max-maugeri-twitter-fb

CLICCA ogni giorno su... letteratitudinenews ... per gli aggiornamenti

Più di 50.000 persone seguono

letteratitudine-fb (Seguici anche tu!)

Avvertenza

La libertà individuale, anche di espressione, trova argini nel rispetto altrui. Commenti fuori argomento, o considerati offensivi o irrispettosi nei confronti di persone e opinioni potrebbero essere tagliati, modificati o rimossi. Nell’eventualità siete pregati di non prendervela. Si invitano i frequentatori del blog a prendere visione della "nota legale" indicata nella colonna di destra del sito, sotto "Categorie", alla voce "Nota legale, responsabilità, netiquette".

dibattito-sul-romanzo-storico

Immagine 30 Storia

letteratura-e-fumetti

 

ottobre: 2008
L M M G V S D
« set   nov »
 12345
6789101112
13141516171819
20212223242526
2728293031  
letteratitudine-fb
letteratitudine-su-rai-letteratura
venerdì, 31 ottobre 2008

L’INFANZIA È UN TERREMOTO di Carola Susani

Parliamo di terremoto. Lo facciamo oggi, a poco meno di due mesi da una ricorrenza importante: il centenario del terribile, devastante terremoto di Messina del 28 dicembre 1908. L’occasione ce la fornisce questo bel libro di Carola Susani: “L’infanzia è un terremoto” (Laterza, 2008, euro 9, pagg. 142). Un libro che si presta a diversi livelli di lettura.
Di seguito potrete leggere la recensione di Miriam Ravasio (in esclusiva per Letteratitudine) e gli articoli di Francesco Gambaro e Giovanni Russo, apparsi rispettivamente su Repubblica-Palermo e sul Corriere della Sera.
Vorrei che discutessimo di questo libro della Susani e degli argomenti a esso correlati. Già un primo punto di domanda potremmo trarlo, forse, dallo stesso titolo del volume, che si presta a una doppia interpretazione: quando e perché l’infanzia è un terremoto?
E poi…
Il terribile terremoto del Belice, avvenuto quarant’anni fa, è solo un ricordo?
Che tipo di tracce ha lasciato (se ne ha lasciate)?

Gambaro scrive: “A pensarci bene il Sessantotto in Sicilia è cominciato in anticipo a causa del terremoto, connotandosi prima come un grande movimento di solidarietà, poi con la rabbia di chi assisteva all’ambiguo e ritardato spargimento di denaro pubblico, a ricostruzioni balzane, ad appropriazioni indebite di materiali di ogni genere, compresi quelli fotografici che, anziché finire nei centri di documentazione, hanno abbellito le università italiane benedicendo carriere”.
E l’arte? E possibile immaginare una connessione tra “arte” e “ricostruzione”? Tra “arte” e l’esigenza di “riemergere dalle rovine”?
Miriam, nella sua recensione, ha estrapolato dal libro queste frasi/domande: “Ho pensato a Gibellina come a un pamphlet dell’antintellettualismo, un Candide, la dimostrazione della pochezza, dell’inanità dell’arte. Che cos’è l’arte? La cacatina di un uccello presuntuoso. Chi presta attenzione all’arte? Nessuno. Perché dovrebbe? Che ragione c’è? Può giusto servire a richiamare turisti e intellettuali, gente che si diletta di cose senza senso, gente senza problemi”.
Già. Cos’è l’arte? A chi interessa davvero?
Questo e molto altro si evince dall’ottimo volume della Susani. Come scrive Giovanni Russo “L’infanzia è un terremoto è ricerca, biografia, memoria, vicende personali e pubbliche. È una testimonianza dell’idealismo che muoveva tanti a stare nelle baracche, tra i resti dei paesi distrutti”.

Vi invito a discutere di questo libro, magari prendendo spunto dalle domande poste sopra. L’autrice parteciperà al dibattito (Miriam mi aiuterà a coordinarlo).
Infine vi ricordo la già citata ricorrenza: il centenario del terremoto di Messina.
Qualcuno di voi mi ha chiesto di ricordarlo, di parlarne insieme.
Credo che questa sia l’occasione giusta.
Massimo Maugeri

————

“Il terremoto è un mito, la vita di prima è preistoria”
di Miriam Ravasio

L’infanzia è un terremoto di Carola Susani è un testo difficile da recensire, perché è un insieme di cose diverse: biografia, ricerca, analisi, storia, politica ed anche un diario di viaggio. I luoghi sono quelli privati della memoria e quelli pubblici del disastroso terremoto della Valle del Belice.
Scritto più per capire che per dire, l’autrice ritorna ai suoi primi anni, quando i genitori, due architetti veneti, si trasferirono nella baraccopoli del Belice, impegnati attivamente nel progetto di Danilo Dolci e Lorenzo Barbera. Lo stile ricorda Savinio, perché è il lettore, che con i suoi strumenti di conoscenza, ricompone l’esperienza, colmando lo spazio temporale che dista dai fatti, 1968 -1972 e dalla loro rivisitazione, oggi. Sta lì, nella nostra memoria il senso del vuoto che muove quel bisogno di verifica che, a molti anni di distanza, spinge l’autrice al “ritorno”; ad intraprendere il viaggio, in compagnia del marito e del figlio. Lei, ora mamma, ricorda i giochi con i bimbi siciliani, i pasti della mensa comune e i discorsi dei grandi, che immaginiamo estenuanti e infiniti. Perché lì, si sperimentava una nuova idea di città, ideale e utopica, che voleva eliminare il centro e la periferia, ricchezza e povertà, azzerando il passato (già azzerato fisicamente dalla natura).
Dalle rovine di Montevago, e poi da Gibellina e dal Cretto di Burri, si avvia il racconto di Carola Susani, con una riflessione sull’arte, sulle idee, sul delirio entusiastico dell’utopia. Le “rovine” schiacciate nella terra dal peso immenso dell’opera di Burri, sono descritte da due diversi punti di vista; quello dell’autrice, che nel Cretto riconosce l’intento poetico e quella degli abitanti che al contrario vivono la grande colata bianca come un inganno al ricordo, alla vita stessa che in quel luogo non sarà più, mai più. “Ho pensato a Gibellina come a un pamphlet dell’antintellettualismo, un Candide, la dimostrazione della pochezza, dell’inanità dell’arte. Che cos’è l’arte? La cacatina di un uccello presuntuoso. Chi presta attenzione all’arte? Nessuno. Perché dovrebbe? Che ragione c’è? Può giusto servire a richiamare turisti e intellettuali, gente che si diletta di cose senza senso, gente senza problemi.”
Gibellina come la coda lunga di Yale? E l’Ises (istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale responsabile della ricostruzione) attrattore dei sogni e delle utopie di un mondo in movimento? Sì, fu così. “ L’infanzia si diletta di trionfi. E’ vero questa non è tutta l’infanzia, l’infanzia non disdegna la commozione, le tenerezze, l’amore. Però nell’infanzia c’è anche questa fascinazione per le rovine”. A quale infanzia si riferisce Carola? A quella dei suoi quattro, cinque, sei anni o a quella delle idee assolute, che lei bimba, ha lucidamente riconosciuto nei “nostri adulti”che sacrificando la creatività dell’arte all’ideologia originarono solo teoria e poi esperienza spericolata: il terremoto è un mito, la vita di prima è preistoria.
Nomi noti, della politica, ma non solo, di ieri e di oggi, si intrecciano in relazioni complesse: un giovane Don Rigodi, il colonnello Dalla Chiesa, Bruno Zevi e Ulriche Meinhoff. Il sessantotto e il suo mito stanno lì, sorprendentemente, nella Valle del Belice, nel racconto e nella ricostruzione di quella esperienza; nei frammenti, diversi, esposti come in una mostra a tema, che potrebbe anche essere itinerante perché il pensiero che animava la Comune fu, appunto, comune a molti e, nella sua versione architettonica lo fu per molto tempo ancora.

————

Un’infanzia nel terremoto
di Francesco Gambaro

Quarant’ anni fa, il 14 e il 15 gennaio, il terremoto. Ore 2,34 minuti e 3 secondi, 8° grado e dopo 12 secondi 9° grado. Ore 17,43: l’ ultima scossa di 9° grado ebbe la durata di 52 secondi. Della valle del Belice rimase poco. Montevago, Gibellina e Salaparuta quasi interamente distrutti. Di Poggioreale rimasero in piedi alcuni muri. Crolli e morti anche a Santa Margherita Belice, Menfi, Partanna, Camporeale, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi.
Carola Susani ne “L’ infanzia è un terremoto” sostiene, correttamente, che dopotutto il numero dei morti fu contenuto rispetto all’enormità del devastamento territoriale e urbanistico. La memoria riporta i feriti, le braccia dei soccorritori che tiravano come corde altre braccia dalle macerie, dal fango, dal freddo ventoso. Quelle ferite hanno tardato a rimarginarsi tra i sopravvissuti della valle del Belice, si sono moltiplicate e sono state trasmesse ai figli. Negli anni successivi quei feriti hanno continuato a vagare come zombie tra le baracche di Salemi, o cani spaventati tra le enormi piazze di Gibellina nuova, che architetti forestieri hanno voluto mutare in un paese di pianura. A pensarci bene il Sessantotto in Sicilia è cominciato in anticipo a causa del terremoto, connotandosi prima come un grande movimento di solidarietà, poi con la rabbia di chi assisteva all’ambiguo e ritardato spargimento di denaro pubblico, a ricostruzioni balzane, ad appropriazioni indebite di materiali di ogni genere, compresi quelli fotografici che, anziché finire nei centri di documentazione, hanno abbellito le università italiane benedicendo carriere. Avvinghiata a queste memorie Carola Susani tenta in questo libro una scommessa difficilissima: quella di coniugare la sua visione di bambina di quattro anni – venuta in Sicilia insieme ai suoi genitori architetti per partecipare, con Lorenzo Barbera e Danilo Dolci, alla ricostruzione del Belice – con quella della scrittrice matura e osservatrice. I puntuali sopralluoghi – «il ramo matriliniare della mia famiglia ha preso l’abitudine d’incontrarsi in agosto, anche per pochi giorni, in Sicilia» – hanno data vita a un’inchiesta nutrita di testimonianze ma, soprattutto, nutrita dei suoi occhi di bambina. Una scommessa difficilissima e atipica, perché testimoni, protagonisti e autrice si conoscono, sono come una grande famiglia allargata e l’inchiesta diventa un romanzo i cui nomi sono quelli veri e i fatti quelli realmente accaduti. Da questo libro lo storico potrà recuperare dati precisi – dalle ragioni fratricide della scissione e della fine del Centro studi Valle del Belice (dalla rottura insomma con Danilo Dolci qui decrittata bipolarmente), alla costruzione della diga dello Jato, per anni considerata dalla popolare ignoranza causa di danni aggiunti a quelli del terremoto, alle contestazioni del diritto all’enfiteusi. È tuttavia nei dettagli percettivi che si coglie una specie di oro documentario: cosa oppone, per esempio, Gibellina a Montevago e, di conseguenza, i rispettivi abitanti? Il Cretto di Burri, poco amato anche dai gibellinesi – che pure resta un esempio inarrivabile di lapide alla memoria di una cosa e non di una persona – opposto alla soglia di un palazzo distrutto di Montevago dove ancora, incartapecoriti, giacciono giornali e scarpe di quarant’anni fa, non usati ma erosi dal tempo. Ma se Montevago è l’anti-Gibellina è anche perché è riuscito a ricrescere su se stesso, a riavere i suoi ricordi, i suoi bar: «Il bar ha un odore di ricotta dolce bruciata che su di me ha l’effetto di una vertigine. Divento euforica, è l’Urbar della mia coscienza. Odore di stanzoni enormi e banconi minuscoli. Odore di lusso e povertà. Odore di: questo è quel che abbiamo, è tutto, altro non c’ è». Il cuore della Susani e il cuore del suo libro sono in questi scarti emotivi: se la documentazione pesa, pesano di più le emozioni. Tutto quello che si scrive sulla Sicilia finisce per impastarsi di retorica. Ci sono i progetti che non sono andati in porto, quasi che fossimo esperti in progetti che non devono andare in porto. Ci sono idee che non vanno in porto, ma che vengono trasformate, nostro malgrado, in altro. Carola Susani, traendo i conti e raccontando «com’è andata a finire», a un certo punto scrive: «Dopo l’ estate del ‘70 c’era stato il lungo presidio davanti a Montecitorio che aveva portato all’approvazione della legge che esonerava dalla leva i residenti in zona terremotata. Questa vittoria, che nella percezione del Centro studi di Partanna era minima, che smorzava il conflitto ed eludeva la questione vera, cioè l’applicazione della legge per la ricostruzione e lo sviluppo, forse è stata vissuta con maggior sconforto, anche se con minor dolore, del tradimento di Tanassi. Come capita quando si dà inizio a qualcosa, quando si agisce, che le cose prendano la loro strada e l’esito sia imprevisto, così il rifiuto della leva per i giovani del Belice era uno strumento di lotta per la ricostruzione e lo sviluppo, fallisce lo scopo e diventa una pietra miliare nel processo che porta all’introduzione in Italia dell’ obiezione di coscienza». Successi trasversali, che pure hanno impedito di continuare la lotta. Anche se le baracche non ci sono più, Gibellina è diventata una città d’arte, Montevago ha una bella biblioteca, Vita non ha più giovani e possibilmente non festeggerà i suoi cinquecento anni, Salemi non saprà approfittare del suo deserto senza cammelli: «Non sarà un caso – conclude la Susani – che nella mia memoria gli eventi terribili si concentrino. Alla fine i miei genitori cedettero, rinunciarono a fare i pendolari, si risolsero a stabilirsi a Palermo, cercarsi un lavoro più sicuro». Parabola del Sessantotto.
(articolo pubblicato su Repubblica del 09 gennaio 2008, pagina 1, sezione: PALERMO)

————

Arte e rovine: il Belice trema ancora. Le illusioni degli intellettuali, la solitudine delle nuove città
di Giovanni Russo

Con Carola Susani, l’autrice di L’infanzia è un terremoto, sono tornato, dopo quarant’ anni, nei paesi e nei luoghi del terremoto del Belice. Ero arrivato il giorno dopo. A Partanna, al centro di uno stanzone affollato di feriti che serviva da ospedale, era distesa su una brandina una donna appena estratta dalle macerie. Accovacciati intorno ai fuochi, sui bordi delle strade, nelle piazze, bivaccavano gli scampati, con negli occhi le immagini della tragedia e il terrore che la terra ricominciasse a tremare. Tra le rovine ancora calde si aggiravano i sopravvissuti ricoverati nelle tendopoli che cercavano di recuperare un po’ dei loro beni davanti alle case spaccate, alle travi contorte. I terremotati a Gibellina, Montevago, Salaparuta, Santa Ninfa tornavano a cercare la «roba». Questa vita che ferveva tra i ruderi, questo affannarsi come formiche che razzolano tra i detriti finì dopo qualche giorno, e calò il silenzio. Quando anni dopo sono andato a Gibellina e a Santa Ninfa dove avevo fatto amicizia con l’allora giovane parroco don Riboldi, ho provato le stesse sensazioni che mi ha dato la rievocazione poetica e l’inchiesta intelligente e appassionata della Susani. Per scrivere un libro sul Belice terremotato, è ritornata con il marito e la figlia a Montevago e a Partanna dove aveva vissuto da bambina in baracca con i genitori architetti, venuti dal Veneto per collaborare alle iniziative per la ricostruzione e lo sviluppo del centro studi di Danilo Dolci e Lorenzo Barbera. L’autrice riferisce i suoi incontri con chi, come sua madre, continua a lavorare nel Belice per attuare i progetti dell’Unione Europea, e descrive le rovine di Montevago che «ci si parano davanti piatte orizzontali tra i lampioni e la chiesa, il grande piazzale di marmo». Viene fuori la solitudine di queste città nuove ma morte quasi come le rovine. Con l’occhio adulto vede anche gli errori e le illusioni che animavano i volontari, rincontra gli amici dell’infanzia, i collaboratori di Lorenzo Barbera, confronta con lui le sue impressioni. A Montevago l’accompagna un amico della madre, Giuseppe Triolo, che è tornato nel paese natale per lavorare ai progetti dell’ Unione Europea. Giuseppe critica l’opera di Burri Il Cretto – una colata bianca di cemento che copre le macerie di Gibellina – che invece piace all’autrice, perché la ritiene una sorta di monumento funebre per ricordare che qui una volta c’era una città. Ma per Giuseppe, per i figli dei terremotati è come se avesse espropriato la loro identità. Gibellina è disseminata d’opere d’arte, da Burri a Consagra, per iniziativa del sindaco Ludovico Corrao. Susani ci dà l’eco delle polemiche da lui suscitate per aver trasformato la città distrutta in un luogo d’incontro d’artisti. Anche a me quelle sculture d’avanguardia sembrarono sovrapposte su una tragedia e ad essa estranee. Barbera e Dolci riaffiorano come certe ombre dei gironi danteschi. Erano loro gli animatori delle lotte per la ricostruzione, ma poi si divisero. Dolci considerava le manifestazioni di protesta come testimonianza dei bisogni dei terremotati e non voleva che le assemblee si trasformassero in un giudizio popolare, in un processo allo Stato. L’infanzia è un terremoto è ricerca, biografia, memoria, vicende personali e pubbliche. È una testimonianza dell’idealismo che muoveva tanti a stare nelle baracche, tra i resti dei paesi distrutti. Emergono i nomi di Bruno Zevi, di Evtuscenko, le illusioni degli intellettuali e fatti inquietanti come l’arrivo nella baraccopoli di due bambine tedesche, le figlie della terrorista Ulriche Meinhoff, la presenza ambigua della mafia. Tutto è raccontato con partecipazione, ma anche con giudizio critico e ironia, come quando rammenta a proposito dei comunisti «uno sformato di riso a forma di falce e martello che era immangiabile». C’è il ricordo dei bambini, che giocano sulle rovine: «Nelle città morte ci sguazziamo, la decomposizione non ci fa paura. A Partanna, a cinque anni, io e Luca disegnavamo scheletri addobbati con crinolina e cappelli a larghe tese», perché «nell’infanzia c’è anche questa fascinazione per le rovine». Intanto gli adulti preparano le pratiche, o progettano le case dei nuovi paesi ispirandosi ad un’idea urbanistica che voleva eliminare la distinzione fra centro e periferia per far cessare le divisioni di classe, «né ricchi né poveri». Il risultato dell’utopia dell’ Ises (l’Istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale responsabile della ricostruzione), sono i palazzi anonimi, tutti uguali, e gli stradoni di marmo. L’ autrice rievoca le battaglie per non pagare le tasse e per non fare il servizio di leva, i colloqui con il colonnello Dalla Chiesa che allora comandava i carabinieri in Sicilia, e le false promesse del ministro della Difesa Tanassi. La trasformazione della società dopo il terremoto ha cancellato quel mondo contadino e ha portato la valle del Belice nell’era postindustriale ma, per merito de L’infanzia è un terremoto, quel mondo scomparso ci resta nel cuore.
(articolo pubblicato su “Il Corriere della Sera” del 16 gennaio 2008, pag. 41)


Tags: , , ,

Scritto venerdì, 31 ottobre 2008 alle 13:51 nella categoria SEGNALAZIONI E RECENSIONI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

153 commenti a “L’INFANZIA È UN TERREMOTO di Carola Susani”

Come ho scritto in premessa, la pubblicazione di questo post coincide con l’avvicinarsi di una ricorrenza importante: il centenario del terribile, devastante terremoto di Messina del 28 dicembre 1908.

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 13:53 da Massimo Maugeri


L’autrice del libro parteciperà al dibattito. Miriam mi darà una mano a coordinarlo.

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 13:53 da Massimo Maugeri


Riporto, di seguito, alcune delle mie solite “domandine”.

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 13:54 da Massimo Maugeri


Quando e perché l’infanzia è un terremoto?
-
Il terribile terremoto del Belice, avvenuto quarant’anni fa, è solo un ricordo?
Che tipo di tracce ha lasciato (se ne ha lasciate)?

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 13:55 da Massimo Maugeri


E ancora…
E possibile immaginare una connessione tra “arte” e “ricostruzione”? Tra “arte” e l’esigenza di “riemergere dalle rovine”?

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 13:55 da Massimo Maugeri


Infine…
Cos’è l’arte? A chi interessa davvero?
(su questa credo che si possa discutere per i prossimi cento anni)

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 13:56 da Massimo Maugeri


@…
Come napoletano e campano anch’io vissuto la terribile esperienza del terremoto(23- nov – 1980, avevo 13 anni). Fortunatamente per me, un’esperienza rimossa, o superata con serenità. Però li ricordo bene quei tremendi secondi : il pavimento che tremolava sotto i piedi, l’ombra del lampadario che oscillava nella parete, il silenzio interrotto dal tremolìo di cose varie, e il presagire di un tonfo e vedersi risucchiati dal vortice e precipitare nel vuoto.
Queste le impressioni.
Il resto, è cosa nota a tutti. Soprattutto la Ricostruzione, che non c’è mai stata.
Per quanto riguarda gli argomenti correlati, commenterò con più calma.
Un saluto a Miriam e tutti.

