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giovedì, 21 febbraio 2008

IL SOTTOSUOLO di Ferdinando Camon

Cari amici di Letteratitudine,

con questo post decreto l’apertura di una rubrica che verrà affidata a Ferdinando Camon (nella foto).

camon-a-padova-2007.jpgCome ho già scritto in altra occasione, Camon è una delle voci più autorevoli della nostra letteratura; un uomo che ha scritto e pubblicato libri di altissimo pregio, a prescindere dal fatto che abbiano vinto premi importanti, tra cui lo Strega e il Campiello (lo stesso Camon sostiene che “I premi non sono giudizi critici, non sono saggi e non sono articoli. Non aggiungono nulla ai libri. Nella vita dei libri, le vicende che contano sono gli incontri con i giornali, con le riviste, con le scuole e le università, e, attraverso le traduzioni, con le lingue e le culture straniere”). La presenza di Camon qui a Letteratitudine è per me un vero onore, ma al tempo stesso testimonia l’apertura che questo grande letterato (classe 1935) mostra per i nuovi mezzi di comunicazione (come Internet e i blog).

Per espressa volontà dell’interessato, il titolo della rubrica sarà: Il sottosuolo.

Il riferimento è all’ottima opera Memorie dal sottosuolo (o Ricordi dal sottosuolo, dipende dalle traduzioni) di Fëdor Michailovič Dostoevskij. Libro che, secondo lo stesso Camon, contiene uno degli incipit più belli della storia della letteratura.

Io direi di far partire questa rubrica proprio così… discutendo di questo libro di Dostoevskij. Ritengo che si possa prestare a un interessante dibattito.

A quarant’anni Fedor Dostoevskij è uscito da poco da una serie di vicende drammatiche (la militanza socialista, la condanna a morte commutata all’ultimo momento, la deportazione siberiana) e, pur praticando un’intensa attività giornalistica, sta ancora cercando la sua strada. “Memorie dal sottosuolo” (1864) è il libro che annuncia i capolavori della maturità. Con i suoi tratti autobiografici, il protagonista delle memorie è un impiegato inconcludente, un uomo a disagio con se stesso e in rotta con la società, isolato, con una vita di relazione inconsistente, incapace di legare con i colleghi d’ufficio come con gli ex compagni di scuola. Un uomo timido, senza risorse e protezioni, che proprio la brutalità della vita sociale respinge nel sottosuolo, e a cui non resta che cercare uno sfogo provvisorio tormentando chi sta ancora più in basso di lui: Liza, misera prostituta alle prime armi, incontrata in una sera di neve bagnata.

Vi lancio una sfida. Vi invito a leggere (o a rileggere) il volumetto del celebre autore russo per discuterne assieme qui. Io dispongo dell’edizione Adelphi, con traduzione di Tommaso Landolfi.

Alcune domande provocatorie (spunti tratti dal libro).

Siamo davvero “convinti che soltanto il normale e il positivo, insomma soltanto il benessere, sia vantaggioso per l’uomo? Che non abbia a sbagliarsi, la ragione, a proposito di codesti vantaggi? Non sarebbe poi possibile che all’uomo non piaccia soltanto lo star bene? Che gli piaccia anzi altrettanto la sofferenza? Che lo star male gli sia di vantaggio giusto quanto lo star bene?”

E mentre ci sono ne approfitto per chiedervi… in che rapporti (letterari) siete con il grande scrittore russo?

Vi riporto inoltre un testo che Camon scrisse nel 1985 e che “Libération”, pubblicò nel numero speciale: Pourquoi écrivez-vous?, 400 écrivains répondent (numero speciale 15 marzo 1985; in volume: edizioni di “Libération”, Parigi 1988, pp. 247-248).

Mi pare un’ottima presentazione. Seguirà, infine, una biografia dell’autore.

Mi raccomando… massimo rispetto e serietà.

Ci tengo molto.

Grazie.

Massimo Maugeri

______________________________

PERCHÉ SCRIVO di Ferdinando Camon

Scrivo per vendetta. Non per giustizia, non per santità, non per gloria: ma per vendetta. Tuttavia, dentro di me, sento questa vendetta come giusta, santa, gloriosa. Mia madre sapeva scrivere solo il suo nome e cognome. Mio padre, poco di più. Nel paese dove sono nato, i contadini analfabeti firmavano con una croce. Quando ricevevano una lettera dal Municipio, dall’esercito, dai carabinieri (nessun altro scriveva ai contadini), si spaventavano e andavano a farsi spiegare la lettera dal prete. Li ho visti passare molte volte, ero un ragazzo. Da allora ho sentito la scrittura come uno «strumento del potere», e ho sempre sognato di passare dall’altra parte, impossessarmi della scrittura, ma per usarla in favore di coloro che non la conoscevano: per realizzare le loro vendette.

