LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » domenicale http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 IL BLOCCO DELLO SCRITTORE E QUELLO DEL LETTORE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/02/18/blocco-scrittore/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/02/18/blocco-scrittore/#comments Wed, 17 Feb 2010 23:02:38 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1729 blocco-scrittoreMolti dei frequentatori di Letteratitudine sono (siamo) scrittori o aspiranti tali. Di certo sono (siamo) tutti lettori.
Il tema che vi propongo in questo post ha a che fare principalmente con la scrittura e con gli ostacoli che è possibile incontrare nel confrontarsi con la pagina bianca.
Veniamo al punto… (anzi, ai punti… di domanda).

Avete mai sentito parlare del cosiddetto “blocco dello scrittore”?

Vi è mai capitato di rimanerne vittime?

Come avete fatto a superare la crisi creativa?

Avete metodi da proporre (o da condividere)?

Ne ha parlato Stefano Salis sull’inserto “Domenica” de Il Sole24Ore, del 7 febbraio nell’ambito di un articolo intitolato “Penne in panne” (bel gioco di parole, vero?).
Stefano ha messo a disposizione di Letteratitudine questo suo pezzo (autorizzandomi a pubblicarlo) dove accenna alle esperienze di vari scrittori italiani: Alessandro Piperno, Giuseppe Genna, Nicola Lagioia, Carlo D’Amicis, Elena Loewenthal, Paolo Giordano, Patrick Fogli, Giorgio Vasta, Ernesto Ferrero, Antonio Scurati, Giulio Mozzi, Andrea Vitali.

Addirittura, la nota autrice canadese Margaret Atwood – sul suo blog- ha “offerto” una sorta di decalogo per superare il famigerato blocco (trovate i “dieci punti” dopo l’articolo di Salis).

Con quali degli scrittori citati vi sentite più in sintonia (in merito, ovviamente, al tema del “blocco dello scrittore”)?
Quale dei “punti” proposti dalla Atwood vi sembra più convincente?

Ma andiamo oltre.
Abbiamo fatto riferimento alla scrittura… non dimentichiamoci della lettura.

Domanda secca: esiste un “blocco del lettore”?
Vi è mai capitato di arrestarvi, per un motivo qualunque, dinanzi a un testo che giudicavate importante senza riuscire a completarne la lettura?

Di più: vi è mai capitato, per un certo periodo di tempo, di non riuscire più a leggere? E in caso affermativo… come siete riusciti a superare “il blocco del lettore”?
Ne discutiamo insieme.

Massimo Maugeri

—————————

PENNE IN PANNE
di Stefano Salis

da “Domenica” de Il Sole24Ore, del 7 febbraio 2010 – pag. 24

stefano-salisDi sicuro, lei, non ne ha bisogno. E poi, dopo decenni passati a scrivere libri e ad avere successo, deve essere routine, incontrare qualche piccolo blocco. Lei è Margaret Atwood, celebrata autrice canadese, più di trenta libri firmati, premi letterari a raffica, ogni anno, si dice, lì lì per vincere il Nobel. Il suo ultimo romanzo, “The Year of the Flood” è finalista all’Orange Prize e lei gira il mondo per promuoverlo. Non si annoia, però, anche perché è perennemente connessa e dialoga con i suoi fan su Facebook, con Twitter e con il suo blog. Dal quale, recentemente, si è divertita a dare qualche suggerimento su uno dei temi più spinosi (e tipici) che le vengono sollecitati dai lettori. Che fare quando non si riesce ad andare avanti col proprio libro? Come superare il «blocco dello scrittore», insomma?

La storia della letteratura è piena di esempi, di «bloccati» e di rimedi per andare avanti: dai classici Coleridge o Fitzgerald ai contemporaneissimi Jeffrey Eugenides o il nostro Alessandro Piperno che ha ammesso pubblicamente di essere in difficoltà a consegnare il suo secondo libro, difficoltà adombrate ancora qualche giorno fa sul «Corriere» con il lungo elenco di domande in occasione della morte di J.D. Salinger.
Abbiamo provato a far leggere a qualche autore italiano il decalogo della Atwood e a chiedere le loro istruzioni per l’uso. Ne viene fuori una decisa maturità dei nostri scrittori sul tema e uno spirito assai garibaldino nell’affrontare la questione. Per iniziare, Giuseppe Genna (che ha appena chiesto sul web ai lettori di “votare” per quale editore pubblicare e torna in libreria a marzo) va controcorrente: «Il blocco dello scrittore è un momento di santità e di liberazione. Non credo esista la necessità della letteratura. Ritengo che chi ha vissuto avvertendo di continuo il blocco dello scrittore, e in realtà non smettendo un attimo di scrivere (mi viene in mente Kafka), abbia sfiorato la libertà dal mondo». Idee simili rivendica Nicola Lagioia, editor e autore in proprio del bellissimo Riportando tutto a casa(Einaudi): «È un falso mito. Uno scrittore di prim’ordine non lotta con la sindrome della pagina bianca ma con i complicati, faticosissimi, talvolta insuperabili problemi che il progetto in cui si è già lanciato comporta. Abbiamo un’indole prometeica, e il problema non è mai spiccare il volo ma come sfracellarsi al suolo con un certo stile». Addirittura Carlo D’Amicis (ultimo libro La guerra dei cafoni) esalta il blocco: «Se la macchina ogni tanto non parte, non si inceppa, non sbaglia strada, vuol dire che qualcosa non funziona. Mi fido, insomma, molto di più dei miei dubbi, dei miei attriti, delle mie “false partenze” (come le chiamava La Capria) che non dei momenti in cui mi sembra che tutto fili liscio».

C’è chi teme l’inizio e non se lo nasconde. Elena Loewenthal, finalista all’ultimo Campiello, sa ormai come aggirarlo: «La pagina bianca mi incute sempre paura. Quando non so come cominciare – e so che una volta cominciato, il più è fatto – mi alzo, faccio il giro della stanza. Il cioccolato aiuta, ma solo se è almeno un 80% di cacao. Ha ragione la Atwood: a mali estremi, estremi rimedi. La doccia, ad esempio. Aiuta eccome. E comunque, uno stato di assoluta solitudine».
Di reclusione, invece, ha bisogno Paolo Giordano, il fenomeno letterario italiano degli ultimi anni, con La solitudine dei numeri primi (presto al cinema). «Alle passeggiate decongestionanti», come propone la Atwood, «io preferisco la cattività. In caso di blocco, mi costringo nella stanza, orbito attorno al computer acceso, mi tormento e sì, pilucco qualunque cibo vi sia nei paraggi (ma di cioccolato non ne ho mai). Finché, ore più tardi, lo sfinimento mi porta un sonno liberatorio. Al risveglio, ancora intontito, attacco a scrivere, in modo sconclusionato, sciattamente, senza preoccuparmi dei legami con il paragrafo precedente. Un pensiero in testa c’è comunque, poco interessante, confuso, bizzarro che sia. Di questa stesura disperata non sopravviverà quasi nulla, ma rileggendola farò almeno una scoperta. Ogni blocco della scrittura è solo l’incubazione di un’idea sorprendente».

Per il giallista Patrick Fogli (da leggere Il tempo infranto) l’importante è sapere quando è il momento esatto di partire. «Non ho un elenco di punti come la Atwood. Ho una strategia sola. Non scrivo fino a quando non ne posso fare a meno. Fino al momento in cui devo sedermi alla tastiera e buttare giù la storia. E questo accade, di solito, quando mi gira già in testa da diversi mesi e ha cambiato aspetto almeno una decina di volte».
Anche Giorgio Vasta, rivelazione con Il tempo materiale, ci tiene a distanziare il problema. «Il “blocco dello scrittore” si colloca tra quelle piccole mitologie che probabilmente sono integrazioni indispensabili della pratica letteraria. Se la scrittura fosse solo puro flusso immediato, del tutto estraneo al tormento e alla crisi, risulterebbe poco reale e poco credibile». E però, «considerato che tutte le indicazioni della Atwood sono sensate e ironiche, mi permetterei di aggiungerne una: scrivere in forma di lettera». Ernesto Ferrero (premio Strega per N. nel 2000) sposa i consigli della Atwood. «Di solito le difficoltà stanno nella partenza: trovare la concentrazione, il tono, il ritmo giusto. In corso d’opera, il blocco è una specie di segnale che qualcosa nel meccanismo non gira. E può riuscire utile, un invito a ripensare tutto. I consigli della Atwood sono pratici e condivisibili. Una passeggiata resta il modo più efficace di favorire la riflessione. E il cioccolato fondente il miglior fornitore di energia pulita».