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 15:49 da Gianni Parlato


Essendo uno di coloro che hanno suggerito il ricordo della tragedia di Messina, non posso che ringraziare subito Maugeri per questa serie di articoli. D’altronde io sono anche uno di quelli che vorrebbero una memoria comune italiana piu’ presente e continuativa – e soprattutto non discriminante fra eventi ”di destra” ed eventi ”di sinistra”.
Gli eventi tragici accumunano i Popoli come nessun altra cosa, purtroppo. Parola di umbro che di terremoti ne ha subiti diversi (1982 e 1997) e di italiano che non puo’ scordare la Prima Guerra Mondiale e la Seconda.
Grazie
Sergio

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 16:00 da Sergio Sozi


Questa rubrica sul terremoto mi pare davvero bella. Gli articolo sono interessanti e di certo acquisterò il libro. Maugeri pone domande stimolanti. Prima di rispondere voglio pensarci un po’. Grazie mille.

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 16:19 da Giorgio


Comunque credo che l’infanzia sia un terremoto a prescindere dall’evento cataclismatico. Ottimo titolo. Bravo l’editore Laterza.

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 16:20 da Giorgio


Inoltre mi piacerebbe poterla fare io, stavolta, una domanda a tutti:
ma vi pare possibile che gli italiani si sentano uniti solo davanti alle sciagure e mai in occasione delle gioie?
(Credo infatti che saper trovare la speranza nella disperazione sia cosa legata al saper trovare la gioia collettiva nella festa collettiva ed anche la gioia collettiva nella gioia individuale. Dunque in questa unidirezionale tendenza italiana a cercare solo le tragedie per amarsi a vicenda trovo un che di lugubre e mortifero, perche’ manca il contraltare dell’apprezzamento della gioia le rare volte che c’e').

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 20:41 da Sergio Sozi


Sull’argomento ”arte e terremoto”: credo che se la ricostruzione fosse stata fatta come si deve per le cose utili – case, fognature, servizi vari – allora anche l’arte sarebbe stata benaccetta. Purtroppo invece per il sisma del Belice non fu cosi’. Anche in Umbria ancora c’e’ molto da rimettere a posto, restaurare o rimettere in piedi – dopo undici anni!
Dunque credo che le installazioni artistiche nei luoghi terremotati – sic rebus stantibus – sia un ”di piu”’ dispendioso e soprattutto sgradevole. Prima le case, poi le tele, prego!

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 20:47 da Sergio Sozi


P.S.
E sottolineo che Alberto Burri e’ un mio corregionale – di Citta’ di Castello (PG).

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 20:49 da Sergio Sozi


Cos’è l’arte?
E’ una vita che me lo chiedo. E non ho ancora capito se è un punto di arrivo o un punto di partenza.

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 20:58 da Gion


@ Giorgio
Un bel titolo che unito ai colori da acquerello della copertina, distoglie, ci depista, dal soggetto: il terremoto nella valle del Belice. Una provocazione buona; perché l’infanzia di cui si narra è quella dell’autrice che condivise la vita con i terremotati nella baraccopoli del Belice. Lei, che terremotata non era. Ma l’infanzia sottintesa è anche quella di una “rivoluzione culturale” che si stava affermando, e lì, proprio lì, come in un laboratorio all’aperto sperimentava le idee.

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 21:13 da miriam ravasio


@ Gion:
vorrei “risponderti” con un ragionamento, argomentando puntigliosa ogni pensiero, ma tu poni la questione fra due sponde: l’arte è un punto d’arrivo o di partenza? Considerando che lo spazio fra gli arrivi e le partenze del pensiero e dello spirito,è infinito; e applicando la formula di Bourbaki, sul punto all’infinito, non possiamo che ritenere l’Arte quel punto, che rende compatto ogni spazio illimitato. Quindi, l’arte, in quanto bisogno, è un punto di partenza; in quanto mancanza di senso è un punto d’arrivo. sempre, però, lo stesso punto.
:-)

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 21:44 da miriam ravasio


Bel post. E probabilmente bel libro. Bravi gli autori degli articoli e bravisssssima la nostra Miriam. Avevo sette anni quando si verificò il terremoto in quella parte della Sicilia per me lontanissima. Il Belice per me era un posto sconosciuto come tanti altri e il terremoto un evento mai vissuto in prima persona. Ricordo che nel mio paese si scatenò una grande gara di solidarietà, si mobilitò l’amministrazione comunale, le associazioni, semplici cittadini. Raccogliemmo i fondi per comprare una roulotte da destinare a quella sfortunata popolazione. Qualche tempo dopo il nostro sindaco andò in delegazione da quelle parti pensando di essere accolto come il Messia e invece, con suo sommo stupore, vide la roulotte abbandonata in un cantuccio, mai usata. Noi siciliani siamo maestri a sperperare denaro pubblico e “sperperare” è un eufemismo. I grandi finanziamenti scatenano avvoltoi di tutte le specie: imprese in odor di mafia, politici corrotti, burocrati abituati a sistemi clientelari ecc. ecc. Non so cosa sia successo poi. Io vado spesso a Castelvetrano, a Partanna, a Mazara del Vallo e mi pare di vedere città fiorenti, più o meno come le altre della Sicilia; fiorenti per come possono essere le città siciliane, con le loro cattive amministrazioni, la disoccupazione, l’inquinamento mafioso.

Postato venerdì, 31 ottobre 2008 alle 22:03 da Salvo zappulla


Grazie cara Miriam per la tua recensione molto interessante. Tuttavia non ho letto il libro in questione, dunque non ne posso parlare.
***
In questi giorni avevo approfondito i fatti relativi al terremoto e maremoto di Reggio Calabria e Messina del 1908. E poi, sono nato e vissuto in Calabria, terra “ballerina” per eccellenza – conosco il tremore degli uomini e una certa speciale eccitazione di ritrovarsi “umanità”, percepire cioè di essere indistintamente figli della stessa Madre Terra. Comprendo tuttavia quel che dice Sergio, e con lui sono d’accordo: troviamo unità solo nella sofferenza, non nella gioia. Il discorso si farebbe qui lungo, ma in ciò le istituzioni cosiddette religiose, le quali hanno distrutto la religione, hanno molte responsabilità, nel disprezzare incessantemente “il corpo che esulta”. Nel novembre 1980 ero tra i volontari soccorritori (inizialmente, così disorganizzati, abbiamo rischiato noi d’essere soccorsi…) durante i giorni del terremoto dell’Irpinia. Già si percepiva quel che sarebbe avvenuto: i contributi a sostegno delle vittime di quel terremoto che avrebbero nutrito in abbondanza la camorra.
Per andare più sull’umoristico, ricordo un brano autobiografico di Luciano De Crescenzo in cui narrava uno dei ricordi più belli della sua infanzia a Napoli: nella notte c’era stata una forte scossa di terremeto, e tutti scapparono per strada. In pochi minuti l’angoscia si trasformò in festa: vennero i piccoli commerciati ad allestire bancarelle improvvisate, venditori di dolciumi e venditori di qualsiasi cosa, e tutti si incontravano, i bambini potevano giocare per strada in un orario inconsueto, e ognuno dimostrava amicizia, anche agli sconosciuti…
E per concludere con un altro sorriso, una “perla” di Troisi, della durata di pochi minuti, un suo noto sketch; ne consiglio la visione. E’ bellissimo. Si intitola, in tema, “Il terremoto del Belice”:
http://it.youtube.com/watch?v=SbquOj7evrE

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 09:13 da Subhaga Gaetano Failla


Io credo che chiunque viva su una terra che trema, si abitui alla precarietà. All’imminenza di un evento. A fare i conti con la propria fragilità.
Noi siciliani lo sappiamo.
Non è una condizione diversa dall’infanzia: quando ci si concepisce piccoli, ed è la consapevolezza incisa in se stessi della propria minorità a spingerci a cercare un approdo. Un punto di riferimento.
E non è neanche una condizione diversa da molti momenti in cui riviviamo l’infanzia da adulti, e pur avendo esperienza (occhi abituati a nuove luci – e a nuovi inganni – pur avendo smarrito quel passaggio nel mondo che ci faceva sentire incontaminati e bisognosi di protezione) ….cerchiamo. Un modo per non far tremare la terra. Per sentirci stabili a dispetto dei sensi tesi. Del fiuto ormai abituato a percepirci in movimento.
Ecco…credo che l’arte nasca anche dalla necessità di non avvertire l’instabilità della condizione umana. Di incidere un segno, di carta, di gesso, di colore, di pietra, che dica – che continui a dire – ci sono stato….Sì, ci sono stato e con questo segno mi salvo comunque, sia che il terremoto mi travolga, sia che mi risparmi, perché supero la paura di esserci a dispetto di una terra che trema, di un amore che mi lascia, di un genitore che mi rifiuta.
Arte e fragilità umana credo nascano insieme.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 09:34 da Simona Lo Iacono


Buon sabato a tutti e grazie per questi vostri primi commenti.
Un ringraziamento particolare a Miriam per la recensione e per l’aiuto a portare avanti questo post.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 10:56 da Massimo Maugeri


Prima di interagire con voi desidero spendere due parole su Carola Susani, la quale interverrà appena possibile. A proposito… se avete domande da porle, fatevi avanti.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 10:58 da Massimo Maugeri


Carola Susani è nata a Marostica (Vicenza) nel 1965.
Nel 1995 è uscito il suo primo romanzo, “Il libro di Teresa” (Giunti), nel 1998 “La terra dei dinosauri” (Feltrinelli). Con Feltrinelli ha inoltre pubblicato i romanzi per ragazzi “Il licantropo” (2002) e “Cola Pesce” (2004). Nel 2005 per Gaffi è uscito “Rospo”, raccolta di due radiodrammi. Ha collaborato alla rivista di Palermo Perap e a Linea d’ombra, e fa parte della redazione di Nuovi Argomenti.
Nel 2006 minimum fax ha pubblicato la sua raccolta di racconti “Pecore vive”, finalista al Premio Strega 2007.
Un suo racconto è incluso nell’antologia al femminile di minimum fax “Tu sei lei”.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 11:00 da Massimo Maugeri


@ Gianni
Quello del 1980 è stato un terribile evento che è davvero impossibile dimenticare. Anche se ebbi modo di vivere quell’esperienza solo indirettamente, attraverso la Tv (ero un bambino), ne rimasi molto scosso e traumatizzato.
Vi confesso che il terremoto è, probabilmente, la cosa che temo di più in assoluto.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 11:03 da Massimo Maugeri


@ Sergio
Sei vuoi spendere qualche parola in più sul terremoto del 1908, fallo pure. Magari, se ti va, potresti fare una piccola ricerca (o qualcosa del genere).

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 11:05 da Massimo Maugeri


@ Sergio (di nuovo)
Domandi: ma vi pare possibile che gli italiani si sentano uniti solo davanti alle sciagure e mai in occasione delle gioie?

Non è sempre così, Sergio. Basti pensare a quello che è successo in tutta Italia a seguito della vittoria del più recente campionato mondiale di calcio.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 11:08 da Massimo Maugeri


Unsaluto e un ringraziamento a Giorgio e Gion.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 11:16 da Massimo Maugeri


Ringrazio Salvo e Gaetano per gli approfondimenti.
E Simona per il bel commento, con un finale che si presterebbe a un ulteriore sottodibattito: “Arte e fragilità umana credo nascano insieme”.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 11:20 da Massimo Maugeri


Alcune domande per Carola:
- Raccontaci un po’ la genesi di questo libro. Come nasce? Da quali tue esigenze e/o pulsioni?
- Sei stata tu a proporlo a Laterza o è accaduto il contrario?

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 11:23 da Massimo Maugeri


purtroppo invece Massimo, è vero ( grazie dell’opportunità che offri a tutti sempre di un bel confronto su temi importanti ), ci si unisce spesso e solo nel dolore , nella disgrazia e nella morte.
Credo, e non lo penso da ora, dipenda dal fatto che le calamità annullano le differenze, la competizione, confondano la propria dolorosa vita con quella di tutti.
Condividere la felicità ( saggio di Jung) è quasi impossibile.” tutto l’uomo può sostenere meno che la felicità altrui” Si mettono in moto i meccanismi relazionali peggiori e la condivisione e l’arricchiamento spariscono. Quanto al terremoto, ricordo quello del Belice ma ancor di più quello di Ancona e lo sciame sismico che durò per più di un mese e quello del 97 tra Marche e Umbria.A Colfiorito ancora vivono nei containers ma l’istabilità del “tutto può succedere” ancora dura.
Ricordo le notti passate per la strada e difficili rientri nelle nostre case, niente sonno, niente quiete, tutti pronti a balzare di nuovo fuori………..
l’abbandono in cui è stata lasciata tanta gente oggi non fa cronaca, tace in un silenzio impietoso e nella rassegnazione di chi ormai ha inventato per sopravvivere una vita di cartone. L’arte ?la ricostruzione? Tardive quando verranno, e ,spesso senza “pietas”
grazie
patrizia garofalo

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 11:34 da patrizia garofalo


@ a tutti i Letteratitudiniani

Un terremoto è, a mio parere un avvenimento paragonabile all’abbandono dell’infanzia, per diventare adulti e scoprire così il proprio destino. Successi, insuccessi, abbandono, ritrovamento, felicità per un qualcosa che si è sperato tanto e finalmente avverato e dramma per la perdita improvvisa di persone ed oggetti cari prendono il loro corso e si succedono lasciandoci intontiti sul loro senso. Nel momento del loro apparire, non riusciamo o vogliamo capire, perché siamo troppo presi dalle cose piccole, invece di lasciarci condurre da quelle grandi che ci collegano con il creatore e ci fanno comprendere e sopportare questa vita, dandole il senso di una prova per il dopo.
Il terremoto di Messina mi ha impedito di fare la conoscenza dei miei parenti paterni e di curarne il rapporto. Loro erano rimasti lì come per subire il loro destino, che agisce tuttora in me e mi costringe a riempire il vuoto lasciato nel rifugio dell’immaginazione, nella quale sento operare la speranza di ritrovarli ed unirmi un giorno con loro.
Allego un mio scritto sull’infanzia e mi scuso per la sua lunghezza.
Saluti cari.
Lorenzo

I ricordi dell’infanzia.

Gli anni passano, ma non i ricordi dell’infanzia.
Anzi, col loro passare si rafforzano e pretendono di essere riesaminati e rivalutati maggiormente.
Con l’accorciarsi del tempo a mia disposizione, tendo a rifugiarmi nei periodi delle prime impressioni, dei primi incontri piacevoli, degli scontri sostenuti perché inevitabili.
Improvvisamente, mi do da fare a rivedere i luoghi di un tempo lontano, a cercare le persone dei primi contatti, la scuola dove ho vissuto le mie prime esperienze d’alunno.
Smarrimento e dolore m’invadono quando riscontro che alcuni non sono più, come sentendo più vicino il momento del mio congedo da questa vita.
Cerco la maestra dal volto dolce e premuroso, il bidello non sempre gentile e spesso brontolone, ma in fondo buono e divertente.
Rifaccio nei pensieri il percorso tra la casa di dimora e la scuola e mi vengono in mente le fatiche fatte e sopportate, le speranze poste e le delusioni incontrate e non sempre superate.
Rivivo gli scontri con i compagni litigiosi, i sorrisi degli altri, che, come me, cercavano la compagnia e forse anche l’amicizia.
Penso alle promesse fatte di curare il contatto, non immaginando le vicende della vita, che spesso separa senza concedere un ritorno.
Sono i momenti della malinconia, dei propri rimproveri di aver trascurato l’uno o l’altro, di non aver ubbidito come dovevo alla maestra, ai genitori e agli adulti che si curavano con pazienza di me.
Come mantenere le promesse e i propositi buoni quando la vita è un eterno andare e venire per motivi che improvvisamente appaiono indispensabili e solo dopo, molto dopo, si comprende, che si poteva decidere anche diversamente.
Ad una certa età, fui invaso da uno stimolo forte che mi spinse di tentare la mia vita, come per trovare il mio spirito e volto scolpito nelle opere compiute.
Un bisogno improvviso del nuovo, del differente e sconosciuto mi prese, come se il noto e l’abituale fossero diventati piccoli e limitati.
Infanzia, periodo d’innocenza, libera d’ogni responsabilità e conclusione prima del periodo delle conseguenze da sostenere e giustificare davanti a sé e alla società in cui si vive, tempo dei sogni più vari e irreali, senza doverne tener conto a nessuno?
Visto così, è il periodo più sensibile e fertile della vita, nel quale poter volare come una foglia spinta dal vento e a volte sostare brevemente per gustare i profumi di un prato fiorito, il sapore dell’erba verde e soffice, l’acqua di un ruscello, buona e rinfrescante.
Purtroppo non dura in eterno, la realtà ci fa crescere e dobbiamo rimandare tutti i ricordi più belli a dopo, a quando il futuro non ci occupa più tanto e riusciamo a ridiventare i bambini dalla fantasia fertile, a volte folle e ingenua, ma proprio per questa piena di gioia, leggera e invitante a superare i confini della realtà a volte triste e pesante degli adulti.
Ritrovandomi nel passato, mi accorgo che esso è solo un ricordo rimasto nella mia mente e nel mio cuore.
Nulla è rimasto come allora, il paese, la gente, la natura del posto, tutto è cambiato troppo da farmi sentire un estraneo.
Invano cerco il cortile, dove trascorrevo le ore di svago e giocavo con i compagni fino a tarda sera, l’albero che mi proteggeva dal sole quando scottava forte sulla mia testa, la via polverosa e stretta frequentata dalla gente del posto, a piedi o in bicicletta, e della quale conoscevo il nome e la fisionomia, percorsa dalle poche carrozze ancora trainate dai cavalli che lasciavano le loro impronte naturali da darmi il senso di vivere con la natura.
Mi sento straniero nei luoghi dei ricordi più belli e forti e mi chiudo più fortemente in me, provando malinconia e tristezza per un tempo che fu e non ritornerà mai più.
Un senso d’invidia mi prende verso quelli che sono rimasti fedeli al posto d’origine. Crescendo a pari passo con esso, si sono adattati ai suoi cambiamenti, che hanno in parte anche sostenuto ed hanno potuto aggiornare i loro ricordi fino ad oggi.
Poi, penso che ogni sosta della vita è una pagina di ricordi e che la vita è fatta di fasi nelle quali è necessario agire per compiere il proprio destino, quel destino che è il riassunto delle decisioni prese e realizzate, ma anche dei propositi avuti e rimasti incompiuti.
Penso anche, che tutti i posti di questo mondo sono simili e che cambiano il volto solo attraverso il modo di viverli e assumerli.
I sentimenti e le emozioni posti in loro li fanno rimanere vivi e desiderati anche quando non sono più e sono riattivati solo nei momenti di nostalgia e desiderio.
Il rimpiangere i tempi passati è un segno forte d’identificazione con la propria origine, è uno stimolo che c’induce a congiungere la fine, non più lontana, con l’inizio.
La ricerca d’equilibrio e armonia che si manifesta durante la nostra vita, in forma di desiderio forte e irrinunciabile di agire e portare ad un suo fine ciò che spesso finisce nell’illusione, ci spinge a compiere imprese audaci e pericolose e a sostenere sacrifici senza fine.
Solo alla fine, e solo chiudendosi il cerchio, troveremo finalmente il frutto dei nostri propositi avuti e della nostra volontà impiegata.
Saluti,
Russo Lorenzo Gänserndorf, 17.10.07

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 12:14 da lorenzerrimo


Posso solo basarmi sulle recensioni e gli approfondimenti pubblicati qui da Miriam, Francesco e Giovanni. Mi sembra di capire che il libro sia qualcosa in più che la cronaca di un disastro e delle sue irreversibili conseguenze. Sembra che tra le pagine emerga l’orgoglio di una terra e la volontà di ricostruire e/o salvare ciò che nessun terremoto può distruggere, ossia la speranza. Che siano gli adulti o i bambini, insomma, l’importante è che sotto le macerie non sia rimasta anche la fiducia nel futuro e nelle prospettive.
Quanto all’accenno di Massimo sulla condivisione delle gioie, pur premettendo che sono un grande appassionato di calcio, non nego che sia apprezzabile che tutti gli italiani si ritrovino allegri sotto il tricolore nel caso di vittoria a un Mondiale. Vero è, però, che la comunanza gioiosa risulta abbastanza latitante se, per esempio, “cervelli” italiani ottengono riconoscimenti mondiali nei settori scientifici. Ci viene meglio, chissà perché, rimanere entusiasti se il “genio” brilla da un altro Paese.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 12:46 da enrico gregori


“Che cos’è l’arte? La cacatina di un uccello presuntuoso. Chi presta attenzione all’arte? Nessuno. Perché dovrebbe? Che ragione c’è? Può giusto servire a richiamare turisti e intellettuali, gente che si diletta di cose senza senso, gente senza problemi”.
L’arte nasce con la civiltà. La civiltà nasce nel momento in cui il pensiero di sopravvivere e/o quello di riprodursi non rappresenta più l’unica occupazione del cervello. Per sopravvivere qualche bestia (l’uomo) ha sviluppato l’ingegno. C’è un surplus di ingegno che può essere impiegato in qualcos’altro che il semplice campare. E c’è il tempo per farlo, osservando ciò che ci circonda e ciò che accade in noi.
E’ vero quindi. Dall’alto di una malcelata presunzione si può cominciare ad osservare anche le nostre cacatine. La bestia uomo si distingue dalle bestie non uomo perchè qualcuno dei suoi esemplari ha la possibilità di dilettarsi in queste cose senza senso, perchè è senza problemi (o almeno li ha ridotti, e notevolmente). Si è trovato in grado anche di descrivere ora anche i suoi problemi, e/o di riconoscersi nei problemi degli altri. C’è una coscienza che va al di là del singolo individuo. C’è una coscienza di appartenenza ad una comunità, ad un popolo, ad un’epoca, ad una cultura. C’è la capacità di descriverla attraverso un cretto (Burri) e quella di leggerla, decifrandolo, riconoscendovisi. La cacatina dell’uccello presuntuoso (è una bellissima definizione. di chi è?) diventa interessante perchè è la cacatina di noi tutti. Tutti noi presuntuosi (senza presunzione non può nascere nè svilupparsi una civiltà).
Credo che in estrema (e poverissima) sintesi (e mi si perdoni per un tentativo così maldestro) l’arte sia in fondo semplicemente questo.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 13:07 da Carlo S.