Ma essi non volevano vendicarsi e perciò non si sentono rappresentati da me. E coloro che io cerco di vendicare, mi considerano — giustamente — come un nemico. Di conseguenza, sono isolato, e non riesco a legare con nessuno. Dappertutto dove sono passato sono un non-riconosciuto, un espulso, un non-accettato: famiglia, paese, mondo letterario, mondo cattolico, partito comunista, psicanalisi… Sono uno al quale non si può fare alcuna confidenza, uno che può tradire. Ogni mio tradimento consiste nella ripetizione del primo tradimento: mi sono impossessato della scrittura per vendicare gli analfabeti, sono passato attraverso il cattolicesimo per insegnargli cos’è la santità, ho descritto i gruppi terroristi per giudicarli dall’interno, e sono entrato nella psicanalisi per «dominare» l’analista… Conseguenze: all’esordio, quando ho pubblicato il primo libro, Il quinto stato, il sindaco del paese che descrivevo voleva citarmi in giudizio… Sempre, dall’inizio fino ad oggi, la prima reazione che incontro è il rifiuto, la condanna, la censura. Ho scritto su molti giornali italiani, e dappertutto sono stato censurato: dall’«Unità» all’«Osservatore romano», dal «Corriere della Sera» a «Paese-Sera» al «Giorno».

Se dovessi definire la vendetta direi che è una giustizia nevrotica. Quando dico che scrivo per vendetta, voglio dire che scrivo per compiere una giustizia smisurata, eterna e dunque ingiusta: la scrittura deve essere una esaltazione o una punizione destinata a durare senza fine. Ho bisogno di coltivare l’illusione che questo sia possibile. Non importa che si tratti di un’illusione: se prendo coscienza che la mia opera non durerà a lungo, la mia vita non ha più giustificazione. Da qui il bisogno di scrivere poesie o romanzi, non politica: la politica produce una vendetta troppo provvisoria. Quando scrivevo Il quinto stato, volevo fare l’esaltazione degli ultimi, vendicare la loro condizione di repressi. Non c’è differenza tra repressione politica, militare, economica, sessuale, ecc.: sono tutte collegate. E di conseguenza l’espressione — che è l’esatto contrario di repressione — le “vendica” tutte. Scrivendo La vita eterna volevo vendicare i partigiani contadini, il loro destino oscuro, senza gloria.

Poiché il capo delle SS di questa zona dell’Italia di cui parlo nel libro fu scoperto quando La vita eterna fu tradotta in tedesco, e fu citato in processo, e morì la notte della prima udienza, mi piace pensare La vita eterna come un colpo di fucile sparato dall’Italia alla Germania per colpire al cuore un nemico della mia gente. La Procura di Verona aveva incluso La vita eterna, edizione italiana ed edizione tedesca, tra i documenti a carico.

Con Un altare per la madre ho voluto realizzare un mio personale processo di santificazione, sostituendo quello della Chiesa: ho voluto fare la più grande esaltazione possibile del più miserabile dei personaggi, usare la santificazione come vendetta sociale.

E con La malattia chiamata uomo ho tentato di rovesciare i ruoli della psicanalisi, concependo il transfert come strumento per mezzo del quale il paziente conosce se stesso e l’analista. L’analisi è qualche cosa che non si può, non si deve raccontare: è piena di tabù.Colui che la racconta, non rompe un tabù, ma un contenitore di tabù. Caricata di questi compiti, che forse non può sopportare, la scrittura mi logora. Accettando di logorarmi punisco me stesso: mi punisco delle ingiuste giustizie che compio ogni giorno con ogni riga della mia scrittura. E così il cerchio si chiude: la scrittura è colpa ed espiazione, peccato e assoluzione, vendetta di una colpa, colpa per questa vendetta, espiazione di questa colpa.

