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martedì, 24 maggio 2016

LA PAZZA GIOIA (e altro ancora)

La nuova puntata di Letteratitudine Cinema con un pezzo “multiplo” sulle novità cinematografiche della settimana: La pazza gioia di Paolo Virzì; Money Monster di Jodie Foster; Microbo e Gasolina di Michel Gondry.

* * *

La settimana al Cinema

recensioni di Ornella Sgroi

La pazza gioia di Paolo Virzì. Con Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti e Valentina Carnelutti

La vitalità della disperazione e la disperazione della vitalità. In un faccia a faccia che toglie il respiro, spezzato dalla bellezza e dalla forza dirompente della compassione e dell’umanità. Il regista Paolo Virzì dipinge così due ritratti femminili straordinari, di cui traccia i segni sulla carne e sul cuore di due attrici altrettanto straordinarie. Micaela Ramazzotti, mai stata così convincente in una pellicola come in questo ultimo film diretto dal marito Virzì, e Valeria Bruni Tedeschi, incantevole e travolgente nella sua femminilità mortificata dalla follia e appassionante nella sua interpretazione piena di pathos, sfumata di mille colori e tonalità affettive. Eccentrica, adorabile e irrefrenabile. Portatrice sana, nella sua insana verità, di un sentimento capace di rimettere in circolazione la vita nelle vene affrante e dolenti di una ragazza schiacciata dal senso di colpa. Questa delicata e al contempo potente storia di donne Paolo Virzì la racconta con garbo e discrezione, avvicinandosi quasi in punta di piedi ai volti delle sue due protagoniste, per coglierne l’anima attraverso sguardi e lacrime. E lo fa talmente bene che alla fine del film si sente quasi il bisogno di custodire dentro di sé, in silenzio, in segreto, tutte le emozioni provate insieme alle due protagoniste, mentre piano risale dal profondo il desiderio di correre fuori dalla sala per condividerle, quelle suggestioni emotive, con chi può farsi partecipe di tanti stati d’animo. Che passano, sullo schermo come in sala, dal sorriso e persino dalla risata esorcizzante alla commozione più intima e sincera.
Tutto parla di vita, nel film di Paolo Virzì. Persino i paesaggi e i colori. Senza fine, come ci ricordano le note delicate e malinconiche della canzone di Gino Paoli, che ci accompagna verso un finale pieno di speranza. Adagiando il seme di un nuovo inizio dentro un dolcissimo sorriso.

* * *

Money Monster di Jodie Foster. Con George Clooney, Julia Roberts e Jack O’Connell (continua…)

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lunedì, 18 aprile 2016

IL CINEMA CHE CELEBRA LE DONNE

La nuova puntata di Letteratitudine Cinema contiene un pezzo “multiplo” sulle novità cinematografiche: questa settimana, il cinema… celebra le donne

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a cura di Ornella Sgroi

Il cinema, questa settimana, celebra le donne. Con due commedie brillanti che hanno per protagoniste due coppie femminili dinamiche e sopra le righe, interpretate con grande ritmo e carisma da attrici in gran forma.

Da una parte Margherita Buy e Claudia Gerini, nella commedia italiana “Nemiche per la pelle” di Luca Lucini. Due donne che hanno avuto in comune lo stesso uomo, dal quale ereditano all’improvviso un bambino cinese di sette anni. Un espediente narrativo che mette in moto una serie di situazioni e di duetti irresistibili, sotto la guida di un regista che si mette completamente al servizio delle sue attrici, dotate di tempi comici perfetti come fossero una coppia comica più che collaudata. La Gerini, cattiva e tornacontista, scorrettissima nel suo approccio inatteso con la maternità “testamentaria”. La Buy, adorabile nel suo essere goffamente femminile e materna. Al loro fianco, Paolo Calabrese e Giampaolo Morelli, ruoli a margine di una commedia che finalmente rende protagoniste assolute le donne anche nella comicità. Cosa piuttosto insolita nel panorama italiano.

* * *

Dall’altra parte dell’Oceano arrivano invece Greta Gerwig e la più giovane Lola Kirke, protagoniste della commedia americana “Mistress America” di Noah Baumbach. (continua…)

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martedì, 12 aprile 2016

DUE VENTATE DI ARIA FRESCA E VITALE SUL CINEMA ITALIANO

La nuova puntata di Letteratitudine Cinema contiene un pezzo “multiplo” con le recensioni a due belle novità del cinema italiano

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Recensione di Ornella Sgroi

Il mese di aprile ha portato con sé due belle sorprese tutte italiane. Che fanno soffiare aria fresca e vitale sul panorama del cinema nazionale.

La prima è “Veloce come il vento” di Matteo Rovere. Storia di famiglia e di motori, di passione, adrenalina e affetti mancati, persi e ritrovati. Disperatamente. Dietro al volante di una porche, a correre e rischiare in pista, c’è Giulia (Matilde De Angelis), diciassette anni e un grande talento da scoprire e dimostrare, anche per salvare la casa di famiglia ed evitare che il fratellino più piccolo vada in affidamento. Disperata e determinata, al punto da mettere tutto nelle mani del fratello maggiore, Loris (Stefano Accorsi), ex promessa delle corse distrutto dalla tossicodipendenza.
Tratto da una storia vera, il film di Matteo Rovere vola davvero sulla scia del vento. Con un inizio folgorante nel nome di “nostro Signore del sangue che corre nel buio delle vene”. Un’attrice protagonista, la giovane esordiente Matilde De Angelis, che cattura e ipnotizza anche con la voce oltre che con lo sguardo. Una regia e un montaggio “gas e freno” e una colonna sonora che scaraventa lo spettatore in pista. E anche Stefano Accorsi, brutto, sporco e tossico, è convincente con le sue ciabatte che gli scappano dai piedi, mentre insegue fantasmi e incita la sorella minore a non pensare alla curva che ha davanti, ma a quella che ancora non vede.

L’altra bella sorpresa è, in realtà, un atteso ritorno. Quello dell’altrettanto folgorante “Lo chiamavano Jeeg Robot”, primo lungometraggio di Gabriele Mainetti. Dopo 16 candidature ai David di Donatello, in consegna il 18 aprile, torna in sala un film che è già cult e che con originalità ha molto da dire, in fatto di cinema (anche sotto l’aspetto produttivo), in fatto di generi e di emozioni. Il regista Gabriele Mainetti, segnatevi questo cognome, fa esplodere il genere dei supereroi made in Italy – già sperimentato da Gabriele Salvatores con “Il ragazzo invisibile” – mettendo insieme il fumetto classico con la periferia italiana e i suoi tormenti, l’amore per Jeeg Robot con le impronte digitali Marvel e la passione per il cinema con la competenza registica. Costruendosi un’identità tutta sua, forte e coerente. Il risultato è imprevedibile e imperdibile, anche grazie a due attori che fanno a botte da veri fuoriclasse. Claudio Santamaria e un Luca Marinelli eccentrico ed esilarante, assolutamente magnifico. Che ha fatto tesoro di questa sua interpretazione per il ruolo, altrettanto riuscito, in “Non essere cattivo” di Claudio Caligari. Il risultato? È quello che Mainetti chiama “sospensione dell’incredulità”. Anche perché – come dice l’eroina fragile del film, interpretata dall’esordiente Ilenia Pastorelli – «un supereroe con le scarpe di camoscio non s’è mai visto!» (continua…)

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venerdì, 19 febbraio 2016

NESSUNO È COME SEMBRA

La nuova puntata di Letteratitudine Cinema contiene un pezzo “multiplo” con le recensioni di quattro film attualmente in sala che hanno tutti uno stesso comune denominatore: l’identità e l’apparenza.