@ Salvo
Ieri sera dopo aver letto il tuo intervento, meditavo su come risponderti; avrei detto che non sono spreconi solo i siciliani, anche da noi si buttano soldi in modo stupido e riprovevole. E pensavo alla pubblicazione incessante di cartine tematiche (vedi legge sul Patrimonio immateriale della Regione Lombardia). Poi questa mattina ho ascolato, come sempre, la rassegna stampa , per scoprire che l’Università di Messina offre 80.000 (ottantamila) euro per la realizzazione di un quadro, da appendere nell’aula magna di ingegneria, dedicato al terremoto. L’articolo è di Gian Antonio Stella e consigliandovi la lettura lascio a voi ogni commento.
mettiamoci una faccina :-)

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 14:28 da miriam ravasio


@ Carlo,
discutere sull’arte è sempre, per me, imbarazzante. Per un conforto ricorro alla mia raccolta di definizioni “celebri” e per l’occasione ripropongo una riflessione di Savinio di novanta anni fa:
“L’uomo mentale non deve mai perdere di vista la ricostruzione del paradiso sulla terra né mai cessare di pensare a questa ricostruzione come il solo vero destino dell’umanità. L’arte è immagine, è la voce, è il pensiero di questo pensiero…”
——————————————————————————————–
Sul Cretto di Burri . Carola Susani, nel suo libro, mette a “confronto” le sue percezioni e simpatie con l’antipatia, ma forse sarebbe più corretto, l’insofferenza che gente del luogo, gli abitanti, nutrono ancora oggi per l’opera; una colata di cemento che cristallizza nel tempo un intervento della natura. Ho cercato, e visto, su Youtube, alcuni video che mi hanno confuso le idee ancora di più. Da un lato “godo” le suggestioni per un’azione d’arte ambientale e monumentale, dall’altra il pensiero mi corre alla memoria, ancora viva e pulsante, degli abitanti. Allora, ma questa è una domanda da concorsone, perché l’arte contemporanea è così fertile nella promozione del male (ciò che fa soffrire gli uomini) e così sterile nell’offrire una possibilità di speranza? Siamo proprio messi così (male )o l’Arte, e quello che da lei ci si aspetta, si è irrimediabilmente ingessata sull’Effetto?

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 14:47 da miriam ravasio


Non ho letto il libro, ma subisco il fascino inquietante dei terremoti, quelli veri e quelli metaforici. Il primo terremoto vero che ricordo fu quello del 1976 (se non erro) in Friuli, quello che rese tristemente famoso il nome di un paesino sconosciuto come Gemona. Poi venne quello dell’80 in Campania e ne seguirono altri, disastrosi o meno. Ma il raffronto terremoto/infanzia mi riporta per forza di cose ad un’esperienza fatta per lavoro: era il 1 novembre, proprio come oggi. A San Giuliano il giorno prima era crollata una scuola a causa del terremoto, e aveva semplicemente falciato un’intera generazione. Partii la mattina di quel giorno festivo e piovoso. Giunsi sul posto, una dei tanti giornalisti e inviati di giornali e tv. Un circo mediatico, come usa dire in questi casi, intorno a una tragedia. Cercai, come è mio innegabile difetto, di muovermi con discrezione, attenta a non ferire la sensibilità già messa a dura prova dei cittadini, dei genitori, dei soccorritori. Le piccole salme erano state esposte nella palestra comunale. Ai giornalisti, purché primi di fotocamere e telecamere, era consentito entrare. Entrai. Non so bene il perché. L’articolo avrei potuto scriverlo comunque, risparmiandomi di toccare con mano lo strazio delle madri riverse sulle bare aperte come lettini per quei piccoli corpi resi bruni dalla morte e dalla terra che li aveva travolti e uccisi. Ascoltai ululati di dolore, bestemmie contro il cielo, ascoltai anche il silenzio di chi non aveva più lacrime. Poi avvenne. Un muggito dalla terra e tutto cominciò a tremare. Un vigile del fuoco mi spinse fuori di forza urlando: via via via! Vidi le pareti oscillare, poi all’esterno i crolli di quanto era stato già danneggiato dalle scosse precedenti. Ma soprattutto vidi una donna anziana, seduta in macchina, proprio davanti alla palestra-camera ardente. Non sentì le urla, il boato del terremoto, il fuggi fuggi. Stringeva al cuore un giocattolo, si dondolava su se stessa e continuava a ripetere come un mantra: core de nonna, core de nonna, core de nonna. Il terremoto le aveva ucciso l’anima, oltre che il nipotino.
Laura

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 14:51 da Laura Costantini


@ Laura:
c’è una foto, famosissima, pubblicata un po’ ovunque, che ritrae una donna anziana, gonna nera lunga e grembiule bianco, mentre varca una soglia. La casa, però non c’è più, solo macerie; non c’è nemmeno la porta, ma solo la cornice dello stipite che lei attraversa quasi simbolicamente: cosa sarà di noi, adesso?

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 15:05 da miriam ravasio


piccolo inciso:
la mia prima auto si chiamava Gemona. L’avevano soprannominata così i miei amici: una seicento grigio topo, con portiere antivento e che si avviava solo dopo una girata con il cacciavite al motorino d’avviamento (o al carburatore?)…era il 1976, un’ auto da terremoto

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 15:10 da miriam ravasio


Certo, Enrico, anche per me e’ bellissimo sentire il nostro popolo unito sotto al Tricolore quando si vince ai Mondiali. Ma sarebbe meglio ricordarsi della Bandiera e della Costituzione tutti i giorni, con gioia e voglia di migliorare. Questo per me e’ il patriottismo: volersi bene quotidianamente, non litigare tutto l’anno e gioire ogni quattro solo per via del calcio. Troppo poco – anche se meglio di niente.
Ciao
Sergio

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 15:13 da Sergio Sozi


Ringrazio Laura Costantini per la testimonianza agghiacciante. Io non potrei fare il tuo lavoro, Laura: ho il cuore troppo debole.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 15:15 da Sergio Sozi


…e provato da ben due terremoti umbri – quelli gia’ citati dell’82 e del ‘97.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 15:16 da Sergio Sozi


@Miriam. Paradossalmente l’unico terremoto che ho potuto toccare con mano è stato quello del Friuli. Avevo vent’anni, tanta voglia di “andarmene” e mi aggregai per fare il muratore con una ditta siciliana che aveva vinto l’appalto per la ricostruzione di alcuni edifici (vedi Sozi? anch’io ho fatto lavori umili). In verità questa ditta lavorava in subappalto, a nome di un’altra ditta, la quale a sua volta avevo preso il lavoro in subsubappalto per conto di un’altra. Quanti miliardi si disperdono nel microcosmo dei sub. Tutti devono guadagnarci qualcosa e alla fine il lavoro costa il triplo. I racconti dei sopravvissuti erano strazianti. Ma quanta dignità! Quanta fierezza! Ci guardavano, noi siciliani, come fossimo uomini delle caverne ma non per colpa loro, piuttosto per il nostro modo di fare, ben lontano dalle loro tradizioni. Raccoglievamo le lumache per la pentola, grosse e succulente. I friulani li considerano vermi e si schifano alla sola idea di toccarle. Ci chiamavano affettuosamente colera: “Ehi colera, vuoi venire stasera a cena da noi?”. Alla fine avevamo simpatizzato.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 17:40 da Salvo zappulla


@ Salvo:
che vivo e tenero questo tuo racconto. Ma davvero i friulani non mangiano le lumache? Qui, le mangiano in molti. Si saranno schifati perché prima di cucinarle, occorre pulirle per bene lasciandole per un intero giorno nella farina…a me comunque, fanno un po’ schifo.
PS. ma poi, sei riuscito a “costruire” qualcosa?
Ciao

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 19:14 da miriam ravasio


@Miriam. Le mangiano, ma non con la “buccia” come facevamo noi.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 19:38 da Salvo zappulla


@sempre Miriam. A parte gli scherzi, li considerano un po’ come i millepiedi. Se c’è qualche friulano in zona chiedo conferma. In quanto a costruire qualcosa: non mi ci fare pensare. Credo si lavorasse con i finanziamenti dello Stato e quelle ditte erano improvvisate, spuntate come funghi non si sa bene da dove. Il direttore dei lavori si ripassava il manuale man mano che si andava avanti, gli attrezzi del mestiere erano stati comprati all’ultimo minuto; al posto della betoniera avevano portato un motozappa. Io con una mano passavo i mattoni e con l’altra leggevo Dante. Fortuna che dopo due mesi mi arrivò la chiamata per il servizio militare e andai via. Gli altri, per quanto ne so, sono ancora agli arresti per gli ulteriori danni causati.

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 19:50 da Salvo zappulla


Sono molto contenta di risentire Miriam con questo post.
Dunque il collegamento fra i terremoti , le ricostruzioni, l’albero dell’arte innalzatosi nel 900 con le sue mille ramificazioni, fino ad arrivare ai nostri giorni è argomento che segna la nascita di un secolo, la sua crescita e talvolta il suo arresto.
Nasce bene l’albero all’inizio del xx secolo, ha radici toste e si sviluppa con movimenti che innalzano il suo arbusto rendendolo imponente con gemme meravigliose quali l’astrattismo, il fauvismo, il cubismo, il surrealimo, eccezionali indipendenti ospitati dalla magnifica Parigi, pulsavano le capitali europee con i dada, i futuristi, gli espressionisti, i colori e le immagini erano ricerca di spiritualità, oppure dissacrante e rivoltosa, oppure interiorità, chi seguiva l’arte attraversava i cambiamenti molto rapidi ed anche molto fecondi, precursori del dopo guerra e dell’arte informale che fino al 1960 estese le sue braccia al pianeta dalla Francia a New York. Terremoto industriale, l’immagine e la cultura si moltiplca, perde la sua unicità, veri e propri terremoti dell’anima collettiva, l’orecchio pretecnologico gareggia con i rumori dei boeig 747 e il martellamento dei suoni, così come l’occhio pretecnologico ricorda l’unicità dell’immagine irriproducibile con l’immagine riprodotta infinite volte ed incentrata sul narcisismo dell’oggetto. L’albero è sovraccarico, la materia è sempre più massa e sempre meno s’innalza verso l’alto, l’albero piega i suoi rami verso il basso, arte cinetica, minimalismo, body art, concettuale, op art, installazioni, video tape, a me sta bene quando comunica qualcosa

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 21:40 da Rossella


Ma something è solo “qualche cosa”.
Ciao
Rosella

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 21:53 da Rossella


Cara Miriam,
scusa se mi sono permessa di tracciare un abbozzo di storia dell’arte, ma la sottoscritta soffre molto dell’aridità di questo fine albero, delle scelte sostenute in favore della vacuità delle merci, e mi auguro davvero che si realizzi una bella potatura di tutto ciò che è inutile, di tutto quel sovraccarico che ha soffocato la creatività autentica.
A presto Miriam

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 22:12 da Rossella


@ Arte-Infanzia-Tragedia-Fine
Leggendo i vostri notevoli e impressionanti commenti, mi viene in mente una breve riflessione su come io considero l’arte, l’infanzia, la tragedia e la fine.

Io vedo una correlazione tra di loro. Arte concerna la propulsione dell’uomo a superare, anche se per un solo momento, la relatività della sua esistenza.
In essa ritrova il percorso della sua vita, incominciata tanto tempo fa e nell’intesa di volerla garantire nel futuro: raggiungere in essa uno stato di immortalità al confronto con la limitatezza terrena e ritrovare la sua origine che s’immagina elevata e divina.
Creare arte è come ricercare il proprio intimo, più profondo ed elevato del fabbisogno di ogni giorno.
Infanzia è un tastare liberamente ogni pensiero, decisione, passo in uno stato d’incoscienza perché non ancora soggiogato dalle costrizioni sotto le quali devono agire gli adulti: simile quindi alla ricerca libera dell’artista, sebbene non ugualmente impegnativa. Con le tragedie intendo il confronto con la realtà esterna, verso la quale, pur avendone cognizione, siamo sempre impreparati e deboli. La fine è sollievo e riconoscenza per gli sforzi impiegati, qualora ci fossimo impegnati veramente e seriamente.
Tre aspetti che determinano e qualificano il nostro procedere e che quindi sono da considerare nel loro insieme.
Cari saluti.
Lorenzo

Postato sabato, 1 novembre 2008 alle 23:20 da lorenzerrimo


Caro Salvuzzo,
non ho detto di quando (da studente) feci il cameriere (a Foligno), il lavapiatti (a Londra), l’imbianchino, il raccoglitore di pomodori in serra, il vendemmiatore (Spello e Perugia). Poi fondai il trimestrale ”I Polissenidi” e addio soldi – di’ ai tuoi figli che la poesia danneggia il portafogli!
Sergio
P.S.
Le lumache al sugo rosso sono una specialita’ umbra e mi piacciono alquanto. Le storie di microminisubappalti mi piacciono un po’ meno perche’ mi vergogno di esser italiano quando ci penso: per questo vanno dette ad alta voce, come hai fatto tu ora. Bravo!

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 01:45 da Sergio Sozi


Rossella,
la tua ricostruzione dell’ ”albero genealogico dell’arte moderna” e’ magnifica: ne condivido soprattutto le ultime affermazioni di principio. Siamo alla frutta, insomma, ma cio’ non ci deve far accettare qualsiasi… mela marcia!
Ciao bella
Sergio

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 01:47 da Sergio Sozi


Salvo… e per tre mesi consegnai anche i giornali a domicilio in Germania, alle tre e mezza del mattino… mi sembra di aver detto tutto.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 01:49 da Sergio Sozi


Caro Lorenzerrimo (ex Lorenzo Russo),
sei un uomo che tende al sublime – l’ho visto sin dai tuoi primi interventi. Dunque ti chiedo, pur andando fuori argomento (scusatemi): cosa ne pensi del D’Annunzio poeta?
Ciao, caro
Sergio

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 01:53 da Sergio Sozi


Miriam,
scusami se ho dimenticato di farti i complimenti per la recensione. Li consideravo ovvi – anche visto che ”lavoriamo” nella stessa piazza ed io personalmente stimo tutti i letteratitudiniani.
Ciao, cara
Sergio

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 01:58 da Sergio Sozi


P.S. per Salvuzzo:
i lavori sono tutti ugualmente dignitosi; tra essi, pero’, il migliore e’ quello di vivere come i gigli di campo, come disse Gesu’.
‘Notte a tutti voi

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 02:05 da Sergio Sozi


“L’infanzia è un terremoto” . Già questo titolo mi induce e pensare che spesso i momenti piu drammatici nascondono la chiave per incontrare interamente la nostra umanita e quella degli altri. Una umanità che, nella frenetica vita adulta, colma di mille responsabilità e di altrettanti impegni, di solito ci passa accanto come un bolide che, ahime, a volte si disperde.
Esso è, a mio parere, nell’intenzione dell’autrice quel viaggio a ritroso che molti facciamo per tentere di riappropiarci del contorno più nostro, più spontaneo e più vero, quello che non scaturisce da pretesa alcuna e s’attende in cambio solo un sorriso un’occhiata d’intesa, una parola buona.
Personalmente il terremoto che provocò un immane disastro nella Valle del Belice, io l’ho vissuto in maniera più blanda, ma ugualmente intensa
in quanto le scosse si fecero notare persino da noi (vivo in un centro molto vicino a Palermo) e getterono panico tra la gente (ricordo notti e notti a raccogliere gli indumenti indispensabili e a fuggire verso la campagna o verso il mare per paura di una scossa che ci imprigionasse tra le mure crollate delle nostre case, e ricordo, come fosse adesso, la grande paura che provai quando vidi i lamparari, i bicchieri, i vasi , ed ogni piu piccolo oggetto del negozio di articoli da regalo di mamma mettersi a ballare la loro danza della morte. Distinto salii le scale e imbacuccai per bene il più piccolo dei miei fratelli per fuggire alla svelta verso una zona di campagna in cui mio padre possedeva un un’enorme magazzino e una casa limitrofa. In realtà, noi rimanemmo là solo un giorno o due , ma parecchia gente proveniente dalla città vi si installò per un lungo periodo. Credo proprio che in quella sorta di comune che si venne a costituire, e in cui mio padre tornava per vedere se i suoi ospiti avessero bisigno di qualcosa, nacquero un’intesa e una solidarietà non comuni.
Infatti, quando in seguito il mio rigido ma onesto e generoso genitore organizzò una spedizione per portare indimenti e cibo alle popolazioni disastrete, parecchi di quegli ospiti aderirono.
Tuttavia, anche se allora era appena una ragazzina, la cosa veramente lacerante di tutta la vicenda non furono solo tutti quelle voci che invocavano aiuto da sotto le macerie, ma gli sciacalli in malarnese che depredavano i paesi, e quelli, magari in doppiopetto, che hanno privato i miei conterranei di quanto sarebbe spettato loro nel tempo.
Per questo l’arte serve. Serve alla Sicilia ( e cito dei versi di una mia poesia che si intitola appurto “Sicilia Vestale”) per crescere, zotte di conginuto calore per alzare i cori. Serve perchè l’arte è stimolo sia quando ci eleva, che quando ci induce a soffermarci al quotidiano della nostra Italia in cui , grazie a parecchie trasmissioni televisive, che definisco dememenziali, può solo trarre beneficio dal dare spazio al pensiero e alla cretivà delle molte fiammelle che auspicano un mondo piu giusto e meno contorto di quello che viviamo. Ii vero problema è se si vuole, se si ritiene giusto aiutare la gente a crescere culturalmente e concettualmente, oppure si preferisce indorare la pillola con le vacuità proposte.
E per restare in tema di terremoti in questo caso interiori, ditemi cosa saremmo noi uomini se almeno uno non avesse scosso le nostra fondamenta e rivoltato spesso l’andamento consueto della nostra esistenza, magari indirizzandoci verso mete solo ventilate, ma rimandate di momento in momento, di anno in anno? Forse saremmo dei cadaveri, o tutti siamo dei cadaveri che per non sentirsi tali ci aggrappiamo ai ricordi ora lievi e ora agro-dolci della vita e andiamo col vento negli occhi?