Antonio Scurati, scrittore e polemista di razza, suggerisce qualcosa d’alternativo. «Potrà suonare scontato, o forse desueto, ma secondo me il blocco della scrittura si smuove con la sua gemella: la lettura. Se non si riesce a scrivere, niente di meglio che leggere. Libri preferibilmente alti e lontani, di chi con la scrittura ha tentato grandi imprese, in epoche remote e in terre a noi straniere. E tanti libri. Poi, magari, tornano anche buoni. Magari uno scopre che lo scrittore, come l’artista contemporaneo, spesso non fa il quadro ma le cornici».
Giulio Mozzi (ottimo il suo Sono l’ultimo a scendere) la vede in modo ancora diverso: «Mai sofferto di “blocco”. Ho pubblicato un libro nel 2001, una raccolta di cose vecchie nel 2005, e poi tre libri in un colpo a fine 2009. Non ho mai pensato di esser condannato, poiché avevo fatto un libro a farne degli altri. Quando viene, viene. Tutto qui. Peraltro, negli anni nei quali, secondo alcuni, sarei stato senza scrivere, ho scritto moltissimo. Ho scritto il mio diario in rete, che poi è diventato un libro, articoli per giornali, centinaia di pezzi per il mio blog, “vibrisse”. Conosco scrittori che se stanno due anni senza fare un libro, gli viene l’ansia. Temono di scomparire. A me quest’ansia non viene: ci sono tante altre cose, nella vita». Chissà, magari, anche il giardinaggio, per distrarsi dalla momentanea pausa, come suggerisce il prolifico Andrea Vitali (in uscita da Garzanti, La mamma del sole) con la sua consueta ironia: «Sto proprio vivendo uno di quei momenti di blocco. Una storia che si è infilata in un vicolo cieco e quindi, in quanto tale, non riesco a vedere come se ne possa venir fuori. Allora, dopo aver più volte picchiato la testa contro il muro del suddetto vicolo, ho messo nel cassetto la storia e mi sono dato al lavoro fisico: essendo, per parte di padre, di origini campagnole posseggo per fortuna un poco di terra e ho cominciato a prepararla per le semine future: siamo in febbraio, tempo di seminare cipolle. Le due cose mi danno pace, ho messo il romanzo nel cassetto e le cipolle sotto terra: vediamo chi germinerà prima».

Male che vada si consolerà con una succulenta zuppa di cipolle. Ma siamo sicuri che non saranno i suoi (tanti) lettori a restare a bocca asciutta.

P.S. Tutti gli scrittori interpellati hanno risposto con velocità e generosità. Il mio amico Flavio Soriga (ottimo scrittore), contattato via mail, mi aveva promesso, con entusiasmo, un suo parere. Non è arrivato nulla. Che sia un classico caso di blocco dello scrittore?

—————————

IL DECALOGO DELLA ATWOOD

In molti continuano a chiedermi consigli circa il “blocco dello scrittore”. Ecco alcuni suggerimenti, un decalogo di pronto intervento.

1. Uscite a fare una passeggiata, fate il bucato, o mettetevi a stirare, o piantate dei chiodi. Andate a fare una nuotata in piscina, fate uno sport, qualunque cosa che richieda concentrazione e comporti una ripetuta attività fisica. Al limite: fate una bella doccia, o un bel bagno.

2. Prendete in mano il libro che rimandavate da tempo.

3. Scrivete, ma in qualche altra forma: anche una lettera, o una pagina di diario, o la lista della spesa. Lasciate che quelle parole fluiscano attraverso le vostre dita.

4. Formulate con precisione il vostro problema, e quindi andatevene a dormire. Il mattino dopo potreste avere la risposta.

5. Mangiate del cioccolato. Non troppo. Deve essere scuro (almeno il 60% o più di cacao), organico, biologico.

6. Se state scrivendo fiction: cambiate il tempo verbale (dal passato al presente, o viceversa).

7. Cambiate la persona (prima, seconda, terza).

8. Cambiate il genere (maschile/femminile).

9. Pensate al vostro libro in progress come a un labirinto. Avete incontrato un muro. Tornate al punto dove avete sbagliato direzione e ripartite da lì.

10. Non siate arrabbiati con voi stessi. Fatevi, anzi, un piccolo regalo di incoraggiamento.

Se nessuno di questi consigli fa effetto o funziona, mettete il libro in un cassetto. Potrete sempre tornarci su più avanti. E iniziate qualcosa d’altro.

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/02/18/blocco-scrittore/feed/ 250
SCRITTURA SENZA GENERE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/04/15/scrittura-senza-genere/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/04/15/scrittura-senza-genere/#comments Wed, 15 Apr 2009 13:52:10 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/04/15/scrittura-senza-genere/ no-gender-in-the-language.JPGL’Unione europea ha sempre avuto a cuore il tema delle pari opportunità, anche – e soprattutto - tra i generi. Di recente, il Gruppo di alto livello sulla parità di genere e la diversità del Parlamento europeo ha pubblicato un opuscolo che sta facendo discutere, giacchè si parla di bandire ogni riferimento sessista dalle lingue europee.
Come mi scrive Diego Marani in una mail: “queste direttive linguistiche sono unicamente interne, rivolte ai parlamentari e ai funzionari. E hanno suscitato pesanti critiche proprio di un gruppo di eurodeputate italiane”.
Tuttavia il segnale lanciato è importante e significativo.
Il Domenicale del Sole24Ore del 22 marzo 2009 fa ha dedicato la prima pagina all’argomento con due articoli firmati da Diego Marani (già citato) e Giuseppe Scaraffia. Intrigante, il sottotitolo: la Ue vuole cancellare le differenze di genere nelle lingue europee. Cosa accadrà ai personaggi della letteratura, dalla Bovary a Maigret?
“Dovremo abolire qualche dottoressa e non potremo più fare un complimento a una tardona chiamandola signorina”, scrive Marani. “Anzi, perderemo anche la tardona e addio sogni erotici adolescenziali. Ma per il resto usciremo quasi indenni dalla castrazione linguistica europea. L’inglese invece avrà vita dura. Ogni fireman dovrà trasformarsi in fireperson, a portare le lettere sarà il postperson, e nella city saranno tutti businesspersons. La First Lady sarà degradata a First Woman e chissà come la si metterà con la girlfriend”.
Giuseppe Scaraffia va oltre e immagina l’applicazione delle suddette regole in letteratura. La versione purgata del più celebre romanzo di Flaubert si dovrebbe intitolare Bovary. “Tutto fila liscio”, scrive Scaraffia: Spesso, quando Bovary era fuori, Bovary andava a prendere nell’armadio il portasigari di seta verde. Lo guardava, lo apriva, annusava perfino l’odore della fodera che sapeva di verbena e di tabacco. A chi apparteneva?. Certo, se arretriamo di qualche riga, la situazione si complica. Infatti Bovary ha appena raccolto il portasigari e ha detto: Ci sono dentro due sigari. Andranno bene per questa sera dopo cena. Al che Bovary ha ribattuto: Ma come, tu fumi?, facendosi rispondere, sempre da Bovary: Qualche volta, quando capita l’occasione”.
Come ho scritto in premessa, l’orientamento del Gruppo di alto livello sulla parità di genere e la diversità del Parlamento europeo in tema di parità di genere nelle lingue sta facendo discutere.
Mi piacerebbe conoscere la vostra opinione in proposito.
Cosa ne pensate?
Fino a che punto, a vostro avviso, la diversità di genere nelle lingue andrebbe combattuta?

E poi… annullare il genere nelle lingue può davvero favorire le pari opportunità?
È possibile immaginare una scrittura – anche letteraria – senza genere?

Ringrazio Diego Marani e Giuseppe Scaraffia per avermi inviato gli articoli citati (li potrete leggere di seguito) e la redazione di Domenica del Sole24Ore per avermi autorizzato a pubblicarli.
Ne approfitto per segnalare i due nuovi libri di Marani e Scaraffia (entrambi hanno a che fare con le donne):
L’amico delle donne” di Diego Marani (Bompiani)
Cortigiane. Sedici donne fatali dell’Ottocento” di Giuseppe Scaraffia (Mondadori).