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Recensione di Ornella Sgroi

Nessuno è come sembra. Nessuno è chi dice (o crede) di essere. Un tema intrigante, quello dell’identità, nella dissonanza tra realtà e apparenza. E sono ben quattro i film attualmente in sala che lo affrontano, ognuno a proprio modo. Quattro diverse divagazioni sul tema, firmate da registi altrettanto diversi. Per linguaggio, stile, narrazione, sentimento e atmosfera. Oltre che per nazionalità. Ognuno al comando di attori che lasciano il segno e che contribuiscono in modo impeccabile alla riuscita di ciascun film. Da non perdere, nessuno dei quattro, perché nessuna buona ragione sarebbe davvero una buona ragione.

* * *

The Hateful Eight di Quantin Tarantino, con Samuel L. Jackson, Kurt Russel, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern, Demiàn Bichir, Channing Tatum

Un Tarantino insolito.  Per la neve che fiocca sull’ispirazione dichiaratamente western del regista, dopo l’esperienza di “Django Unchained”. E per l’evoluzione in classico del giallo alla maniera di Agatha Christie e del suo “…E poi non rimase nessuno”. Anche se invece dei dieci piccoli indiani, Tarantino schiera otto assassini “odiosi” e irresistibili. Visivamente potentissimo, il nuovo film di Tarantino è scritto e girato con le parole ancora più che con l’azione cui il regista ci ha abituato, ma anche con la musica del Maestro Ennio Morricone, che escogita partiture da horror tra Dario Argento e John Carpenter, complici anche i suoni d’ambiente. Il vento, soprattutto e fuori di tutto, mentre dentro il rifugio i fiocchi di neve filtrano dalle fessure imbiancando la bellissima fotografia firmata da Robert Richardson. Dialoghi scoppiettanti e brutali, attori tutti in stato di grazia. Contagiati dal divertimento duro e puro che è tutto del regista statunitense e della sua banda di fuorilegge sempre in cerca di documenti che attestino una qualche verità. Un divertimento, quello di Tarantino, che fa scacco matto anche allo spettatore, costretto a fatica a mandare giù il coniglio uscito dal cilindro o, meglio, dalla botola che Tarantino avrebbe fatto bene a non aprire. Perché se giallo deve essere, allora bisogna giocarlo ad armi pari.  Anche se i suoi “hateful eight”, probabilmente, non sarebbero d’accordo. (continua…)

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lunedì, 30 giugno 2014

LE COSE BELLE – Agostino Ferrente, Giovanni Piperno

I registi Agostino Ferrente e Giovanni Piperno raccontano il loro ultimo documentario “Le cose belle”, in sala dal 26 giugno

Intervista di Ornella Sgroi

Si dice che il tempo aggiusta tutto, ma chissà se il tempo esiste davvero. Forse è solo una scaramanzia, forse è solo una canzone. Una di quelle tra le cui note si rifugia Enzo, uno dei quattro protagonisti de Le cose belle, il nuovo documentario di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno che dopo dodici anni tornano nei luoghi geografici e interiori del loro precedente Intervista a mia madre per scoprire cosa è rimasto dei sogni di quei quattro bambini nati nella periferia di Napoli. Enzo e Fabio, aspirante cantante uno, calciatore professionista già mancato l’altro. Con loro, Adele e Silvana e la rispettiva ambizione di ballerina e di modella.

Qualunque cosa sia il tempo, Ferrente e Piperno lo hanno inchiodato sul grande schermo attraverso le loro storie e i loro sguardi. Li avevano lasciati nel 1999 appena adolescenti e li ritrovano oggi quasi adulti, ognuno alle prese con la difficoltà del vivere quotidiano, ancora più complesso se ci si trova ad affrontarlo in un contesto di disagio e abbandono istituzionale in cui passato presente e futuro sono solo parole vuote senza alcuna possibilità concreta.

“Quando li abbiamo rincontrati” ci racconta Agostino Ferrente “la prima impressione è stata di dolore, di fronte alla conferma di ciò che già dieci anni fa era prevedibile viste le premesse. E cioè che se cresci in un contesto sociale difficile, difficilmente riesci ad avere le opportunità che ha chi cresce in ambienti più protetti. Poi abbiamo capito invece che, nonostante questo, loro sono dei fiori cresciuti tra le rovine, perché hanno resistito alle sirene della camorra e sono riusciti a condurre un’esistenza dignitosa, cercando le cose belle nel loro quotidiano”.

Mentre le immagini della loro adolescenza, quei pezzi di intervista lasciati fuori dal primo documentario, si intrecciano con gli ultimi quattro anni delle loro vite, il cambiamento dei loro sguardi attraverso il tempo è una lama ostile che chiede ragione di tanta fatica e tristezza. L’ironia ruffiana di Fabio e la sfrontatezza smaliziata di Adele si sono spente dietro i loro occhi. Mentre la malinconia ingenua di Enzo e l’espressione disorientata di Silvana sono ancora lì.

“Di fronte ai loro sguardi così cambiati abbiamo provato un senso di impotenza, almeno all’inizio, finché non abbiamo capito che ci stavano dando una grande lezione di vita. Ci dimostravano ogni giorno che il successo non è diventare una modella famosa o un celebre calciatore, ma riuscire a vivere dignitosamente senza prendere facili scorciatoie. Sono diventati più consapevoli e realisti, il che non vuol dire meno felici”.

La straordinarietà del film di Ferrente e Piperno, in sala dal 26 giugno e già premiato al Taormina Film Fest come miglior documentario italiano dell’anno e prima ancora con un Nastro d’Argento Speciale, sta proprio in questo intersecarsi di piani temporali in cui sono i volti degli stessi protagonisti a maturare e cambiare seguendo lo scorrere ineludibile delle loro età. Non c’è finzione, non c’è make-up. E il confronto con il riflesso di quelle vite cresciute è spietato anche con lo spettatore.

“L’incontro con il proprio futuro è una macchina del tempo che restituisce anche la crudezza della vita, ma al contempo rende eroi del quotidiano coloro che cercano di non perdere la propria bellezza nonostante tutto. Io e Giovanni abbiamo fatto un patto con quei ragazzi tanti anni fa e lo abbiamo rinnovato una seconda volta, noi abbiamo messo tre anni della nostra vita nelle loro mani e loro hanno messo la loro intimità nelle nostre, con un rapporto di fiducia reciproca che non è mai stata tradita”.

(continua…)

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martedì, 15 aprile 2014

LEI, THE SPECIAL NEED E NYMPH()MANIAC VOL. I

Lei, The Special need e Nymph()maniac vol. I

Il Cinema e quel disperato bisogno d’amore che c’è.

Recensione di Ornella Sgroi

Il segreto di tutto è l’amore. E a ricordarcelo è ancora una volta il Cinema, con tre film usciti quasi contemporaneamente. Diversissimi tra di loro, eppure accomunati da uno stesso senso intimo e profondo che riconduce tutto a quel sentimento misterioso, imprescindibile tanto da diventare un vero e proprio bisogno. Un bisogno speciale. In tutte le sue forme, le sue manifestazioni, le sue sfumature. Persino le sue degenerazioni.

Proprio il desiderio di riscoprire la bellezza dei sentimenti e l’urgenza di tornare a scambiarseli in modo tangibile e reale sono il cuore pulsante di “Lei” di Spike Jonze, un inno alla voglia di emozionarsi e di esplorare il rapporto con l’altro e con gli altri. Per (ri)scoprire la cosa più preziosa che solo gli uomini possiedono, vale a dire proprio quell’umanità che rischia di estinguersi.

