratelli, cugini, cognati.

-               Se proprio dovessimo trarre una qualche morale dal romanzo allora sarebbe che il rimpianto non è mai una buona ragione storica. Il rimpianto non ti porta da nessuna parte, anzi, ti porta dalla parte sbagliata, quella che perde.

-               Salgari ha insegnato a noi scrittori una cosa importante, una cosa che probabilmente ha convinto molti di noi a fare quello che facciamo. E cioè che si possono raccontare storie incisive, propriamente politiche, nel linguaggio della narrativa d’avventura, cioè emozionando, divertendosi e facendo divertire. 

Di seguito potrete leggere la recensione di Ibs, l’intervista di Giulia Gadaleta a Wu Ming 4 e le prime pagine del libro.

Ma prima vi invito a gustarvi il book trailer.

Ne approfitto per invitare i Wu Ming a partecipare alla discussione.

Massimo Maugeri

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La recensione di IBS

Il nuovo romanzo del gruppo di scrittori Wu Ming, autori di 54 e prima, col nome di Luther Blissett, del grande successo Q, segna un altro ambizioso momento di riscrittura dei grandi eventi della storia mondiale, riletti attraverso una luce nuova, mai scontata e assolutamente originale. Manituana, titolo che evoca Manitù, il Grande spirito, dio degli indiani d´America, è un romanzo ambientato a fine Settecento, un tuffo nel passato del nord America, con protagonisti i nativi che vissero la guerra di indipendenza dalla parte sbagliata.
Siamo nel 1775, in una vasta estensione di terra al confine attuale tra gli Stati Uniti e il Canada, dove si trova una delle civiltà più straordinarie fiorite nel continente americano, la tollerante e “meticcia” comunità di indiani, irlandesi e scozzesi, che il suo fondatore, sir William, chiamava “Irochirlanda”. Gli Irochesi, ancora oggi studiati dagli storici come precursori dello spirito di libertà della costituzione Usa e del “melting pot” americano, costituivano una società femminista (il potere nel clan era in mano alle donne) e molto “spirituale”: era gente raffinata che, oltre a saper fare la guerra e cacciare, leggeva Voltaire, suonava il violino e aveva doti di retorica e diplomazia. Sono loro i protagonisti del romanzo, con la loro scelta di essere tra i più leali e fedeli combattenti a sostegno della Corona britannica sia contro i Francesi, nella conquista del Canada, e sia contro i coloni ribelli dalla cui insurrezione sarebbero nati gli Stati Uniti d´America. È la guerra a mandare in frantumi quel mondo di pace. La lega delle Sei nazioni, che riuniva le maggiori tribù degli Irochesi, deve scegliere se combattere, e con chi schierarsi. Il capo di guerra irochese, Thayendanega, sceglierà di condurre il suo popolo lontano, oltre il mondo che ha sempre conosciuto e, qui il romanzo rovescia l’immagine canonica del pellerossa, si alleerà con re Giorgio contro i coloni che gli rubano la terra. Thayendanega diventerà noto come Joseph Brant e molti dei più grandi capi irochesi si chiameranno con nomi europei: non erano affatto “selvaggi”, se non nel senso che in guerra, all’occorrenza, utilizzavano metodi del tipo di quelli che il generale Washington avrebbe poi ordinato nei loro confronti: vale a dire bruciare, scotennare, sterminare.

Un romanzo epico, frutto di un grande lavoro collettivo, ricco di effetti speciali, con molta azione. Otto anni fa i Wu Ming, che si firmavano ancora Luther Blissett, per spiegare come si fa a scrivere in gruppo, usarono questa immagine: “È come per il jazz: grande affiatamento, arrangiamenti collettivi e assoli individuali”.

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Intervista realizzata da Giulia Gadaleta

Nel 1775 nel territorio che va dall’attuale Stato di New York alla Pennsylvania le sei nazioni irochesi -Mohawk, Oneida, Cayuga, Onondagam, Seneca e Tuscarora – convivono prosperosamente con i coloni. Hanno combattuto la guerra franco-inglese al loro fianco e l’alleanza con sua maestà britannica ha favorito scambi commerciali ma anche convivenza e integrazione delle due comunità. Quando questa comunità meticcia resta orfana di Sir William Johnson Warraghiyagey, Commissario per gli Affari Indiani, la situazione precipita: è l’alba della rivoluzione che genererà gli Stati Uniti d’America.

Ho intervistato Wu Ming 4 in occasione della selezione di Manituana nella terzina finalista del Premio di letteratura avventurosa Emilio Salgari .

Come è nato Manituana? Quali suggestioni l’hanno messo in moto? Manituana è costruito intorno ad alcuni eventi e figure storiche realmente esistite, che fonti c’erano a questo proposito?