Massimo Maugeri


————————

Addio, zitelle e mammoni
di Diego Marani

L’opuscolo pubblicato dal Gruppo di alto livello sulla parità di genere e la diversità del Parlamento europeo è perentorio. D’ora in poi ogni riferimento sessista deve essere bandito dalle lingue europee e sarà estirpato da ogni direttiva, da ogni regolamento comunitario. Con questo traguardo, come ogni dittatura, anche quella del politicamente corretto raggiunge perfino la lingua, credendo di piegare alla sua stupidità anche il pensiero. Bisogna dire che l’italiano soffrirà poco per le nuove regole sessolinguistiche. Da noi ancora si parla come si mangia. Dovremo abolire qualche dottoressa e non potremo più fare un complimento a una tardona chiamandola signorina. Anzi, perderemo anche la tardona e addio sogni erotici adolescenziali. Ma per il resto usciremo quasi indenni dalla castrazione linguistica europea. L’inglese invece avrà vita dura. Ogni fireman dovrà trasformarsi in fireperson, a portare le lettere sarà il postperson, e nella city saranno tutti businesspersons. La First Lady sarà degradata a First Woman e chissà come la si metterà con la girlfriend. Quanti gay saranno presi per semplicemente allegri! Fin qui tutto soltanto patetico. Le cose si complicano quando bisognerà bandire la fratellanza a favore della sorellanza, per non parlare degli effemminati che l’UNESCO in un suo analogo prontuario propone di definire delicati o languidi. Che ne sarà dell’uomo della strada? E la signora delle Camelie? Si metterà ancora in scena il Misantropo? Con Madame Bovary bisognerà stare attenti a dove mettere le corna. Addio pasionarie, muchachas e carmencite. Sarà vietato donneggiare anche alle donne. Una volta per descrivere la mia professoressa di latino bastava la formula “vecchia zitella”, adesso toccherà dire qualcosa come donna-non-sposata-inacidita-da-solitudine-e-non-facilitata-da-neo-peloso-su-labbro. Anche l’impareggiabile scapolone italiano ha i giorni contati. O si sposa o si chiamerà uomo-che-abita-con-la-mamma. Perderemo perfino il mammone, che sarà bambino-oltremodo-affezionato-ai-genitori-soprattutto-uno. Ci verrà strappato anche il figlio di papà, assieme alla paternale e al donnaiolo. Il primo passo dell’uomo sulla luna sarà da spartire con la donna, anche se lei non c’è mai stata. Non si potrà più castrare il gatto, ancor meno evirarlo. Bisognerà forse renderlo-genitalmente-opportuno. Ma noi sessisti avremo ancora diritto di sapere il sesso dell’urologo con cui stiamo per prendere appuntamento? O toccherà farci palpare la prostata dal primo essere-umano-esperto-di-minzione che passa?

————

Madame Bovary?
di Giuseppe Scaraffia

Negli anni bui del medioevo una palla di fuoco apparve a Ildegarda di Bingen e si rivolse a lei chiamandola: “Homo”, uomo. Ildegarda non dubitò per un istante che la palla si stesse rivolgendo a qualcun altro.
Vogliamo mettere con la brutta abitudine maschilista di rivolgersi alle donne chiamandole signora o signorina? La nuova legge europea che sopprime questi termini si ispira a precedenti – alla lettera – sacrosanti. Lo diceva anche il Vangelo di Tommaso: “Che la donna diventi uomo, se vuole entrare nel regno dei cieli”.
Finalmente alle donne, assurte all’empireo del potere, verranno attribuiti epiteti sessualmente neutri. Là dove non fosse possibile, basterà sopprimerli e usare il solo cognome. Al bando anche tutti i sostantivi declinabili soltanto al maschile.
A fregarsi le mani dalla contentezza sono non solo tutte le donne europee, ma anche, se non soprattutto, gli editori. Pochi sanno infatti che entro due mesi tutti i libri in circolazione saranno ritirati, pena pesanti ammende [per i contravventori, sicuramente maschi e maschilisti], e verranno sostituiti da versioni europoliticamente corrette. [Un’innovazione importante che cambierà anche il nostro antiquato modo di leggere.]
I più intelligenti tra i geni del passato ci avevano già pensato. Shakespeare ad esempio non aveva intitolato la sua tragedia “Lady Macbeth”, ma semplicemente, secondo i corretti dettami dell’UE, “Macbeth”. Mentre cosa dovevamo aspettarci da quel rozzo campagnolo di Gustave Flaubert, che non viveva nemmeno a Parigi, ma in un buco di provincia? Ma non è mai troppo tardi. Apriamo a caso la versione purgata del suo più celebre romanzo, che ora si intitola “Bovary”. Tutto fila liscio: “Spesso, quando Bovary era fuori, Bovary andava a prendere nell’armadio il portasigari di seta verde. Lo guardava, lo apriva, annusava perfino l’odore della fodera che sapeva di verbena e di tabacco. A chi apparteneva?”. Certo, se arretriamo di qualche riga, la situazione si complica. Infatti Bovary ha appena raccolto il portasigari e ha detto: “Ci sono dentro due sigari. Andranno bene per questa sera dopo cena”. Al che Bovary ha ribattuto: “Ma come, tu fumi?”, facendosi rispondere, sempre da Bovary: “Qualche volta, quando capita l’occasione”. Ma non lasciamoci prendere dallo sconforto, guardiamo le cose dal lato positivo: “Bovary” è un passo importante verso il monologo interiore, Svevo e Joyce per intenderci.
Passiamo ai “Tre moschettieri” di Alexandre Dumas, diventati ovviamente “Tre portamoschetto”. D’Artagnan non incontra più la fatale Milady ma il neutro, ancorché biondo, Winter. D’altronde il primo a capirlo è stato La Fère (Athos): “Questa creatura non ha niente di una donna!”. Se lo dice lui che l’ha sposata/o!.
Secondo alcuni studiosi, Conan Doyle è stato un silente pioniere della riforma UE. Dietro al dottor Watson si nasconderebbe infatti la dottoressa Watson, un homo sapiens di media statura, di corporatura robusta, mascella quadrata e collo taurino. Ecco perché quel macho di Holmes continua a punzecchiarla: “Elementare, Watson!”, proprio come il Dr.House punzecchia la Cuddy.
In alcuni casi vengono addirittura sciolti degli enigmi. Restava incomprensibile perché Francesco (Petrarca) fosse stato rifiutato da Laura (al secolo Laure de Sade). Ma basta applicare la norma UE per capire che de Sade poteva solo rifiutare sadicamente il dolciastro corteggiatore.
Con Proust la normativa UE arriva al virtuosismo. Tutti sanno che lo scrittore travestiva da donne i suoi amori maschili. Che sollievo, nella versione purgata della Recherche, dimenticare Charles e Odette e avere a che fare con Swann e Crécy! E poi finalmente capiremo perché Crécy fa tanto soffrire Swann andando a letto con (la) Verdurin.
In altri casi la cautela esegetica si impone. Prendiamo le “Relazioni pericolose” di Laclos. Merteuil non ne vuole più sapere di Valmont. [Come direbbe il cantautore Povia, “Merteuil era gay ma non lo è più!”.] Per distrarre Valmont impone all’ex-amante di conquistare due prede, Tourvel (baciapile) e Volanges (vergine). Con Tourvel alla fine si capisce che c’è un marito, ma con Volanges è più difficile. Certo, ha un fidanzato, ma l’adolescenza, si sa, è un’età incerta. Poi c’è la storia un po’ ambigua della lettera al fidanzato di Volanges che Valmont scrive appoggiandosi sulle terga nude di Volanges. Insomma, si resta sul filo del rasoio fino al momento in cui veniamo a sapere che Volanges – ma sarebbe più giusto chiamarlo Volage – è incinto.
In definitiva i romanzi ci guadagnano in suspense e tengono il lettore inchiodato fino all’ultimo o lo lasciano pieno di promettenti interrogativi.
Pochi però sanno che si tratta solo di una fase preparatoria. Infatti il 17 settembre 2011, anniversario della morte di Bingen, l’Unione Europea uscirà dal purgatorio linguistico per entrare in una nuova, definitiva, paradisiaca fase. Troppo facile limitarsi a cancellare il maschile. Ogni essere vivente verrà, da allora, denominato al femminile, affinché non debba diventare “homo” (o “omo”) per entrare nel regno dei cieli.
Ancor maggiori guadagni si prospettano per l’editoria in crisi. Infatti tutti i volumi appena ristampati verranno nuovamente ritirati dalla circolazione e sostituiti con una versione ulteriormente emendata. I fanatici vorranno ribattezzare “Il rosso e il nero”, il capolavoro di Stendhal, in “La rossa e la nera“. Effettivamente, perché i colori dovrebbero essere maschili? Tornerà invece all’originario titolo femminile “La certosa di Parma”, trasformata dalla riforma precedente ne “Il certosino di Parma”. Il Mostro di Firenze diventerà, più culturalmente, la Mostra di Firenze. Qualunque declinazione vorrà ipotizzarsi per i nomi Garibaldi e Cavour, le alunne nelle scuole non parleranno più di Risorgimento Italiano, ma della Resurrezione d’Italia. Gli uffici studi dell’UE avranno un solo problema: come regolarsi col mito UE de “la ratta d’Europa”?