Tutto questo il regista Spike Jonze lo racconta con grande sensibilità ed una buona dose di umorismo, brillante e sottile, acuto, raffinatissimo. Partendo da un grande paradosso che, seppur proiettato in un futuro non troppo lontano, è molto più vicino al nostro oggi e alla deriva verso cui stanno andando i rapporti umani (non solo di coppia), nella realtà contemporanea sempre più persa nella dimensione virtuale. Quella che rende possibile l’amore tra un uomo (Joaquin Phoenix) ed un sistema operativo “donna” (cui dà voce Scarlett Johansson, doppiata in Italia da Micaela Ramazzotti, purtroppo non all’altezza dell’originale). Una partner immateriale, eppure viva e vitale, tanto da permettere al regista Jonze di rendere credibile una delle più belle scene d’amore che il cinema abbia mai concepito e che culmina in uno schermo a nero in cui tutto è affidato alle voci fuori campo, alla musica e all’immaginazione emotiva dello spettatore.

Con questa e tante altre intuizioni potenti, quasi magiche, sicuramente visionarie come lo è Spike Jonze, il regista di “Lei” ci regala un film incantevole ma anche inquieto nella sua dolce malinconia, un racconto cinematografico superlativo in cui la solitudine dell’uomo viene tagliata da una luce raggiante e il bisogno di amore sottinteso in un trascinante sentimento anche musicale, nella bellissima colonna sonora firmata dagli Arcade Fire. Soprattutto a mano a mano che nel protagonista matura la consapevolezza della propria surreale condizione, quindi del proprio isolamento, spingendolo a (ri)cercare quel contatto, quel tocco che (continua…)

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martedì, 18 marzo 2014

ALLACCIATE LE CINTURE, di Ferzan Ozpetek

ALLACCIATE LE CINTURE, di Ferzan Ozpetek

con Kasia Smutniak, Francesco Arca, Filippo Scicchitano, Carolina Crescentini, Francesco Scianna, Carla Signoris, Elena Sofia Ricci, Paola Minaccioni

Recensione di Ornella Sgroi

“A mano a mano ti accorgi che il vento/ ti soffia sul viso e ti ruba un sorriso/ la bella stagione che sta per finire/ ti soffia sul cuore e ti ruba l’amore”. Inizia così la splendida canzone “A mano a mano” di Rino Gaetano. E inizia così anche il nuovo film di Ferzan Ozpetek, “Allacciate le cinture”, dopo un acquazzone estivo pugliese che fa scontrare sotto la pensilina di una fermata degli autobus i due protagonisti di un amore appassionato. E turbolento. Anticipato dal titolo di questa storia d’amore che “a mano a mano si scioglie nel pianto/ quel dolce ricordo sbiadito dal tempo/ di quando vivevi con me in una stanza/ non c’erano soldi ma tanta speranza”.
Non poteva scegliere colonna sonora migliore, Ferzan Ozpetek, per rappresentare in musica i vuoti d’aria nel viaggio di Elena (Kasia Smutniak) e Antonio (Francesco Arca). Dentro una storia semplice, quotidiana, che potrebbe appartenere a chiunque. Fatta di opposti che si attraggono, di coppie che si scoppiano e di altre che si formano, di amici fidati che rendono più preziosa la vita (questo il ruolo del sempre più bravo Filippo Scicchitano), di famiglie allargate e reinventate (come quella di Carla Signoris ed Elena Sofia Ricci, che insieme fanno scintille). Una storia fatta di sorrisi e tradimenti, sogni e progetti, paure, ansie e malattia.
E tutto questo Ferzan Ozpetek lo racconta, in un salto temporale di tredici anni, con il suo sguardo inconfondibile, (continua…)

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sabato, 22 febbraio 2014

Il film SMETTO QUANDO VOGLIO e la campagna “#coglioneNO”

Giovani, precari e altruisti per necessità. Il dramma della disoccupazione e dello sfruttamento raccontato dal cinema e dal web

Recensione di Ornella Sgroi

“La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”.
Le parole di Corrado Alvaro, incise nel suo “Ultimo diario (1948-1956)”, sono lame sottili che squarciano la realtà di oggi ancora più di ieri. Oggi, che il fenomeno della disoccupazione in Italia è cresciuto a dismisura e sembra essere inarrestabile. Con più di tre milioni di cittadini senza lavoro, una disoccupazione giovanile che tocca il 41,6% e la metà degli assunti con contratto “a progetto” nel 2012 compresi tra i 30 e i 49 anni.
Mentre la politica si volta dall’altra parte millantando una ripresa economica che non c’è e offrendo esempi di scaltrezza e disonestà squallida e impunita, non stupisce la frequenza con cui capita di sentire dire sempre più spesso che, stando così le cose, converrebbe mettere da parte l’onestà e cominciare a fare i furbi. Perché, tanto, vivere onestamente non paga.
Prendendo spunto da questa constatazione, di fronte ad una classe politica che continua a tergiversare su una questione primaria come quella della mancanza del lavoro, si sono messi in moto il cinema e il web. Attenti invece all’umore del Paese e pronti a registrate una situazione allarmante, per poi riproporla a spettatori e naviganti con intuito, concretezza e una dose massiccia di ironia.
È appena arrivato nelle sale italiane un film che, registrata la situazione catastrofica in cui versa l’Università italiana, o meglio, in cui versano i ricercatori universitari estromessi “per merito” dai giochi di potere politici, dai baronati accademici e dai nepotismi genealogici e clientelari, viviseziona con intelligenza spiazzante la più che reale condizione lavorativa del nostro Paese e la mette in relazione con questa dilagante attrazione magnetica verso l’illegalità, ritagliandosi una dinamica davvero brillante.
Scritto e diretto dall’esordiente salernitano Sydney Sibilia, classe 1981, “Smetto quando voglio” racconta infatti la rocambolesca ascesa criminale di un’improbabile banda di aspiranti delinquenti che vantano curriculum accademici prestigiosi, pagati con il sangue. Sette ricercatori universitari – ragazzi seri, onesti e in gamba – che per dire basta alla loro condizione di precari a vita, squattrinati e repressi, uniscono le rispettive competenze scientifiche per produrre una nuova droga sintetizzata “a norma di legge”. Il loro motto: “meglio ricercati che ricercatori”. Mente dell’intera operazione è Pietro Zinni (Edoardo Leo), neurobiologo trentasettenne vittima dei tagli alla ricerca. Al suo seguito, due latinisti che lavorano in nero di notte come benzinai per un cingalese (Valerio Aprea e Lorenzo Lavia); un chimico che fa il lavapiatti in un ristorante cinese (Alberto Petrelli); un economista che sbarca il lunario con il gioco d’azzardo (Libero De Rienzo); un antropologo culturale che a causa di un errore di gioventù – la laurea – rischia di perdere l’apprendistato da sfasciacarrozze (Pietro Sermonti); un archeologo costretto a farsi offrire il pranzo dagli operai degli scavi che sovraintende (Paolo Calabrese).
Condizioni lavorative surreali? (continua…)

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venerdì, 13 dicembre 2013

LA MAFIA UCCIDE SOLO D’ESTATE, di Pierfrancesco Diliberto

LA MAFIA UCCIDE SOLO D’ESTATE, di Pierfrancesco Diliberto

con Pierfrancesco Diliberto (in arte, Pif), Cristiana Capotondi, Alex Bisconti, Ginevra Antona, Ninni Bruschetta, Claudio Gioè