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 02:59 da Mariolina La Monica


@ Mariolina (ma che bel nome!), Rossella, Sergio e Lorenzo:
ho letto i vostri interventi, ora cerco di svegliarmi bene e poi ritorno cercando di interagire con le vostre osservazioni, o meglio con la vostra sensibilità. Bevo il caffè, a dopo.
Buonagiornata: anche da noi c’è il sole!
:-)

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 09:30 da miriam ravasio


Quando l’infanzia non è un terremoto? Cambia forse l’intensità, la magnitudo, ma le scosse le abbiamo avvertite tutti a un certo punto.
Sono messinese, del terremoto del 1908 ho sentito parlare tanto, da mia nonna per prima. è stato qualcosa di tremendo, che la memoria e le immagini solo in parte possono esprimere. Perchè non è rimasto niente. E quello che non ha distrutto la terra, l’ha distrutto il mare. Per questo, oltre che per l’assurda perdita umana, di storico, artistico, non è rimasto quasi nulla. E anche adesso mi sembra una città ferita. Solo di passaggio. Non potrà mai più avvicinarsi agli splendori di Palermo, Siracusa, del catanese. Però non sopporto chi mi dice che fa schifo. è stata tirata su da cumuli di macerie, azzerando vite e storie che restano sepolte. E non sarà più bella, no, ma più forte nel suo dolore, questo sì.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 09:36 da Silvia Leonardi


A Massimo che affettuosamente saluto, ringrazio e dico:
ci si può ricostruire a patto che si apra il dialogo con la compagna di viaggio, l’anima, resa bella perché visitata dalle emozioni, specie le dolorose e sono loro a dare l’imprimatur della vitalità.Fondamentalmente l’arte non è altro che un “agere cultuale” ossia una poiesis, un’azione che dis-veli l’ospite inquietante che ci visita. Lo stile fa la differenza.
Se vuoi, posso inviare un mini racconto in cui c’é visibilmente il dialogo fra le due( L’Io e l’Anima)per la ricostruzione dei cocci. Lucia

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 09:43 da Lucia Arsì


Quando Silvia Leonardi urla..non sarà più bella..ma più forte nel suo dolore( Messina), m’imbrivido. Sono le emozioni che vengono dall’auotostrada, quelle che da lontano bussano e pretendono l’ascolto, quelle che caricano i luoghi di energia( non importa se etichettiamo con positiva o negativa)a ricordarci che siamo Vivi, in questo spazio temporale che qualcuno ha concesso a ciascuno e di cui sarebbe opportuno intelligentemente approfittare.Scrutare, sentire la profondità del sacrificio umano e disvelarne i contorni,proprio questo é il lavorìo dell’artista.lucia

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 09:55 da Lucia Arsì


carissimi, lo sguardo di un infante non può mai reggere gli accadimenti e quando accade l’imprevedibile (terremoto), quello sguardo si dilata ed imprevedibile é la risposta. Poi, con il passare del tempo, mentre la ragione tiranna stabilizza un orizzonte condiviso, le sisposte sono più “sagge”. Maquel fanciullino che ci abita, se non ha spento i suoi occhi, torna a rammemorare pianti e brutture. La nenia ritorna e fa bene. Dobbiamo attendere l’Imprevedibile.Dobbiamo sempre ricordare che l’unica etichetta vera é il LIMITE.Lucia Arsì

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 10:05 da Lucia Arsì


L’ infanzia è un terremoto. Per me lo è stato. Molte scosse ma anche
“ricostruzioni” bellissime. che mi hanno permesso di non rimanere schiacciata dalle macerie. A Pescara dove vivo si sentì molto forte il terremoto dell’ Irpinia. Di quel terremoto ho un ricordo. Mio figlio faceva la II o la III media. La mattina dopo il terremoto il prete che insegnava religione fece questa preghiera: “Ringraziamo Dio che da noi il terremoto si è soltanto sentito”. Mio figlio si arrabbiò molto. Gli sembrò
una “preghiera” molto egoistica. Ciao a tutti. Franca.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 10:13 da Franca Maria Bagnoli


L’infanzia è un terremoto?non so l’ho sempre immaginata come un volo nello spazio senza navicella, un volo nudi incontro alle stelle.
Il terremoto a Messina invece è lì, dietro ogni angolo per noi messinesi!Non puoi dimenticarlo e non tanto perché la terra continua a tremare ma perché la città ne porta la ferita in ogni palazzo, vecchio e nuovo,nell’urbanistica che ha reso uno dei posti più belli del mondo una ‘ciofega’, e la gente…anche la gente lo tiene dentro e ama poco la sua città, preferisce sfruttarla ‘cogliendo l’attimo’. Il terremoto è ancora qui: nelle baracche con l’antenna satellitare, nell’assenza di verde, nelle palazzine (antisismiche? bah) che proliferano divorando le pinete e persino le colline, nell’adorazione dello straniero (salvatore?). A proposito dell’infanzia ricordo un terremoto che guardai dal giardino, insieme al mio cane d’allora: la cima dei palazzi ondeggiava come una canna al vento, dolce. Non ebbi paura. Ero affascinata.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 10:28 da CINZIA PIERANGELINI


Cari amici, grazie per i nuovi commenti e buona domenica a tutti.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 10:28 da Massimo Maugeri


Credo che Carola Susani, l’autrice del libro, interverrà domani.
Ma proverò a sentirla, e vi saprò dire.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 10:30 da Massimo Maugeri


A Miriam, che ha con intelligente chiarezza esposto i dettagli del libro.Bellissimo” il terremoto é un mito…, io aggiungerei é “il per sempre”.Cos’é il mito se non un racconto che svela alcuni nuclei fondanti da cui ha tratto origine la Storia, la nostra che inizia con un terremoto, la rottura con il tutto materno(rottura personale); inizia con il Male che offre la stura per uscire dall’Eden e vivere la dimensione ambigua, aporetica, sacrale dell’essere.(Un mito fondante ricorda il banchetto nuziale di Cadmo e Armonia, ove una dea ostile non invitata, porta come regalo una Collana che perseguiterà la genìa tebana fino alle estreme conseguenze: la morte fratricida di Eteocle e Polinice). Lucia

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 10:31 da Lucia Arsì


Al commento di Sergio, secondo cui ci si riunisce e ci si ritrova solo nei momenti di dolore, si sono uniti quelli di Gaetano e di Patrizia.
Patrizia (grazie a te, cara) ritiene che ciò “dipenda dal fatto che le calamità annullano le differenze, la competizione, confondano la propria dolorosa vita con quella di tutti”. Poi cita Jung sostenendo che condividere la felicità è quasi impossibile: ” tutto l’uomo può sostenere meno che la felicità altrui.”
Ma se ciò fosse vero (come credo sia) dovremmo considerare come normale la nostra impossibilità a condividere la felicità altrui e la nostra tendenza a ritrovarci solo nelle occasioni dolorose, in quanto legate alla nostra condizione umana.
E dunque, non dovremmo lamentarci di ciò.
È così? Siete d’accordo?

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 10:36 da Massimo Maugeri


Intanto ne approfitto per salutare l’amica Lucia Arsì (i nostri commenti si sono incrociati).
Cara Lucia, ti ringrazio moltissimo per i continui riferimenti al Mito. È una cosa che apprezzo molto.
(Ne approfitto per dire che Lucia Arsì, tra le altre cose, è una nota grecista).
Lucia, pubblica pure il miniracconto se vuoi.
Grazie ancora.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 10:39 da Massimo Maugeri


Ho trovato davvero agghiacciante e “forte” il racconto di Laura Costantini.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 10:41 da Massimo Maugeri


Ma tutti i vostri commenti sono davvero belli.
Vi ringrazio moltissimo: Salvo, Lorenzo, Gaetano, Enrico, Rossella, Mariolina, Silvia, Cinzia, Franca Maria.
E ringrazio coloro che avevo già citato in precedenza e coloro che magari ho dimenticato di citare.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 10:44 da Massimo Maugeri


Un’ultima cosa. Belli pure i riferimenti all’arte: cosa è, e cosa dovrebbe essere.
Cedo la parola alla “nostra” Miriam.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 10:45 da Massimo Maugeri


@Massi…credo che l’ARTE sia il più grande ARTIFICIO per esprimere la più grande delle realtà: la vita.
Cio’ che di più costruito esiste per dire ciò che di più naturale esiste. Un infingimento. Per dire la verità.
E quanto più è naturale, tanto più somiglia a ciò che imita…tanto più è vicina al cuore dell’uomo. Alla sua anima.
Bacio

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 10:59 da Simona Lo Iacono


Inevitabile il dialogo fra l’IO e l’altra(anima), per ricostruire i cocci.
RICOSTRUIRSI

Disordine. E nella minuscola stanza, ove m’involo con la lettura, fogli e fogli sparsi gridano alla mano violenta.
Il mio libro, il prediletto, stracciato.
Tanti pensieri invano, tante emozioni disarticolate.
Langue.
Il foglio, giallo di melancolia, sotto il divano.
Un altro, dalla tondeggiante grafia, sul davanzale.
L’Idea, l’unica, che assomma tutte le altre e alle altre consente, perduta.
La Memoria, lì consacrata, inafferrabile.

“Ri-costruirmi”. Un urlo. Sale dal fondo. Eco dilata il suono delle singole sillabe. Preposta a ciò. Al rimbombo. Sempre prodiga. Sempre evanescente, per l’ira di Era. E c’è. Così di una profonda emozione rimane il sapore, la eco di un feroce vissuto. E quella flebile voce martella, martella e invita a non cedere mai.
La odi al mattino, quando sollevi le palpebre, avvolta ancora nell’aura del sogno.
Al mattino, quando ascolti il picchettìo, tappata la bocca tese le orecchie.
E la sera, stravolta, spolveri il viso, svesti il tuo corpo e odi.
E’ l’Eco di te.

E’ andata via.Velocemente, afferrate le ultime cose, mentre dalle labbra socchiuse volavano sillabe arrabbiate, velocemente all’uscio. Ha rotto col falso. Col non-senso. Senza scendere a fondo. Non accetta il ruolo di spalla. Compagna fedele, consenziente, no….no……Esageratamente volitiva e dal ruolo deciso.
Nuotare tra onde che investono, a lei va.
Affrontarle e scansarle, a lei va.
Se l’acqua odora di muffa e la mucillagine impera, se l’acqua intende coprirla di nausea, per inchiodarle le gambe, tamponare l’udito, ombrare la vista, il rifiuto è totale.
Ecco….il senso del rifiuto. E non è fuga. E’ magnifica consapevolezza. Lotta impari. A chi dare colpi? Onde ruinose e fangose. Non meritano.

E poi?…..
No…no…non incenerirsi, abbrutirsi, scolorire….
Ri-tornare. Questo il monito. Nasce con noi. Impresso col fuoco. Leggerlo e sentire il senso riposto. L’Immobilismo è despota crudele. E’ una forza immane. Quale la Forza ancora piu’ forte? A chi fare appello? E’ ?
La stessa che al morente sussurra che l’altra vita è migliore.
La stessa che al naufrago rassoda le braccia.
La stessa che sprona il perduto fra mille crocicchi.
Senza, visione lunare.
Ambiguità e incertezza.
E sempre lì, senza la tondeggiante solarità.
Così al mattino, quando allunghi la mano. Pigi il pulsante. Luce non invitante. E l’ombra, che proietta sul muro, ad impaurire.
Solitudine. Tra tanti oggetti, tante evanescenze, sola col dubbio, col pensiero dominante, con la Paura di non ri-andare.
Attorno……tanti libri……muti, tanti oggetti….mal disposti. Specchi….pieni di forme, che non evocano ciò che tu brami. Immagini, caricate e non da te. Simili ai sogni. Scivolano scene. Crudeli, illogiche, talvolta fascinose. Forse è ciò che sarà e tu, entro, prevedi. Sono brame che alla luce del giorno tronchi colla falce affilata ma, caparbie, ti limano dentro fino a farsi accettare. E così modellano l’animo tuo.

E decide….
Imbuca gli inviti. Un simposio. Interpella le amiche. Scelte con cura. Diverse e ugualmente capaci.

Apro la buca. Tra tante missive, la sua.
Leggo. Io a presiedere un vivace dibattito. Evento importante. Figura vitale. Evitare sovrapposizioni di voci. Testardi lamenti. Voraci primati. A ciascuno il suo. Ruolo imponente. Per sedare la calca. Così, per rifare il libro, a pezzi ridotto.

C’è un tavolo. Ovale. Smorzati gli spigoli. Gambe finemente intarsiate. Reggono bene il centro. Oggetto maestoso. Invita a sedere. Guardingo e provocante. Limato e pronto a limare. Splendente cornice per idee illuminanti.
Mi seggo. Accanto donne superbe. Alcune dallo sguardo arrogante. Altre immerse in un mondo lontano da quello di qui
Io al centro. A dirigere la partita. Necessario spazzare la confusione di ruoli. Vitale il dire col rispetto dell’ordine. Alla fine, solo alla fine, il giudizio; alla fine, se possibile, se il dio lo consente, la scelta. Solo alla fine, e sempre nel recinto del forse, la calma, spazzata via la confusione iniziale.
Decido di dare la parola solo ad alcune. Ad aprire la bocca è una persona imponente. Dal vestito compito, dai modi eleganti, dalla loquela fluente. Gli occhi di ghiaccio. Il cuore mancante. Indossa la corazza della imperturbabilità. Gesti a misura. Le labbra appena socchiuse. Il sibilo del serpente. Sempre in agguato. La donna arrivata. Non dirà mai ” ti amo “. Non è importante. Non può. Il cuore non si colora di rosso. Vive di niente. E parla, a mò di docente. Lei, perfetta, esige che lo siano tutti. Intransigente. Nessuno la prende a modello.
Io la rifiuto. E indirizzo lo sguardo ad un’altra. La faccio parlare. Ha le spalle piccine piccine. Sguardo dimesso. Sognante. Tutta all’indietro. Accanto c’è l’altra. La figlia. Quella che seguirà le sue orme. Dirà del suo transito. Senza di lei, che senso la vita? E se la rubassero? Una cerca perenne. Una preghiera il suo dire, per ri-ottenerla. Solo a lei affidare la misura dei palpiti interni. Il profondamente nascosto. E sarà vittoriosa sulla vita, matrigna, pronta a togliere. Vittoriosa, rinnovandosi sempre.
Tale ruolo di madre lo accetto, non lo prediligo. Non voglio confondermi. Alla figlia concedo lo spazio che merita. Diversa da me. Legata da un amore di sangue.

Sono stanca. Ascoltare è premere il piede sulle zolle morbide di rugiada di un vasto giardino.
Sensazione e riflessione.
Il pungente contatto allerta le pulsioni del corpo, e la Mente consente a procedere.

Non devo cedere. Rimpaginare il libro. Importante per la ri-costruzione di lei.
In sillabe bene allineate, forse uno spiraglio di luce.
E la guancia si offre. Ecco…il calore per sciogliere il ghiaccio.
Concedo a lei, a quella dall’aria svanita e dalla forma perfetta, attimi per rivelarsi.
Diversa e trasgressiva. Nuova. Cangiante secondo il momento. Per sè e per gli altri.
E’ la pura bellezza, quella che attrae e dell’intimo tuo fa uno specchio lampante.
Il bello dell’esserci, il bello del dubbio, il bello del non-utile, il bello dell’attesa perenne, ed è bello perchè rompe col già deputato.

La osservo. Non so rimuovere lo sguardo. Le sue mani danzano sul piano del tavolo. Le spalle diresti il ventre di una ballerina cilena. E la bocca a dire e non dire. A lasciare immaginare. Da essa suoni mai uditi. Dirà ciò che il tuo animo brama ascoltare. E tu, schiavo dei dettami secolarmente sanciti, e tu scopri e vedi l’altro da te.
Chi è costei che trasforma i sassi in viventi?.
Ha posto la penna in mia mano. Sussurra che il libro stracciato non è perdita grande. E’ monito alla non-sosta. E’ voce in contina mobilità. E se altri hanno rotto, se altri turbato, è per necessità.

Stanca. Infiacchita. La Paura mi domina tutta.
Il carisma di lei mi ammanta. Sancire parole di fuoco, svelare i reconditi aneliti, segnare nei fogli le immagini che svolazzano avanti i miei occhi, saprò?
Devo, perchè lei legga e i pezzi d’un sconnesso mosaico tornino a ri-costruire la grande Figura.

LUCIA ARSI’

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 12:33 da Lucia Arsì


Grazie mille, cara Lucia.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 17:44 da Massimo Maugeri


E grazie anche a te, Simo.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 17:45 da Massimo Maugeri


Complimenti per i commenti: davvero fantastici. Condivido molto quello di Simona Lo Iacono sull’arte. Rileggendo il mio, invece chiedo scusa a tutti per gli errori che contiene (data l’ora dovevo essere suonata). Spero tuttavia che, pur con qualche contorsione espressiva e i miei sbandamenti dovuti alla stanchezza, il concetto sia giunto ugualmente.
Un caro saluto,
Mariolina

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 19:03 da Mariolina La Monica


@ Mariolina:
non scusarti perché il tuo intervento è intenso, sentito e poetico. Volevo scrivere oggi e ringraziare Simona, Rossella, Lucia Arsì , Cinzia Pierangelini e te, ma mi sono messa al lavoro ed è arrivata sera in un attimo. Torno dopo perché, voi tutte avete messo in moto una magica energia che ha beneficamente influito sulle tele.
A dopo o a domani, perché sono molto stanca.
Miriam

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 19:35 da miriam ravasio


Stavolta la penso diversamente dal Maugger, al quale dico che la gioia e’ una cosa reale e condivisibile, almeno per la mia esperienza (passata ed attuale). Dunque secondo me basta non concentrarsi troppo sui dolori e vedere oltre: oltre i dolori ci sono le gioie e sono ”collocate” spesso nell’animo di chi ci sta vicino, basta scoprirle, facendo ”partorire la gioia” (socraticamente) alle persone a cui vogliamo immensamente bene. Dopotutto il terremoto e’ una prova per rinforzare il nostro amore reciproco, e se vediamo solo il terremoto e non i suoi ”frutti” pecchiamo di miopia.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 20:33 da Sergio Sozi


P.S.
I nostri antenati Greci e Romani questo lo sapevano bene e davano al Cielo incombente e ineludibile le caratteristiche di loro stessi: amaro e gioioso esistere eterno di dei elargitori di morte e amore, allegria e follia, tenerezza e dannazione. Non solo dolore: il dolore ”monomaniacale” e’ un’invenzione dei nostri stanchi e lugubri tempi moderni.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 20:37 da Sergio Sozi


P.P.S.
Io ho lamentato quello che credo sia un difetto, una mancanza, una possibilita’ non avvertita, dell’oggi, non ho detto che ci si puo’ unire solo tramite il dolore comune.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 20:41 da Sergio Sozi


@Sergio. La gioia è un bagliore effimero, un battito d’ali che spicca in fretta il volo. E il dolore è qualcosa che appartiene al nostro intimo, difficilmente si può condividere con gli altri, si può manifestare ma nessuno è in grado di lenirne l’intensità. Schopenauer sosteneva che la psicologia dell’uomo oscilla continuamente tra due stati: la noia e il dolore. Quando non proviamo dolore ci annoiamo e per uscire dalla noia cerchiamo il dolore. (O andiamo a cazzeggiare su Letteratitudine, aggiungo io).
Io penso che lo stato di dolorosità sia tutt’uno con la nostra esistenza, una costante naturale, quel senso opprimente di precarietà che ci portiamo addosso.

P.S. Non ti ho detto del lavoro peggiore che ho fatto in gioventù: l’aiuto gommista, una cosa di cui ancora oggi mi vergogno.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 21:17 da Salvo zappulla


@Sergio Sozi
sono d’accordo quando affermi che gli dei elargiscono gioie e dolori.Ciò su cui spesso rifletto é:se la finalità per cui viviamo fosse il soffrire?Perché solo chi soffre intensamente a causa degli errori esperiti durante la erranza può godere della luce negli attimi di ritorno alla luce della coscienza.Ed é quella luce che spiazza il buio e accende la vera miccia della conoscenza. Si tratta dell’inganno(che ben venga) della speranza?Si tratta di attimi di gioia? Ma ben venga quel tremore che ti fa vibrare le vene e i polsi, se puoi avvertire la vita nella totalità, se,dal mondo infero in cui sei, gli occhi dell’anima sanno percepire il ritmo della felicità.Il dolore quindi risulta monomaniacale solo per poco, se hai la forza(o te la danno)di rafforzare lo sguaro e vedere oltre.Lucia arsì

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 21:20 da Lucia Arsì


L’arte è la parte desiderabile della vita.
L’infanzia è il principio di tutti i desideri della vita.
Il terremoto, per me è stato quel del 1980, è il senso della fine. Tutto ciò che risultava essere più convenzionalmente inalienabile perde la sua stabilità.
Tuttavia tutto diventa possibile.
Si può dimenticare ciò che era impedito e cominciare a sognare un nuovo inizio, una infanzia del desiderio.
L’arte in quel momento è lontana, bisogna prima ricostruire. Tuttavia essa rimane come un vagheggiamento vitale, tanto quanto lo spirito di una nazione, la sua dentità, la sua cultura.