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/04/15/scrittura-senza-genere/feed/ 163
LA POESIA: SPECIALITA’ DEI PERDENTI? http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/26/la-poesia-specialita-dei-perdenti/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/26/la-poesia-specialita-dei-perdenti/#comments Thu, 26 Mar 2009 21:45:00 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2007/06/11/la-poesia-specialita-dei-perdenti/ La poesia è una specialità dei perdenti?
Ripropongo con questa domanda secca uno dei miei post permanenti dedicati alla poesia. Questo post treva origine da un articolo del 2007 pubblicato da Berardinelli sul Domenicale de Il Sole24Ore. Credo che sia ancora attualissimo.
In coda potrete leggere un’intervista in tema che mi ha rilasciato Renzo Montagnoli.
Dunque… la poesia è una specialità dei perdenti?
A voi.
Massimo Maugeri

—————–

Post dell’11 giugno 2007

La poesia annoia? La poesia è ghettizzata? La poesia è in crisi? Sono in crisi i lettori di poesia?

Qualche giorno fa, per l’esattezza il 27 maggio, Alfonso Berardinelli ha pubblicato un articolo sul Domenicale de Il Sole24Ore. Un articolo che ha fatto molto discutere. Il titolo è emblematico: “Togliamo la poesia dal ghetto”.

Ancora una volta, partendo dallo spunto offerto da Berardinelli, potremmo tornare a domandarci cosa si intende per poesia e chi è poeta. La discussione, per la verità, ha toccato altri punti. Per esempio: Chi legge poesia? E, soprattutto, chi è davvero in grado di valutare un testo di poesia?

Scrive Berardinelli: “Chi si accorge che un libro di poesia è brutto o inesistente sono sì e no cento persone. Di queste cento, quelle che lo dicono sono una ventina. Quelle che lo scrivono sono meno di cinque.”

Ma prima ancora di giungere a questa conclusione si domanda: “chi conosce a memoria un paio di testi scritti dalle ultime generazioni di poeti?”

È pessimismo o realismo, quello di Berardinelli?

Vi riporto quest’altro stralcio dell’articolo, che coincide con una ulteriore serie di domande:

“Chi potrebbe credere oggi che fino a vent’anni fa “testo poetico” era sinonimo di testo letterario e che tutta la teoria della letteratura, da Jakobson in poi, ruotava intorno alla nozione di “funzione poetica del linguaggio”? Ora i teorici, quando ci sono, si occupano di romanzi. La poesia sembra  diventata la specialità dei “perdenti” e i critici che se ne occupano dimostrano un’inspiegabile vocazione al martirio. Chi li inviterà mai a un convegno? Quale giornale recensirà i loro libri?”

Spunti, domande e considerazioni che giro a voi, amici di Letteratitudine.

Cosa ne pensate?

Ha ragione Berardinelli?

C’è qualcuno, tra voi, che ritiene di rientrare nel ristretto gruppo di cento persone in grado di accorgersi che un libro di poesia è brutto o inesistente?

La parola è vostra.


———————-

INTERVISTA A RENZO MONTAGNOLI

Renzo Montagnoli nasce a Mantova l’8 maggio 1947. Laureato in economia e commercio, dopo aver lavorato per lungo tempo presso un’azienda di credito ora è in pensione e vive con la moglie Svetlana a Virgilio (MN).
Ha vinto con la poesia Senza tempo il premio Alois Braga edizione 2006 e con il racconto I silenzi sospesi il Concorso Les Nouvelles edizione 2006.
Sue poesie e racconti sono pubblicati sulle riviste Carmina, Isola Nera, Prospektiva e Writers Magazine Italia, oltre a essere presenti in antologie collettive e in e-book.
Ha pubblicato le sillogi poetiche Canti celtici (Il Foglio, 2007) e Il cerchio infinito (Il Foglio, 2008).
E’ il dominus del sito culturale Arteinsieme e del blog Armonia delle parole.

Quando hai scritto la tua prima poesia?
Tralasciando qualche cosina da fanciullo, di cui peraltro non ho più memoria, la prima poesia è abbastanza recente e risale ai primi del 2003. Prima leggevo, oltre alla narrativa, anche poesie, soprattutto queste, in parte per una comodità legata ai tempi ristretti a causa dell’attività lavorativa.

Sei laureato in economia e commercio e per molti anni hai lavorato in banca. Come è possibile conciliare la creatività poetica con un lavoro che, di norma, è considerato “freddo” e “asettico”?
Quando lavoravo in banca non scrivevo poesie e nemmeno racconti; mi dedicavo tutto all’attività e non potevo, anche per una questione psicologica, nemmeno ipotizzare di stilare una poesia. C’è da dire che, però, potevo usufruire di una certa creatività, perché il ruolo che ricoprivo (responsabile dell’ufficio legale) non era asettico, con tutte le cause legali che avviavo o che vedevano come convenuto il mio istituto. Questo mi ha consentito di non spossessarmi di quanto avevo appreso, ovviamente a scuola, in campo letterario, anzi vi attingevo per predisporre le comparse di risposta, o per integrare le conoscenze legali nel redigere le citazioni. Penso che questo lavoro sia il meno bancario che possa esistere e infatti non nascondo che mi piaceva molto.

Conosci il romanzo “La morte in banca” di Pontiggia? Cosa ne pensi?
Ne ho sentito parlare, ma non l’ho mai letto. Penso che sia una descrizione del lavoro del bancario, impiegato spesso malvisto dagli esterni perché freddo, addirittura glaciale, e inoltre rappresenta ai più il tentacolo di un moloch pachidermico e insensibile quale è nell’opinione comune qualsiasi azienda di credito. Ci sono impiegati così, con una spanna di pelo sul cuore, e che per la carriera sono disposti a tutto, ma ci sono anche quelli che lavorano a testa bassa e che riescono perfino a risultare simpatici ai clienti.

C’è un poeta del passato che consideri come tuo “Maestro”?
Tutti. Da ognuno che ho letto ho imparato qualche cosa e dire quale è stato più prodigo di conoscenza nei miei confronti mi è difficile. Tuttavia, visto che c’è da fornire una risposta, mi permetto di fare tre nomi:
Publio Virgilio Marone, per la ricerca quasi ossessiva della purezza nello stile, ma soprattutto perché non tanto con l’Eneide, ma con Le bucoliche e Le georgiche ha saputo creare opere di straordinaria attualità.
Giovanni Pascoli, sfortunato, chiuso nell’alveo familiare, ha saputo fondere metrica classica e profondità di pensiero.
Giuseppe Ungaretti, un uomo nato troppo tardi e morto troppo presto. Mi spiego meglio: è indubbio che lui è il capostipite della corrente ermetica, che si è esaurita troppo velocemente, anzi direi che se n’è andata con lui. Ungaretti mi ha sempre colpito per quei versi così immediati che dicono tanto con poco.
Comprendo che ho citato tre maestri d’eccezione e che come allievo assomiglio un po’ a Pierino, però sono autori che ho studiato e ristudiato, che mi sono entrati dentro e dai quali forse, a volte, riesco ad attingere qualche cosa.

Che differenza c’è, a tuo avviso, tra poesia e componimento poetico?
La poesia ricorre al significato semantico delle parole, componendole in suoni e adottando un ritmo, così che ne scaturisce una musicalità. In pratica il poeta compone, ricorrendo anziché alle note, alle parole e in questo contesto esistono diverse tipologie di componimenti poetici, che hanno caratteristiche peculiari di costruzione e di ritmo, come, tanto per citarne alcuni, il poema o la ballata. Così come esiste il componimento musicale esiste anche quello poetico.

Poeti si nasce o si diventa?
Il talento è innato, ma per svilupparlo occorrono studio e applicazione. Quindi, sarebbe meglio dire che poeti si nasce, ma che scrittori di poesie si diventa.

La poesia è una specialità dei perdenti?
Occorre preliminarmente vedere che cosa si intende per perdente. In una società come la nostra, in cui il valore di un individuo si misura con i suoi profitti, è senza dubbio vero; è fuori discussione che anche il più famoso dei poeti ritrae dalla sua arte assai meno di un mediocre narratore. Del resto, quando di parla con qualcuno e quello ti chiede che cosa scrivi, se rispondi che sono poesie ti guarda con un’aria di commiserazione. Non credo che i poeti siano dei narratori falliti o comunque dei perdenti, penso invece che, come qualsiasi individuo, si sentano realizzati in ciò che riescono a esprimere. La capacità di trasmettere emozioni agli altri sondando dentro se stessi è solo una piccola parte della soddisfazione che un poeta può provare; il sapere interagire con il mondo e con il proprio “io” finisce con il far scoprire nuovi orizzonti prima del tutto impensabili e questa continua ricerca è al tempo stesso punto di arrivo della conoscenza e stimolo per nuovi traguardi. Non vedo pertanto né perdenti, né vincenti, ma solo dei realizzati.