Recensione di Ornella Sgroi

La mafia ci uccide tutti, un pochino, ogni giorno. E così la politica corrotta che ne è diventata la principale alleata.
Questo, il film di esordio di Pif, “La mafia uccide solo d’estate”, lo racconta benissimo. E fino in fondo. Sempre con il sorriso sulle labbra, ma con una forza emotiva che cresce, travolge e commuove. Mostrando come ogni singolo agguato mafioso abbia provocato una battuta d’arresto non solo nella vita del piccolo Arturo (Alex Bisconti) e nel suo sogno d’amore che si chiama Flora (Ginevra Antona), ma nella vita di ognuno di noi. Anche quando non ce ne siamo accorti.
Sì, perché il film di Pierfrancesco Diliberto non riguarda soltanto la sua formazione sentimentale e civile nella Palermo degli ultimi trent’anni, ma quella dei siciliani suoi coetanei formati da una nuova coscienza e da una nuova identità. Figli tutti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e di quanti li hanno preceduti. Figli tutti delle loro idee, che continuano a camminare sulle nostre gambe.
Il film di Pif, peraltro, non riguarda solo la Sicilia, ma l’Italia intera come Paese e come Stato. Che troppe volte ha chiuso gli occhi davanti a ciò che accadeva e che accade ancora. E la figura ingombrante di Giulio Andreotti, cui il piccolo Arturo guarda come modello dando per scontata l’onestà di cui ogni Presidente del Consiglio dovrebbe essere portatore, ne è l’emblema. Prova anche del fatto che Pierfrancesco Diliberto è riuscito a costruire un film coraggioso e intelligente, che denuncia i legami tra politica e mafia e chiama i boss con il loro nome, Totò Riina su tutti, delineando ritratti che – pur conservando la ferocia dei gesti di cui sono stati capaci – ne ridimensionano l’aurea granitica di potere forte, al punto da renderli persino ridicoli.
Ecco allora che, un po’ come accadeva a Forrest Gump, testimone ingenuo e inconsapevole dei grandi fatti della storia americana, anche Arturo vede coincidere molti degli eventi più importanti della sua vita con quelli più spaventosi della storia italiana, mentre sin dalle elementari insegue la donna che ama e il sogno di diventare giornalista. Al centro di un intreccio in cui il pubblico diventa privato e viceversa, costruito con consapevolezza graffiante e orgogliosa.
Un’idea semplice, matura e potente. Che Pif – mettendo a frutto il suo “tirocinio” da aiuto regista sul set de “I cento passi” di Marco Tullio Giordana (2000) e l’esperienza di autore televisivo scomodo come “iena” e come “testimone” – è riuscito a sviluppare in una sceneggiatura originale e divertente che fa tanto ridere ma anche tanto riflettere, toccando il cuore dello spettatore più sensibile e attento. In equilibrio perfetto tra la leggerezza dei sogni e delle speranze (i bambini) e l’amarezza della presa di coscienza (da adulti) che fa crollare i falsi miti e crescere il senso critico e il bisogno di memoria. Soprattutto in un’Italia che, invece, dimentica sempre troppo in fretta.
Per compiere questo viaggio Pierfrancesco Diliberto fa rivivere uomini di spessore come Boris Giuliano, Pio La Torre, Rocco Chinnici e Carlo Alberto Dalla Chiesa, tutti vittime di mafia, e individui ambigui come Salvo Lima e Vito Ciancimino. Ma crea anche personaggi di fantasia esilaranti, come il direttore della piccola emittente televisiva in cui Arturo muove i primi passi professionali, e altri pieni di ispirazione, come il giornalista interpretato da Claudio Gioè. Mentre sullo schermo la finzione scenica si fonde con filmati di repertorio, a tal punto da farvi entrare dentro persino i due protagonisti, Arturo e Flora (che, ventenni, hanno i volti dello stesso Pif e di Cristiana Capotondi). In un costante movimento tra commedia e dramma, che subisce un’impennata emotiva sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Una vera e propria svolta, storica per il cambiamento che la morte dei due giudici ha innescato nella società civile, filmica per la variazione di tono che assume la pellicola accompagnando lo spettatore verso un finale potentissimo, senza alcuna retorica. Dedicato al ricordo, al sacrificio e all’esempio di coloro che si sono battuti per cambiare le cose e che, dopo tutto, non erano supereroi ma esseri umani come noi.

* * *

Leggi l’introduzione di Massimo Maugeri

Il trailer del film


(continua…)

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venerdì, 29 novembre 2013

VENERE IN PELLICCIA, di Roman Polanski

VENERE IN PELLICCIA, di Roman Polanski

con Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric

Recensione di Ornella Sgroi

Esiste ancora un cinema che è pura folgorazione. E quando ci si imbatte in un film che ti rapisce dalla prima immagine, allora il colpo di fulmine ha ottime possibilità di superare l’innamoramento e diventare amore puro.
È così che succede con “Venere in pelliccia” di Roman Polanski e lo capisci da subito. Non appena si spengono le luci in sala e la macchina da presa ti risucchia dentro lo schermo bagnato da una pioggia battente, lì su quel viale alberato che – in un lungo piano sequenza – ti porta davanti ad un vecchio teatro un po’ malandato che spalanca le porte per svelarti il mondo misterioso e magico che custodisce al suo interno. Come fosse oggetto di un ambiguo e intrigante incantamento, uno di quelli di cui era intriso l’universo dell’antica drammaturgia greca e che pervade il film di Polanski sulle note tintinnanti ed evocative di Alexandre Desplat. Intrecciando “Le Baccanti” di Euripide e i vangeli apocrifi con le trame del romanzo erotico di fine Ottocento “Venere in pelliccia” di quel Leopold von Sacher-Masoch al quale risale l’origine del termine “masochismo”.
Proprio sull’adattamento teatrale di quest’ultima opera sta lavorando Thomas (Mathieu Amalric), regista inquieto e goffo alla ricerca disperata dell’attrice perfetta per il ruolo dell’ammaliante Wanda. E quando si presenta, fuori tempo massimo, per l’audizione una donna volgare in abiti di pelle, con trucco sbavato dalla pioggia e gomma da masticare in bocca, Thomas non può nemmeno immaginare che lei, Vanda a sua volta (Emmanuelle Seigner), possa essere ciò che sta cercando. A quel punto, come recita un vangelo apocrifo, “il Signore onnipotente lo colpì e lo mise nelle mani di una donna”, innescando un gioco a due di cui poco alla volta quell’attrice improbabile diventa magnifica interprete, abile nel conquistarsi con l’arte della seduzione e l’intelligenza un’inversione di ruoli che la porterà al posto di comando.
Come Thomas mette in scena a teatro le pagine di von Sacher-Masoch, così Roman traduce sul grande schermo l’omonima pièce di David Ives. Raggiungendo i massimi livelli dell’Arte con un film che ne racchiude in sé tutte le manifestazioni. Dal cinema alla letteratura, dal teatro alla pittura. E mettendo a segno, soprattutto, un’opera alta contro la misoginia e la sopraffazione che fa dell’acume più beffardo un’arma sofisticata e tagliente. Ancor più efficace se si considera che nasce dalla penna di un uomo, capace peraltro di grande e sensuale ironia.
Se tutto questo arriva allo spettatore, è di certo merito del regista Polanski che torna ad attingere alle atmosfere dissacranti del suo celebre “Per favore… non mordermi sul collo” (1967). Ma un merito altrettanto imponente lo hanno i suoi due interpreti. Davvero sublimi. Mathieu Amalric, suggestivo alter ego del maestro polacco, e Emmanuelle Seigner, Venere trasformista caparbia e capricciosa, che incarna il mestiere stesso della recitazione. Entrando e uscendo dal personaggio, doppio e speculare, con un’agilità spontanea e sbalorditiva che sembra fare il verso alla maschera dell’attore per sottolinearne la sacralità del talento. Così come, del resto, la Vanda che interpreta potrebbe ben essere una mera proiezione onirica del regista Thomas/Polanski, metafora perfetta di quel conflitto che agita l’artista, prigioniero del mondo che crea e schiavo assoluto della propria opera e dei propri personaggi. Persino, o forse ancora di più, quando dai quattro del precedente “Carnage” (2011) si scende ai due di “Venere in pelliccia”. Due soltanto, ma potenti e carismatici tanto da non lasciare vuoti sul palcoscenico né sullo schermo.
Forse nel prossimo film, Polanski, di personaggi ne lascerà solo uno. E poi ancora, magari, nessuno. Anche se in fondo, in qualche modo, a suo modo, riuscirà a renderli pur sempre centomila. Come centomila sono le trame e sottotrame, i testi e sottotesti rintracciabili in questa “Venere in pelliccia” dalle numerose letture possibili, in un andirivieni costante dalla realtà alla finzione guidato magistralmente con i giochi di luci sul palco e persino con i suoni di scena riprodotti secondo copione con grande immaginazione registica. Come il tintinnio del cucchiaino in una tazzina che non c’è o il fruscio del pennino imbevuto d’inchiostro che traccia una firma invisibile destinata a cambiare il destino di Thomas.
Dettagli da maestro che Roman Polanski orchestra con raffinata leggerezza e ingegno sottile, senza mai appesantire il discorso o la messa in scena. Che anzi scorrono con morbidezza e fluidità, perfettamente amalgamati, con una naturalezza e una disinvoltura che non lasciano fiato allo spettatore. Sino al finale, ricalcato su uno dei passaggi più celebri delle “Baccanti”, quello in cui Penteo – travestito da donna su istigazione di Dioniso – perde la dignità propria di ogni eroe tragico per trasformarsi in personaggio grottesco e ridicolo. Vittima un po’ di se stesso e un po’ delle divinità capricciose dell’Olimpo. Siano esse un Bacco vendicativo o una Venere in pelliccia.