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 21:23 da eventounico


Caro Sergio,
non sono un letterato e quindi so pochissimo di D’annunzio.
Mi limito ad analizzare la realtà della vita, così come penso che l’essere umano possa percepirla.
La realtà è una variabile, soprattutto quando l’uomo intende la sua vita come un cammino verso un qualcosa che lo elevi dal suo stato di ristrizione.
Gli sfugge sempre di nuovo, ma nel cercarla per farla propria sente di vivere e di realizzarsi.
Intuitivamente e con riguardo a ciò che ho letto e sentito da mio padre, D’annunzio fu un figlio del suo secolo, un secolo soggetto a forti rivolgimenti sociali e politici. Psicologicamente lo si potrebbe considerare un matterello, un egoista, un fanatico, come sono molti affamati di gloria e successo, costi quel che costi. Fortemente passionale e desideroso di
successo non si curò troppo delle persone che lo amavano.
Un egocentrico, individualista che visse solo per la sua insaziabile sete di realizzare i suoi ideali che, seguendo il ritmo del suo tempo, furono particolarmente di stampo patriottico e nazionalista.
Grazie delle tue opinioni espresse su me stesso, che condivido e delle quali ne sono cosciente e felice.
Cari saluti.
Lorenzo

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 22:15 da lorenzerrimo


@ meravigliosi e profondi i vostri commenti. Grazie a tutti.
Dato che si è discusso molto sulla gioia, vi allego una mia poesia.
Saluti cari.
Lorenzo

La gioia: speranza e sollievo, come ottenerla e conservarla.

Vieni gioia, prendi il mio animo e conducilo
laddove esiste ancora la speranza del sollievo e felicità.

La tua mancanza stringe il mio cuore nel dolore,
nel vuoto, che tu sempre lasci quando
sei lontana e non spero nel tuo ritorno.

Sei una forza effimera e ingannevole,
uno stato d’ebbrezza in un momento di felicità
che non riesco a preservare nel tempo.

Sempre t’invoco nel momento del riposo, della sveglia,
delle attitudini che sbrigo ogni giorno con diligenza e cura,
nell’attesa di un incontro piacevole e grato,
che poi svanisce nell’incapacità propria di conservarlo.

Il desiderio di possederti è troppo grande e bramoso
da poterlo realizzare, e così non mi rimane
che immaginarti nei miei sogni e pensieri.

Gioia, felicità, contentezza, sono i compagni della rinuncia,
nella quale non c’è posto per il superfluo,
dove dimora l’avidità e la presunzione
di essere preparati e meritevoli di te.

Non sei mai sola, sempre t’accompagnano l’infelicità e il dolore
e lasci ad ognuno la libertà della scelta,
tra il riconoscerti ed accoglierti nel proprio animo semplice e umile
o lasciarsi ingannare dal riflesso luccicante della tua immagine,
dietro la quale trovare poi la conferma della propria immaturità.

Lorenzo Russo Gänserndorf, 25.10.06

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 22:19 da lorenzerrimo


@ Lucia Arsì
Gioia e dolore si avvicendono perchè non siamo evoluti. E come esserlo, in una dimensione non finita? È la forza della sopravvivenza che ci costringe a ricercare la gioia sempre di nuovo, cosa fare altrimenti. Esistono persone che riescono a prendere la vita così com’è; sembrano sempre serene e tranquille, ma non credo che conoscano quei momenti di ebbrezza che danno il senso di essere, anche per solo un momento, in paradiso. Il dopo non importa, già conoscendolo, godiamo la gioia con maggiore intensità, onde poter sostenere di nuovo il grigiore del dopo.
Carti saluti.
Lorenzo

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 22:42 da lorenzerrimo


Il dibattito ha preso una piega strana; non si voleva fare un raffronto fra arte e terremoto e infanzia, bensì considerare il contenuto del libro di Carola Susani, che racconta della sua infanzia nella valle del Belice. I suoi genitori, due architetti del nord-est, furono parte attivissima della Comune che si organizzò con l’obiettivo di pensare alla ricostruzione, affrontando i temi di un nuovo abitare. Quindi, fondamentale è il tema dell’urbanistica e dell’architettura, trattato e discusso proprio con la caretteristica di quel periodo, il 1968 e poco dopo. Inevitabile, quando si pensa a Gibellina raccontare del Cretto di Burri, dei favori e dei dissapori con cui l’opera fu accolta. Ma interessantissima nel libro è la suggestione evocata da Susani, con sensibilità e intelligenza, del sentire di quegli anni. Così si intuiscono le intenzioni, la partecipazione, la speranza, ma anche la leggerezza di chi si fiondò sul posto in cerca d’affermazione.
Vi riporto un estratto, un brano pubblicato su Allora (penso si tratti di una rivista)
“Alla fine dell’estate, sotto mescalina, feci un sogno: fiotti di sangue gelato su un ghiacciaio. Annunciai ai miei compagni siciliani che entro un mese me ne sarei andato. Loro erano tutti presi in dibattiti e riunioni senza fine, sempre a discutere di politica. Non era divertente. Amavo i siciliani e amavo la nostra baracca prefabbricata, i suoi sottili muri verdi, il suo tetto di metallo sbatacchiante, le antiche mura arabe e le strade bianche costeggiate di fichi d’India, i boschi di mandorle, le rovine di Partanna, il cielo blu, i templi greci di Selinunte e Segesta. Ma dovevamo andarcene.”

Postato domenica, 2 novembre 2008 alle 23:56 da miriam ravasio


Si parla d’arte, perché si parla di un abitare diverso, di una concezione ideologica del costruire, della funzione sociale dell’architettura e del tessuto urbano. Discussioni, contrasti, lotte che Carola compone fra ricordi e riflessioni. “L’idea della totale democratizzazione del tessuto urbano è ingenua e affascinante. Eppure l’effetto non è buono. Amiamo le città antiche, ci è facile leggere negli incastellamenti, nei palazzi… (…) Qui è diverso. Salaparuta, Poggioreale, Montevago, Gibellina, tutto somiglia a tutto…”

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 00:06 da miriam ravasio


@ Rossella
la tua metafora dell’albero è di straordinaria lucidità. I rami piegati dal peso si sono rotti e dell’albero è rimasto il fusto, alto, altissimo, credo oltre i cento metri; li chiamano Pale a vento e stanno lì sul Cretto di Burri. Non potevi scegliere una metafora migliore.
@ Cinzia Pierangelini
il tuo ricordo ci regala la dimensione dello stupore primordiale, di te bambina che al sicuro, osservavi affascinata un mutamento del reale ; le cime delle case oscillavano come canne al vento. Forse è quello che per un attimo abbiamo provato tutti noi, l’11 settembre, quando gli aerei attraversarono i palazzi.
@ Lucia Arsì
Riporto la tua frase, che condivido e che estenderei in un senso proprio ampio, ma che a proposito dei temi in questione, calza perfettamente.
“Dobbiamo sempre ricordare che l’unica etichetta vera é il LIMITE”

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 00:25 da miriam ravasio


@ Sergio
Non siamo in disaccordo. Tu avevi domandato: “Ma vi pare possibile che gli italiani si sentano uniti solo davanti alle sciagure e mai in occasione delle gioie?”
-
Io ti ho risposto: “Non è sempre così”. E ti ho fatto l’esempio della vittoria dei Mondiali.
-
Poi Patrizia ha citato Jung, secondo cui condividere la felicità è quasi impossibile: ” tutto l’uomo può sostenere meno che la felicità altrui.”
Poi ho aggiunto: “Ma se ciò fosse vero (come credo sia) dovremmo considerare come normale la nostra impossibilità a condividere la felicità altrui e la nostra tendenza a ritrovarci solo nelle occasioni dolorose, in quanto legate alla nostra condizione umana.
E dunque, non dovremmo lamentarci di ciò”.
-
Nonostante questo, io (parlo di me) ho personalmente sperimentato diverse occasioni di condivisione di gioie e di dolori.
Però se mi guardo intorno mi accorgo che – in effetti – non sono in tanti coloro che fanno a gara per “condividere la felicità altrui”.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 00:29 da Massimo Maugeri


Ma Miriam fa benissimo a riportarci all’ottimo libro di Carola Susani, la quale interverrà domani (cioè oggi, dato che è passata la mezzanotte).
Dunque, se avete domande da porle fatevi sotto.
Anche tu, Miriam… hai domande per la Susani?

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 00:31 da Massimo Maugeri


Intanto ne approfitto per ringraziarvi per i vostri nuovi interventi e per augurarvi buon inizio settimana.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 00:32 da Massimo Maugeri


@ Mariolina La Monica:
Ma quanto calza per me, invece, questa tua riflessione: la mia vita è un susseguirsi continuo di terremoti, sono un suolo sismico e come, forse, ho già scritto , a volte obiettivamente benedico tutti gli scossoni (a parte la rottura della rotula di due mesi fa) che mi hanno condotto fin qui. Riporto la tua frase.
“E per restare in tema di terremoti in questo caso interiori, ditemi cosa saremmo noi uomini se almeno uno non avesse scosso le nostra fondamenta e rivoltato spesso l’andamento consueto della nostra esistenza, magari indirizzandoci verso mete solo ventilate, ma rimandate di momento in momento, di anno in anno? Forse saremmo dei cadaveri, o tutti siamo dei cadaveri che per non sentirsi tali ci aggrappiamo ai ricordi ora lievi e ora agro-dolci della vita e andiamo col vento negli occhi?”
Buonanotte a tutti, vado a nanna.
:-)

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 00:33 da miriam ravasio


Buonanotte, Miriam. Non mi ero accorto che fossi ancora on line:)

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 00:35 da Massimo Maugeri


A tutti (che ringrazio per la sopraffina concettosita’ delle risposte):
la gioia o c’e’ o non c’e’. Quando c’e', e’ da fessi non vederla e condividerla. E dico questo perche’ la gioia ”di per se”’ esiste, anche ben separatamente dall’esperienza del dolore. La gioia e la sofferenza ci sono entrambe dentro di noi e nel creato tutto. Non vale star a cercarne una giustificazione – di qualsiasi natura: eziologica, ecumenica, teorica, esperenziale, laica, pagana o monoteistica, spirituale o materialistica.
La gioia e’ un dato di fatto. Ricordatevi di quando l’avete provata e ricercatela, o in voi o in qualcos’altro: in un angolo del mondo la troverete di sicuro.
Salutoni Cari
Sergio

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 02:02 da Sergio Sozi


P.S.
Dimenticavo: ricercatela, la gioia, solo se avete fede in lei, altrimenti e’ impossibile trovare cio’ di cui non si crede l’esistenza.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 02:05 da Sergio Sozi


Caro Lorenzerrimo,
ohibo’, su D’Annunzio la pensiamo diversamente. Io lo stimo molto, per certi versi (come poeta fu un grande), e un po’ meno per altri (alcuni eccessi di protagonismo). In complesso mi piace la sua opera letteraria e non mi sembra roba confrontabile con le schifenze che girano oggi. Anche il suo coraggio e il suo patriottismo mi piacciono molto – la cosiddetta ”Beffa di Buccari” fu cosa egregia. L’adesione al fascismo invece la rigetto.
Detto con immutabile stima e affetto
Sergio

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 02:09 da Sergio Sozi


Massimo,
forse non mi son fatto capire appieno: intendevo dire che gli italiani, se e’ vero che gioiscono poco insieme e conoscono solo la sofferenza per accumunarsi, si perdono le cose belle della vita. Io la vedo diversamente, la vita: gioisco con gli altri e soffro quando proprio bisogna farlo, ma spesso evito i dolori cercando di ripararli prima che divengano… terremoti! Se non posso allora amen: cerco di superare le sofferenze con l’amore e l’impegno.
Ecco.
Buonanotte

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 02:14 da Sergio Sozi


Ciao Sergio:
sulla gioia e sul dolore sono con te! Negli ospedali e nei cimiteri ci vogliamo più bene , ma questo non significa che il dolore avvicini gli uomini più della gioia: è solo conforto fra simili. Due esempi. Pensiamo al silenzio con cui si circondarono i sopravvissuti dei campi di concentramento; iniziarono a raccontare solo dopo molti anni, addirittura quando, le contestazioni giovanili riaccesero con forza l’attenzione sulle aberrazioni nazi-fasciste. I sopravvissuti non parlarono, si chiusero in sé, perché gli altri non avrebbero capito, perché la vita continuava, doveva continuare anche la loro (ma quanti suicidi fra gli ex-deportati).
Secondo esempio. Il dolore degli “altri” non avvicina nessuno e non ci rende migliori. Pensiamo al mare, alla spiaggia, alle creme e ai nostri corpi stesi al sole, e pensiamo ad un naufrago morto per una traversata, riverso a pochi passi da noi… E’ capitato più volte; i bagnanti rimangono sempre lì, senza pietà e con ostinazione.
Chiudo e mi concentro su alcune domande da porre a Susani.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 10:02 da miriam ravasio


A Carola Susani.
Confesso d’aver letto il tuo libro con particolare attenzione e curiosità, perché reduce, proprio in quei giorni, di una lettura, per me, appassionante: Architetti maledetti di Tom Wolfe, di cui condivido non poche considerazioni.
Sono già intervenuta nel post e penso che il mio pensiero, nei confronti di L’infanzia è un terremoto, sia chiaro; voglio avanzare solo qualche domanda.
Sull’esperienza della Comune, ora a tanti anni di distanza, mi piacerebbe conoscere l’opinione dei tuoi genitori. Quello che pensi tu, traspare nel libro, e lo si intuisce anche nella struttura stessa che hai dato alla storia, alla narrazione. Curiosità, voglia di verifica, amore per la condivisione ideale che univa persone così diverse. Fu la storia di una illusione o di una sconfitta, oppure fu semplice sperimentazione che si concluse, per ognuno, in modo diverso?
La prima volta che lessi il tuo libro, mi venne in mente la Comune svizzera di Bakunin, “La Baronata” raccontata da Bacchelli ne’ Il diavolo al Pontelungo. Senza confondere la bontà delle intenzioni e dei contesti, anche nel Centro studi della comune di Gibellina avvenero cose, si incontrano persone che erano “oltre” il dato stesso del terremoto. Allora, la mia domanda è questa: in altre condizioni, e cioè in un contesto politico più distaccato, l’idea della democratizzazione del tessuto urbano (che lì si volle sperimentare), avrebbe avuto lo stesso esito? L’idea era sbagliata in sé o furono i modi a rendere Gibellina ( e gli altri paesi così )caratteristicamente autistica?
Grazie, Miriam Ravasio

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 10:32 da miriam ravasio


Eccomi. Sono molto contenta della vostra ospitalità. La recensione e i commenti sono lucidi e acuti. E sono molto affascinata dal rapporto tra infanzia, terremoti e arte. Dopo l’infanzia, se ci pensate, i terremoti non hanno lo stesso peso. Durante l’infanzia raccontano qualcosa di vertiginoso sulla vita, la sua precarietà, la sua capacità di essere sorprendente. Comincio a rispondere a qualche domanda. Quando l’infanzia è un terremoto. Per me lo è stata nella partenza dal veneto, nella scoperta della Sicilia terremotata a quattro anni, nella necessità di rivedere tutta la terrura che avevo fatto del mondo, a quattro anni. Un terremoto.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 10:53 da carola susani


Ma se io ho il mio trauma, penso che dai traumi difficilmente si sfugga. Un terremoto o una simile catastrofe arriva per tutti. Che tracce ha lasciato il terremoto? Se Gibellina è stata cancellata e dorme sotto il Cretto, tutte le altre città distrutte stanno lì, un po’ monumentali e un po’ abbandonate. Chi abita nel Belice le conosce. Negli ultimi anni c’è un gran fiorire di pensieri sulla memoria del terremoto, soprattutto da parte di chi è nato dopo. La cosa sorprendente, dopo aver scritto il libro l’ho scoperta, è che i ragazzi di Gibellina, pur vivendo tutte le contraddizioni di una città d’arte così poco organica, tuttavia la riconoscono come casa loro, spazio identitario. Scrittori e artisti stanno nascendo da Gibellina.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 10:59 da carola susani


Cara Miriam,
intanto grazie della tua estrema attenzione e cura. Provo a risponderti. Per quel che riguarda la Comune e i miei, mio padre è morto nell’87 senza nessuna voglia di rievocarla. Il collettivismo forzato lo aveva letteralmente esasperato. Mia madre è sempre stata più possibilista, ma nel tempo ha maturato l’idea che ci fosse dell’astrattezza, una cura non piena dei bisogni umani. Quanto all’architettura, per anni ho avuto la sensazione che il sentimento più forte nel Belice fosse la nostalgia della piazza o del corso perduti. La piazza e il corso sono luoghi per definizione gerarchici, luoghi più importanti dei luoghi della vita privata. Per anni le “piazze” della ricostruzione spesso quadrate e fredde, casuali all’apparenza, non solo a Gibellina, ma a Montevago e negli altri paesi, non sono state riconosciute. Ma succede che procedendo le generazioni, quello che per i vecchi è solo niente, diventi la condizione della vita di chi nasce, probabilmente questi luoghi così astratti stanno prendendo vita, cambiando di segno perché i ragazzi ci si stanno radicando. Rimane il problema di uno sviluppo organico mancato (mi pare che qualcosa del genere la evocasse giustamente anche Sergio Sozi)

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 11:11 da carola susani


Provo a rispondere alle domande di Massimo. Questo libro aspettava da tanto tempo. Da tempo sentivo il bisogno di scrivere la storia della nostra vita in Valle del Belice. Avevo fatto un documentario radiofonico e tentato un romanzo. Il romanzo era profondamente brutto perché questa storia aveva bisogno di trasparenza e onestà, di autobiografia. Sono andata io da Laterza, da Gianluca Foglia che all’epoca dirigeva Contromano con il titolo e la storia. Gianluca mi ha dato piena libertà. Mi interessava molto anche il tema dell’arte, e dell’architettura, massima arte civile, dei fallimenti e dei successi, e del loro discrimine. Il Cretto così disprezzato da alcuni, e io capisco perfettamente perché, ormai è diventato qualcosa. Ho degli amici che si sono innamorati al Cretto. Per quel che riguarda l’architettura, la stagione dell’Ises, dell’idea calata dall’alto di democratizzazione del tessuto urbano (che non era l’idea dei miei genitori), la sentiamo irrevocabilmente fallita. Ma allo stato attuale non abbiamo davanti un’altra idea urbanistica, più matura. Mi sembra che abbiamo piuttosto a che fare con una rinuncia totale al pensiero della città. Ci siamo scottati troppo? Ci impressiona già solo l’idea di pensiero, progetto, per non dire pianificazione? Sbaglio?