Cosa consiglieresti a un poeta esordiente che ha velleità di pubblicazione?
Che è una tragedia! E’ strano, perché ci sono tanti che scrivono poesie e assai meno che le leggono. Ne consegue che il ritorno economico di un libro di poesia non è frequente ed ecco allora che molti editori (non tutti a onor del vero) chiedono all’aspirante poeta di contribuire alle spese di pubblicazione. E’ deprimente, ma mi ricordo che un certo Pincherle, più noto come Moravia, pubblicò il primo romanzo esclusivamente a sue spese.
Egoisticamente gli consiglierei di farsi conoscere attraverso Internet, magari ricorrendo ad Arteinsieme, che non pubblica tutto e tutti, ma fa una certa cernita in modo da avere un livello qualitativo medio più che soddisfacente.

Hai nuove pubblicazioni in cantiere?
Pubblicazione è un nome grosso. Vedi in genere scrivo sillogi tematiche e attualmente una c’è, molto lontana dal completamento, ma esiste.
Non so dirti nemmeno l’epoca presumibile in cui sarà terminata, perché l’importante è che scriva qualche cosa che mi soddisfi. Poi, se avrò la fortuna che venga pubblicata, bene, ma in caso contrario la metto su Arteinsieme.

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/26/la-poesia-specialita-dei-perdenti/feed/ 168
PERCHE’, OGGI, IL GRANDE SUCCESSO DEI ROMANZI-FIUME? IL CASO STIEG LARSSON http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/20/perche-oggi-il-grande-successo-dei-romanzi-fiume/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/20/perche-oggi-il-grande-successo-dei-romanzi-fiume/#comments Tue, 20 Jan 2009 22:20:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/05/perche-oggi-il-grande-successo-dei-romanzi-fiume/ Aggiorno questo post inserendo un articolo sul terzo romanzo della trilogia «Millennium» di Stieg Larsson: esaltata da alcuni addetti ai lavori e criticata da altri. Il pezzo, firmato da Stefano Montefiori, è uscito sulle pagine del Corriere della Sera del 6 gennaio.
Il libro si intitola “La Regina dei castelli di carta” (Marsilio) ed è immediatamente balzato in vetta alle classifiche dei libri più venduti in Italia.
Accanto all’uscita del libro circolano, peraltro, le voci di un possibile quarto volume che potrebbe essere pubblicato postumo (sebbene incompleto). Sì, perché Larsson è morto d’infarto sul posto di lavoro mentre si trovava nella redazione del suo giornale… esattamente come il personaggio del suo romanzo. Particolare inquietante, vero?
Si dice che a volte la letteratura anticipi gli eventi, come se fosse dotata di poteri preconici.
Forse non sempre è bene che sia così.
Il nostro pensiero a Stieg Larsson, che ha lasciato questa terra senza vedere il successo mondiale della sua trilogia (e senza averci guadagnato un quattrino).
Massimo Maugeri

————–
da “Il Corriere della Sera” del 6 gennaio 2009 – articolo di Stefano Montefiori

Nel terzo volume della trilogia «Millennium», Stieg Larsson (nella foto) non deluderà i fan. Ne “La Regina dei castelli di carta” (Marsilio) ci sono ancora i protagonisti Mikael Blomkvist e l’ adorata Lisbeth Salander, che neanche una pallottola nel cervello è riuscita a sopraffare, e poi la consueta corte di personaggi secondari – che Larsson considerava fondamentali -, alcuni nuovi, altri già presenti nei primi due volumi: il disumano Zalachenko, l’ amico fraterno realmente esistito Kurdo Baksi e il pugile Paulo Roberto, la sorella di Mikael Annika Giannini che accetta la difesa legale di Lisbeth, oltre all’ eterna amante Erika Berger. Erika lascia tra scrupoli e rimpianti la piccola e battagliera rivista «Millennium» per l’ imperdibile posto da redattore capo nel ben più importante, ingessato e conservatore «Smp», e tre giorni dopo l’ insediamento il collega Hakan Morander, che avrebbe dovuto cederle il posto due mesi più tardi, ha un attacco di cuore in redazione. «Videro Hakan alzarsi dalla scrivania e avvicinarsi alla porta – scrive Larsson a pagina 255 -. Aveva un’ espressione stupita. Poi si piegò bruscamente in avanti afferrando lo schienale di una sedia per qualche secondo prima di cadere sul pavimento. Era morto prima ancora che l’ ambulanza avesse fatto in tempo ad arrivare. (…) Che la gente muoia sul posto di lavoro è insolito, anzi raro. Si dovrebbe avere la cortesia di mettersi in disparte, per morire. Di andare in pensione o in malattia e un bel giorno diventare oggetto di conversazione in mensa. A proposito, hai sentito che il buon vecchio Karlsson è morto venerdì scorso? Sì, il cuore. Il sindacato manderà dei fiori per i funerali». Nella continua serie di rimandi e contaminazioni tra vita reale e romanzo che costituisce la saga di «Millennium», questo è forse il più toccante: quasi avesse una premonizione, Larsson sembra descrivere – e sbeffeggiare – la propria imminente morte in redazione, avvenuta poche settimane dopo la consegna del manoscritto di questo stesso volume. Per uno che ha scritto quanto è spiacevole morire sul posto di lavoro, e che avrebbe preferito una fine in sordina, magari nella casetta sul mare dove progettava di ritirarsi con i guadagni di «Millennium», Larsson è stato davvero preso a bersaglio dal destino. Il 9 novembre 2004 l’ ascensore del palazzo di Stoccolma dove aveva sede la sua rivista, «Expo», era guasto. Il cinquantenne Stieg fece di corsa i sette piani di scale per arrivare in redazione, e appena entrato fu stroncato dalle sigarette, il superlavoro, la fatica. Infarto, nel centro del locale, sotto gli occhi dei suoi giornalisti. Anche lì l’ ambulanza non ha fatto neppure in tempo ad arrivare, e tanto meno Larsson è riuscito a dare un ultimo abbraccio a Eva Gabrielsson, la sua compagna di oltre trent’ anni, la donna alla quale era solito rivolgere un «Non indovinerai mai che cosa ha appena fatto Lisbeth Salander», seduto accanto a lei sul divano bianco dell’ appartamento di Stoccolma, mentre Stieg scriveva la serie. Non solo Larsson è morto in redazione, ma la sua fine continua a essere avvolta dal clamore, perché fa da sfondo a uno dei casi editoriali più straordinari degli ultimi anni. Finora i libri di «Millennium» hanno venduto oltre otto milioni di copie nel mondo, soprattutto in Svezia, Francia (il primo Paese straniero a cadere in preda alla Millennium-mania), Germania, Italia (il primo volume “Uomini che odiano le donne” da noi ha superato le 500 mila copie). In questi mesi la saga sta approdando nel mondo anglosassone, e i primi dati di vendita e le recensioni sembrano indicare che il successo di Mikael Blomkvist e Lisbeth Salander potrebbe venire ingigantito nel Regno Unito e in America. Larsson era certo che «Millennium» gli avrebbe assicurato la sicurezza economica della quale non aveva mai goduto in precedenza, chiamava la saga «il mio fondo pensione». Non ha fatto in tempo a intascare un centesimo dei circa dieci milioni di euro che gli sarebbero finora spettati, e se questo dà un tocco di straziante romanticismo alla lettura della sua opera, ha prodotto pure una feroce battaglia patrimoniale tra Erland e Joakim Larsson, padre e fratello di Stieg, parenti emotivamente lontani ma unici eredi legali, e la compagna Eva, che in base alla legge svedese non ha alcun diritto se non sugli effetti personali di Larsson: i mobili di casa, il divano bianco, il giubbotto di pelle, e il famigerato pc portatile con la bozza di un nuovo, inestimabile volume della serie «Millennium». Uscirà mai il quarto volume? Mentre i 25 Paesi nei quali è stata tradotta ancora cercano di mettersi in pari con la trilogia, i francesi – che grazie alla casa editrice “Actes Sud” hanno scoperto per primi il fenomeno scandinavo – si sono dedicati alla questione con grande impegno. Il giallista Guillaume Lebeau ha vissuto tre mesi a Stoccolma per calarsi nell’ atmosfera di «Millennium», incontrare Eva Gabrielsson, amici e conoscenti di Larsson, e scrivere “Le Mystère du Quatrième Manuscrit: enquête au coeur de la série Millénium” (Les Éditions Du Toucan). I parenti di Larsson ed Eva continuano le loro trattative (in un primo momento Erland e Joakim erano contrari a fare uscire un nuovo volume), e Lebeau cerca di rischiarare almeno in parte «il mistero del quarto manoscritto»: ne esisterebbe una copia digitale nel computer in mano a Eva, ma i parenti di Larsson giurano di averne visto una versione stampata sulla sua scrivania, nei giorni immediatamente successivi alla morte. I giornalisti di «Expo», la rivista di Stieg, sono dalla parte di Eva e confermano tutte le sue dichiarazioni, anche quelle più avvolte dai dubbi: le pagine già pronte sono circa 200, dice Eva, ma potrebbero essere invece il doppio. Solo che Eva ha capito che stando così le cose il ricavato delle vendite di un nuovo volume arricchirebbe solo Erland e Joakim, e quindi adesso frena sulla pubblicazione. L’ ipotetico libro, comunque, nella cronologia della storia non sarebbe il quarto volume ma il quinto: Larsson aveva progettato dieci episodi, ed era passato a scrivere direttamente il quinto, saltando il quarto, perché aveva più materiale pronto sulle reti neonaziste europee. Infine, nel «quarto manoscritto», farebbe la sua comparsa la sorella gemella di Lisbeth Salander, sulla cui esistenza Larsson fa un accenno all’ inizio della saga. Dopo le visite guidate sui luoghi larssoniani organizzate quest’ estate dal comune di Stoccolma, la Millenium-mania si nutre di nuovi elementi. Una riduzione cinematografica uscirà in Svezia a marzo, e nell’ ottobre scorso 120 cittadini svedesi – lettori e non – hanno assistito in gran segreto e tra enormi misure di sicurezza all’ anteprima nel cinema Filmhuset della capitale, affinché la società produttrice (recentemente acquisita dall’ italiana De Agostini) potesse valutare in anticipo l’ effetto del film sul pubblico. Una giornalista del Figaro si è infiltrata nel test, e ha parlato di «atmosfera bergmaniana», e al contempo di «film più violento dei libri».
Larsson non ha l’ ambizione di fare letteratura alta, come gli Abba non presero Arnold Schoenberg a modello: eppure la formula svedese di «qualità popolare» sembra vivere oggi il suo momento d’ oro.
Stefano Montefiori