* * *

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Il trailer del film
(continua…)

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lunedì, 14 ottobre 2013

ANNI FELICI, di Daniele Luchetti

ANNI FELICI, di Daniele Luchetti

con Kim Rossi Stuart, Micaela Ramazzotti, Martina Gedeck, Samuel Garofalo, Niccolò Calvagna

Recensione di Ornella Sgroi

“Indubbiamente erano anni felici. Peccato che nessuno di noi se ne fosse accorto”. Certo per un bambino di 10 anni come Dario era complicato capirlo. Testimone silente, insieme al fratellino più piccolo Paolo, della storia della sua famiglia un po’ eccentrica e dell’estate del ‘74. Quella stessa estate iniziata poco dopo il referendum abrogativo del divorzio, rimasto invece in vigore con la vittoria del NO, con una certa preoccupazione del piccolo Dario per le sorti del matrimonio dei propri genitori. Guido e Serena. Ostinato artista d’avanguardia ancora in cerca del proprio talento, lui. Moglie e madre affettuosa, lei, in costante competizione con la passione del marito per l’arte e le modelle.
Anche se Anni felici, il nuovo film di Daniele Luchetti, è raccontato a ritroso dal punto di vista del loro primogenito Dario e dalla sua voce fuori campo (in realtà quella dello stesso regista, che altri non è se non la sua proiezione adulta), sono proprio Guido e Serena a conquistarsi la scena. Dominata dalla bravura e dalla bellezza dei due interpreti, Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti, che attirano in modo magnetico la macchina da presa – e lo sguardo – del regista, attento e partecipe delle emozioni dei due piccoli protagonisti (sorprendenti anche Samuel Garofalo e Niccolò Calvagna, rispettivamente nei panni di Dario e di Paolo) ma irrefrenabilmente attratto dalle dinamiche affettive e personali di questa coppia tutt’altro che ordinaria.
Nel ripercorrere quella che in fondo è la storia “mitica” della sua famiglia (come recitava il titolo provvisorio del film di ispirazione autobiografica), Daniele Luchetti segue infatti Guido e Serena da una distanza molto ravvicinata, con continui primissimi piani per cogliere anche le più impercettibili espressioni dei loro visi, sempre vivi, sempre veri. Affidando a lievi ma efficaci dettagli le loro emozioni più forti e contraddittorie, le loro identità più profonde.
Quanto ci dice la balbuzie appena accennata da Kim Rossi Stuart della fragilità del suo artista, che per reazione ad una madre che lo ha cresciuto sminuendone il talento e le capacità insegue un’idea di arte contro ogni convenzione, per scoprirsi poi incapace di accettare la libertà sessuale conquistata dalla moglie. E quanto ci dice quel “pulviscolo erotico” che circonda Micaela Ramazzotti della inattesa capacità della sua madre e moglie di rompere tutti gli schemi possibili per assecondare la sua attrazione verso un nuovo modo di vivere la propria femminilità accanto ad un’altra donna (l’altrettanto brava Martina Gedeck). Momenti di scoperta che Daniele Luchetti affida a vecchi filmini amatoriali girati dall’incarnazione infantile di se stesso, Dario appunto, e che coincidono anche con la scoperta personale dell’amore per il cinema e del potere rivelatore della cinepresa.
È forse per compensare tanta potenza emotiva ed evocativa che il regista si affida ad un tocco discreto, classico, quasi d’altri tempi. Ma è quasi certamente per trovare la giusta distanza con una storia vissuta in prima persona che Luchetti di distanza finisce con il metterne troppa. Raffreddando il racconto almeno nella prima parte del film che procede senza riuscire mai a portare lo spettatore davvero dentro la storia, distratto anche dall’uso della voce fuori campo che rimanda costantemente all’idea di un passato ormai compiuto. Ciò nonostante, quella di Anni felici è una storia che alla fine conquista, lasciando allo spettatore un’appagante sensazione di bellezza. La bellezza di un caos che trova il suo ordine, dando un senso – seppur nuovo – ad ogni cosa, anche la più imprevedibile.

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giovedì, 24 gennaio 2013

DJANGO UNCHAINED di Quentin Tarantino

DJANGO UNCHAINED
di Quentin Tarantino

con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson

Recensione di Ornella Sgroi

O si ama o si odia. E con Quentin Tarantino è più che mai vero. Non solo perché nei sui film non esiste mai una via di mezzo tra questi due sentimenti, ma anche perché è questa la frase più usata quando si parla di lui. Eppure il compromesso si può raggiungere anche nel caso del suo cinema, semplicemente apprezzandolo, soprattutto per il modo in cui Tarantino si addentra nella sperimentazione di un vecchio genere per farlo rivivere in assoluta autonomia. Trasformando persino le citazioni in elemento integrante della narrazione, a tal punto da non poterle più scindere dall’insieme che si conquista la sua originalità.
Lo ha fatto con i B-movie e i film d’exploitation, da cui è un dipendente conclamato e da cui ha estrapolato violenza estrema e fiotti di sangue per inventarsi quello stile singolare tutto suo, il pulp. Che possa piacere oppure no. E lo ha fatto con un genere classico come il western, che con “Django Unchained” ritrova una sopita vitalità, risvegliata e reinventata alla maniera di Tarantino, dichiarato estimatore in particolare degli spaghetti-western cui rende omaggio non solo nel titolo ispirato alla pellicola di Sergio Corbucci. Con il rischio di conquistarsi la simpatia di un nuovo pubblico, lungo un percorso già iniziato con il precedente “Bastardi senza gloria”. Film che segna una svolta nel cinema del regista contemporaneo forse più cinefilo, con l’ingresso della Storia (quella con la maiuscola) non solo sullo sfondo del racconto, di cui diventa anch’essa grande e irrinunciabile protagonista.
Tolto lo scalpo ai nazisti per mano di un gruppo di ebrei vendicativi, Quentin Tarantino prende di mira un’epoca ancora più lontana nel tempo, ma poi non così distante dall’oggi e da certi suoi orrori. E spara a zero contro il razzismo più crudele e cruento, che in certe scene ci mostra in tutta la sua disumana efferatezza. Senza sconti. Come, del resto, sconti i negrieri bianchi non ne facevano alle loro vittime. E come – ahimè – sconti non ne fa certo cinema più recente che usa la violenza con una disinvoltura inutile ed inquietante.
Gli elementi che caratterizzano il cinema di Tarantino ci sono tutti in “Django Unchained”, come sempre, questa volta però puntati verso una nuova direzione. Il gioco delle parti e lo scambio dei ruoli, la strategia del terrore e l’esibizione della violenza, persino la vendetta, hanno infatti anche un altro scopo. Quello di garantire il lieto fine ad una grande storia d’amore e di dolore, che fa da cassa di risonanza alla rivendicazione del bene più grande: la libertà, con la dignità che ne deriva. E ciò senza mai rinunciare ad un modo di fare cinema che è puro divertimento. Per il regista e per chi ne ammira il lavoro di precisione, fatto di scrittura e quindi di dialoghi potenti ed ironici, ma anche di messa in scena accattivante ed immagini evocative che omaggiano il western all’italiana con primi piani e sguardi, lanciati però all’improvviso, con colpi di zoom rapidissimi come uno scatto fotografico o un colpo di pistola, che per contrasto rimandano alla leggendaria lentezza di Sergio Leone.
In “Django Unchained” la tradizione ed il classico confluiscono così nella dimensione del nuovo e dell’originale, anche nella suggestiva colonna sonora con le note evocative di Luis Bacalov e il tocco magico di Morricone con la sua “Ancora qui” interpretata da Elisa per il film di Tarantino. Che, oltre al piacere della scrittura e della regia, si gusta fino in fondo il piacere della musica e il piacere di dirigere i suoi magnifici attori, portando oltre ogni possibile aspettativa le interpretazioni di un cast, i cui volti restano scolpiti nella memoria dello spettatore, come i singoli personaggi che rappresentano. La coppia Jamie Foxx e Christoph Waltz, da una parte. I singoli Leonardo DiCaprio e Samuel L. Jackson, dall’altra. Protagonisti e antagonisti, bianchi e neri, vittime e carnefici. Gli uni con gli altri. Gli uni contro gli altri. In uno scontro frontale in cui anche i buoni devono fare i conti con la propria ferocia.
Se tutto questo è “Django Unchained”, allora anche solo per questo è un film che vale la pena vedere. Comunque. Perché Quentin Tarantino o si ama o sia odia. In ogni caso, si apprezza.