WM: Il romanzo nasce da una suggestione forte per la storia americana e statunitense in particolare. Gli Stati Uniti sono il paese che più di ogni altro influenza e incarna l’immaginario occidentale. Per capire la crisi attuale del cosiddetto “impero americano” abbiamo deciso di provare a raccontarne l’origine, liberandola dalla mitografia. Per farlo abbiamo scelto un punto di vista inusuale e che non si è soliti associare alla guerra d’Indipendenza, cioè quello dei nativi. In particolare quello delle Sei Nazioni irochesi, che vennero coinvolte e travolte da quel conflitto. Il materiale a disposizione è tanto, grazie al fatto che nel mondo anglosassone esiste una grande tradizione di accessibilità alle fonti primarie. Basta sbarazzarsi delle storielle edificanti che ci hanno raccontato a scuola e immergersi nelle cronache, nelle testimonianze dirette, per rendersi conto di quanto il mito fondativo degli Stati Uniti d’America sia frutto di una grandiosa operazione ideologica. Nel nostro immaginario ci sono indiani che cacciano bisonti e vanno a cavallo: è l’immagine ottocentesca tramandata dai fumetti e dal cinema western e fa riferimento al periodo successivo a Manituana.

 Cinema e fumetti hanno avuto un ruolo nello scrivere Manituana e se sì ci fai dei titoli?

WM: Per quanto riguarda i fumetti direi il Comandante Mark (per i membri del collettivo un po’ più grandicelli); ma soprattutto i volumi “americani” di Hugo Pratt, come Ticonderoga e Wheeling. Il cinema hollywoodiano ha affrontato poco e male la guerra d’Indipendenza e già questo è un fatto curioso, forse anche rivelatore di una certa cattiva coscienza. A fronte di decine di film ambientati durante la guerra di Secessione, se ne possono rintracciare davvero pochi sulla Rivoluzione americana (e quasi nessuno valido). Per quanto riguarda poi la questione nativa, in generale il cinema se n’è occupato in relazione alla conquista del West. Così è facile dimenticarsi che la grande corsa verso ovest è preceduta da due secoli e mezzo di storia condivisa.

In effetti i film che più ci hanno influenzato nella scrittura di Manituana non hanno direttamente a che fare con gli eventi del romanzo. Quello che ci si avvicina di più è L’Ultimo dei Mohicani di Michael Mann, ambientato durante la guerra anglo-francese, precedente di vent’anni la Rivoluzione. Poi direi Manto Nero, un film canadese che si ambienta nel XVII secolo e racconta la storia di un missionario gesuita mandato tra gli irochesi. Infine The New World, di Malick, che addirittura parla dei primi contatti tra coloni inglesi e nativi.

Sono pellicole che riescono a dare un’idea dell’impatto che la colonizzazione ebbe sulle popolazioni native americane e del complesso equilibrio che si sviluppò nei primi secoli della conquista.

Mi sembra che la tesi del romanzo sia che la nascita della nazione americana sia legata all’abbattimento dei confini, sia in senso fisico (la frontiera) sia in senso sociale. E’ così? In questo senso si può considerare Manituana un romanzo morale?

WM: Onestamente non lo so. Noi non scriviamo romanzi a tesi. Manituana racconta l’avventura di un clan famigliare meticcio, composto da europei e nativi, che scelgono di combattere dalla parte del re inglese per salvarguardare se stessi, i propri beni e il proprio potere. Racconta anche di come vennero spazzate via nazioni indiane dalla storia millenaria, tutt’altro che primitive e ingenue, ma che convivevano con gli europei da secoli in un sistema di interscambio reciproco, fatto di commerci, alleanze, matrimoni, viaggi diplomatici. E’ un fatto che una delle cause scatenanti della Rivoluzione fu la pressione dei coloni sui confini stabiliti dalla Corona britannica. Per blandi che fossero, quei confini salvaguardavano ancora le terre indiane. Così come è indubbio che l’Indipendenza abolì la nobiltà di nascita e il potere aristocratico sul suolo americano. Non per questo però fu una rivoluzione di classe, come sarebbe stata quella francese. Soltanto una minoranza dei coloni europei si schierò apertamente per una o per l’altra fazione e i pochi che lo fecero si divisero equamente tra le due parti in lotta. L’esito del conflitto fu determinato piuttosto dalla discesa in campo al fianco dei ribelli delle grandi potenze avversarie dell’Inghilterra. Molto più delle “buone ragioni storiche”, furono Francia, Spagna e Olanda, con le loro truppe, navi e casse d’oro, a garantire il successo di Washington e compagni. Ma questa è un’altra delle cose che non si possono dire se si vuole mantenere intatto il mito originario americano. Nei prossimi romanzi vogliamo occuparci specificamente di questo aspetto “globale” della guerra d’Indipendenza.

Rispetto a vostri precedenti romanzi, questo è un romanzo storico in senso stretto, che segue un arco temporale lineare. Non ci sono salti in avanti e indietro. Avete voluto anche qui illuminare le ombre del passato, i passaggi oscuri? Quanto vi siete affidati all’invenzione?