———
POST DEL 5 SETTEMBRE 2008
Perché, oggi, il grande successo dei romanzi-fiume?
Questa domanda la pone Giovanni Pacchiano su un suo articolo pubblicato sul Domenicale de Il Sole 24Ore del 31 agosto. Anzi, la domanda intera è: perché, oggi, il grande successo dei romanzi-fiume di qualità?
In effetti, è vero… lo precisa lo stesso Pacchiano nell’articolo (potete leggerlo qui di seguito per gentile concessione della redazione del Domenicale)… il successo dei romanzi di Larsson, di Dahlquist, l’ultimo della Fallaci, il più recente di Follet (di qualità o polpettone?) giustificano la suddetta domanda.
Per quale motivo, secondo voi?
Insomma, perché la gente è tornata a leggere i romanzi-fiume di “dimensione ottocentesca”?
L’autore dell’articolo fornisce una sua spiegazione.
Siete d’accordo?
Infine vorrei cogliere l’occasione per parlare di Stieg Larsson.
Lo conoscete? Lo avete letto? Cosa ne pensate?
Sullo stesso numero del Domenicale Cesare De Michelis con molto (e legittimo) orgoglio scrive: “dall’inizio di marzo le vendite del primo, Uomini che odiavano le donne, sono in continua crescita e La ragazza che giocava con il fuoco, il secondo uscito il 18 giugno, è già alla quarta ristampa. In tutto, a oggi, abbiamo stampato 330.000 copie, ma l’onda non si è affatto fermata…”.
Massimo Maugeri

___________________

L’estate dei libri «pesanti». Il mattone che trionfa in libreria

di Giovanni Pacchiano

Sono un larssoniano della primissima ora. Fa fede la mia recensione al primo romanzo della sua Trilogia «Millennium», Uomini che odiano le donne (Marsilio, pagg. 676), apparsa su queste pagine il 9 dicembre 2007. Sono altresì un larssoniano fanatico: inizi a leggerlo e non te ne puoi staccare un attimo. E ti avvicini alla fine della storia, una storia-fiume, con la sensazione, per niente bella, che, chiuso il libro, non saprai cosa fare della tua vita. Almeno per un po’.
Il fatto è che non succede a me solo. Ho regalato Uomini che odiano le donne a destra e a manca. L’ho consigliato a chiunque mi capitasse a tiro. La reazione è stata unanime. «Cosa farò quando lo avrò finito?», mi ha detto un’amica. E un altro: «È come una droga». Una droga. Tant’è vero che, per non aspettare l’uscita in traduzione degli altri due romanzi, a suo tempo li ho comprati in francese (Actes Sud).
Oggi, Larsson, per via di un frenetico passaparola, rafforzato dall’uscita in italiano del secondo romanzo, La ragazza che giocava con il fuoco (Marsilio, pagg. 754), è diventato un fenomeno mediatico. Merito, certo, dell’ottima costruzione dei suoi romanzi, della continua suspense, dell’attenzione alla psicologia dei personaggi e a un inquieto versante sociale della Svezia che, in molti, non conoscevamo. Ma lo è diventato anche per le caratteristiche dei suoi libri, di immensi romanzi-fiume (sì, come quelli dell’Ottocento: Hugo, Dickens, Collins, Tolstoj). Ciò che lo inserisce in una propensione al romanzo-fiume divenuta oggi una moda. Ma qui si tratta, per buona sorte, non di grossolani polpettoni, ma di romanzi-fiume di qualità. Ce ne sono altri: ad esempio, la serie dei romanzi di Henning Mankell che vedono protagonista il commissario Wallander (Marsilio). Almeno un romanzo di Leif G.W. Persson, Tra la nostalgia dell’estate e il gelo dell’inverno (Marsilio, pagg. 588) che può stare alla pari con Stieg Larsson. E non è necessario radicarsi in Svezia. Pensiamo alla fortuna di un altro romanzo-fiume come il recente Un cappello pieno di ciliege (Rizzoli, pagg. 860) di Oriana Fallaci. O all’americano Gordon Dahlquist con La setta dei libri blu (Bompiani, pagg. 796): un mix rétro tra Wilkie Collins e Arthur Machen.
E veniamo dunque al punto che più ci importa. Perché, oggi, il grande successo dei romanzi-fiume di qualità?
Il protagonista, almeno così crediamo, è un lettore colto. Ha più di quarant’anni (ma può averne anche settanta e passa). È deluso dalla vita pubblica e dal crollo dei valori di un mondo perbene ormai scomparso. Si sente, inoltre, accerchiato dalla cattiva letteratura e prova il bisogno di abbandonarsi a una narrativa totalizzante e chilometrica. Come le grandi letture della sua giovinezza. Sostitutiva della vita? Forse sì, almeno per il non breve tempo della lettura. Paradossalmente, anestetizzante e insieme esaltante. Con una buona dose di regressione: non sono i bambini a divorare un libro, se li appassiona? Come gli antropofagi. E come noi, in questo caso.
Ma non basta: i buoni romanzi-fiume sono, sempre, avvincenti. «Avvincente», cioè qualcosa che ti lega. Sei fatalmente e strettamente legato al tuo libro sino alla conclusione della storia. Alle avventure di Mikael e di Lisbeth (magnifica ultima dei reietti di victorhughiana memoria) nella trilogia di Larsson, come alle peripezie e ai drammi degli antenati di famiglia nell’eccellente romanzo della Fallaci.
Alla fine, purtroppo, sarà il libro a slegarsi da te. Tuo malgrado. L’unica medicina: dimenticarlo; per poterlo rileggere.

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/20/perche-oggi-il-grande-successo-dei-romanzi-fiume/feed/ 230
L’ITALIA TRA LA PAURA DELLO STRANIERO E GLI SGUARDI PERPLESSI DALL’ESTERO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/05/27/litalia-tra-la-paura-dello-straniero-e-gli-sguardi-perplessi-dallestero/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/05/27/litalia-tra-la-paura-dello-straniero-e-gli-sguardi-perplessi-dallestero/#comments Tue, 27 May 2008 17:09:14 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/05/27/litalia-tra-la-paura-dello-straniero-e-gli-sguardi-perplessi-dallestero/ audrey-hepburn-2.JPGSul Domenicale de Il Sole24Ore del 25 maggio sono apparsi due articoli molto interessanti e, almeno a mio avviso, complementari.
Il primo porta la firma di Remo Bodei ed è incentrato sulla paura dell’altro, dello straniero, del diverso.
“Da tempo immemorabile”, scrive Bodei, “tutte le comunità umane cercano di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo mediante la separazione dei propri componenti dagli “altri”. Più una società è debole e insicura, più la formazione del “noi” esige rigorosi meccanismi d’esclusione e, generalmente, d’attribuzione al noi di un qualche primato, reale e immaginario, e, per converso, di degradazione, sospetto e timore riguardo all’altro, al diverso. (…) La direzione della paura è storicamente cambiata. Nel passato, anche recente, era soprattutto il potere statale a incuterla (…). Secondo un detto anglosassone, un Paese è democratico quando chi viene alla vostra porta di primo mattino è il lattaio e non la polizia politica.”
Certo, la situazione oggi, da noi, è diversa. La paura pare provenire più – appunto -dall’altro, dallo “straniero”.
Vi giro le stesse domande che pone Bodei nell’articolo.
Che succede se chi vi entra in casa non è né il lattaio, né il poliziotto, ma un rapinatore che, oltre a impossessarsi dei vostri beni, attenta anche alla vostra vita?
Se vostra figlia viene stuprata a una fermata della metropolitana?