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venerdì, 11 gennaio 2013

LA MIGLIORE OFFERTA, di Giuseppe Tornatore

La migliore offerta: la locandina del filmLA MIGLIORE OFFERTA, di Giuseppe Tornatore

con Geoffrey Rush, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, Donald Sutherland

Recensione di Ornella Sgroi

Non c’è modo di sapere quale sia la migliore offerta. Almeno in amore, quando il cuore si abbandona senza conoscere più alcuna razionalità. Incapace di distinguere ciò che è reale da ciò che altro non è se non la proiezione di come vorrebbe che fosse.
Un inganno al quale non riesce a sottrarsi neanche un uomo come Virgil Oldman (Geoffrey Rush), battitore d’asta celebre in tutto il mondo, che ha fatto del suo talento nel discernere l’autentico dal falso una vera ragione di vita. Determinato e infallibile, finché si muove nel mondo dell’arte che conosce senza segreti. Confuso e vulnerabile, nel momento in cui, sfilati i guanti che lo proteggono da ogni contatto umano, decide di toccare con mano il calore delle emozioni. Per arrivare al cuore della giovane e misteriosa Claire (Sylvia Hoeks), principessa bella e dannata che non riesce ad uscire oltre le mura scrostate del suo prezioso castello in rovina.
Il loro incontro è fatale, il tormento inevitabile, la felicità irraggiungibile. E Giuseppe Tornatore, autore della storia (pubblicata da Sellerio) che porta sullo schermo con il suo ultimo film, “La migliore offerta”, lo rende chiaro sin dall’inizio. Con un’eleganza cinematografica che conquista e ipnotizza già dopo il primo sguardo che il regista – e con lui lo spettatore – posa sui protagonisti e sui luoghi, immersi in un’atmosfera mitteleuropea decadente che esalta la tensione sentimentale e l’inquietudine costante da cui è dominata l’intera pellicola. Senza tregua. Con il ritmo di un thriller in cui ogni rapporto si gioca sulla contrapposizione tra il vero e il falso, non solo in materia di arte ma anche nel campo dei sentimenti, che finiscono sempre con il nascondere qualcosa di autentico anche quando si riesce a simularli.
In questo gioco di specchi che confonde verità e illusione, Tornatore ricorda e omaggia il cinema di Alfred Hitchcock, in particolare quello che fu uno dei suoi capolavori assoluti, “Vertigo” ovvero “La donna che visse due volte”, e riprende il percorso intrapreso già con “Il camorrista”, “Una pura formalità” e “La sconosciuta” per esplorare i meandri più nascosti della psiche umana. Con un risultato intrigante e avvincente, cucito alla perfezione con le note inconfondibili di Ennio Morricone che anche questa volta, ne “La migliore offerta”, sottolinea ogni sentimento del film, in un crescendo musicale tormentato e carico di suspense. Soprattutto a mano a mano che i pezzi dell’ingranaggio iniziano ad attrarsi l’uno con l’altro come quelli dell’antico automa di Jacques de Vaucanson che Virgil tenta di ricomporre con l’aiuto del giovane Robert (Jim Sturgess) e che tanto fa pensare al libro illustrato “La straordinaria invenzione di Hugo Cabret” di Brian Selznick portato sullo schermo con grande meraviglia da Martin Scorsese.
Nel compiere questo nuovo viaggio psicologico nel mondo dell’arte e dell’antiquariato, pieno di ingannevole fascino, Giuseppe Tornatore si conferma ancora una volta un vero amante del cinema, maestro indiscusso nella cura dei dettagli, estetici e narrativi, senza mai perdere la visione di insieme. Che anzi il regista siciliano riesce a fare trionfare con sapiente pazienza, accompagnando lo spettatore verso un finale intuibile ma altrettanto inevitabile. Sebbene nel tirare le somme dell’intrigo si conceda qualche spiegazione esplicita di troppo, che avrebbe invece potuto affidare alla sensibilità dello spettatore puntando sull’eloquenza del cast (tutto internazionale), della scrittura e del montaggio. Che scena dopo scena svela vari finali possibili, affidandosi all’unico elemento in grado (forse) di rimettere ogni cosa al proprio posto: il tempo.

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mercoledì, 26 settembre 2012

IL ROSSO E IL BLU di Giuseppe Piccioni

IL ROSSO E IL BLU
di Giuseppe Piccioni

con Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Roberto Herlitzka, Silvia D’Amico, Davide Giordano