Ferdinando Camon

——

BIOGRAFIA

Ferdinando Camon è nato in un piccolo paese di campagna, in provincia di Padova, presso Montagnana, cittadina chiusa da una perfetta cinta di mura (Castellani vi ha girato il film “Romeo e Giulietta”) che risale ai tempi del tiranno Ezzelino, prima di Dante. Di questo paese non ha mai indicato il nome. Aveva dieci anni quando la guerra finì, e dunque fece in tempo a imprimersi nella memoria rastrellamenti e bombardamenti: c’era un grande olmo nella campagna paterna, e lui vi saliva sopra per osservare le battaglie aeree tra i caccia tedeschi e le Fortezze Volanti americane, o la cattura dei partigiani da parte delle SS: fu così che vide un suo parente, membro di una squadra della brigata partigiana Garibaldi, mentre si arrendeva in un campo di frumento incendiato: aveva la pancia segata da una raffica, per la ferita uscivano le viscere, e lui se le reggeva con le mani (Camon ne parlerà in una poesia de Liberare l’animale, 1973, e nel romanzo Mai visti sole e luna, 1994). Gli abitanti della campagna (“uomini, angeli, diavoli, animali”) sono i protagonisti dei suoi primi due romanzi, Il quinto stato e La vita eterna, pubblicati nel 1970 e ‘72. Questi due romanzi furono poi oggetto di una lunga riscrittura, terminata nel 1988: sicché la loro stesura definitiva ha richiesto un quarto di secolo. Questa riscrittura si era resa necessaria perché man mano che i due libri venivano tradotti nel mondo, e che le vicende che essi raccontano si allontanavano nel tempo, l’autore sentiva pacificarsi il suo rapporto con quelle storie, che nella prima stesura gli risultava sofferente e sovraccarico. Il quinto stato uscì in Italia con una appassionata prefazione di Pier Paolo Pasolini, e fu subito tradotto in Francia per iniziativa di Jean-Paul Sartre e in Unione Sovietica da Gheorgi Breitburd, che a metà del lavoro scende a Venezia, insieme con Ajtmatov, per un incontro con l’autore. Breitburd, che s’era poi ritirato in una dacia per tradurre La vita eterna, morirà a metà di questo lavoro, che sarà perciò terminato da Julia Dobrovolskaja. Tra i due romanzi Camon interpose le poesie Liberare l’animale (premio Viareggio 1973). Imprevisto, e come elaborazione di un lutto, pubblica nel 1978 Un altare per la madre: esaltazione di un Cristianesimo mistico ed originario, questo romanzo (premio Strega) si diffonde nel mondo e specialmente nei paesi comunisti. La RAI, Radiotelevisione Italiana, ne ricava un film con Angela Winkler e Franco Nero. Un altare per la madre ebbe una gestazione lunga, e fu riscritto diciannove volte: ma la stesura mandata in stampa non fu la diciannovesima, ma la terza, anche per scelta dell’editore Livio Garzanti. I tre romanzi furono riuniti nel “ciclo degli ultimi”, perché con essi Camon si accorse di aver descritto la fine di una civiltà, la civiltà contadina: questa fine era stata chiamata, da un poeta francese (Charles Péguy), «il più importante avvenimento della storia, dopo la nascita di Cristo». Geno Pampaloni, illustre critico letterario italiano del secondo Novecento, inserendo questi romanzi nella “Storia della Letteratura Italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno”, scrive: «Tre libri che sentiamo radicati come pochi altri nella cultura dell’ultimo ventennio». Il “New York Times” parlava di «A scene like a Bruegel canvas», la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” di «Ein Epitaph, ein Requiem für die Letzten», “Le Nouvel Observateur” scriveva: «”La vie éternelle” est le livre d’un Lévi-Strauss qui aurait prêté sa plume à Faulkner». Raymond Carver, il padre dei minimalisti americani, definiva Un altare (che in America si intitola Memorial): «A sublime work of art», e in Francia l’”Express” terminava la recensione avvertendo: «Attention: chef-d’oeuvre». In Italia, la rivista “Letture” lo definiva: “Un libro meraviglioso, un libro sacro”. Avendo cominciato dunque con la ricognizione di una crisi (la crisi della civiltà contadina), Camon prosegue come descrittore di altre crisi: col “ciclo del terrore” (Occidente, Storia di Sirio) racconta quella crisi che si chiama “terrorismo”, e col “ciclo della famiglia” (La malattia chiamata uomo, La donna dei fili) la crisi che porta in analisi. La malattia chiamata uomo (titolo francese: La maladie humaine) viene rappresentata per quattro anni consecutivi al teatro “L’Aquarium” di Parigi.La particolare funzione che Camon attribuisce alla scrittura (la scrittura è rivelazione, quindi un merito, ma anche un tradimento, e più esattamente una delazione, quindi una colpa) fa sì che ogni ciclo romanzesco provochi delle reazioni: per il “ciclo degli ultimi” s’interrompe ogni rapporto con i paesi d’origine, che non volevano essere descritti per quel che erano, e con La vita eterna (diventata un best-seller in alcuni stati, tra cui