WM: L’andamento lineare della trama è dovuto alla scelta di riprodurre la dimensione del viaggio. In effetti si tratta di un andamento classico: anabasi e catabasi. La prima e la seconda parte narrano il viaggio dalla periferia alla capitale dell’impero; nella terza c’è il ritorno degli eroi e il dispiegarsi della guerra… per poi affrontare un nuovo esodo. Tra i protagonisti soltanto due sono inventati: Philip Lacroix ed Esther Johnson. Tutti gli altri sono storicamente vissuti, ma ovviamente noi li abbiamo interpretati a modo nostro, secondo il nostro sguardo. Se ci riferiamo agli eventi storici e biografici, quindi, di inventato in senso stretto c’è molto poco.

Alla guerra d’indipendenza americana voi attribuite il ruolo di spartiacque: dove prima c’era un sistema di regole che permetteva la convivenza dopo c’è il caos, dove c’era il meticciato dopo c’è la segregazione e lo sterminio, dove prima c’era una guerra regolamentata dopo c’è una guerra senza regole (a un certo punto uno dei personaggi commenta che tra uomini che diffidano l’uno dell’altro, non può esserci altro che una guerra senza regole). Il lettore può restare disorientato e pensare che siete dei nostalgici del colonialismo inglese…

WM: Qualcuno ha provato a farci passare per tali, in effetti… ma temo che si tratti di lettori distratti, per non dire in malafede. Da un certo punto di vista basterebbe pensare alla parte centrale del romanzo, dove la società londinese dell’epoca viene vivisezionata strato per strato, per togliersi ogni dubbio su quanta simpatia possiamo nutrire per l’impero britannico. Ma la verità è che la faccenda è più complessa. I protagonisti di Manituana, bianchi e indiani, sono lealisti, fedeli al re. Rimpiangono la pace che regnava prima della ribellione delle colonie, rimpiangono la scomparsa di Sir William Johnson, lo scaltro amministratore della Corona che governava la valle del fiume Mohawk come un magnanimo padre-padrone. Insomma rimpiangono ciò che non c’è più, e come spesso accade a chi si lascia prendere dalla nostalgia, lo idealizzano. E’ attraverso i loro occhi che il lettore vede quel passato, questo è vero. Ma a leggere bene, quel passato era tutt’altro che perfetto, dato che portava in sé i germi del presente che i protagonisti si trovano a vivere. Ad esempio portava in grembo l’invidia e il rancore dei piccoli coloni, ultimi arrivati, nei confronti dei grandi latifondisti come i Johnson. Gente che se n’era andata dall’Europa per sfuggire alle vessazioni dei nobili e se li ritrovava anche in America col beneplacito di Sua Maestà. Un aspetto questo che nel romanzo emerge con forza fin dal primo capitolo. Per non parlare della concentrazione del potere politico ed economico nella stessa persona, morta la quale, rimane un vuoto difficilmente colmabile. La concezione dinastica e familista del potere, come insegna Shakespeare, è sempre foriera di faide e guerre fratricide. Nel romanzo un ufficiale britannico pronuncia una frase illuminante: “La guerra non è guerra finché il fratello non uccide il fratello”. Molto più che una rivoluzione, la guerra d’indipendenza fu una guerra civile, tra fratelli, cugini, cognati. Manituana racconta anche questo e non fa sconti a nessuna delle due parti in campo: le efferatezze compiute dai lealisti filo-britannici non hanno niente da invidiare a quelle messe in atto dai ribelli, perché sono le stesse persone, figlie della stessa cultura, e condividono lo stesso odio. In definitiva direi che se proprio dovessimo trarre una qualche morale dal romanzo allora sarebbe che il rimpianto non è mai una buona ragione storica. Il rimpianto non ti porta da nessuna parte, anzi, ti porta dalla parte sbagliata, quella che perde. Perché, come diceva il pistolero di Il mio nome è Nessuno, “i bei tempi non sono mai esistiti”. E’ per questo che i nostri eroi sono destinati alla sconfitta senza possibilità d’appello. Se ritroveranno un principio di speranza sarà solo grazie all’idea tutta femminile, portata in seno dalle matriarche della nazione, che tra uccidere e morire esiste sempre una terza via: vivere.

La sfumatura è sottile, ma, come ho detto, noi non scriviamo romanzi-manifesto. Certo sarebbe stato più facile far vedere un Sir William Johnson cattivo, più simile al corrispettivo James Brooke salgariano, e magari i piccoli laboriosi coloni che chiedono agli amici indiani di insegnare loro le tecniche di guerriglia nei boschi, per combattere le perfide giubbe rosse. Così l’ordine delle cose come ci sono state raccontate sarebbe stato mantenuto e le anime belle avrebbero dormito sonni tranquilli. Purtroppo però le cose sono più complesse di così. E a noi le storie complesse piacciono, sono sfide narrative, mentre ci interessa poco il manicheismo di certe visioni ideologiche.