Recensione di Ornella Sgroi

È tempo di tornare sui banchi di scuola. Non soltanto per studenti e professori che si apprestano a cominciare il nuovo anno scolastico, ma anche per il cinema. Che si prepara per la nuova stagione e torna ad esplorare uno dei suoi ambienti più familiari. La scuola, appunto. Un microcosmo fatto di nozioni ed esercizi, ma soprattutto di interazioni ed emozioni.
Ed è a questo scambio costante di relazioni che è interessato il regista Giuseppe Piccioni, ancora una volta abile nel cogliere con Il rosso e il blu l’osmosi sentimentale e di pensiero tra diverse esperienze di vita che si crea in modo naturale e inconsapevole in luoghi di convivenza forzata come possono essere i licei. Abitati da adulti e adolescenti, le cui esistenze non riescono a tenere separati quel “dentro e fuori” la struttura scolastica di cui parla Giuliana, la preside rigorosa interpretata da Margherita Buy, per frenare l’entusiasmo del giovane supplente di lettere che ha il volto di Riccardo Scamarcio e lo spirito del professore Keating de L’attimo fuggente di Peter Weir.
A fare da contrappeso a queste due posizioni, un superlativo Roberto Herlitzka nei panni di un anziano professore di Storia dell’arte, che tra le pagine di migliaia di libri imparati a memoria ha perso la voglia di vivere e di insegnare. Incarnazione esilarante del cinismo e della frustrazione di una parte della classe docente, che Herlitzka condensa in una scoppiettante declamazione di “Pianto antico” di Carducci assolutamente indimenticabile.
Intorno a loro, tra le mura e lungo i corridoi della scuola, ma anche oltre i confini di quel luogo, un carosello variopinto di ragazzi e professori che incarnano gli stereotipi propri della realtà scolastica con tutte le sue difficoltà, reinventati però con una creatività che affianca loro tipi eccentrici e irregolari come la professoressa di Scienze che non capisce la fotosintesi clorofilliana o lo studente “dimenticato” a scuola da una madre che non si sa dov’è, interpretato dal giovane talentuoso Davide Giordano (già figlio di Antonio Albanese in Qualunquemente). Perfetti per una commedia che riesce a parlare di scuola con leggerezza, con un linguaggio che non insegue la retorica ma il semplice piacere del racconto e che non vuole a tutti i costi proporre modelli ideali. Meno che meno in materia di scuola, tanto umana e quindi imperfetta.
Un po’ come il film di Giuseppe Piccioni (tratto dall’omonimo libro di Marco Lodoli), che diventa una sfilata di volti e di storie non sempre originali, a volte persino stonate come nel caso dell’allievo romeno, ma comunque colorati di una propria identità forte e caratterizzante. Perché ciò che più sta a cuore al regista non è tanto il punto di arrivo di ogni vicenda, quanto piuttosto il percorso che compiono i singoli protagonisti per raggiungere quel cambiamento magari insperato, ma pur sempre possibile. Che arriva, armonioso e vitale, alla fine del film, inesorabile come la promozione o la bocciatura alla fine dell’anno scolastico, facendo tesoro di tutti gli errori commessi. Che siano rossi oppure blu.

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mercoledì, 26 settembre 2012

LETTERATITUDINE CINEMA

ornella-sgroi-filminscenaGià altre volte qui a Letteratitudine ci siamo occupati di cinema. Ricordo in particolare, un post molto interessante dedicato a “Non è un paese per vecchi“, dove abbiamo messo a confronto il libro con il film… per poi allargare la discussione sul rapporto strettissimo che esiste tra cinema e letteratura. E poi, questo post dedicato a Anna Magnani. E quest’altro dedicato a Sergio Leone.
Adesso ho deciso di aprire una finestra specifica dedicata al cinema, a prescindere dalle sue connessioni con la letteratura. Ecco, dunque, questa nuova rubrica, chiamata (molto semplicemente) “Letteratitudine Cinema. Sarà uno spazio curato dalla critica cinematografica Ornella Sgroi (nella foto), che accoglierà l’occhio lungo di Letteratitudine sul grande schermo. Uno spazio che, nella fattispecie, sarà arricchito dalle recensioni di Ornella (che ringrazio sin da subito).

Buon Letteratitudine Cinema a tutti!

Massimo Maugeri

P.s. Di Letteratitudine Cinema ne ha parlato la trasmissione culturale “Pagina3” di RadioRai3

Tutte le recensioni di Letteratitudine Cinema, sono disponibili qui.

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Ornella Sgroi, giornalista culturale e cinematografica, collabora con diverse testate tra carta stampata, radio e televisione, web. Tra le principali collaborazioni, quella con la trasmissione “Cinematografo” di Rai 1, quella con il quotidiano La Sicilia e quella con il Teatro Stabile di Catania, per il quale ha ideato la rassegna “FilminScena. Conversazioni di Cinema in Teatro” che cura sin dalla prima edizione.

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martedì, 19 febbraio 2008

MEGLIO I LIBRI O I FILM TRATTI DAI LIBRI?

Letteratura e cinema sono molto legati. Lo sono sin dalla nascita del grande schermo. Un legame molto stretto, il loro.

Simbiotico.

Carta e pellicola che camminano mano nella mano per raccontare storie al mondo.

Bella immagine, vero?

Chissà se deve più il cinema alla letteratura o la letteratura al cinema!

Secondo voi?

Pensateci.

Quante volte vi è capitato di andare al cinema per vedere il film tratto da quel libro che avete tanto amato?

Quante volte, dopo aver visto un film che vi è piaciuto, siete andati ad acquistare il libro da cui è stato ispirato?

E vi è mai capitato di essere delusi da uno spettacolo cinematografico al punto tale da aver voglia di andar via prima della fine?

Magari vi è capitato, anche se poi siete rimasti perché avevate letto il libro. Così come è accaduto alla voce narrante (o meglio, cantante) della bellissima A day in the life dei Beatles.

I saw a film today oh, boy

The English army had just won the war

A crowd of people turned away

But I just had to look

Having read the book

Having read the book, canta John Lennon. “Avendo letto il libro” (perché avevo letto il libro).

Qui di seguito vi propongo il video.

Sì, ci sono film mediocri basati su romanzi stupendi. Così come ci sono libri deludenti che hanno ispirato film eccezionali.

Ma in generale… sono meglio i libri o i film tratti dai libri?

È meglio La terra trema di Visconti o I Malavoglia di Verga? Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa o quello del già citato Visconti?

Di esempi se ne potrebbero fare tanti. Fino ad arrivare ai nostri giorni.

Parliamo di Caos calmo. Meglio il romanzo di Sandro Veronesi o il film di Grimaldi?

Vi rammento la trama del libro.

Pietro Paladini è un uomo apparentemente realizzato, con un ottimo lavoro, una donna che lo ama, una figlia di dieci anni. Ma un giorno, mentre salva la vita a una sconosciuta, accade l’imprevedibile, e tutto cambia. Pietro si rifugia nella sua auto, parcheggiata davanti alla scuola della figlia, e per lui comincia l’epoca del risveglio, tanto folle nella premessa quanto produttiva nei risultati. Osservando il mondo dal punto in cui s’è inchiodato, scopre a poco a poco il lato oscuro degli altri, di quei capi, di quei colleghi, di quei parenti e di tutti quegli sconosciuti che accorrono a lui e soccombono davanti alla sua incomprensibile calma. Così la sua storia si fa immensa, e li contiene tutti, li ispira fino a un finale inaudito eppure del tutto naturale.

Nanni Moretti riesce davvero a impersonare così bene Pietro Paladini, il protagonista della storia? Ve lo immaginavate così mentre leggevate il libro? Certo, se avete già visto il film – ma non avete ancora avuto modo di gustarvi il romanzo – credo che nel momento in cui inizierete la lettura il personaggio che vedrete con gli occhi della mente avrà per forza di cose la faccia di Nanni Moretti. E vi sembrerà strano immaginarlo dentro la macchina anziché seduto su una panchina.

E poi c’è un altro caso recente.

Io sono leggenda. Anche in questo caso mi viene da domandarvi: meglio il romanzo di Richard Matheson o il film dove il protagonista è interpretato da Will Smith?

Anche in questo caso vi rammento la trama del romanzo.

Robert Neville torna a casa dopo una giornata di duro lavoro. Cucina, pulisce, ascolta un disco, si siede in poltrona e legge un libro. Eppure la sua non è una vita normale. Soprattutto dopo il tramonto. Perché Neville è l’ultimo uomo sulla Terra. L’ultimo umano sopravvissuto, in un mondo completamente popolato da vampiri. Nella solitudine che lo circonda, Robert esegue la sua missione, studia il fenomeno e le superstizioni che lo circondano, cerca nuove strade per lo sterminio delle creature delle tenebre. Durante la notte Neville se ne sta rintanato nella sua roccaforte, assediato dai morti viventi avidi del suo sangue. Ma con il sorgere del sole è lui a dominare un gioco crudele e di meccanica ferocia, scandito dalle luci e dalle ombre di un tempo sempre uguale a se stesso e che impone la ripetizione di un rituale sanguinario. In questo mondo Neville, con la sua unicità, si è già trasformato in leggenda.

Parliamone.

(Massimo Maugeri)

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Vi ricordo che per fare quattro chiacchiere su argomenti vari la porta de la camera accanto è sempre aperta.

