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mercoledì, 23 dicembre 2015

STORIE (IN) SERIE n. 6 – The Knick

Storie (In) Serie

Storie (in) Serie #6

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il sesto appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato a “The Knick

* * *

a cura di Carlotta Susca

Immaginate di essere trasportati all’inizio del Novecento a New York: nonostante la fiducia nel progresso e nella tecnologia, tutte le conquiste etiche e sociali sono ancora in embrione.
Immaginate di essere costretti a farvi portatori di quelle conquiste e di dovervi scontrare con un contesto che non è ancora pronto ad accoglierle.
Immaginate di essere i protagonisti di quel cambiamento e di essere costretti a procedere a tentoni, perché non sapete che la parità di genere e razziale saranno lentamente guadagnate lungo il secolo breve, e saranno ancora non così scontate nel terzo millennio.

Nella dialettica fra tempo del racconto e tempo presente consiste parte dell’interesse per The Knick, la serie televisiva diretta da Steven Soderbergh e trasmessa in Italia su Sky Atlantic.
La colonna sonora elettronica di Cliff Martinez, valore aggiunto di una serie televisiva straordinaria, fa suonare contemporanee le vicende, mentre rafforza sinesteticamente il bianco abbacinante della sala preparatoria dei chirurghi e il contrasto con gli spalti ieratici dell’anfiteatro medico. La scena del ballo di beneficenza per il nuovo Knickerbocker è semplicemente un capolavoro: la traccia sonora sulle coppie danzanti detta un tempo che colma la distanza dallo spettatore, come se la scena fosse tradotta, nei suoni, da un secolo all’altro.

Sebbene l’ingresso dello spettatore al Knickerbocker Hospital avvenga, nella prima stagione, al seguito del dottor Thackery (Clive Owen), ci troviamo in un universo narrativo corale, quasi privo di comprimari. Qui i personaggi vivono dei percorsi di formazione intensi e perfettamente credibili, in parallelo. Non c’è teleologia nei loro mutamenti e, pur sapendo quale direzione abbia preso la Storia, le loro singole storie possono andare in direzione opposta: sono parte del percorso evolutivo della società, che procede a tentoni e che consente solo agli spettatori di oggi di tracciare la linea retta delle conquiste sociali.

I medici, le infermiere e gli imprenditori, il sottobosco di proletari che sbarcano il lunario come meglio possono (praticando aborti clandestini o fabbricando preservativi di budello) sono tasselli di un disegno che si articola a livello sovraindividuale, e che la Storia costruisce ignorando le singole esistenze: con The Knick assistiamo allo struggimento quotidiano degli individui che singolarmente hanno contribuito ai cambiamenti sociali, alle innovazioni tecnologiche e procedurali in campo medico, all’affermazione dei diritti di donne e minoranze, alla legalizzazione dell’aborto.

Così Thackery gioca a fare dio ma è posseduto dalla dipendenza e, per quanto spinga i limiti della medicina oltre il suo tempo – un inizio Novecento fiducioso nel progresso ma ancora agli albori delle tecniche chirurgiche – , non lo seguiamo in tappe successive di conquiste mediche, ma in continui avvitamenti. Al contrario il dottor Gallinger, la cui devozione alla causa eugenetica sappiamo essere un binario morto del pensiero scientifico, esce dall’arco narrativo del suo personaggio (momentaneamente) vincitore, pronto a diffondere le sue teorie nella cara vecchia Europa (e nel suo cuore tedesco che è propenso ad accoglierne il pensiero). Ancora una volta: conoscere il destino dell’eugenetica non ci impedisce di guardarne lo sviluppo come probabile – tant’è che avrà bisogno di esplodere nel nazismo perché venga messa nell’oblio.

Anche i percorsi del dottor Algernon Edwards, di Cornelia Robertson-Showalter e dell’infermiera Lucy Elkin procedono in direzione contraria alla Storia: se Edwards, medico nero, ha raggiunto uno status precluso ai suoi genitori (che fanno parte della servitù dei Robertson), non è nelle due stagioni di The Knick che assiste all’apertura di vedute della società – anzi, la sua parabola è discendente, e solo nel finale si intuisce che potrebbe cominciare a salire. Vale lo stesso per Nelly Robertson, che piega la sua indole indipendente e intraprendente a un matrimonio combinato e riparatore (delle finanze famigliari).
Con Lucy Elkin si ha l’esempio perfetto della matassa che gli individui si trovano a sbrogliare per garantire lo sviluppo della Storia e la sua semplificazione lineare ad uso dei posteri: proveniente da un West Virginia bigotto e presente nella sua cadenza cantilenante, Lucy (Eve Hewson, figlia di Bono) non perde l’innocenza in favore dell’emancipazione (che ci limitiamo a intravedere); capisce invece rapidamente come funziona il mondo e quanto acerbi siano i tempi per una rivoluzione di genere. Dopo un cedimento al bigottismo paterno e la confessione dei suoi peccati, lascia anche le ultime tracce di candore e adotta l’unica tattica che sembri pagare: lo sfruttamento della femminilità per ottenere un posto nella stessa affettata e fasulla società da cui Nelly tenta disperatamente di fuggire.



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Scritto mercoledì, 23 dicembre 2015 alle 19:00 nella categoria SERIE TV (e dintorni). Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

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