Siete arrivati in finale al premio di letteratura avventurosa Emilio Salgari. Che rapporto c’è tra la vostra scrittura e l’autore de Le tigri di Mompracem? I personaggi di Salgari come il Corsaro Nero e Sandokan sopravvivono al tempo e fanno parte stabilmente del nostro immaginario: si può ancora scrivere letteratura d’avventura e in che senso? Oppure quello che facciamo oggi è ri-scrivere? Ha un rapporto con lo scrivere in gruppo e con il pubblicare in copyleft?

WM: Parto dall’assonanza particolare, strettamente connessa a Manituana. Salgari è stato il primo narratore popolare a stigmatizzare il colonialismo europeo come nefasto e liberticida. Tuttavia mentre trasformava in eroi i pirati e i fuorilegge che resistevano all’impero britannico o spagnolo, non difendeva né il purismo etnico né – diremmo oggi – il relativismo culturale. Basta pensare al ciclo indo-malese, completamente costellato di unioni miste. Sandokan e Marianna, Tremal-Naik e Ada, Yanez e Surama (unioni queste ultime due dalle quali nascono figli meticci), o ancora Darma e Sir Moreland. Credo che per l’epoca in cui si trovava a vivere, questa sia stata l’intuizione più incredibile di Salgari. E cioè che al di là delle giuste guerre di liberazione dal colonialismo, lo scontro di civiltà sarebbe stato superato dalla creazione di una civiltà ulteriore, meticcia, plurale, comunque basata sulla possibilità di convivenza tra diversi. In secondo luogo Salgari ha insegnato a noi scrittori una cosa importante, una cosa che probabilmente ha convinto molti di noi a fare quello che facciamo. E cioè che si possono raccontare storie incisive, propriamente politiche, nel linguaggio della narrativa d’avventura, cioè emozionando, divertendosi e facendo divertire. Questa consapevolezza gli derivava direttamente dalla tradizione del fouilleton francese e – ancora prima – dal romanzo settecentesco europeo. E’ una lezione fondamentale. E’ ciò che ci fa assimilare Sandokan e il Corsaro Nero a Ho Chi Minh o Che Guevara. Con la differenza che, al contrario dei personaggi storici, la Tigre della Malesia e il conte di Ventimiglia non potranno mai deluderci.

Mi chiedi se si potrà sempre scrivere narrativa d’avventura o se piuttosto non facciamo altro che ri-scrivere. A nostro avviso non si tratta di opzioni contrapposte. In parte non facciamo che rideclinare gli stessi temi narrativi dalla notte dei tempi (anche Salgari lo faceva); in parte, quando siamo bravi, riusciamo a plasmare la stessa materia narrativa in nuove forme, attuali ed efficaci. Alla base di una scelta come quella del copyleft c’è proprio la convinzione che le storie siano un fiume inesauribile, patrimonio inalienabile dell’umanità. La sorgente si trova in una grotta sotto il cielo del paleolitico, la foce è un punto ideale sull’orizzonte. Da questo punto di vista non è corretto che qualcuno raccolga un po’ di quell’acqua in una bottiglia stabilendo che è soltanto “sua”. Le storie sono di tutti e tali devono rimanere. Noi siamo convinti di questo e quindi rendiamo liberi i diritti di riproduzione dei nostri scritti, a condizione che restino tali e nessun altro provi ad appropriarsene o a trarne profitto. In questo modo salvaguardiamo i proventi del nostro lavoro e consentiamo alle storie di circolare liberamente.

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Giulia Gadaleta è nata nel 1972. Vive a Bologna. Fa la bibliotecaria e la giornalista. Collabora con Pulp libri, Il tamburo e carmillaonline.com. E’ ideatrice e conduttrice di Mompracem, settimanale avventuroso di letteratura, un magazine settimanale in onda su Radio Città del Capo.

Da un pò di tempo ha inziato una esperienza di lettura in carcere.

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LE PRIME PAGINE DI “MANITUANA” (in copyletf dal sito Manituana)

Prologo

Lago George, colonia di New York, 8 settembre 1755.