(Urge – è evidente – sicurezza).
Ma quale sicurezza?
Quali misure prendere per evitare una militarizzazione della società, una sua chiusura che la esponga a una sorta di malattia del ricambio, che semini il sospetto, che si pieghi a strumentalizzazioni politiche e che delegittimi l’accoglienza dell’altro, vedendovi solo un potenziale nemico?
Belle domande, vero?
Voi che ne pensate?
L’altro articolo, quello di Alessandro Melazzini, affronta un altro problema (per certi versi speculare a quello evidenziato da Bodei). Come ci vedono dagli altri paesi? (Se vi ricordate ne avevamo già discusso, in parte, in questo post nato a seguito della pubblicazione del noto articolo sul New York Times che etichettava gli italiani come un popolo di depressi).
berlusconi-spiegel.jpg«Questa è la vecchia Italia. Ammirata e guardata con stupore. Soprattutto derisa» scuote la testa lo Spiegel «una terra di commedianti e imbroglioni, di amabili birbanti, ingannatori ed eterni bambini».
Secondo gli occhi dei tedeschi, come scrive Melazzini, l’Italia che emerge è quella che vede “Napoli sommersa dai rifiuti, avanzi di fascismo impenitente à la Ciarrapico in Parlamento, spigliate soubrette innalzate a Ministro, tutto il potere all’incomprensibile Berlusconi (quello dell’indimenticata battuta europea sui kapò), Roma che attacca i campi nomadi, Verona con un sindaco leghista che sposta il ritratto di Napolitano per fare spazio all’effige di un capo di Stato straniero: il Papa.”

Poi, però, vengono riportati pareri positivi (vi invito a leggere l’articolo per intero). Vengono citati “i fatti” di Duisburg e riportate le opinioni di Woller e Ulrich («Sono tutti problemi europei» sostiene lo storico Hans Woller, «basti pensare allo scandalo della Siemens o alla criminalità giovanile in Francia. Marchiare a fuoco lo Stivale è sbagliato: tutta l’Europa a questo riguardo è italiana»).

Da qui si evince che la società tedesca, al di là delle polemiche, sa perfettamente distinguere tra pochi e violenti mafiosi e molti italiani onesti.

Tuttavia, al di là di come ci vedono in Germania, l’immagine dell’Italia all’estero pare un po’… offuscata.

E allora…

Che accade agli italiani? E cosa ne è del loro fascino?

Ma poi… siamo sicuri che il marcio è solo di marca italiana?
Che dire allora degli articoli sulla corruzione, la criminalità e il razzismo di cui si legge in questi giorni sulla stampa tedesca?

Ecco… mi piacerebbe discuterne con voi.
Intanto ne approfitto per ringraziare Remo Bodei e Alessandro Melazzini, nonché gli amici della redazione del Domenicale de Il Sole24Ore che mi hanno concesso la possibilità di riprodurre gli articoli citati.
Li trovate qui di seguito. Riportati integralmente.
Massimo Maugeri
——————-

SOTTO IL REGNO DELLA PAURA di Remo Bodei

Nel 1538 si festeggiava a Città del Messico la pace nella lontana Europa tra Carlo V e Francesco I. Racconta il cronista Bernal Diaz Castillo che all’occasione – nella piazza dove sorgeva il Templo Mayor e dove si stava innalzando al suo fianco la cattedrale – venne allestito uno strano spettacolo. Furono portati migliaia d’alberi, per simulare una selva, immediatamente popolata da villosi selvaggi. Questo ambiente avrebbe dovuto rappresentare il nuovo regno conquistato appena quindici anni prima. Colpisce e meraviglia una doppia incongruità: che nella metropoli circondata (secondo la testimonianza di Cortéz) da quaranta torri alte quasi cento metri, come la Giralda di Siviglia, nel centro di un tessuto urbano monumentale impressionante, si riducessero gli Indios a selvaggi. Ma fa specie, soprattutto, che uomini dal corpo glabro e liscio venissero travestiti ricoprendoli di pellicce. Come era possibile che la realtà venisse alterata sino al punto di negare l’evidenza percettiva? Perché si proiettavano su una nuova esperienza vecchi schemi e pregiudizi, non solo attribuendo il monopolio della civiltà ai conquistatori, ma rappresentando i presunti selvaggi secondo il modello dell’anacoreta villoso – come Sant’Onofrio – che si faceva crescere i capelli nel deserto? La cecità nei confronti delle altre culture è in questo caso evidente ed è mossa dal desiderio e dalla volontà di abbassare gli altri a un livello di primitività che rasenta la vita animale e, nello stesso tempo, di esorcizzare la paura nei loro confronti.
Da tempo immemorabile tutte le comunità umane cercano di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo mediante la separazione dei propri componenti dagli “altri”. Più una società è debole e insicura, più la formazione del “noi” esige rigorosi meccanismi d’esclusione e, generalmente, d’attribuzione al noi di un qualche primato, reale e immaginario, e, per converso, di degradazione, sospetto e timore riguardo all’altro, al diverso. Eppure, per non soffocare nel proprio isolamento, ogni comunità (specie se evoluta) prevede meccanismi opposti e complementari di inclusione degli altri. In ciascuna permane comunque una costitutiva ambiguità, che può venire efficacemente illustrata a partire da una etimologia. Nel “Vocabolario delle istituzioni indoeuropee” Émile Benveniste ha mostrato come la parola latina “hostis” indichi simultaneamente l’”ospite” e il “nemico”, uniti dalla comune relazione di scambio e di reciprocità: il primo scambia, in positivo, dei doni; il secondo, in negativo, la morte. Lo straniero è così, contemporaneamente, un ponte verso l’alterità e una minaccia per la compattezza della popolazione, un antidoto alla sterile chiusura in se stessi e un condensato di paure.
L’incertezza del vivere deriva oggi, appunto, dalla percezione diffusa che lo straniero costituisce un potenziale nemico piuttosto che un possibile ospite (oltre che una persona che, con il suo lavoro, contribuisce spesso al nostro benessere). Se paura e speranza, nella loro polarità, sono entrambe alimentate dal bisogno di sfuggire ai pericoli del presente e all’incertezza del futuro, viene da chiedersi se non vi sia una proporzione inversa tra il diminuire della speranza in un futuro migliore e la crescita di angosce plurime o senza nome che si catalizzano sullo straniero. I problemi suscitati dall’inserzione impetuosa in altri contesti di milioni di persone di cultura diversa, spinte a emigrare dalla povertà o dalle guerre, certamente non mancano. Pericolosa è tuttavia la generalizzazione di casi singoli (anche se frequenti), il confondere gli individui con un gruppo etnico o religioso o il proiettare su di loro stereotipi o formule ideologiche di comodo.
In un mondo che si restringe e le cui parti divengono interdipendenti non c’è oggi alcuna sensata alternativa all’integrazione, la quale non coincide né con l’assimilazione, né con la creazione di ghetti (e neppure con il cosiddetto buonismo, un alibi per non assumere concrete responsabilità, o con la xenofobia, un acido che corrode la civile convivenza). L’integrazione rappresenta piuttosto un lungo e paziente processo di annodamento delle differenze all’interno di un tessuto sociale che le renda non solo compatibili, ma, in prospettiva, feconde.
La direzione della paura è storicamente cambiata. Nel passato, anche recente, era soprattutto il potere statale a incuterla. Nella filosofia politica veniva messa alla base dei regimi dispotici: dal “phobos”, attribuito dai Greci agli Orientali, i cui sovrani trattano i sudditi come schiavi, sino alla “crainte” che Montesquieu riscontrava al suo tempo dominante nell’Impero Ottomano o in Persia (con l’aiuto della tecnica i totalitarismi del Novecento l’hanno poi resa onnipresente). In maniera più realistica, Hobbes la considerava invece caratteristica imprescindibile di ogni Stato, allorché viene esercitata sia nell’ambito della legge o dell’arbitrio sovrano, sia in quello dell’anarchia, dove si trasforma in terrore o in panico.
Secondo un detto anglosassone, un Paese è democratico quando chi viene alla vostra porta di primo mattino è il lattaio e non la polizia politica. Tale regime è quindi definito dell’assenza o della riduzione della paura, che si manifesta anche nel privilegio accordato all’accettazione del diverso rispetto alla sua espulsione. Le democrazie sviluppano così i semi gettati dal cristianesimo. L’episodio evangelico del Buon Samaritano mostra, infatti, come si venga talvolta aiutati più dagli stranieri che dai propri concittadini. In questo senso, il cristianesimo rappresenta il tentativo più elaborato di abbattere le barriere etniche e statali che separano il “noi” dagli “altri”, il cittadino dallo straniero (il cristiano, del resto, si considera “peregrinus”, “straniero” a questo mondo e “pellegrino” o viandante di passaggio in esso).
Ma che succede se chi vi entra in casa non è né il lattaio, né il poliziotto, ma un rapinatore che, oltre a impossessarsi dei vostri beni, attenta anche alla vostra vita? Se vostra figlia viene stuprata a una fermata della metropolitana? La paura non viene allora più percepita come proveniente dal potere statale, ma, al contrario, da una criminalità che le “forze dell’ordine” stentano a contrastare. L’insicurezza rende gli individui e l’opinione pubblica meno razionali, creando uno stato d’animo di allerta o di psicosi collettiva, che fa di ogni erba un fascio, non tiene conto delle esperienze analoghe nel passato e crea dei capri espiatori.
È evidente che se l’esistenza delle persone fosse resa meno precaria, meno esposta agli imprevisti, la loro tendenza a comportamenti ragionevoli si rafforzerebbe spontaneamente. La sicurezza è dunque indispensabile per restringere l’area della paura. Ma quale sicurezza? Quali misure prendere per evitare una militarizzazione della società, una sua chiusura che la esponga a una sorta di malattia del ricambio, che semini il sospetto, che si pieghi a strumentalizzazioni politiche e che delegittimi l’accoglienza dell’altro, vedendovi solo un potenziale nemico?
Remo Bodei