la Germania, dove fu per dieci mesi consecutivi nella lista dei libri raccomandati dalla critica) ottiene l’apertura di un processo contro l’SS che nel libro è l’”eroe negativo”, e che mantiene lo stesso nome (Lembke) che aveva nella realtà: il libro è assunto come “documento a carico” dalla Procura della Repubblica di Verona, ma quell’SS muore d’infarto alla vigilia del processo. Al quotidiano francese “Libération” l’autore dichiarerà di sentire quel libro «come un colpo di fucile, sparato dall’Italia alla Germania, per colpire al cuore un nemico della [sua] gente». Alla pubblicazione di Occidente fan seguito le reazioni di gruppi terroristici: all’autore viene distrutta l’auto, e per mesi gli vengono recapitate nella cassetta postale delle piccole bare, col suo nome scritto sopra. L’autore ebbe per lunghi periodi la casa e il telefono controllati, su sua richiesta, dalla polizia. Quando Occidente viene ridotto a film dalla RAI, l’autore abbandona la sua città, con tutta la famiglia; anche la troupe, che aveva cominciato a girare a Padova, è costretta a trasferirsi altrove (il film sarà terminato a Ferrara). Contro il film sporge denuncia il terrorista “nero” che si riconosce come protagonista. Ma, condannato all’ergastolo, perde i diritti civili, e il processo non ha luogo. Successivamente riabilitato, con piena assoluzione, chiede a Camon un incontro chiarificatore, da pubblicare. Il colloquio, di un’intera giornata, è pubblicato nel volume I miei personaggi mi scrivono: si conclude con Camon che domanda al suo “personaggio” in che cosa consista la sua innocenza, e quello risponde che «è innocente non colui che è incapace di peccare, ma colui che pecca senza rimorsi». Camon ritiene che con quelle parole il terrorista volesse affermare: «Sì, sono stato io, ho fatto la strage: ma possiedo un sistema morale in grado di giustificarmi». Sul problema della “colpa” Camon ha dialogato con Primo Levi, superstite di Auschwitz: ne è nata
la Conversazione con Primo Levi, conclusa poco prima del suicidio (ma Camon non crede che si tratti di suicidio) di Levi. La tesi di Camon è che lo Sterminio coinvolga una responsabilità più grande di quella affermata da Levi, il quale adotta una concezione “eroica” della storia, per cui la storia è fatta da pochi, i Napoleoni che galleggiano come sugheri sulla volontà dei popoli; Camon pensa che l’eliminazione degli ebrei sia stata l’atto finale di un plurisecolare processo di rigetto, che ha il suo nucleo originario nel cuore stesso del Cristianesimo, che non permetteva alcun rapporto con i “diversi” se non finalizzato alla loro conversione: nella concezione cristiana del “bene” stava in realtà la radice di una immensa colpa storica. Col Canto delle balene (1989) Camon inaugura un nuovo ciclo, e lo chiama “ciclo della coppia”: in questo primo romanzo racconta come la coppia si costruisca attorno ai proprî segreti, e come, con la violazione di quei segreti, si dissolva. Ma il libro vuol essere anche una “epigrafe” su una generazione, la generazione dei cinquantenni, un compendio delle sue grandezze e dei suoi delirî: la psicanalisi di massa, il culto dell’India, la mancata rivoluzione, l’invenzione di un nuovo Dio, e la tardiva riscoperta dei sentimenti e del sesso. Nel 1991 esce il romanzo Il Super-Baby, storia del parto visto dal nascituro (tutto il tempo del romanzo coincide col tempo pre-natale) e dal maschio: con soggezione e, avvertibile in ogni pagina, con rancore. La moglie (la “nuova donna”) vuole infatti partorire un genio, e perciò porta a scuola il bambino nei nove mesi prima che nasca: il marito (il “vecchio uomo”) la accompagna e la spia, ammirato e costernato. Fino al drammatico risultato finale. Nel 1993, mezzo secolo esatto dopo le vicende raccontate nella Vita eterna, un soldato tedesco torna nei paesi veneti dove aveva partecipato alle rappresaglie che avevano seminato 56 cadaveri in una decina di mesi: vuol essere festeggiato, contando sull’oblio delle vittime. L’incontro con questo soldato riporta Camon alla rievocazione della guerra e alla denuncia dei colpevoli che si sono costruiti una biografia innocente: nasce il romanzo Mai visti sole e luna (1994). Nel ‘96 pubblica
La Terra è di tutti, sul tema dello scontro di civiltà che si svolge nelle città occidentali, sotto l’urto delle ondate migratorie dall’Asia e dall’Africa. Nel 1999 Camon ritorna alla campagna e alla poesia, con la raccolta Dal silenzio delle campagne, in cui rievoca la ricchezza cattolico-pagana della civiltà contadina del dopoguerra, e l’amorale oblio della campagna di oggi, protesa alla ricchezza, dimentica del suo passato grandioso, delle violenze patite nell’occupazione, le rappresaglie e le stragi, e popolata di mostri, parricidi, serial-killer, mercanti di donne, drogati e spacciatori. Per quattro anni viene eletto presidente degli scrittori italiani associati nel Pen, e come tale inoltra all’Accademia di Svezia la candidatura al premio Nobel per
la Letteratura di scrittori italiani, uno all’anno: Mario Rigoni Stern, Antonio Tabucchi, Andrea Zanzotto e Alda Merini. Nel 2004 esce il breve romanzo La cavallina, la ragazza e il diavolo, che finalmente instaura un rapporto felice, gioioso, nostalgico con il mondo della campagna e i suoi abitanti, e lancia il messaggio che bisogna fare quel che è giusto, avvenga quel che può: ognuno avrà il premio che si merita, e se l’astuzia o l’iniquità glielo toglie, gli sarà restituito. Nel novembre del 2006 Camon ha riunito in un volume (“Tenebre su tenebre”) una lunga serie di pensieri, ragionamenti, analisi, ricordi, scritti nel corso degli ultimi 12-15 anni a ridosso delle vicende più importanti della storia e della cronaca: guerre, stragi, encicliche, processi, omicidi, suicidi, insomma i fatti che cambiano la nostra vita. Camon scrive regolarmente su giornali italiani, “
La Stampa”, “L’Unità”, “Avvenire”, i quotidiani delle Venezie del gruppo “Repubblica-Espresso”, a volte su “Le Monde” (Parigi) e su “
La Naciòn” (Buenos Aires). Ha due figli maschi: il primo, Alessandro, vive a Los Angeles, dove produce film, il secondo, Alberto, vive a Bologna, dove insegna Procedura Penale.