I raggi del sole incalzavano il drappello, luce di sangue filtrava nel bosco.
L’uomo sulla barella strinse i denti, il fianco bruciava. Guardò in basso, gocce scarlatte stillavano dalla ferita.
Hendrick era morto e con lui molti guerrieri.
Rivide il vecchio capo bloccato sotto la mole del cavallo, i Caughnawaga che si avventavano su di lui.
Gli indiani non combattevano mai a cavallo, ma Hendrick non poteva più correre né saltare. Avevano dovuto issarlo sull’arcione. Quanti anni aveva? Gesù santo, aveva incontrato la regina Anna. Era Noè, Matusalemme.
Era morto combattendo il nemico. Una fine nobile, persino invidiabile, se solo si fosse trovato il cadavere per dargli sepoltura cristiana.
William Johnson lasciava andare i pensieri, un volare di rondini, mentre i portatori marciavano lungo il sentiero. Non voleva chiudere gli occhi, il dolore lo aiutava a stare sveglio. Pensò a John, il primogenito, ancora troppo giovane per la guerra. Suo figlio avrebbe ereditato la pace.
Voci e schiamazzi segnalarono l’accampamento. Le donne strillavano e inveivano, domandavano di figli e mariti.
Lo deposero dentro la tenda.
– Come vi sentite?
Riconobbe il viso arcigno e gli occhi grigi del capitano Butler. Tentò di sorridere, ottenne solo una smorfia.
– Ho l’inferno nel fianco destro.
– Segno che siete vivo. Il dottore sarà qui a momenti.
– I guerrieri di Hendrick?
– Li ho incontrati mentre tornavo qui. Scalpavano cadaveri e feriti, senza distinzione.
William reclinò il capo sul giaciglio e prese fiato. Aveva dato la sua parola a Dieskau: nessuno avrebbe infierito sui prigionieri francesi. Hendrick aveva strappato la promessa ai guerrieri, ma Hendrick era morto.
Un uomo basso entrò nella tenda, paonazzo, chiazze di sudore sulla giacca.
William Johnson sollevò la testa.
– Dottore. Ho qui una rogna per voi.
Il medico gli sfilò la giubba, aiutato dal capitano Butler. Tagliò le brache con le forbici e prese a lavare e tamponare la ferita.
– Siete fortunato. La pallottola ha toccato l’osso ed è rimbalzata via.
– Sentito, Butler? Respingo i proiettili.
Il capitano borbottò un ringraziamento a Dio e offrì uno straccio a William, perché potesse morderlo mentre il medico cauterizzava la ferita.
– Non alzatevi. Avete perso molto sangue.
– Dottore… – William aveva il volto teso e slavato, la voce era un rantolo. – I nostri uomini stanno conducendo al campo i prigionieri francesi. Tra loro c’è un ufficiale, il generale Dieskau. È ferito, forse privo di sensi. Vorrei che gli prestaste le vostre cure. Capitano, accompagnate il dottore.
Butler e il medico fecero per dire qualcosa, ma William li anticipò: – Posso restare da solo. Non morirò, ve l’assicuro.
Butler annuì senza dire nulla. I due si congedarono. Per impedirsi di svenire, William tese le orecchie e concentrò il pensiero sui rumori.
Vento a scrollare i rami.
Richiami di corvi.
Grida lontane.
Grida più vicine.
Grida di donne.
Un trambusto improvviso attraversò il campo. William pensò fosse Butler di ritorno con i prigionieri.
Guardò fuori dalla tenda. Un gruppo di guerrieri Mohawk: urlavano e piangevano, i tomahawk alti sopra le teste. Trascinavano i Caughnawaga con una corda al collo, le mani legate dietro la schiena. Le donne del campo li vessavano con calci, pugni e lanci di pietre.
Il drappello si fermò a non più di trenta iarde. Nessuno dei guerrieri guardò verso la tenda: erano dimentichi di tutto, ogni senso teso alla vendetta. Il più agitato si muoveva avanti e indietro.
– Non siete uomini. Siete cani, amici dei Francesi! Hendrick vi aveva detto di non alzare le armi contro i vostri fratelli! Vi aveva avvertiti!
Afferrò un prigioniero per i capelli, lo trascinò in ginocchio e recise lo scalpo. Quello cadde nella polvere, prese a urlare e contorcersi. Le donne lo finirono a bastonate.
William sentì il sudore gelare la pelle.
Un secondo prigioniero venne scotennato, le donne lo presero a calci prima di pugnalarlo a morte.
William pregò che tra i morituri non vi fossero bianchi. Finché rimaneva una questione tra indiani, poteva risparmiarsi di intervenire.
Hendrick era morto. Figli e fratelli erano morti. I Mohawk avevano diritto alla vendetta, purché non toccassero i Francesi: servivano per gli scambi di ostaggi.
Il terzo Caughnawaga crollò a terra con il cranio sfondato.
Al quartier generale di Albany i caporioni mandati dall’Inghilterra non volevano capire. Non si poteva combattere come in Europa. I Francesi scatenavano le tribù contro i coloni inglesi. Incursioni, incendi e saccheggi. Petite guerre, la chiamavano. I Francesi avevano un nome per ogni cosa. All’alto comando britannico serviva lo stomaco di reagire con la stessa moneta. Era in gioco il dominio su un intero continente.
L’arrivo di nuovi prigionieri interruppe le riflessioni. Civili bianchi, furieri, maniscalchi e soldati con la divisa lacera. Uno dei guerrieri trascinò fuori dal gruppo un ragazzo. Indossava l’uniforme da tamburino del reggimento.
William era spossato. Coglieva a fatica le parole, ma la sorte del ragazzino era chiara. Un altro guerriero affrontò il primo, che già mostrava il coltello.
Con le penne sul capo e il corpo dipinto, ricordavano due galli in un’arena.