—————————

ACHTUNG, COMMEDIA ALL’ITALIANA di Alessandro Melazzini

«Che accade agli italiani? E cosa ne è del loro fascino?». Simili dubbi serpeggiano da qualche anno tra i media tedeschi. Ma a leggere certe scorate analisi degli ultimi giorni c’è da credere che il nostro Paese appaia ormai agli occhi tedeschi davvero senza più alcuno slancio. Napoli sommersa dai rifiuti, avanzi di fascismo impenitente à la Ciarrapico in Parlamento, spigliate soubrette innalzate a Ministro, tutto il potere all’incomprensibile Berlusconi (quello dell’indimenticata battuta europea sui kapò), Roma che attacca i campi nomadi, Verona con un sindaco leghista che sposta il ritratto di Napolitano per fare spazio all’effige di un capo di Stato straniero: il Papa. «Questa è la vecchia Italia. Ammirata e guardata con stupore. Soprattutto derisa» scuote la testa lo Spiegel «una terra di commedianti e imbroglioni, di amabili birbanti, ingannatori ed eterni bambini». Bambini pericolosi però, come hanno mostrato l’anno scorso i fatti di Duisburg, quando la “Polizei” s’è resa conto che ormai intere zone del territorio tedesco sono in mano alla Camorra, soprattutto a Est. Se fino ad allora la criminalità organizzata proveniente dal Sud veniva osservata come un pittoresco fenomeno esterno, adesso i detective federali hanno fatto ammenda della loro superficialità e prestano molta più attenzione agli avvertimenti dei loro colleghi italiani. Eppure, anziché puntare il dito indiscriminatamente contro il Belpaese, o risfoderare la famigerata copertina dello Spiegel anni Settanta con la pistola sul piatto di pasta, proprio in quel Ferragosto di sangue la società tedesca ha dimostrato di saper scindere perfettamente tra pericolosi elementi criminali e l’onestà dei suoi 600.000 concittadini di origine italiana. Ci ha guadagnato Roberto Saviano, il cui strabiliante Gomorra con un “timing” perfetto è uscito qui in Germania dieci giorni dopo la strage. A visitare i locali italiani poi non risulta che sia venuta meno la passione con cui i tedeschi, dai massimi vertici della politica berlinese alla famigliola di Würzburg, si dedicano alla gastronomia mediterranea. Forse perché, come si scrisse durante la foga dei Mondiali di calcio, «la più grande innovazione italiana è arrivata in Germania ormai vent’anni fa e si chiama: rucola»? Un’accusa, quella dello scadimento nostrano, rinnovata la settimana scorsa dal pubblicista Gustav Seibt sulle pagine della Süddeutsche Zeitung, secondo cui ormai nessuno si fila più la cultura italiana e tutt’al più al Nord giungono solo i vergognosi spettacoli di quei senatori giubilanti a mortadella per la caduta del precedente governo. Sull’indecorosa scena offerta da certi nostri politici difficile obiettare, ma visto l’interesse con cui si traducono Camilleri, Carofiglio e Calasso, si studia Agamben, s’intervista Claudio Magris e al cinema si guarda Mein Bruder ist ein Einzelkind (l’italianissimo Mio fratello è figlio unico di Daniele Lucchetti), è lecito avanzare qualche dubbio sulla totale disfatta della nostra cultura oltralpe. Insomma, l’«estraniazione strisciante tra Italia e Germania» – per usare il titolo di un volume contemporaneamente in uscita presso Il Mulino e la bavarese Oldenbourg Verlag – sta davvero avendo luogo? «Diversamente da Gian Enrico Rusconi» risponde lo storico Hans Woller, curatore dell’opera insieme al collega italiano, «a mio parere le relazioni tra i due paesi sono quelle di una distesa normalità. E sebbene politicamente ci siano state frizioni e allontanamenti, non bisogna dimenticare le ottime relazioni economiche e sociali in corso. Sempre più studenti tedeschi imparano l’italiano, sempre più studenti italiani vengono in Germania. Pensiamo poi a Eco, Muti, Abbado, Renzo Piano: tutti artisti che hanno conquistato celebrità mondiale! Dal primo cappuccino all’ultima grappa l’Italia qui ci accompagna tutto il giorno». Che dire allora degli articoli sulla corruzione, la criminalità e il razzismo di cui si legge in questi giorni sulla stampa tedesca? «Sono tutti problemi europei» risponde Woller, «basti pensare allo scandalo della Siemens o alla criminalità giovanile in Francia. Marchiare a fuoco lo Stivale è sbagliato: tutta l’Europa a questo riguardo è italiana». Secondo Stefan Ulrich, corrispondente da Roma della Süddeutsche Zeitung, occorre distinguere tra politica e società. «Effettivamente in passato tra Italia e Germania c’erano molti più contatti a livello politico. Ai cristiano-democratici tedeschi corrispondeva la DC, il PCI trovava un punto di riferimento nella SPD. C’erano grandi affinità dovute alla comune esperienza di fascismo e nazismo prima, alla ricostruzione democratica poi». Ma oggi il panorama è drasticamente cambiato. «In Germania non esiste un partito come Forza Italia, né un politico come Berlusconi. E la Lega Nord non è paragonabile alla CSU bavarese. Le due classi politiche hanno perso i loro rispettivi punti di riferimento». Detto questo, la fascinazione turistica verso Sud permane ininterrotta. Non a caso Ulrich nel suo divertente Quattro Stagioni, appena uscito in Germania, racconta che uno dei compiti più duri arrivato a Roma è stato quello di contenere lo sciame di connazionali desideroso di fargli visita. «Non sono così vanitoso da pensare che volessero venire tutti a trovare me. Il fatto è che l’Italia è una delle mete turistiche più attraenti del mondo. Quanto alla cultura, anche in Germania film come Gomorra o Il Divo suscitano interesse, l’attività della Scala viene seguita con attenzione e i grandi eventi di Roma e Venezia non passano certo inosservati. Non è possibile affermare che l’Italia sia culturalmente inaridita». Quindi i limoni italiani fioriscono ancora? Non c’è dubbio, eppure sarebbe esiziale, avverte Ulrich, sottovalutare le tensioni a livello politico: «la storia c’insegna che anche quando i popoli si comprendono bene, se la politica crea rigetto si può velocemente andare incontro a situazioni assai conflittuali».
Alessandro Melazzini ( alessandro at melazzini.com)

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/05/27/litalia-tra-la-paura-dello-straniero-e-gli-sguardi-perplessi-dallestero/feed/ 277