Pubblicato in IL SOTTOSUOLO (di Ferdinando Camon)   133 commenti »

lunedì, 5 novembre 2007

PERCHÉ SCRIVERE (di Ferdinando Camon)

Ferdinando Camon (nella foto in basso) è uno degli scrittori italiani più autorevoli. Ha pubblicato parecchi libri e vinto diversi premi letterari. Credo sia uno dei pochi che può permettersi di spiegare “perché scrivere” in maniera categorica, senza mezzi termini. Lo ringrazio pubblicamente per avermi concesso questo testo che pubblico qui di seguito. Un testo che, a mio avviso, si presta benissimo per avviare un dibattito.

Massimo Maugeri

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camon-a-padova-2007.jpgCi sono molti lavori per i quali un’etica va imposta o conquistata: un rapporto morale con quello che si fa, per farlo con sincerità, con adesione, con verità. Ma c’è un lavoro che ha l’etica dentro di sé, e se non ce l’ha fallisce, non comincia neppure, crolla ad ogni passo. Questo lavoro è quello dello scrivere. Scrivere non è parlare. Parlare vuol dire reagire con le parole a un fatto che accade, mentre accade. Lo scrivere richiede tempo. Il parlare reagisce subito, per provocare nell’ascoltatore una reazione immediata, e di breve vitalità. La scrittura reagisce dopo, a passioni fredde, perché vuol restare a lungo, possibilmente (è il segreto desiderio di ogni scrittore) “per sempre”. Perciò chi parla bene non scrive bene, e viceversa. Sono due qualità distinte, una nega l’altra. Conosco uno scrittore che dice: “So perché scrivo: perché non sono il primo figlio”. Vera o falsa che sia quest’autointerpretazione, lui vuol dire che in casa la prima risposta era riservata al primo figlio, e lui veniva dopo, e in quel dopo maturava una riposta diversa, più calma, una risposta che aveva la stabilità della forma scritta. Non tutte le forme scritte hanno la stessa durata. Per esempio (io ne sono convinto), la storia dura meno della letteratura. E questo perché la letteratura (poniamo, il romanzo) dura a prescindere dalla verità che racconta, mentre la storia, appena si dimostra che non è vera, cade. Perciò c’è una responsabilità maggiore nello scrivere pagine che durano di più. La responsabilità può essere così alta, e lo sforzo etico di reggere l’impegno così logorante, che la scrittura genera la nevrosi, scrittura e nevrosi diventano la stessa cosa. Quasi mai lo scrittore scrive in pubblico, di solito si nasconde. O nasconde quel che scrive. Tolstoj lo nascondeva dentro gli stivali, dove chi lo spiava andava a frugare non appena lui era uscito. Leonardo lo nascondeva scrivendo da destra a sinistra. Come uno che oggi, usando il computer, mette una chiave d’accesso conosciuta a lui solo. Qui c’è il concetto che l’etica dello scrivere non è mai l’etica del vivere, del vivere in quel momento, ma è la rottura dell’etica imperante, e l’instaurazione di un’etica nuova. Perciò gli scrittori di denuncia sono inaccettabili dall’etica corrente, verranno accettati più tardi, quando si sarà instaurata l’etica che loro collaborano a introdurre. Bassani ha dovuto lasciare Ferrara, Moravia non lo potevan più vedere in Ciociaria, Pasolini è finito addirittura in carcere, Volponi s’e dimesso dal posto di lavoro. Noi viviamo dentro un sistema dove tutte le forze sono in equilibrio, morale-politica-religione-scuola-arte-letteratura-informazione, la luce che illumina i passi della nostra vita viene da tutto ciò che è gia stato espresso, e che crede di essere tutto l’esprimibile: colui che si mette a scrivere esprime qualcosa di nuovo, d’inatteso, e di temibile perché rompe gli equilibri preesistenti, sicché tutto quello che c’è lavora affinché il nuovo non sia detto. Non c’è mai bisogno di un nuovo scrittore. E’ lo scrittore che, scrivendo, deve creare il bisogno di sé. Lo scrittore riesce nella misura in cui crea questo bisogno. Da quel momento è un “classico”. Scrivendo, comunica un’etica, un’idea di bene, la “sua” idea di bene, che è insieme estetica e morale, che durerà più in quanto estetica che in quanto morale. Questo spiega perché raramente i grandi scrittori, quando cominciano, hanno successo. Perché non sono in sintonia col gusto corrente, il gusto della massa. Una volta Majakovskij si presentò a una conferenza, salì sul