– Porta la divisa dei francesi. Non puoi prendere il suo scalpo!
– L’ho sentito parlare caughnawaga.
– Hendrick ha detto che i prigionieri bianchi spettano ai padri inglesi.
– Guardalo in faccia, ti sembra un bianco?
– Se Hendrick fosse qui ti scaccerebbe.
– Io voglio vendicarlo.
– Tu lo disonori.
– Vuoi aspettare che cresca e diventi un guerriero? Meglio ucciderlo subito, ora che i traditori Caughnawaga sono in fuga e ci temono.
– Stupido! Warraghiyagey si infurierà con te.

William Johnson sentì scandire il proprio nome indiano. Warraghiyagey, «Conduce Grandi Affari». Fece leva sui gomiti, doveva intervenire.
Vide il coltello calare sulla chioma del tamburino. Riempì i polmoni per gridare.
Qualcosa colpì il guerriero al volto.
La pietra rimbalzò per terra. L’uomo lasciò la presa, portò la mano alla bocca, tossì, sputò sangue. Una sagoma piccola e veloce gli fu addosso e lo spinse via.
Un guizzo di pelle di cervo e capelli corvini. Ruggiva contro i guerrieri, che arretravano interdetti.
– Siete senza onore, – gridò la giovane donna. – Dite di voler vendicare Hendrick, ma è il denaro degli Inglesi che volete, dieci scellini per ogni scalpo indiano!
Si avvicinò al guerriero che ancora stringeva il pugnale e gli sputò addosso. L’uomo avrebbe voluto colpirla, ma lei lo incalzò.
– È poco più di un bambino. Non ha sparato un colpo. Potrebbe avere l’età di mio fratello –. Indicò un ragazzo dall’aria attenta, al margine del cerchio di donne che si era radunato intorno alla scena. – Quando avrete incassato la paga, la spenderete per comprarvi il rum. Quelli che oggi si dànno arie da grandi guerrieri, domani rotoleranno nel fango come porci.
Il guerriero le indirizzò un gesto di sdegno prima di ritirarsi.
La donna si rivolse agli altri. – Non pensate che agli scalpi, ma gli scalpi non vanno a caccia, non portano a casa il cibo, non coltivano gli orti. Siete tanto ubriachi di sangue da calpestare le nostre usanze? Oggi molte donne hanno perso figli e mariti. Vanno risarcite con nuove braccia –. Guardò il giovane tamburino dall’alto in basso. – Dobbiamo adottare i prigionieri come nuovi figli e fratelli, secondo la tradizione. La madre di mia madre fu adottata, veniva dai Grandi Laghi. Lo stesso Hendrick divenne un Mohawk in questo modo. Voi lo avreste ucciso!
Le donne si spostarono alle spalle della giovane. Insieme fronteggiarono i guerrieri. Gli uomini scambiarono occhiate incerte, poi si allontanarono con finta indifferenza e molti borbottii.

William Johnson si abbandonò sulla branda.
Conosceva quella furia, l’aveva vista bambina.
Molly, figlia del sachem Brant Canagaraduncka.
Da sola teneva testa ai guerrieri.
Decideva la sorte di un prigioniero.
Parlava come avrebbe fatto Hendrick.

- – - – - – - – - – - -  -

Prima parte

Irochirlanda
1775

1.