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 11:26 da carola susani


Questa pagina è bellissima. Complimenti ai recensori ed a Carola Susani. è emozionante avere la possibilità di dialogare con gli autori dei libri. Gentile Carola, quale delle tre recensioni proposte sente più vicina alla sua idea di questo libro?
Marco Vinci

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 11:42 da Marco


Ciao a tutti i lettori di questo sito.
Non sono appassionato di lettura come voi ma vivo a Camporeale in provincia di Palermo, uno dei comuni colpiti dal sisma del Belice.
Ho avuto il piacere, anche se nel ‘76, come l’autrice del libro in oggetto, non ero abbastanza grande da capire i discorsi dei grandi di conoscere in persona Danilo Dolci.
Conosco anche delle persone di Partinico che lo hanno conosciuto personalmente.
Da qualche anno sto cercando, grazie anche a internet, di fare ricerche su come e perchè come mai tutti questi ritardi nella ricostruzione di questi centri vittime di quel sisma.
Neanche io sono nato terremotato perchè ero in Germania con i miei genitori quando successe il sisma.
Mia sorella era giorno 5 gennaio del 1968 e aveva neanche dieci giorni quando la terribile notizia di quel sisma data nei telegiornali tedeschi fece partire di notte i miei genitori in fretta e furia sul primo treno disponibile con l’angoscia della sorte dei miei nonni e dei miei zii di Camporeale.
Mio padre era di Trapani e non vi erano quindi suoi parenti a Camporeale, ma solo vi erano i miei parenti materni sul posto.
Ricordo vagamente le tendopoli in cui fummo accolti al nostro arrivo a Camporeale e anche l’Ente Zolfo di Cinisi che ci ospitò per poco tempo per toglierci dal rischio dato dallo sciame sismico.
Mia madre ricuncio a tornare subito in Germania e abbondonò il suo lavoro in una fabbrica della BAUER in cui fabbricava macchine fotografiche quando qui nessuno sapeva cosa erano le fotocamere.
Per pochi mesi, solo per svolgere le formalità di accertamento dei danni e per l’assegnazione delle baracche.
Nessuno sapeva che quelle semplici pratiche burocratiche avrebbero richiesto decine di anni e vi confermo che non sono ancora concluse.
Mia madre aveva 31 anni e due bambini quando successe il sisma.
Credo che sia la fascia di età più importante per una donna per godersi la crescita dei figli nella consapevolezza di una età che ti permette di fare scelte anche importanti.
Non come le coppiette giovani che facevano la classica fuitina siciliana in quell’epoca.
Una cugina di mia madre si ritrovò nonna a 29 anni perchè le fece la sua fuitina a nemmeno 13 anni e sua figlia invece appena 14enne.
Ricordo anchi da bambino la fase di costruzione delle baracche e la vita in quelle baracche e non l’auguro a nessuno, nemmeno ai cani.
Talmente era piacevole la vita nelle baracche che i miei si caricarono di debiti per riparare le vecchie case dannegiate pur sapendo che sarebbero state demolite quando ci avrebbero dato le nuove case.
Ricordo anche i debiti fatti dai miei per rendere Casa con la C maiuscola il progetto chi avevano presentato subito ma approvato anni dopo con i vecchi prezzi.
Nel 91 feci un corso della camera di commercio per iscrivermi al REC e quindi aprire una cartoleria ma all’atto di chiedere un finanziamento bancario saltò fuori un cavillo assurdo.
La banca non poteva finanziare niente perchè la casa in cui vivevo dal 1980 era inesistente sulla carta.
Questo perchè lo Stato aveva espropriato un ampio teritorio per ricostruirci il nuovo Camporeale.
Vi fece costruire strade, scuole e edifici pubblici e lo lottizzo per farci costruire le case dei terremotati.
Ma non fece mai il frazionamento e la comunicazione al catasto dei dati necessari per la loro catastazione.
Senza di questo la mia casa pur essendo reale sulla carta non esiste.
Non possiamo nemmeno venderla o affittarla senza la catastazione.
La casa in cui vivo è la prima unità.
Infatti allora si stabilì una graduatoria in cui si dava la prima casa a tutti subito e in seguito le seconde o ulteriori case.
I miei genitori con il loro lavoro in Germania avevano acquistato TRE case a Camporeale tutte confinanti l’una con l’altra.
Quando ci ricostruirono la prima casa il Comune procedette alla demolizione della vecchia ma non potendo demolirla senza lasciare integre le altre due che ancora non ci aveva ricostruito le buttò giù tutte pensando che in breve sarebbero state rifatte le nuove.
Tuttora aspetto quelle due case e già so che nei prossimi dieci anni nemmeno le faranno.
Vi invito a leggere il mio blog su HTTP:\\terremotati.blog.com ed aiutarmi nelle mie ricerche.
Ho letto di questo libro solo ieri sera e sono passato in biblioteca comunale per vedere se l’avevano ma mi sono cascate le braccia sentendo la responsabile dirmi che da alcuni anni non comprano più libbri per mancanza di fondi.
Gli unici libri nuovi che avevano erano quelli di Scentology che ricevano spesso in omaggio direttamente dall’editore.
L’ho ordinato visto che parla di un probblema che ci ha coinvolti e che i giovani non conoscono ma non sanno quando potranno acquistarlo.
Chiedo all’autrice e al suo editore se possono far avere almeno uno copia a biblioteca comunale dei paesi del sisma del Belice.
I romanzi d’amore o gialli non sono indispensabile ma è indispensabile che i libri che trattano di denunce di sprechi, catastrofi o mafia vengano letti dal maggior numero di persone affinchè si crei la conoscenza del fatto segnalato.
Ricordo che alle medie avevo come libro di narrativa ” Il giorno della civetta.”.
Non ho ancora letto questo libro ma il tema che tratta potrebbe essere letto nelle scuole.
Leggete il mio blog in cui tratto im maniera più completa l’argomento.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 11:43 da Giovanni


Caro Marco,
tutte e tre le recensioni illuminano aspetti del libro. Mi ritrovo una grande consonanza con Miriam perché si fa le stesse domande che mi sono fatta io all’inizio. Ma anche Gambaro e Giovannino Russo hanno sguardi che mi interessano.
Grazie Giovanni, hai ragione. Chiederò a Laterza di mandare una copia in ogni biblioteca. Forse scenderò a dicembre per presentare il libro a Partanna e a Vita. Se Massimo me lo permette, potrei darne notizia qui.
Intanto grazie.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 12:07 da carola susani


Sono contenta che vi sia piaciuta l’immagine dell’albero.
A tutti noi è molto chiara la sostanziale differenza fra la tensione spirituale di una buona parte del XX secolo e le relative forme espressive con le quali i pittori cercavano la struttura dell’albero stesso che, se ci pensiamo attentamente e proviamo a raffigurarlo simbolicamente nelle sue linee essenziali, ha una verticale portante (la cui altezza è data dalla pronfondità) che viene attraversata, nel corso della sua crescita, da linee orizzontali. Pertanto lo schema è quello della croce. L’essenza della pittura e dunque dell’arte cerca i significati profondi e li cerca coscientemente, come diceva Cèzanne noi non possiamo conoscere la verità se non conosciamo profondamente la realtà, grande studioso della geometria interiore lavorò per dare molti semi ai seguaci più sensibili della sua arte. Ne venne fuori una forma come espressione di contenuti reali.
Ti ringrazio Lucia Arsì, so che mentre leggi queste righe capisci che cercare l’anima nella rappresentazione non è l’opera di chi trova godimento in valori di superficie dedicati e pensati per i meravigliosi sensi (vista, udito, gusto, tatto, olfatto) in una tensione verso le superfici più lisce, viscide, simili alla pelle di un verdastro anfibio, in estremo godimento di chi ha confuso il cazzo con il il Senso del Sacro, l’oggetto con l’anima spirituale.
Saluti
Rossella

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 12:15 da Rossella


P.S
Per l’autrice

Io da abitante del Centro Nuovo di Camporeale giudico fortemente negativa l’urbanistica creata dai massimi architetti e ingegneri incaricati dallo Stato.
Forse si sono dimenticati di darci il manuale d’uso di questo Centro ma io non ci vedo niente di posito o innovativo.
Giuste le strade ampie, le piazze enormi e amisura d’auto ma non si è previsto di inserire negozi, farmacie, uffici nelle strade.
Non c’è nessun motivo che invogli a percorrere queste strade a piedi perchè non c’è niente da vedere.
Camporeale nuovo è per me un gigantesco dormitori e nulla di più.
Mentre nelle città tradizionali si esce anche solo per vedere le vetrine, fermarsi nei bar o prendere un panino per strada qui questo modello di urbanistica non è stato considerato.
Tutti i negozi erano previsti accentrati nello stesso punto dove sono gli uffici comunali ma non è mai stato chiarito come e a chi si dovevano dare.
Un assurdo regolamento edilizio adottato dal Comune e mai aggiornato dichiara tutte le abitazioni solo per uso residenziale.
Se volessi destinare il mio garage per uso imprenditoriale, per farci un negozio o altro dovrei procurarmi nel raggio di trecento metri un garage a pagamento custodito e coperto.
Siccome fra tutte le strade del Nuovo Centro non vi è nessun luogo per costruirci un garage nessun abitante del sito può avviare una attività commerciale nella propria casa.
E per l’arte pur avendo uno zio Pittore con la P maiscola e accademico della Accademia di belle arti di Stoccarda, allievo preferito di Manfred Henninger considerato il Picasso tedesco la ritengo un gradevole ramo del cervello umano.
E’ bello guardare un’opera d’arte ma proprio il Cretto di Burri in quel contesto lo ritengo uno sciupo di risorse economiche senza giustificazione.
Da ex manovale ritengo che con i soldi di tutti quei metri cubi di cemento avrebbero realizzato parecchie case dei terremotati.
E poi chi viene a vederlo se non vi sono alberghi, hotel o bed and breckfast dove allogiare i possibili turisti?
E cosa offre il Belice che possa attirare turisti?
E poi certi tipi di arte e specialmente le opere di Christho sono assurde.
Che senso ha disseminare la Terra di enormi ombrelli in alluminio e pastica?
Nessuno può avere la visione d’insieme dell’opera creata.
Ritengo che sia come creare un quadro e mandarne un pezzetto a ogni museo.
Come posso capire l’opera creata da quel pezzetto?
E poi perchè Gibellina è stata riempita di arte e gli altri paesi coinvolti no?

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 12:21 da Giovanni


@ Miriam
O forse no. In moltin non hanno confuso proprio un bel niente.
Non tutti si occupano di spiritualità. E l’arte lo conferma.
Ciao
Rossella

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 12:26 da Rossella


Cara Miriam,
torno al mio discorso di sabato mattina sull’arte, sulle cacatine degli uccelli presuntuosi, sul Cretto di Burri, e sulle tue risposte.
Il senso del mio discorso era proprio in questo: il riconoscere che l’arte, di base, è sicuramente qualcosa di superfluo rispetto ai problemi principali del vivere o del sopravvivere. Che può nascere ed essere riconosciuta solo una volta risolti (o messi da parte) i problemi primari. E che si esprime attraverso codici che devono essere condivisi, in qualche modo (a volte già dai contemporanei, se i codici sono facili; spesso dai posteri, se i codici sono più “difficili”).
In una situazione di difficoltà quale una catastrofe il problema di sopravvivere torna prepotentemente in primo piano e lo “spazio” per l’arte sicuramente si riduce, tanto più quanto il codice è di per sé difficile (lontano dal semplice figurativo in pittura, dalle scale tonali in musica, ecc.), ancor di più se chi deve leggerlo, condividerlo è già di per sé meno provvisto dei mezzi culturali di interpretazione: una zona rurale quale il Belice non era (e non è) Palermo o Catania, né Napoli, Roma, Milano, Parigi o New York. Di questo non si può non prendere atto.
Non seguii all’epoca le polemiche sul Grande Cretto (peraltro realizzato molti anni dopo il terremoto), poco in fondo ne so ancora oggi e confesso di non aver letto il libro della Susani, comunque non mi stupiscono affatto.
Credo che un problema tipico dell’arte contemporanea (che si avvita su codici sempre più complessi) sia proprio quello della sua destinazione. Se il destinatario, il principale fruitore di un’opera è l’abitante del luogo dove verrà installata c’è anche il rischio di assistere a scempi colossali. Non so ancora dire se fu giusto il commissionare a Burri (che pure stimo e ammiro come uno dei massimi artisti italiani del ‘900) un’opera destinata agli abitanti della Sicilia rurale. Eppure io considero il Cretto un’opera di estrema importanza.
Di sicuro non commissionerei mai a un Alberto Ghinzani la “ghigliottina” da installare sulla rotonda di Imbersago (te lo ricordi Miriam? me lo hai fatto conoscere tu).
Il fatto è che forse i veri destinatari non sono mai gli abitanti, quelli che quotidianamente si debbono trovare l’opera sotto il naso, ma i turisti che passano e che devono venire attratti da un nome famoso, da un’opera di cui si parla. L’arte è oggi sempre più merce di scambio, come tutto del resto in questa civiltà dei consumi e del mercato. E’un bene? E’un male?
Come sempre ho semplificato molto su una materia che necessita di ben altre riflessioni: si potrebbe parlare del ruolo delle avanguardie, della distanza tra artista e pubblico, sulle opportunità di fornire i codici di lettura dell’arte a chi non li possedesse, e su mille altre sfaccettature di tutta la faccenda. Ho cercato però nella mia sintesi il nocciolo del problema, a costo di dire ovvie banalità. E francamente non so neanche se l’ho colto.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 12:40 da Carlo S.


Per Giovanni,
anch’io considero le forme della ricostruzione sbagliate. Anche gravemente sbagliate. E anche la scelta di fare di Gibellina città d’arte, scelta di Ludovico Corrao, che allora ne era il sindaco, la trovo poco radicata. Quello che dicevo è che malgrado questo, le generazioni giovani stanno reinventando il territorio a partire da quello che hanno, è in questo modo lo trasformano, lo radicano.
Per Carlo,
è vero, il Cretto non aveva come interlocutori gli abitanti del Belice allora (anche se il terremoto era passato da un pezzo). Parlava alla comunità dell’arte, agli intellettuali. Eppure, questo ve lo dico perché non me lo aspettavo, mi ha stupito, parla oggi a più persone, a molti ragazzi nati a Gibellina, a pochi, forse a nessuno dei ragazzi nati a Montevago.
Ora vi devo salutare. Proverò a tornare domani mattina.
Grazie ancora.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 12:58 da carola susani


Inviterei tutti a leggere con attenzione cio’ che ha scritto poco sopra Giovanni: quella e’ la ”voce del terremoto”, non quella di uno che lo ha vissuto solo incidentalmente o ne ha sentito solo parlare.
Ringrazio la sig.ra Susani per avermi citato – a ragion veduta: infatti ho detto, nel mio primo commento, che perche’ l’arte sia accettata da una citta’ distrutta occorre prima o almeno contemporaneamente RICOSTRUIRLA PER BENE, con strade, centri sociali, servizi, ambulatori medici, fognature, lampioni, negozi e servizi vari. Ergo: se i soldi lo Stato ce li avesse – oltre che per fare quanto appena detto – ANCHE per le installazioni d’arte, ben vengano esse: aiuteranno i terremotati a vivere meglio nelle case nuove. Solo che, anche in quest’ultimo poco probabile caso, riguardo alla SCELTA DELLE OPERE io eviterei di metterci opere che ricordino il dramma del sisma: e’ pazzesco andare a piazzare un Cretto dove il cretto se lo sognano per trent’anni di notte tutti gli abitanti. O no?

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 13:17 da Sergio Sozi


P.S.
Parlo, ripeto, da persona che di terremoti ne ha vissuti ben due, sulla pelle: quelli umbri del 1982 e del 1997. E la terra mi ha tremato sotto i piedi fino a pochi anni fa. Altro che Cretti, signori miei!

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 13:21 da Sergio Sozi


@Io sono d’accordissimo con Sergio e Carlo. Forse non tutti si rendono conto del malgoverno imperante che regna in Sicilia e al Sud in generale. Come si fa a parlare d’arte, del Bello, a gente che deve risolvere quotidianamente esigenze primarie quali quelle di nutrirsi, vestirsi e avere un tetto dove dormire? Giovanni ha fatto un quadro estremamente realistico di ciò che è successo in quelle zone: burocrazia farraginosa, soldi che si disperdono in mille rivoli, approssimazione, incompetenza, disonestà. Ci sono paesi dell’entroterra siculo (non solo nel trapanese) che vivono in condizioni da Terzo Mondo: con l’acqua razionata, strade dissestate, servizi inesistenti. Lavoro neanche a parlarne. Questo fa sì che le intelligenze migliori preferiscano cercare fortuna altrove e nelle piazze rimangono coloro che preferiscono vivacchiare e accontentarsi di vivere con la pensione del nonno.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 13:37 da Salvo zappulla


@ Sergio
Grazie Sergio. So che hai compreso molto bene le mie parole ed il mio rammarico.

@ Carlo S.
Ti ricordi cosa mi hai scritto l’ultima volta?
Vedi Carlo S. è importante capire che quando un’ artista cerca la profondità del suo messaggio non volta le spalle all’arte e non caga da uccello presuntuoso dall’alto.
L’ambiente di rovina spirituale ed esistenziale con il quale un vero Artista oggi si confronta può indurlo a gesti sconsiderati come il suicidio che, se vogliamo, è un atto di rivolta contro il sistema.
Il problema consiste nel fatto che la superficialità con la quale NON si sostiene l’arte come valore dello spirito ma come manifestazione sempre più vicina alla merce, tradisce il valore dell’uomo, la faticosa ricerca, quel suo protedendersi come essere che cammina in verticale e lo immette in un paesaggio di rovina dove, come scrive Lucia, cerca invano di ricostruire sè stesso.
Il binomio arte-oggetti non risponde esattamente alle intime esigenze della sensibilità umana e questa non è catachesi, Carlo, ma riconoscere chiaramente che cosa ha procurato la sofferenza.
Guarda che questo discorso sull’arte lega molti anelli.
Rossella

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 13:43 da Rossella


d’accordo con voi, ma la domanda è: laddove è necessario ricostruire non lo si potrebbe fare tenendo conto “del bello”, cioè avvalendosi di canoni estetici gradevoli? anzi, aggiungo, l’esigenza della ri-costruzione non potrebbe essere sfruttata per evitare di riprodurre inguardabili schifezze architettoniche?
scusatemi, non voglio essere polemica.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 13:47 da luisa


E aggiungo. La foto di quel presidente della Regione che festeggiava con i cannoli la mezza sconfitta al processo per mafia, ha fatto ridere il mondo intero. Hanno dovuto rimuoverlo d’autorità, altrimenti sarebbe ancora lì attaccato alla poltrona. A quanto pare poi ci ha pensato il grande Silvio a portarlo a Roma, al sicuro. Questa è la nostra classe politica.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 14:13 da Salvo zappulla


Cara Rossella,
al di là di tutto io non ho mai detto che cercare la profondità del proprio messaggio sia un voltare le spalle all’arte. Anzi, sono proprio d’accordo con te: io non nego il valore della spiritualità nell’arte; il problema casomai è solo quello di capirsi bene sul cosa si intende per spiritualità: che per me è tutto ciò che concerne il nostro pensiero, qualcosa di interno a noi e non al di fuori o al di sopra di noi. Ma sono dettagli e per una volta che ci troviamo d’accordo non vorrei riaprire vecchie polemiche, dettate spesso solo da reciproca incomprensione: sappi solo che non amo definirmi un ateo; casomai un eretico.
Un saluto :-)

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 14:20 da Carlo S.


@ Carola Susani: ci manca sempre la Terra di Mezzo.
Tu scrivi: allo stato attuale non abbiamo davati un’altra idea di urbanistica. Hai TRISTEMENTE ragione. Il tema del costruire, dell’abitare è scomparso, purtroppo non se ne parla più, se non nelle Università (ma non so in che modo). Anche qui, dove abito io, ai piedi del Resegone si registra, soprattutto in questi ultimi anni, un aumento spropositato di cantieri: sono case, villette, palazzi costruiti a centinaia in ogni dove. Anche in quei luoghi, che la saggezza contadina, aveva nominato con precisione poetica: la Valle del Freddo, la Valle Buia. Caratteristica comune di questi nuovi fabbricati è lo scempio del terreno, della terra. Scavata in profondità spericolate, rimossa per ospitare i mega garages sotteranei. Non c’è cura, né sensibilità nemmeno per i luoghi soggetti a frane, l’ordine è costruire case che saranno abitate solo in parte. E nessuno fiata; non una voce che si alzi per indicare lo strazio. Sono occasioni di lavoro, di occupazione e di buoni affari…forse un po’ di “allucinata” utopia non guasterebbe.
:-)

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 14:23 da miriam ravasio


@ Carlo e Rossella:
abbiamo smarrito il senso del limite e nell’incertezza della direzione da prendere, ognuno dice la sua e nessuno parla per esperienza, perché la strada ci è nuova. Io penso che, oggi più che mai, sia necessario oltre che utile, ricorrere all’esperienza accantonando i principi. In questo modo ridaremmo all’arte la sua essenza, la sua vera natura, che è “creazione” che si avvale di una tecnica. Alla “Ghigliottina” di Imbersago io e Carlo ci siamo conosciuti; lei, nella sua orrendezza ambientale è ancora lì ed è probabile, come ha scritto Carola, che i giovani troveranno il modo di “rivestirla”: non ci si affeziona anche ad una macchia sul muro? Personalmente l’abbatterei, chiamando a raccolta artisti , critici e giovani studenti, organizzerei un evento culturale di grande pulsione e in quel contesto coinvolgerei i presenti nella distruzione.Una azione d’arte rivoluzionaria, che ridarrebbe a quel simbolo (la Ghigliottina) un diverso valore. Non censura di pensiero ma sviluppo.
Non so se sono stata chiara.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 14:44 da miriam ravasio


“E aggiungo. La foto di quel presidente della Regione che festeggiava con i cannoli la mezza sconfitta al processo per mafia, ha fatto ridere il mondo intero”., scrive Salvo Zappulla.
Ovidio Bompressi è uno di quelli condannati con sentenza passata in giudicato per l’omicidio del commissario Calabresi. Si è sempre proclamato innocente, avendo ovviamente il diritto di farlo, e fornì un alibi. “Quano uccisero Calabresi – disse – non ero a Milano ma a Livorno. Ci sono testimoni che possono confermare che io ero in un bar. La televisione diede la notizia dell’omicidio di Calabresi e io festeggiai offrendo da bere a tutti”.
L’Italia è uno strano Paese

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 15:17 da enrico gregori


Off Topic: sulle “incomprensioni” tra me e Rossella.
L’uso delle stesse parole spesso è fonte di equivoco, perchè le parole possono essere lette con significati diversi, specie se usate in contesti diversi. Ancora di più poi quando quel significato dato dall’altro lo si presume.
Faccio un esempio:
- se Berlusconi mi chiedesse: sei un comunista? io gli risponderei di sì, ed orgoglioso di esserlo;
- se me lo chiedesse Fidel Castro gli risponderei di no, e che non me lo sogno neppure;
-(se poi Fidèl me lo chiedesse dopo una settimana di reclusione nelle galere cubane e di fronte alla prospettiva di un patibolo, forse gli darei un’altra risposta ancora, ma questo è un altro discorso ancora).
Ecco, io credo che sia io che Rossella qualche volta siamo incappati in questo genere di equivoci.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 15:19 da Carlo S.