palco, cominciò a parlare e fu subito applaudito. “Mi applaudono – pensò con disgusto -, dunque non dico niente di nuovo”, e se n’andò. L’incrocio di un’opera col gusto della massa crea il fenomeno noto come best-seller: il best-seller è “sempre” un libro morto, perché è il risultato di un gusto all’apice della diffusione, quindi in fase morente. “Best-seller” e “libro reazionario” sono la stessa cosa. Perciò possono esistere dei manuali su come si scrive un best-seller, con l’indicazione di tutti gli ingredienti, e le relative percentuali: il best-seller deve corrispondere, non inventare, non sgarrare. E se un libro è reazionario, l’autore è reazionario. E se quell’autore, oltre ai libri, scrive articoli, saranno articoli reazionari. Un libro in sintonia col gusto presente è già un libro del passato. Perciò coloro che scelgono i libri da stampare, in una casa editrice, dovrebbero scegliere non libri che li confermano, ma libri che li smentiscono e li seppelliscono. Di tutti i lettori di manoscritti, quello che trovo piu interessante non è il mitico Bobi Bazlen, personaggio dello “Stadio di Wimbledon” di Del Giudice, che affrontava ogni nuovo testo sconosciuto ponendosi la domanda: “Risponde questo libro alla mia idea di libro?”, perché voleva vivere nei libri degli altri, che dunque dovevano scrivere perché lui vivesse; domandarsi se un libro c’è o non c’è ponendosi quella domanda, significa costringere il libro a confermarci; no, preferisco l’estetica applicata dall’umile cristiano-comunista Franco Fortini, che di fronte a un manoscritto poetico di Andrea Zanzotto ebbe l’onestà di scrivere suppergiù così: “Nulla di questo libro poetico corrisponde alla nostra idea di libro e di poesia; ma è un libro poetico; e dunque alla domanda: Stamparlo sì o no?, rispondo: Stamparlo subito, purtroppo”. In un certo senso, quella parte di cristianesimo-e-comunismo di Fortini che Fortini non riusciva a dire, era detto, in forme non fortiniane, nei versi di Zanzotto. Anche questa è una maniera per vivere oltre se stessi. Dunque, per scrivere. Questa unità tra vivere e scrivere fa sì che si scrive come si vive. La menzogna, l’insincerità nella scrittura è impossibile: il libro falso è quello che si chiama “un libro non-scritto”. Lo vedi subito, fin dalle prime righe. L’etica nella scrittura non può essere imposta, o è naturale o non c’è. Uno studioso francese ha scritto un libro sul rapporto tra scrivere e respirare: François Bernard Michel, “Le Souffle coupé, respirer et écrire (Gallimard), per collegare l’asma di Queneau ai suoi problemi esistenziali, la tosse di Paul Valéry ai suoi gridi, l’asma di Marcel Proust alla sua ricerca mortale del senso, lo spasmo alla laringe di Mallarmé alle sue pagine bianche… La conclusione di Michel è: si scrive come si respira. Allo stesso modo noi potremmo trovare una corrispondenza tra le scritture e le nevrosi di Dante, Petrarca, Tasso, Manzoni, e via via fino a Pasolini. Sono etici perché sono autentici, e viceversa. La malattia è il prezzo dell’eticità, il costo della scrittura. Allo stesso modo io credo che un critico fornito di buoni strumenti possa dire, leggendo una pagina di Parise, se l’ha scritta prima o dopo l’entrata in dialisi. L’entrata in dialisi corrispose ad un diverso scorrimento del sangue nelle vene, e il diverso scorrimento del sangue nelle vene gli dettava un diverso fluire delle parole nella frase, e una diversa cadenza della punteggiatura. Il senso è: scrivi come ti scorre il sangue. Poteva Parise scrivere diversamente? E’ come chiedergli di essere in dialisi senza essere in dialisi. La responsabilità sta nello scrivere per come si è. Rispondere della propria scrittura vuol dire rispondere di come si è. Nel mostrare come si è. Nel consegnare quello che sai, quello che sei. Questo è etico. Poiché si vuole scrivere “per sempre”, si risponde “per sempre” degli effetti della propria scrittura. Omero ne risponde ancor oggi. Consegnare quello che sei non significa consegnarsi ai contemporanei, che possono non accoglierti, bensì a coloro che verranno. Anche se non sai l’accoglienza che ti faranno. Lo scrittore che fa questo, è etico. Lo scrittore che non fa questo, non è che non sia etico, è che non è uno scrittore.