Avevano portato anche i bambini, perché un giorno lo raccontassero a figli e nipoti. Dopo molti tentativi, l’asta finì per mettersi dritta. Il Palo della Libertà.
Un tronco di betulla, pulito e levigato alla buona. Un groviglio di corda. Un rettangolo di stoffa rossa tagliato da una coperta. La bandiera del Congresso continentale.
Il comitato di sicurezza di German Flatts approvava il suo primo documento: l’adesione alle rimostranze che l’Assemblea di Albany aveva inviato al Parlamento inglese. Il pastore Bauer ne diede lettura. Il testo si concludeva con l’impegno solenne a «stare uniti, nei valori della religione, dell’onore, della giustizia e dell’amore per la Patria, allo scopo di non essere mai schiavi e difendere la propria libertà a costo della vita».
Il vessillo si preparava a salire, salutato da canti e preghiere, quando un rumore di zoccoli interruppe la cerimonia.
Una squadra di cavalieri apparve sul sagrato. Brandivano sciabole, fucili e pistole. Qualcuno sparò in aria, mentre la piccola folla cercava riparo tra le case. Restarono sullo spiazzo pochi coraggiosi. Teste impaurite facevano capolino da dietro i muri, negli spiragli delle porte e alle finestre della taverna. Un nome volò da una bocca all’altra, in un girotondo di voci.
Il nome dell’uomo che aveva fatto fuoco contro il cielo.
Sir John Johnson.
Intorno a lui, gli uomini del Dipartimento per gli Affari indiani. I suoi cognati Guy Johnson e Daniel Claus. Subito dietro, il capitano John Butler e Cormac McLeod, scherano dei Johnson e capo dei fittavoli scozzesi che lavoravano la terra del baronetto.
Mancava soltanto il vecchio patriarca del clan, Sir William, eroe della guerra contro i Francesi, signore della valle del Mohawk, morto l’anno prima.
Sir John montava un purosangue baio dal pelo lucido, fremente sotto la stretta del morso. Si sfilò dal gruppo e prese a cavalcare lungo il perimetro dello spiazzo, mentre fissava i membri del comitato con aria sprezzante, uno dopo l’altro.
Guy Johnson portò il cavallo a ridosso di una tettoia e si arrampicò là sopra con difficoltà, per via della stazza.
 – Forza, siamo qui per discutere, – disse alle case. – È questo che volete, no?
Nessuno fiatava. Sir John diede uno strattone alle briglie, il cavallo arretrò e ruotò su se stesso, fino a cedere alla volontà del padrone.
Allora qualcuno si fece coraggio. Il gruppo che fronteggiava gli uomini a cavallo si infoltì.
Guy Johnson lanciò un’occhiata severa.
– Indirizzare una petizione al Parlamento è lecito, ma issare una bandiera che non sia quella del re è sedizione. Una cosa vi copre di ridicolo, l’altra manda sulla forca.
Ancora silenzio. I membri del comitato evitavano di guardarsi per timore di cogliere un cedimento negli occhi dei compagni.
– Volete seguire l’esempio dei Bostoniani? – riprese Guy Johnson. – Due fucilate all’esercito del re e si sono montati la testa. Sua Maestà possiede la flotta più potente del mondo. È buon amico degli indiani. Controlla tutti i forti dal Canada alla Florida. Credete che i ribelli del Massachusetts otterranno molto più di un cappio al collo?
Fece una pausa, quasi volesse sentire il sangue ribollire nelle vene dei tedeschi.
– La famiglia Johnson, – proseguì calmo, – possiede terra e commercia più di tutti voi messi assieme. Saremmo i primi a stare dalla vostra parte, se davvero Sua Maestà minacciasse il diritto di fare affari.
Una voce risuonò forte: – I vostri affari non li minaccia di certo. Voi siete ricco e ammanicato. Le tasse del re strozzano noialtri.
Un coro d’assensi accolse quelle parole. Dalla cima della tettoia Guy Johnson individuò Paul Rynard, il bottaio. Una testa calda.
Lo stallone di Sir John scrollò il capo e sbuffò nervoso, rimediando un altro strattone.
Il frustino del baronetto colpì il cuoio dello stivale.
– Le tasse servono a mantenere l’esercito, – ribatté Guy Johnson. – L’esercito mantiene l’ordine nella colonia.
– L’esercito serve a voialtri per continuare a tenerci sotto! – sbottò Rynard.
Gli animi si accesero, qualcuno dei cavalieri alzò d’istinto le armi, ma un cenno di Sir John li trattenne.
– Non ancora, – sibilò il baronetto.
Guy Johnson, rosso in volto, strillò dall’alto: – Quando i Francesi e i loro indiani minacciavano le vostre terre, l’esercito lo chiedevate a gran voce! La pace vi ha reso arroganti e stupidi al punto da desiderare un’altra guerra. Fate molta attenzione, ai morti la libertà non serve.
– Ci state minacciando! – gridò Rynard.
– Tornatene in Irlanda dai tuoi amici papisti! – urlò qualcuno. Un sasso scagliato verso Guy Johnson lo mancò di poco.
Una smorfia di compiaciuto disprezzo segnò la faccia di Sir John: – Adesso.
I cavalli mossero in avanti, il comitato di sicurezza si sciolse seduta stante. Gli uomini corsero in tutte le direzioni.
Il cavallo di John Butler travolse Rynard e lo fece rotolare nel fango. Il bottaio si rialzò, cercò scampo verso la chiesa, ma Sir John gli sbarrò il passo. Il baronetto lo frustò con quanta forza aveva. Rynard si accucciò a terra, le mani sulla faccia. Tra le dita, vide McLeod sguainare la sciabola e partire al galoppo. Strisciò via, invocando la misericordia di Dio. Quando ricevette il colpo di piatto sul fondoschiena, urlò forte, tra le risate roche dei cavalieri.
Mentre Rynard si scopriva ancora vivo, gli uomini del Dipartimento si radunarono al centro dello spiazzo. Guy Johnson rimontò in sella e li raggiunse.
Un leggero colpo di speroni e Sir John fu sotto il Palo della Libertà.
Parlò in modo che tutti lo sentissero, dovunque fossero rintanati.
– Ascoltate bene! Chiunque in questa contea voglia sfidare l’autorità del re, dovrà vedersela con la mia famiglia e con il Dipartimento indiano –. I suoi occhi maligni parvero scovare gli abitanti uno a uno, oltre le finestre buie. – Lo giuro sul nome di mio padre, Sir William Johnson.
Sfilò un piede dalla staffa. Dopo un paio di calci, il Palo rovinò nel fango.