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venerdì, 7 settembre 2007

CENTOAUTORI (di Gabriele Montemagno)

Cari amici di Letteratitudine,

recentemente, trovandomi a Roma, ho avuto modo di assistere all’ultimo incontro (prima della pausa estiva) dei membri di Centoautori, tenutosi nella suggestiva cornice della “Libreria del Cinema” che si trova nel quartiere Trastevere in via dei Fienaroli. Cos’è Centoautori? Presto detto. E’ un movimento che raccoglie molte personalità del cinema e della televisione nostrani (registi, sceneggiatori, attori, documentaristi, fra i quali spiccano i nomi di Giuseppe Piccioni, Daniele Luchetti, Paolo Virzì, Francesca Archibugi, Cristina Comencini, Stefano Rulli, Sandro Petralia e molti altri), i quali, incontrandosi periodicamente (ogni giovedì pomeriggio) in detta libreria, hanno deciso di agire per promuovere una più equa legislazione che regolarizzi il nostro cinema (e la nostra tv). In un documento presente nel loro sito si legge infatti che Centoautori ha avuto inizio «quando, nel febbraio scorso, abbiamo iniziato a vederci alla libreria del Cinema a Trastevere, eravamo una cinquantina di registi e sceneggiatori, alcuni dei quali si conoscevano appena. Scrivemmo due lettere aperte per chiedere un nuovo profilo culturale ed etico alla direzione di Rai Cinema. In calce a quelle lettere, radunammo duecento firme di autori di cinema e televisione, e rimanemmo in fiduciosa attesa». A questo, è seguito un importante momento nella serata del 7 maggio scorso in cui, nel teatro romano “Ambra Jovinelli”, si sono trovati riuniti i «1400 firmatari del documento». Costoro –si legge ancora nel sito- riunitisi « per una costituente del cinema e della tv si sono moltiplicati: molti quella sera piovosa sono rimasti fuori dal teatro, ma da allora Centoautori ha avuto la certezza di aver toccato nervi scoperti, di essere diventato movimento». L’urgenza di una nuova legislazione sembra nascere, nei membri di Centoautori, dalla piena consapevolezza che televisione e cinema incidono nei costumi e nei modi di pensare della gente (e ciò, nel bene come nel male), e che tali media sono spesso guidati da logiche di guadagno e/o interessi particolari che penalizzano talenti, professionalità e la creatività di coloro che non accettano lo stato delle cose o che non vogliono allinearsi con alcuna cordata (politica e non), pur avendo, possibilmente, loro precise idee e talenti. Tale stato crea danno sia alla qualità artistica dei “prodotti” che non offrono utili e diversificati stimoli al pubblico, mirando a creare solo ascolto e consenso, sia ai molti professionisti, i quali non riescono a lavorare perché non “supportati” da alcun grosso nome o provenienti da ambiti sconosciuti. Uno stato delle cose che continua ad agire in barba alla tanto citata meritocrazia.

Cari amici, detto ciò vi invito a visitare il sito di Centoautori (www.100autori.it) in cui troverete più diffusamente le notizie circa il movimento e tutto ciò che vi può interessare (e potrete intervenire voi stessi); vi domando, poi: siete d’accordo con le istanze e le necessità di questo movimento? Secondo voi può rappresentare uno dei baluardi contro quell’imbarbarimento culturale da molti (giustamente) denunciato?

Vorrei anche aggiungere che quando ho loro domandato, nella riunione in cui ho partecipato, cosa si può fare per sostenerli, mi hanno risposto che il modo più diretto è quello di farli conoscere ed anche quello di intervenire nel loro sito. Ma poi qualcuno di loro mi ha anche suggerito di promuovere dibattiti sul nostro cinema, sulla sua qualità. E soprattutto sulla sua capacità di saper raccontare nel profondo e onestamente la nostra Italia.

Vi chiedo allora: secondo voi, il nostro cinema è ancora efficace come un tempo? Interessa ancora perché ci racconta realmente, oppure perché segue delle mode accattivanti? Non temete! Tali domande non si esauriranno qui, ma mi auguro che potremo, tutti insieme, dare loro spazio anche in altri interventi. E parleremo ancora di Centoautori. Nel frattempo, attendo le vostre risposte.

Un caro saluto a tutti voi e buon cinema!

Gabriele Montemagno

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giovedì, 2 agosto 2007

OMAGGIO A BERGMAN E ANTONIONI (di Gabriele Montemagno)

“Si può dire che la regia cinematografica consiste nel trasformare le visioni, le idee e i sogni, le stesse speranze, in immagini capaci di trasmettere poi questi sentimenti agli spettatori nel modo più efficace possibile. Si crea una sorta di veicolo: questa lunga striscia di pellicola che, tramite un complesso di macchine, trasmette sogni personali.”

“Il cinema è per me un’illusione progettata fin nei minimi dettagli, lo specchio di una realtà che quanto più vivo tanto mi appare illusoria. Quando il film non è un documento è un sogno”.

Ingmar Bergman

 

 

 

 

 

 

 

“ Penso che gli uomini di cinema debbano sempre essere legati, come ispirazione, al loro tempo, non tanto per esprimerlo e interpretarlo nei suoi eventi più crudi e più tragici… quanto per raccoglierne le risonanze dentro di noi, per essere noi registi sinceri e coerenti con noi stessi, onesti e coraggiosi con gli altri.”

“Detesto i film programmatici. Cerco semplicemente di raccontare, o meglio di mostrare delle vicende e spero che queste vicende piacciano, anche se sono amare”

Michelangelo Antonioni

Cari amici di Letteratitudine,

come tutti voi avrete certamente appreso, Bergman e Antonioni sono appena scomparsi. Vorrei che anche noi di Letteratitudine rendessimo omaggio a questi due grandissimi registi e uomini di cultura, la cui attività uscì spesso anche dai confini strettamente cinematografici. Mi sono chiesto cosa potessi scrivere su di loro, ma, alla fine, ho ritenuto più opportuno non aggiungere altro a quanto è scritto e detto su di loro altrove (e molto meglio di me) e lasciar parlare loro stessi. Ho quindi voluto riportare qui solamente alcune loro frasi prese da interviste; frasi che potessero dare un’idea della loro concezione del cinema. Un’idea certamente non compiuta, ma, spero, efficace. Cinema come visione, cinema e realtà, ispirazione, comunicazione con un grande pubblico, ecc. Che ne pensate? Sono molti gli spunti su cui riflettere; spunti riferibili anche a chi fa o legge letteratura. Per il resto, se non lo avete ancora fatto, vi invito a vedere quanti più potete dei loro film: forse sarà questo il migliore omaggio che si possa fare loro. Poi, se vorrete, vi invito ad esprimere qui qualche riflessione che le frasi su riportate, i film visti o altro vi suggeriranno.

Un saluto a questi due grandi e buona visione a tutti voi!

Gabriele Montemagno.

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UPLOAD del 5 agosto 2007

Integro il post con due video pescati da youtube. Il primo è dedicato a Ingmar Bergman, il secondo a Michelangelo Antonioni. Vi consiglio di vederli, sono piuttosto interessanti (fatemi sapere!). Massimo Maugeri

La morte di Ingmar Bergman – Tributo di RaiNews24

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La morte di Michelangelo Antonioni – Servizi TG1, TG3 e TG5

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Letteratitudine: da oltre 15 anni al servizio dei Libri e della Lettura

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"Cetti Curfino" di Massimo Maugeri (La nave di Teseo) ===> La rassegna stampa del romanzo è disponibile cliccando qui

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OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

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OMAGGIO A TULLIO DE MAURO

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RATPUS va in scena ratpus

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Ricordiamo VIRNA LISI con un video che è uno "spot" per la lettura

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"TRINACRIA PARK" a Fahrenheit ...

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