Ferdinando Camon

Pubblicato in EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI, IL SOTTOSUOLO (di Ferdinando Camon)   113 commenti »

lunedì, 15 ottobre 2007

COME SONO BELLI I LIBRI CHE NON SI LEGGONO

I dati relativi alla nuova indagine Ipsos su libri e letture non sono certo rassicuranti. Ne ha scritto Mirella Appiotti su Tuttolibri de La Stampa, interagendo con Gian Arturo Ferrari, direttore generale libri Mondadori, e Stefano Mauri, presidente e ad del Gruppo Mauri-Spagnol.

Letture: Solo il 38% del campione legge 1 libro l’anno (nel 2003 il 39%, nel 2005 il 46% «effetto presunto – dice Ferrari – dei libri allegati ai giornali e di best seller tipo Dan Brown»).

Acquisti: il 71% non compra neppure un libro (il 65% del 2005).

Fenomeno generale: Polarizzazione sociale del Paese, forbice che si allarga drammaticamente, la fascia alta della popolazione compra di più, sempre meno l’Italia povera. Di qui, crollo al Sud: -8% di lettori dal 2003. Benino il Centro Italia al +10% di «acquirenti», con Roma «capace di esprimere grande vivacità…»; solo un +2% di lettori al Nord, leggero calo dei «lettori forti».

«Il libro, una perdita di tempo» secondo il 61% degli intervistati.

«La lettura? Pesante» per il 20% del campione perché «gli ricorda la scuola».

«In nessun Paese del mondo l’esperienza scolastica lascia un ricordo così negativo» ha commentato Ferrari. L’uomo più potente dell’editoria italiana, che afferma di non parlare pro domo sua «l’industria editoriale non patendo più di tanto il fenomeno, siamo pur sempre il 6° mercato del mondo», sottolinea comunque come i lettori tra i 25 e i 34 anni siano cresciuti dal 2003 del 4%. «Basterebbero 10 milioni di euro dello Stato per intraprendere tra i bambini una campagna quinquennale di promozione della lettura con frutti sicuri». Stefano Mauri sostiene quanto segue: «Vorrei collegare due cose emerse. La prima, per l’appunto, è l’aumento della lettura tra i giovani dai 25 anni. La seconda è che i non lettori non hanno capito, in gran parte, quale magnifica fonte di svago possa essere un libro»”.

Sullo stesso numero di Ttl compare un articolo di Ferdinando Camon (cfr. Ttl del 13 ottobre 2007, pag. 2, rubrica “L’opinione”) intitolato “Non bastano i libri belli”. Camon cita i dati Ipsos e chiama in causa Corrado Augias. Vi propongo di seguito l’articolo:

“Apro il libro di Corrado Augias Leggere (Mondadori, pp. 120, e 12), davanti al computer acceso, e sul monitor arriva un lancio Ansa: «Leggere? Per gli italiani è tempo perso». Continua: «Il 61% degli italiani non leggono nemmeno un libro all’anno, per il 12% leggere è tempo sprecato, per il 16 nella vita ci sono cose più divertenti, e per il 33 ci sono cose più utili». Nessuna meraviglia se i nostri ragazzi sono meno preparati dei coetanei europei. Ce l’ha appena detto l’Europa, con un’indagine di poche settimane fa. I nostri ragazzi sono messi peggio della media europea, per l’abbandono scolastico e per la percentuale di laureati. Il dato più triste è che dal 2003 ad oggi i lettori, in Italia, sono calati. Ma allora, il successo dei festival letterari? Il festival di Mantova funziona in maniera strana: la gente che ci va è tanta, ma è sempre gente che già legge, non è gente nuova. Adesso vediamo cosa fa Pordenone. Per ora «Pordenonelegge» deve fare se stesso, e ci riesce: fa notizia, attira gente, crea l’evento. Ma tutti questi sono festival di scrittori. La vera festa del libro resta la Fiera di Torino, ineguagliata. Le trasmissioni televisive avevano una loro utilità: sì, lanciavano pochi libri, ma li lanciavano molto. Una fra le migliori era quella di Corrado Augias. Evidentemente, scrivendo questo libro, Augias obbedisce ancora all’istinto missionario di chiamare il pubblico ai libri, perché «i libri ci rendono migliori, più liberi e più allegri». Bisogna leggere, dice, perché «i libri sono belli». E usa, con cenni molto rapidi o presentazioni un po’ più solide, un centinaio circa di libri. C’è anche un capitolo sul leggere che fa male, ma a ben guardare anche quello fa bene: don Chisciotte, Madame Bovary, Paolo e Francesca, Eloisa e Abelardo sono travolti dai libri che leggono, ma in quel travolgimento trovano il senso della vita. Tutto ciò che si fa per far leggere è ben fatto. Ma l’impresa di Augias mi ricorda quella di Thomas Merton: Merton s’è convertito al cattolicesimo perché «le cattedrali cattoliche sono belle», e voleva convertire il mondo spiegando a tutti che «le cattedrali cattoliche sono belle». Dubito che ci sia riuscito: gli altri uomini hanno altre bellezze. Augias vuol convertire i non-lettori spiegando che i libri sono belli. E’ difficile. I non lettori, dice l’Ansa, hanno le loro belle cose da fare”.

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Verrebbe da dire: siamo alle solite.

Commentate l’articolo di Camon, se volete.

Poi vi domando: secondo voi cosa bisognerebbe fare per incentivare la lettura di questi famigerati libri ?

Magari potrebbe venire fuori un’idea innovativa.

Chi lo sa?

A voi!

Massimo Maugeri 

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AGGIORNAMENTO del 17 ottobre 2007

Ringrazio moltissimo Ferdinando Camon per il suo intervento nel dibattito che è nato dopo la pubblicazione del post. Il “perché leggere” che troverete di seguito – un bellissimo spot a favore della lettura – è tratto dal suo libro “Tenebre su tenebre” (Garzanti, 2006, pagg. 355, euro 18)

In questo libro Ferdinando Camon usa una lente che permette di cogliere, oltre il brusio della cronaca, certe onde lunghe che sommuovono nel profondo tanto la realtà quanto noi stessi. La memoria della civiltà contadina e la percezione del mutamento, la scrittura e la psicoanalisi, la famiglia e il sesso, la religione e la religiosità, il corpo e la biologia, la guerra e la morte, il denaro e il potere, la solitudine e i popoli: sono questi gli aspetti dell’esperienza su cui Camon s’accanisce, e al tempo stesso gli strumenti con cui misura il mondo. O, per meglio dire, gli strumenti con cui lo soppesa, in tutta la sua feroce insensatezza. Così, pagina dopo pagina, s’inscrive una diagnosi impietosa del nostro tempo e delle sue perversioni, in un libro di lotta che turba e ferisce.

PERCHÉ LEGGERE

Chi vive, vive la propria vita. Chi legge, vive anche le vite altrui. Ma poiché una vita esiste in relazione con le altre vite, chi non legge non entra in questa relazione, e dunque non vive nemmeno la propria vita, la perde. La scrittura registra il lavoro del mondo. Chi legge libri e articoli, eredita questo lavoro, ne viene trasformato, alla fine di ogni libro o di ogni giornale è diverso da com’era all’inizio. Se qualcuno non legge libri né giornali, ignora quel lavoro, è come se il mondo lavorasse per tutti ma non per lui, l’umanità corre ma lui è fermo. La lettura permette di conoscere le civiltà altrui. Ma poiché la propria civiltà si conosce solo in relazione con le altre civiltà, chi non legge non conosce nemmeno la civiltà in cui è nato: egli è estraneo al suo tempo e alla sua gente. Un popolo non può permettersi di avere individui che non leggono. E’ come avere elementi a-sociali, che frenano la storia. O individui non vaccinati, portatori di malattie. Bisogna essere vaccinati per sé e per gli altri. Perciò leggere non è soltanto un diritto, è anche un dovere. Nelle relazioni tra i popoli, la prima e più importante forma di solidarietà è dare informazioni: mai l’altro dev’essere convertito alla nostra supposta superiorità, ma sempre messo in condizioni di scegliere tra le sue informazioni e le nostre. Quando una cultura si ritiene nella fase di superiorità tale che tutte le altre culture devono apprendere da lei, per il loro bene, e lei non può apprendere da nessuna, comincia la sua decadenza.
Ferdinando Camon

Pubblicato in IL SOTTOSUOLO (di Ferdinando Camon), PERPLESSITA', POLEMICHE, PETTEGOLEZZI E BURLE   136 commenti »

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