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giovedì, 1 novembre 2007

IL FONDAMENTALISTA RILUTTANTE (recensione di Andrea Di Consoli)

La barba lunga di Changez (il giovane protagonista del bellissimo romanzo del pakistano Mohsin Hamid, Il fondamentalista riluttante) è il segno corporeo di una ritrovata unità culturale e sentimentale, ché quanto più il “giannizzero” Changez (buoni studi a New York, folgorante carriera nel mondo della finanza, rapido “congelamento” delle proprie origini pakistane) avverte il crollo di un mondo (attraverso il crollo simbolico delle Twin Towers) tanto più sente come una rifioritura fisica. Tutti i suoi colleghi americani (trendy, cool, rampanti, ragazzi giusti al posto giusto) sentono, da quel crollo in poi, che Changez, il numero uno tra i nuovi assunti, getta a terra la maschera del supercapitalismo, e questo li irrita, li rende diffidenti, così come sono diffidenti, gli Stati Uniti d’America, con tutti coloro (e sono milioni) che manifestano, nei gesti, nelle parole, nel corpo, un’altra cultura, un’altra visione del mondo, ché gli States accettano solo le culture “altre” pittoresche, depotenziate culturalmente e politicamente: le culture depotenziate e innocue, cioè, che avallano il mito della Grande Madre, delle Grandi Opportunità, della Multietnicità. Il “giannizzero” Changez, nonostante la giovane età, sente il richiamo delle origini, della famiglia, della propria casa, e questo richiamo (nostalgico, culturale, corporeo) gli rende insopportabili le conseguenze belliche dell’attacco alle Twin Towers. Da quel momento in poi la sua barba cresce, il suo volto diventa sempre più tormentato e misterioso (diventa, cioè, ingovernabile e in consumabile: insopportabile, in definitiva). Tutto questo spinge Changez a estreme conseguenze, ovvero alla decisione di abbandonare il lavoro, gli Stati Uniti e di ritornare a Lahore. Tutto è complicato dalla dolorosa storia d’amore che lega (o non lega) Changez a Erica, una ragazza americana psicotica, convinta che l’ex fidanzato morto sia ancora vivo (o, in qualche modo, incarnato nell’immagine di Changez). In una delle sequenze più belle e sconvolgenti del romanzo, Changez riesce a far l’amore con lei solo inscenando una finzione struggente, ovvero fingendosi l’ex fidanzato morto di Erica. In questa sequenza c’è il segreto del romanzo, perché Changez si riduce a ombra (a qualcosa che esiste soltanto in seconda battuta, come emanazione di un altro corpo), mentre Erica rappresenta un destino collettivo (il destino americano) proprio nella misura in cui non riesce più a vedere la realtà, ma solo ciò che è stato, solo il morto passato. Il fondamentalista riluttante è raccontato come un dialogo in cui si sente una sola voce (la voce di Changez a Lahore, che casualmente incontra un americano e gli racconta la sua storia: la storia, se vogliamo, di una conversione, di una presa d’atto, di una salvifica depressione). Changez diventa, a mano a mano che si procede nella lettura, un uomo consapevole della forza spirituale e “barbarica” della sua terra; un uomo, cioè, che non si capacita che una grande terra, una grande cultura, una grande tradizione sia stata ridotta (nella considerazione dei più) a un manipolo di lestofanti e terroristi. Forse è un fondamentalista anche lui, ma lo è nella misura in cui difende la dignità e la forza (e l’integrità) della sua personale tradizione. Non si tratta, com’è evidente, di criticare l’attuale “stato dell’unione” (siccome lo fanno tutti, risulta retorico) ma di guardare con rispetto e con attenzione ai sentimenti e ai pensieri di un popolo che ha bisogno di riscoprirsi e di accettarsi in una robusta tradizione, e non di essere rinsavito a colpi di mortaio. Nella barba di Changez non si nasconde oscurantismo, ma solo discendimento e catabasi verso il baricentro di un’anima individuale e collettiva. Ascoltare le parole di Changez è più utile di mille proclami opportunistici dei guerrafondai dell’Est e dell’Ovest.

Andrea Di Consoli

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Mohsin Hamid

Il fondamentalista riluttante

Einaudi – 134 pagine – 14,00 euro

Traduzione di Norman Gobetti

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Foto_andreaAndrea Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani. Attualmente vive a Roma, dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai. Collabora inoltre a «l’Unità e a varie riviste, inoltre scrive sul «Messaggero» e «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il saggio Le due Napoli di Domenico Rea (Unicopli 2002), la raccolta di poesie Discoteca (Palomar 2003) e i racconti di Lago negro (L’ancora del Mediterraneo 2005). Il romanzo Il padre degli animali (2007) ha vinto il premio Mondello ed è stato finalista al premio Viareggio-Repàci.

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Letteratitudine: da oltre 15 anni al servizio dei Libri e della Lettura

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"Cetti Curfino" di Massimo Maugeri (La nave di Teseo) ===> La rassegna stampa del romanzo è disponibile cliccando qui

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OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

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Ricordiamo VIRNA LISI con un video che è uno "spot" per la lettura

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