Alcune riflessioni. Anni fa, insieme a mia moglie, ho avuto la curiosità di visitare il Belice. Una bella mattina di ottobre siamo arrivati all’ingresso di Camporeale (il paese terremotato). Spento il motore della macchina siamo stati avvolti dal silenzio dei luoghi, dal rumore di persiane sbattute da un leggero venticello, dalla vista di una strada (forse la via principale) che conduceva ad una piazza.
Sembrava uno dei tanti paesi siciliani in procinto di svegliarsi, vedere bambini per strada pronti per la scuola, anziani in prossimità del bar del paese, donne in chiesa alla messa del mattino, il macellaio che alzava la saracinesca della propria bottega. E invece nulla di tutto questo; strade vuote, piazze deserte e, particolare sconvolgente, case, chiesa e botteghe in piedi le une accanto alle altre, ma senza tetti, senza coperture, senza più anima: un luogo “congelato” da un evento funesto, drammatico, sconvolgente: il terremoto.
Studiando per tanti anni ai piedi dell’Etna ci si abitua a convivere con il terremoto; si ha paura, ma passato il sisma si ricomincia e il pericolo si esorcizza.
A Camporeale invece il pericolo si era trasformato in danno, in dramma, in precarietà, in perdita di un “centro di gravità permanente”.
Questa sensazione, forte e sbalorditiva, ci ha accompagnato nella visita del paese abbandonato e nella memoria di quel giorno.
Successivamente abbiamo ripreso il cammino e siamo arrivati a Gibellina nuova, altra esperienza emotiva fortissima.
Per la prima volta ci trovavamo dentro un grande progetto, una “città ideale” come quelle pensate nel Rinascimento, una galleria d’arte e un museo nel territorio e non del territorio.
Un’operazione ardita, criticata, stigmatizzata, decontestualizzata, surreale, visionaria, ma palpabile, vissuta dagli abitanti con timore, con scetticismo, con la speranza di ricreare un vissuto umano andato perduto e, per noi “viaggiatori”, con lo stupore e la meraviglia di chi ad ogni angolo, ad ogni incrocio, in ogni piazza assiste e partecipa ad una armonia di forme e di colori, creazioni di grandi artisti in una rivisitazione della propria idea del terremoto e della speranza di un futuro migliore.
Gibellina nuova come la Fiumara, come il barocco di Modica, Noto e Ragusa Ibla, come Montefioralle in Chianti, Buonconvento e Pienza a Siena, Spello in Umbria, Montevarchi e San Sepolcro: musei nel territorio, vissuti dalla gente.
Ma questa è una riflessione da viaggiatore, attratto da un senso estetico della vita, delle persone, dei luoghi.
La storia di Gibellina, vecchia e nuova, e del Belice ci racconta di una notte d’inverno del ‘68, quando all’improvviso la terra cominciò a tremare, a riempire d’angoscia giovani e vecchi, ad amareggiare le speranze di un’intera comunità. L’almanacco dice che il terremoto del Belice precede di poco la rivolta studentesca ; ma il primo è attualità il seconto è già storia.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 16:24 da arenella


@ Tutti i lettori.
Durante le mie ricerche mi sono chiesto sempre chi furono i progettisti del mio Nuovo Paese e con quali criteri furono scelti e da quali politici.
Sono quindi finito su un sito di architettura in cui i conduttori del sito avevano inserito alcune foto di opere di importanti architetti e chiedevano di valutere il “genius loci” e cioè la realizzazione di un’opera nel contesto del luogo dove deve sorgere.
Ho quindi fatto un commento e da allora ne ho fatto diversi che sono stati apprezzati molto.
Vi invito quindi qualora volete approfondire il discorso e leggerli a inserire nel motore di ricerca le parole “Terremotato cronico” o andare sul sito http:\\architettura.portale.forum.
Se si vuol considerare l’architettura come arte ritengo che il metro di paragone non debba essere l’estetica ma la funzionalità.
Quanti di Voi vivete in una casa comoda?
Molti di voi sicuramente vivono in appartamenti belli a vedersi ma vuoi per il condominio, vuoi che non c’è uno sgabuzzino per il cambio stagione, vuoi perchè la cucina…..ectt e di fatto ognuno trova sempre nella propria cas qualche punto debole da cambiare e qualche punto di forza di cui vantarsi.
Ma quanti famosi architetti hanno vissuto nelle case da loro ideate?
E quanti architetti si sono mai chiesti quanto costa modificare le loro opere?
Personalmente conosco un famoso architetto di Palermo che i suoi amici vantano e si contendono a suon di migliaia di euro.
Lavorando in varie opere di questo architetto come operaio giudico schifose le sue opere.
Crea sempre stanze piccole e minimali tipo IKEA ma in versione ridotta.
Fino a quando non si mettono i mobili quelle case sembrano normali ma dopo vengono i nodi al pettine.
I proprietari di quelle case che abbiamo fatto neanche si rendono conto dei disagi perchè hanno le cameriere.
Ma cosa ve ne pare di un appartamento di 400 mq in centro di Palermo con 4 saloni da 40 mq, stanze da letto appena sufficienti e 4 bagni il cui più grande 2metri X 2metri e senza idromassaggio, sauna o altre comodità del genere e la lavatrice situata fuori all’aperto esposta alla pioggia e all’umidità?
E con tutti quei saloni da festa l’unica cucina dell’appartamento di appena 6mq utili?
Di ogni opera bisogna conoscere l’autore ma del nostro Centro Nuovo nessuno lo sà.
Forse l’autore non la giudicava degna di essere “firmata”?

Da una chiaccherata con l’ex sindaco Amoroso sono venuto a sapere che lui era contrario alla realizzazione del nuovo centro in Contrada Mandrianuova ma poichè le decisione venivano prese a Roma non potè fare nulla.
Però pare che la scelta di quel sito non fu fatta da geologi o altri esperti ma da un politico locale della DC e anche dal senatore Corrao allora sindaco di Gibellina.
Però a pochi centinaia di metri dalla mia casa vi è un lago che viene tuttora chiamato “lago di Corrao” che mi fa pensare che forse allora i terreni su cui ora sorge il nuovo centro di Camporeale erano di proprietà del sig. Corrao.
Visto che i vecchi raccontano che questi terreni non erano coltivabili a causa dei ristagni di acqua che facevano marcire il grano coltivato penso che se io fossi stato al suo posto e avessi avuto abbastanza soldi avrei comprato quei terreni a basso prezzo e poi me li sarei fatti pagare a caro prezzo dallo Stato per farci ricostruire le case.
Penso male o qualche lettore mi può confermare se le cose sono andate così?

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 16:39 da Giovanni


@a proposito di “genius loci”, ricordo che il rapporto fra anima e architettura é stato brillantemente chiarito dall’analista-filosofo James Hillman, la prima decade di ottobre, a Siracusa. Saluti. Lucia

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 18:05 da Lucia Arsì


@Caro Giovanni. Quando io faccio riferimento alla mala politica, o cito l’ex presidente della Regione Sicilia, non vado fuori tema rispetto al post in questione poichè tutto è legato da un filo invisibile, nero e macabro come la coscienza di tanti piccoli uomini siciliani. In genere, da noi, quando si discutono i Piani Regolatori di sviluppo urbanistico vanno in crisi le amministrazioni pubbliche, cadono addirittura. Troppi interessi gravitano attorno. Terreni degli amici da rendere edificabili ( con immediato valore che va alle stelle del suddetto terreno). Terreni dei nemici da destinare alle opere pubbliche ( con immediato deprezzamento del suddetto terreno, requisito a valore di Legge). E chi se ne fotte dell’Arte? dell’Estetica? del verde pubblico ridotto ai minimi termini? La grana è grana. Da noi per approvare un piano regolatore passano vent’anni, volano le schioppettate. Le strade d’ingresso del paese, che dovrebbero essere larghe e possibilmente a due corsie, vengono ridotte ai minimi termini giacchè ogni metro rubato ad esse, è buono per gli appartamenti da costruire a peso d’oro. Mi fermo qui, se no stasera mi arrestano (tra l’altro lavoro al Comune).

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 18:58 da Salvo zappulla


Caro Giovanni, ho letto i tuoi interventi e percepito la tua sconsolazione, ma anche una certa dolcissima ironia … quando invece ci vorrebbero i picconi (vero?); ma così va il mondo.
Concordo con le tue osservazioni a cui non posso aggiungere oltre le cose già scritte. A proposito del tuo ultimo post, posso consigliarti, un paio di letture.
– Architetti maledetti di Tom Wolfe
– Architettura e felicità di Alain de Botton
ciao, miriam

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 19:18 da miriam ravasio


@Sergio
Caro Sergio, non mi aspettavo una risposta accondiscendente alla mia.

Io l’ho analizzato come uomo, mentre tu come poeta e intellettuale.
L’intellettualità può essere un bene come anche un male; dipende sempre dalle qualità umane che l’individuo possiede e sostiene.
Allora D’Annunzio fece furore, perchè dimostrò di essere un intellettuale creativo, fiero e coraggioso, qualità che rispecchiavano le necessità dell’epoca.
Fu senza dubbio un giovane gagliardo ed avventuriero, ma lo fece più per soddisfare il proprio io. Troppo poco per me, anche se la sua poesia mi attirasse per la sua espressione viva, forte e impetuosa, così come lo erano i suoi intenti; o sbaglio?
Cari saluti.
Lorenzo

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 19:28 da lorenzerrimo


@ Miriam
mi inserisco sulla tua risposta rivolta a Sergio: Negli ospedali e nei cimiteri ci vogliamo più bene.
Ritengo che sia così, perché davanti a queste situazioni svanisce l’effetto della concorrenza. Il malato o il morto non possono più concorrere con noi. Ritengo sostenibile che anche nell’amore esista una forma,anche se debole, della concorrenza.
Siamo sinceri: un vero amore, quello che annulla ogni ostacolo e timore, è veramente difficile da viverlo pienamente, così che rimane sempre un riferimento forte verso la meta da proporsi.
Non avendo l’occasione di acquisire e leggere il libro della Susani, non posso dire nulla in questione. Mi sono quindi limitato a trattare brevemente il tema dal punto di vista umano, punteggiando l’aspetto educativo sull’uomo e la società.
Ti faccio i miei complimenti per la tua premura nel sostenere con tanta ricchezza di pensieri, oltre che pazienza e costanza, questo interessante tema.
Cari saluti.
Lorenzo

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 19:58 da lorenzerrimo


L’arte per me non sarà mai una “cacatina di uccello presuntuoso” ma espressioni di valori trascendenti nelle varie differenze d’epoche con le rispettive religioni,con la realtà che diventa politica,i con gli deali ai quali l’artista anela,o con l’aderire a una società materialistica diventandone servo o signore di se stesso.Scegliendo di restare “servo”,l’artista assolve a ciò che era per l’artista primitivo cambiando un genere di paura per un altro.Ma decidendo di “restare signore di se stesso”,l’artista non può esimersi della responsabilità di sollevare i problemi in base alla propria sensibilità e persino senza l’aiuto di emozioni collettive e di ideali tradizionali.E il valore che ne esce,è un valore reale,indipendentemente dai valori estetici formali,comuni ad altri generi di arte,giacchè tutto scaturisce dal suo subconscio e che spinge ad uscire per comunicare oltre che il “sè” misterioso e insondabile,anche un senso di di quei valori posti sollevando i problemi che la collettività accetterà o respingerà ma non resterà mai indifferente.La tematica sacrale o religiosa ha stimolato molti artisti assurgendoli a vera grandezza (Beato Angelico-Pinturicchio-Raffaello-Correggio-Caravaggio-Guido Reni ecc) ; spetterà comunque a coloro che negano un rapporto necessario fra religionee arte scoprire una forma che equivalga al sentimento della comunità e sia capace di assicurare una continuità storica anche all’arte non relgiosa.Poi c’è l’arte creata del popolo,semplice e schietta, detta anche “arte popolare”anche se poco riconosciuta tra i critici.Ma nel suo conservatorismo ( perchè molti sono i motivi naturalistiici,,decorazioni,metodi di tessitura,disegni geometrici che ricalcano i tappetiricami,lavori in legno ecc..),resta sempre un qualcosa di gioioso anzicchè riflettere una tetra realtà.E questo non è poco.Dentro c’è tutto un universo.E un universo che non sarà mai paragonato alla “cacca presuntuosa d’uccello”!.Aleno per me.
Non ho letto il libro ma quanto sopra descritto da Massimo,sarà motivo valido per farlo.Carola

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 20:02 da Carola


Ho riletto con calma i vari interventi su questo libro e voglio farvi notare alcune cose.
Premetto che non sono un letterato anche se ritengo di avere una buona cultura generale in quasi tutte le materie.
Ho letto alcune pagine del famoso libro di Giorgio Faletti “IO UCCIDO” e l’ho subito gettato perchè non sono riuscito a tenere il filo logico di cosa voleva dire l’autore.
Tutti quei giri di parole e di descrizione poetiche che per voi appassionate sono gioia per me era carta sprecata.
Oggi si ha sempre meno tempo per rilassarsi e sprecare mezzora di tempo solo per leggere 10 pagine che descrivono poeticamente il paesaggio dove inizia la storia lo considero un delitto.
Sembrava come leggere le Gazzette Ufficiali quando con tutto quel burocratese forense che dovrebbe spiegare senza possibilità di errore cosa si deve e cosa non si deve fare affinchè l’interessato ne abbia scienza.
Solo che poi in ogni gazzetta trovo decine di Errata Corrige e richiesta di pareri o che la tal frase è da intendersi……. segno che poi tanta chiaramente descritta non era.
Sono una persona pratica e detesto leggere troppi orpelli e capoversi linguistici.
Il vostro continuo inserire parole in latino, citazioni filosofiche e termini poetici mi sembra come se ostentate la vostra cultura come certe borghesi arrichite ostentano i loro gioielli.
Un noto modo di dire siciliano recita: U pisciaru soccu avi abbannia.
In italiano si traduce in: Il pescivendolo reclamizza quello che ha.
Non dovete prenderla a male ma pensate anche a chi come non capita su questo forum per il piacere della lettura ma per esigenze pratiche come la mia ricerca sul terremoto.
Quando frequentavo ragioneria la mia insegnante di lettere mi proibiì di studiare sui Bignami e mi obbligava a leggere il libro di testo.
Solo che però i Bignami dicevano le stesse cose del testo solo che lo dicevano in maniera ridotta e semplificata.
Francamento io non giudico i libri dal numero di pagine ma in base all’argomento e nel modo in cui l’autore me ne rende partecipe.

Dall’intervento di Carola di stamattina

“Per anni le “piazze” della ricostruzione spesso quadrate e fredde, casuali all’apparenza, non solo a Gibellina, ma a Montevago e negli altri paesi, non sono state riconosciute. Ma succede che procedendo le generazioni, quello che per i vecchi è solo niente, diventi la condizione della vita di chi nasce, probabilmente questi luoghi così astratti stanno prendendo vita, cambiando di segno perché i ragazzi ci si stanno radicando.”

Confermo pienamente la sensazione rilevata dall’autrice e sul come i giovani stanno piano piano usando i nuovi strumenti tecnologici per godersi le desolate e enormi piazze del mio centro nuovo.
Piazza delle mimose è la più grande piazza di Camporeale.
Il suo scopo è molteplice:
All’alba fa da stazione degli autobus che portano i ragazzi delle scuole superiori nei paesi vicini e poi accoglie i pullman locali che portano i ragazzi delle medie.
D’estate serve per concerti e feste.
Fino ad alcuni anni fa non serviva a niente durante gli altri orari.
Ma adesso la tecnologia permette ai giovani di usarla anche la sera fino a tarda ora.
Capita soprattutto la sera tardi di domenica di vedere alcune auto ferme in quella piazza.
Le prime volte passando di là com mia moglie e mia figlia in auto avevo pensato che fossero coppiette in cerca di intimità ma una sera uno di quei giovani su quelle auto mi telefonò per chiedermi una cosa stranissima per quell’ora: Alcuni dvd vergini.
Seppi così che alcune coppie di amici si ritrovano in quel luogo la sera non per cose immorali ma per stare insieme e scambiarsi tra loro file mp3 e dvd e li vedono e sentono in macchina.
Basta un portatile e un alimentatore da accendino e chiavette bluetooth e telefonini per scambiarseli.
Fanno così per stare in compagnia e socializzare perchè non abbiamo spazi alternativi o strutture sociali.
Non credo che il progettista pensasse negli anni 70 questo uso delle sue piazze.
Basterebbe pochissimo per farle vivere quelle piazze tipo:
Un chiosco di bibite o minibar anche ambulante.
Un hot spot wi-fi come quelli per accedere a internet dagli aeroporti.
Alcune panchine per sedersi e alcune piante per farci fare la pipì ai cani .

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 20:32 da Giovanni


C’è una gag di Aldo Giovanni e Giacomo che vi consiglio di vedere ma non so se youtube ci sia.
Uno di essi porta gli altri due a vedere una mostra di arte moderna e spiega il senso delle opere presenti.
Lui spiega perchè la sedia è montata male e i concetti della smaterilizzazione degli oggetti nell’arte .
Aldo dice di aver compreso il concetto e scambia un estintore per opera d’arte.
Poi scambiano il celebre quadro di Fontana della tela tagliata per un atto di vandalismo.
Giovanni dice che l’autore si chiama Fontana e che ha 80 anni passati e loro esclamano ” un demente!”.
Vi consiglio di vederlo per rivedere le vostre idee sull’arte moderna.
E sinceramente non capisco cosa spinge certi miliardari a spendere cifre astronomiche per acquistare certe opere assurde di “arte Moderna”.
Certi scarabocchi di mia figlia fatti all’asilo anni fa sono migliori delle opere di Picasso ma nessuno mi darebbe un centesimo per quei fogli.
Forse l’arte non è nata come opera da vedere per la sua bellezza ma come opera didattica.
Forse le pitture rupestri servivano a descrivere le prede e dove colpirle per ucciderle.
Per segnare i confini si creavano pietre dalle forme particolari per far capire che quella pietra era stata messa lì di proposito e non era una pietra naturale.
Poi si andò avanti così creando disegni per descrivere il paesaggio, dove si era tenuta una battaglia, gli dei che……….
Si continuò a scolpire pietre per i confini, colonne per rendere più visibile la statua del re, per sostenere altre pietr messe orizzontali ecc……
Credo quindi che l’arte sia nata perchè occorreva una cosa per descrivere la vita e il mondo.
E si continuò a disegnare e a scolpire la realtà fino a quando l’alcool e le droghe comparvero e sotto i loro effetti alcuni artisti si misero a creare opere senza essere nel pieno possesso delle loro facoltà mentali.
Successe poi che alcuni artisti cercarono di creare cose ispirandosi a artisti che avevano creato sotto l’effetto di sostanze stupefacenti opere strane.
Purtroppo il nostro cervello ha un grave difetto:
Quando gli occhi gli mandano l’immagine di quello che vede comincia ad analizzarla e da cercare di dare un senso all’imagine data.
Foglie, cibo e prede inquadrate vengono analizzate dal nostro cervello e ciò ci permette di nutrirci.
Purtoppo questo meccanismo cerca anche di dare un senso anche a immagini strane:
uno schizzo di terra viene a volte analizzato male e riconosciuto come il volto di un uomo messo in un certo modo.
Questo tilt momentaneo ci porta a volta a ingerire cose strane ritenute buone e a spendere cifre astronomiche per schizzi di colore messe a casaccio su una tela da un uomo leggermente dopato di cannabis o lsd.
Forse la molla che anima i collezzionisti d’arte è la consapevolezza che certi stati mentali sono così confusionari da essere matematicamente irrepetibili e quindi spendono quelle cifre per aggiudicarsi il pezzo unico e irrepetibile.
O forse li spinge la voglia di far sapere al mondo che loro sono così ricchi da poter buttare via quei soldi anche per quelle schifezze?
E poi come diceva una pubblicità di qualche anno fà: Anche le opere di Leonardo sono in fondo solo quattro assi inchiodate.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 22:06 da Giovanni


Caro Giovanni,
se vogliamo affrontare il discorso dell’arte separatamente a quello del terremoto, posso dire che a volte i prodotti dell’ingegno e della sensibilita’ umana sono difficili da affrontare e devono restare tali: non tutto e’ per tutti – per esempio il pediatra sa la pediatria, e’ uno specialista nel suo campo, proprio come il letterato che ha studiato, appunto, le Lettere. A ciascuno il suo. Dunque secondo me deve esistere ”Il nome della rosa” come anche il bestseller di Moccia – ma il Moccia di turno non deve scalzare a pedate nei fondelli Umberto Eco, proprio no, altrimenti si uccide la bravura, l’eccellenza, per favorire la mediocrita’ massificante.
Cio’ premesso, diro’ che amo gli scrittori complicati e chiari allo stesso tempo. Questa e’ la bravura massima, a mio avviso. Cosi’ vedo Orazio e Catullo, Eco e Borges, Yourcenar e Italo Calvino (fino agli anni ‘60) e una manciata di altri.
Saluti Cari
Sergio Sozi

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 22:25 da Sergio Sozi


Caro Lorenzo,
naturalmente. Naturalmente.
Ciao caro, ti voglio bene
Sergio

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 22:27 da Sergio Sozi


P.S.
Sono uno che se avesse una fame terribile, con l’ultimo mezzo euro in tasca si comprerebbe un libro piuttosto che mezzo chilo di patate. Ma non sempre si deve applicare ad altri una legge che si applica a se stessi: nel caso dei terremoti italiani, le porcate sono state troppe… e mica fatte per sublimare il sisma in Cretto burresco!

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 22:30 da Sergio Sozi


@Minchia, Sergio, parli come un libro stampato. Anche a me pareva che Giovanni si stesse allargando troppo. In fondo questo rimane un sito letterario, mica un sito dedicato ai terremoti, e se interviene gente che ha studiato, si diletta a fare citazioni, sfoggio di cultura, mi pare che ne abbia pieno diritto.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 23:01 da Salvo zappulla


Vi ringrazio tutti per i nuovi commenti. Credo che ne sia venuto fuori un dibattito molto interessante.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 23:11 da Massimo Maugeri


Cara Carola, grazie per essere intervenuta.
Scrivi: “Chiederò a Laterza di mandare una copia in ogni biblioteca. Forse scenderò a dicembre per presentare il libro a Partanna e a Vita. Se Massimo me lo permette, potrei darne notizia qui”.

Ma certo! Anzi, non solo puoi, ma devi darci notizia.
Facci sapere quando andrai a Partanna e a Vita. E tienici aggiornati suoi tuoi “spostamenti letterari” in generale, se ti va.
Bella l’idea di inviare i libri in biblioteca. In ogni caso, per chi fosse particolarmente interessato (e se lo può permettere) ricordo che il libro costa solo 9 euro.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 23:17 da Massimo Maugeri


Un’ulteriore domanda per te, Carola (che non riguarda questo libro).
A cosa stai lavorando, attualmente? Quali sono i tuoi progetti letterari?
Rispondi solo se puoi, naturalmente.
Sono curioso.
:)

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 23:19 da Massimo Maugeri


@Giovanni:
grazie per questa tua lezione sulle origini dell’arte. Forse per davvero gli uomini di Lascaux dipinsero quei magnifici animali solo per conoscerli e poterli colpire con precisione. Ma in quel trionfo della natura inserirono anche la figura umana, quasi un ideogramma , che forse stava a significare la fine di un’era, quella animale e l’inizio di una civiltà, quella dell’uomo.
Noi ci troviamo esattamente come gli uomini di Lascaux, fra una fine ed un inizio; la civiltà contadina ( o della materia ,lo sviluppo industriale ne è parte) che durava da diecimila anni è alla sua fine e ora ne stiamo già vivendo un’altra tutta nuova e da scoprire, è la civiltà immateriale. Quella dei mercati immateriali che negli scossoni e scombussolamenti borsistici si sta già presentando spaventandoci un po’. L’arte, che si riconosce quando a distanza di tempo ci offre chiavi di lettura, lo aveva anticipato, da decenni. Basta pensare a Piero Manzoni che con le sue provocazioni, realizzate ben prima del 1968, ci aveva già detto tutto. Potevamo fermarci lì e riflettere, invece i sistemi (leggi quella gran massa di soldi che si scambiano i collezionisti) si sono impadroniti del linguaggio investendoci mode e tendenze.
Giovanni, cliccando sul tuo nome non si apre nessun sito, come mai?

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 23:21 da miriam ravasio


@ Giovanni
Ti dò un caloroso benvenuto, qui a Letteratitudine.
Grazie per essere intervenuto in maniera così sentita e per averci fatto vedere la situazione dal tuo punto di vista (per molti versi più che condivisibile).
Ti faccio i migliori auguri per la tua ricerca. E spero che, nel contesto di questo dibattito, abbia potuto trovare riferimenti utili.
Come ti è già stato fatto notare questo è un sito letterario. Dunque riferimenti letterari, citazioni, lirismi e quant’altro non solo sono ammessi ma – per quanto mi riguarda – auspicabili.
Del resto, se passi su un blog specializzato sulla pesca sarà normale imbattersi in lenze, ami, esche e canne… nessun riferimento a droghe, eh:)
In ogni caso torna pure quando vuoi, caro Giovanni.
E sentiti a casa.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 23:27 da Massimo Maugeri


Scusate se non “interagisco” con ciascuno di voi, ma è stata una giornata particolarmente dura.
Ringraziamenti speciali a Miriam.

Postato lunedì, 3 novembre 2008 alle 23:28 da Massimo Maugeri


Grazie di avermi segnalato che il link al mio sito non funziona e ho capito perche.
Avevo inserito HTTP:\\TE……. INVECE DI HTTP://TERREMOTATI.BLOG.COM.
Ho corretto adesso l’indirizzo e spero che adesso funzioni.

Ragazzi non scaldatevi troppo se vi ho chiesto di ridurre i termini più forbiti per chi come è diciamo “dummies”.
E poi grazie a internet quando leggo una parola a me sconosciuta la copio nella riga di Google e vedo cosa mi trova.
Qualche settimana ho dovuto aiutare mio nipote a fare una ricerca sulla oligarchia.
Wikipedia mi ha trovato oltre la descrizione della parola oligarchia anche molti link a siti di filosofia che mi sono riletto poi piacevolmente con calma dopo.
Mi piace leggere per imparare ma leggere solo per tenere occupato il cervello a decifrare righe senza utilità non fa per me.
Quando ho incontrato il termine genius loci ho fatto lo stesso e ho letto varie cose collegate al termine e al contesto dove si usa.
Perchè non si può scrivere un romanzo senza inserire decine e decine di righe di contorno ?
Io ho letto molto prima dei 20 anni molte opere anche importanti perchè anche a mia madre piaceva leggere e si era abbonata a selezione del Readers Digest che oltre alla rivista le mandava spesso libri e romanzi anche importanti.
Forse erano edizione condensate che per voi sono discutibili ma non penso che stravolgevano il senso dell’opera.
Ricordo con piacere di aver letto un opera intitolata “Dio e mr. Gomez” che trattava con candore della fede in Dio di una umile persona.
Ho letto anche “La sbandata” di Jackie Collins sorella della celebre attrice Joan, centinaia di racconti della serie Urania, racconti di Isaac Asimov, di Agata Christies e della serie di Laila.
Ho letto anni fa anche un libro intitolato “Ofelia impara a nuotare” che affrontava il discutibile stile di vita di una donna molto emancipata e disnibita.
Ho desiderio di leggere qualche opera di Tiziano Terenzani (non sono sicuro che si chiami così, quell’autore che scriveva di filosofia orientale) di cui giorni fa ho visto un documentario che mi ha incuriosito molto.
Per motivi di lavoro mi alzo alle 5 di mattina per aiutare mia moglie che va a lavorare a quell’ora ma poi resto fino alle 7.30 a vedere la tv o al computer aspettando di preparare mia figlia per la scuola e poi vado a lavorare.
Mi piace vedere programmi culturali ma non capisco perchè li trasmettono in orari assurdi per il 90% delle persone.
Giorni fa ho visto un famoso giornalista e scrittore tedesco che ha rifiutato un premio che gli avevano dato in diretta tv.
Non solo ha rifiutato il premio ma ha pure insultato il sistema televisivo tedesco perchè negli ultimi anni stava riducendo le trasmissioni culturali a favore di programmi stupidi tipo Grande Fratello e altre schifezze simili.
Come purtroppo sta succedendo da noi sia in Rai che in tv private.
Quando andavo alle medie iniziò la serie tv di Quark che veniva trasmesso nel primo pomeriggio e io potevo seguirlo.
Quando non capivo qualcosa chiedevo dopo ai professori.
Il giorno dell’esame il professore di tecnica aveva parlato di me al presidente della commissione che mi chiese se volevo rispondere a domande extra programma scolastico.
Sostenni il mio esame di licenza media rispondendo a domande di scissione e fissione nucleare che avevo seguito su QUARK.
Ora invece questi programmi sono in seconda serata e i giovani non possono seguirli.
Vi comunico anche che il mio Comune ha trasferito la biblioteca dal Palazzo del Principe dove aveva una sedie ampia e con sale di lettura in un altro posto più piccolo per farci al suo posto l’Enoteca Comunale.
Incredibile ma vero.
Hanno relegato la cultura in uno sgabuzzino per tenere quattro celle frigorifere accese notte e giorno senza che nessuno vada a vederle.
Ci si lamenta poi della crisi dell’editoria ma l’editoria cosa fà per adeguarsi ai tempi?
Perchè debbo comprare un romanzo oggi in media sui 20 euro quando poi mesi dopo lo posso comprare a pochi euro ?
E non parliamo poi dei testi scolastici a prezzi iper gonfiati.
Visto poi che oggi sicuramente tutti i libri vengono stampati in tipografie da file .pdf o comunque du computer perchè non vendere l’opera esclusivamente su cd o dvd e sarà poi l’utente a stamparselo quando e se gli serve.
Riduzione di costi e salvataggio di alberi e ambiente.
Personalmente io mi sono letto alcuni testi tecnici di informatica senza averli mai stampati (Assembler Motorola 68000!!!).
Io non ho manuale d’uso del mio Macintosh ma lo consulto in forma elettronica e sempre aggiornata online.
Vanno adeguati i mezzi ai mutati stili di vita delle persone.

Postato martedì, 4 novembre 2008 alle 06:58 da Giovanni


Tanto per cambiare in questo momento su Rai EDU1 documentario su Fermi, fisica e esplorazione dello spazio.
Ma a quest’ora i ragazzi non stanno preparandosi per andare a scuola?

Postato martedì, 4 novembre 2008 alle 07:10 da Giovanni


Ragazzi vi segnalo un’altra chicca.
Ho trovato un sito che cerca di far conoscere il Terremoto invisibile.
Nel 1990 la zona tra Siracusa e Augusta e Priolo fu colpita da un grave sisma.
Pare però che tg e giornali non hanno mai divulgato la notizia.
E’ come se ci fosse un tentativo di nascondere al mondo quel sisma.
Cosa succederebbe se si sapesse che l’area industriale più pericolosa d’Italia, già giudicata ad alto rischio per la presenza di raffinerie e industrie chimiche stava per esplodere?
E chi investirebbe più caspitali in quella zona?
Il sito che cerca di far conoscere questa storia è: http://www.terremotodeisilenzi.it

Postato martedì, 4 novembre 2008 alle 07:58 da Giovanni


Errata corrige
Ho digitato un puntino di troppo nel titolo del mio blog nel commento precedente.
L’indirizzo giusto é:
http://terremotati.blog.com

Non digitate www perchè altrimenti non viene trovato.

Ho letto una biografia dell’autrice e ho saputo che lei si occupa d’arte.
Penso dunque che lei abbia scritto il libro ponendo l’accento sugli effetti del sisma sul patrimonio artistico della zona.
Io invece cerco o vorrei realizzare qualcosa che svegli le amministrazioni a terminare le opere di ricostruzioni e magari facciano una legge che stabilisca quanto tempo massimo una persona vittima di questi eventi naturali drammatici debba essere senzatetto.
Penso quindi che l’opera non vada verso le mie esigenze ma sia ad uso e consumo di un altro target di lettori ma spero di sbagliarmi.
Comunque anch’io lo leggerò al più presto.
P.S
Come Cristo si è fermato ad Eboli la Cultura si ferma a Palermo.
Non vi sono in Paese librerie e debbo scendere a Palermo per conprarlo.
E anche a Palermo le librerie più fornite sono in zone centrali tipo Feltrinelli in via Maqueda dove trovare un posteggio sembra un terno al lotto.

Postato martedì, 4 novembre 2008 alle 10:20 da Giovanni


Sì, è vero, il fatto è che l’arte quasi mai parla davvero a tutti, ma di volta in volta sceglie i suoi interlocutori. Capita anche a me. Quando scrivo di narrativa la mia opera ha una densità speciale. C’è una ragione: devo riuscire a far capire delle ambiguità, delle sfumature che sono nel personaggio, perciò le frasi spesso hanno più di un significato, vanno lette più volte. Se descrivo un paesaggio mi serve al minimo a dare l’atmosfera, ma a volte addirittura ha un ruolo nella storia perché è un paesaggio deformato dallo sguardo di un personaggio, mi parla di lui. Capisco che quando scrivo così non scrivo per molti, ma per persone già addestrate alla scrittura letteraria, che hanno prenete una tradizione e possono percepire le rotture di quella tradizione. A volte invece, per esempio quando scrivo sui giornali, la penna è più fluida, la scrittura è più aperta, mi permetto un uso più disinvolto di luoghi comuni, di cose che io e i miei lettori sanno già. Mi permetto solo qualche piccola sorpresa. Quanto a Gibellina, l’impressione così sconcertante che fa, dipende secondo me dal fatto che è come se le opere fossero cadute in un posto sbagliato. Come se coinvolte nel progetto utopico fossero state poche persone e le altre distrattamente e violentemente escluse. Io credo che l’arte sia un bisogno primario, come respirare, ma che debba essere una relazione. Forse soltanto oggi il Grande Cretto sta diventando quello che doveva essere all’inizio, un’opera che parla anche a chi abita a Gibellina, ma è vero che parla a chi non era ancora nato nel ‘68, che arriva nella storia anche lui come un viandante.
@ Massimo
Ho appena finito un libro a quattro mani con Elena Stancanelli, un libro sulla maternità pro e contro che uscirà in primavera per Feltrinelli. Sto meditando su un nuovo romanzo, incrociando le dita.
Vi ringrazio molto per il bel dibattito, ringrazio soprattutto Miriam. Vi verrò a trovare.

Postato martedì, 4 novembre 2008 alle 10:41 da carola susani


Amici ho riflettuto su quanto avete scritto.
Per un pò lascio l’albero che vi tanto piaciuto (ma poi lo riprendo) che insieme a SALVO, a GIOVANNI ed a tutti coloro che amano l’ambiente e la natura vorrebbero vederlo crescere e fiorire senza essere deturpato dall’insensatezza dei profitti, per rivolgere la mia attenzione ad un filosofo che tutti conosciamo per la sua grandezza: Platone.
Platone e il Cosmo, termine che, tradotto, compare con due significati, il primo ordine, il secondo ornamento (soprattutto ornamento femminile, abbellimento, bardatura di un cavallo, da cui il termine cosmetica).
Arrivo al dunque: Platone, nel suo ideale filosofico e nel concetto di Cosmo, unisce cielo e terra, dei e uomini in un tutto mediante regole etiche quali la comunanza, l’amicizia, la saggezza e la giustizia,
Appare chiaro che la bellezza che appaga lo spirito e la conseguente espressione della forma, ciao LUISA, avrà un senso se sostenuta dai contenuti, altrimenti il risultato sarà un maschera, un posticcio, non un viso “reale” abbellito e rimesso a posto dalla cosmetica.
Su questa dinamica i contenuti entreranno nel profondo quanto più avranno lavorato coscientemente (compreso il materiale di conoscenza culturale) siano essi riferiti al senso civico, all’ etica, alla morale, ai valori profondi della propria esistenza, ciao CARLO, o alla trascendenza testimoniata nelle opere di grandi pittori citati da CAROLA.
Tutti insieme concordiamo sul fatto che il valore dell’opera d’arte si rapporta al suo prescindere dal tempo, alla sua immortalità, affidandole compiti molto importanti; “culturalmente” testimonia i periodi storici ed il loro grado di civiltà, “esistenzialmente” conduce l’uomo ad una riflessione profonda su sè stesso, al senso della propria esistenza.
Scendendo un pò, concordiamo anche nella valutazione di un vestito dalle tinte eleganti, gli accessori da abbinare, una bellissima aiuola ricolma di fiori dalle mille gradazioni, oggetti che decorano esprimono il gusto, ma la moda, la botanica, l’artigianato sono le meravigliose foglioline dell’albero, cadono e si rinnovano ad ogni stagione….
CIAO
Rossella

Postato martedì, 4 novembre 2008 alle 11:40 da Rossella


@Carola Susani
Scrivevo ieri: “Non so ancora dire se fu giusto il commissionare a Burri (che pure stimo e ammiro come uno dei massimi artisti italiani del ‘900) un’opera destinata agli abitanti della Sicilia rurale. Eppure io considero il Cretto un’opera di estrema importanza.”
Oggi tu dici: “Forse soltanto oggi il Grande Cretto sta diventando quello che doveva essere all’inizio, un’opera che parla anche a chi abita a Gibellina, ma è vero che parla a chi non era ancora nato nel ‘68, che arriva nella storia anche lui come un viandante”.
Da un lato un pò la cosa mi conforta. La mia domanda resta comunque ancora aperta (fu giusto commissionare a Burri l’opera? Fu giusto collocarla lì dove è?), ma se è vero ciò che dici, bisogna prendere atto (se ce ne fosse bisogno) che l’arte in fondo è in grado di vedere più lontano di quello che i semplici testimoni sono in grado di vedere. E che forse in grado non lo saranno mai.

Postato martedì, 4 novembre 2008 alle 12:36 da Carlo S.


E all’ultima frase del commento precedente mi riaggancio per tornare alla definizione dell’arte come “cacatina dell’uccello presuntuoso” che a me piace moltissimo (anche se non so di chi sia in realtà).
L’arte vede più lontano perchè l’uccello caca da quella che per un bipede è una rilevante altezza e il suo orizzonte è certamente molto più ampio. L’artista (l’uccello) poi è per forza presuntuoso, e deve esserlo, perchè lui è conscio dell’altezza da cui caca.
L’uomo comune, dalla sua infima quota, vede solo la cacatina che piomba al suolo. E tale rimane (una cacatina) se non si chiede chi l’ha fatta, in quale contesto, e con quali orizzonti negli occhi. Ma per chiederselo deve avere la possibilità (la necessità?) di guardare in alto.

Postato martedì, 4 novembre 2008 alle 12:51 da Carlo S.


Grazie mille, cara Carola. Considerati già da adesso invitata a presentare qui, insieme a Elena Stancanelli, il libro scritto a quattro mani che uscirà per Feltrinelli.
E in bocca al lupo per il nuovo romanzo. La fase di meditazione è fondamentale.:)

Postato martedì, 4 novembre 2008 alle 20:11 da Massimo Maugeri


Si.
L’artista è una specie di profeta?
Può darsi.
Sicuramente è il termometro della sua epoca, e, come ha scritto giustamento Carola, servo o padrone.
Ciao

Postato mercoledì, 5 novembre 2008 alle 15:23 da Rossella


@ Miriam
L’esperienza, è vero, è molto importante. La sottoscritta ne ha fatte di esperienze e ne ha viste parecchie, anche oltreoceano, abbastanza per poterti confermare che non bisogna mai essere eccessivamente categorici nei giudizi e che il discernimento è un lucido compito.
Tuttavia i principi, gli ideali, sono importanti, citare il Gorgia di Platone era solo un modo per dire che il pensiero classico greco era molto vicino ai valori etico-estetico piuttosto che a quelli tecno-scientifici, sosteneva tutta la problematica sull’anima, la testa Platone non l’avrebbe mai decapitata e, molto probabilmente, anche lui avrebbe arricciato il naso su tante porcherie.

Postato giovedì, 6 novembre 2008 alle 13:22 da Rossella



Letteratitudine: da oltre 15 anni al servizio dei Libri e della Lettura

*********************
Regolamento Generale europeo per la protezione dei Dati personali (clicca qui per accedere all'informativa)

*********************

"Cetti Curfino" di Massimo Maugeri (La nave di Teseo) ===> La rassegna stampa del romanzo è disponibile cliccando qui

*********************

*********************

*********************

*********************

OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN

*********************

OMAGGIO A TULLIO DE MAURO

*********************

RATPUS va in scena ratpus

*********************

Ricordiamo VIRNA LISI con un video che è uno "spot" per la lettura

*********************

"TRINACRIA PARK" a Fahrenheit ...

LETTERATITUDINE su RaiEdu (clicca sull’immagine)

letteratitudine-su-rai-letteratura

letteratitudinelibroii richiedilo con lo sconto di 4 euro a historicamateriale@libero.it o su ibs.it - qui, il dibattito sul libro

letteratitudine-chiama-mondo

letteratitudine-chiama-scuola

Categorie

contro-la-pedofilia-bis1

Archivi

window.dataLayer = window.dataLayer || []; function gtag(){dataLayer.push(arguments);} gtag('js', new Date()); gtag('config', 'UA-118983338-1');
 
 

Copyright © 1999-2007 Elemedia S.p.A. Tutti i diritti riservati
Gruppo Editoriale L’Espresso Spa - P.Iva 05703731009