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Archivio del 3 ottobre 2007

mercoledì, 3 ottobre 2007

LE SACRESTIE DI COSA NOSTRA di Vincenzo Ceruso (recensione di Roberto Alajmo)

In quel genere di attitudine del tutto personale rappresentato dalla lettura è raro che io mi sbilanci, ma una volta tanto mi sentirei di prescrivere la lettura di un libro: si intitola “Le sacrestie di Cosa Nostra”, di Vincenzo Ceruso, editore Newton Compton.

E’ un libro di quelli che mettono in fila i fatti uno dietro l’altro, in modo che parlino da soli. I ragionamenti, quelli, vengono di conseguenza, e sono lasciati all’intelligenza del lettore.
Io, per dire, sono uscito dalla lettura rafforzato nell’idea che la chiesa sarà pure “santa”, “cattolica” e “apostolica”, ma di sicuro non è “una”. Nel senso che assume di volta in volta un atteggiamento differente a seconda dei contesti. Solo all’apparenza padre Pino Puglisi e don Agostino Coppola sono in contraddizione fra loro. Al contrario: rappresentano due volti fra i cento diversi che la chiesa è capace di rappresentare. Ognuno di essi copre un segmento di mercato, in modo che a ogni interpretazione della fede, anche la più perversa, corrisponda una rispettiva chiesa. C’è il prete mafioso e il prete antimafioso, così come c’è il prete pedofilo e il prete antipedofilia.

Se i mafiosi non trovano contraddittorio uccidere e pregare, anche la chiesa cattolica non trova contraddittorio assumere un aspetto proteiforme, in modo da trarre il massimo profitto in ogni circostanza.

Ferma restando la buona fede di individui come padre Puglisi, quello della chiesa, in Sicilia come altrove, è un puro gioco delle parti.

Roberto Alajmo

- – - -

Le sacrestie di Cosa Nostra

di Vincenzo Ceruso

Newton & Compton, 2007, euro 9,90, pagg. 270

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Roberto Alajmo è nato a Palermo nel 1959. Fra i suoi libri: Le scarpe di Polifemo (Feltrinelli, 1998), e Notizia del disastro (Garzanti, 2001), col quale ha vinto il premio Mondello. Con Mondadori nel 2003 ha pubblicato il romanzo Cuore di Madre, finalista ai premi Strega e Campiello. Nel 2004 è uscito Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo e nel 2005 il romanzo È stato il figlio, finalista al premio Viareggio e vincitore del SuperVittorini e SuperComisso.
Con Laterza, sempre nel 2005, ha pubblicato il saggio Palermo è una cipolla.

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Aggiornamento del 4 ottobre 2007

L’ufficio stampa della Newton & Compton, di comune accordo con l’autore del libro, mi invia il prologo. Ringrazio e pubblico qui di seguito. (Massimo Maugeri)

Prologo

Non fai più parte di questo mondo.

Il capomafia Leoluca Bagarella

rivolto a un nuovo affiliato a Cosa nostra

La sagrestia è una terra di mezzo. Non sei in chiesa ma neppure al di fuori di essa. È uno spazio in cui sacro e profano si mescolano. Vi si trovano gli arredi sacri e i paramenti liturgici.

Il prete lo usa per cambiarsi prima delle funzioni. Ma è anche un posto dove ci si può fermare a parlare tranquillamente, senza il timore reverenziale che si prova nel luogo deputato al culto. La gente entra, chiede informazioni, parla con il sacerdote, talvolta si confessa. Questo libro è un reportage sulle sagrestie di Cosa nostra: «Un poco come un viaggio senza precedenti, un viaggio da inviato speciale non già sulla mafia, ma “dentro la mafia” [...]. Un lungo, fantastico viaggio, dentro un mondo anche per me sconosciuto: una esplorazione, una scoperta. Un viaggio dentro la mafia e “sotto il mondo”…» (Felice Chilanti, in «L’Ora», 15 settembre 1963).

Parlare di “sagrestie di Cosa nostra” ha un duplice significato: in un senso puramente geografico, si riferisce a quante si trovano in territori dove il controllo della mafia è profondamente radicato e tendenzialmente assoluto; poi vi sono le sagrestie per le quali i padrini hanno una particolare predilezione.

Sono quelle che i padrini sentono come cosa propria, dove celebrano le loro festività, si sposano, battezzano i figli, in cui si muovono a proprio agio, dove la loro presenza non è imposta per via autoritaria, ma in cui sono bene accolti; non come peccatori in cerca di redenzione, ma proprio per quello che sono: personaggi di rispetto, mafiosi riconosciuti e, in quanto tali, ossequiati. Ovviamente, le due cose non sempre coincidono. Le sagrestie di Palermo racchiudono molti dei segreti dell’Onorata società. Il viaggio ci condurrà in chiese molto diverse tra loro. Dalla chiesa di Maria SS. delle Grazie, nel cuore della terribile “mafia dei giardini”, alla chiesa di San Giuseppe, nel pieno centro storico del capoluogo siciliano, così amata dall’infelice Vincenza Marchese, sposa del sanguinario Leoluca Bagarella; dallo splendido duomo normanno di Monreale alle chiese del SS. Crocifisso e di Maria SS. del Carmelo, nelle borgate di Coceverde-Giardina e Ciaculli, per decenni occupate quasi militarmente dalla spietata famiglia dei Greco; senza dimenticare la chiesa, anzi le chiese, del mite e forte don Giuseppe Puglisi, ucciso dai sicari mafiosi il 15 settembre del 1993. Non solo San Gaetano, nel famigerato quartiere palermitano di Brancaccio, la cui liberazione il coraggioso prete pagò con il martirio; Puglisi maturò la sua resistenza alla mafia nei primi anni di sacerdozio, trascorsi anche in condizioni difficili, in diverse chiese della diocesi di Palermo, lasciando ovunque segni tangibili della sua presenza amica. Il suo ultimo incarico come parroco, in un territorio ad alta densità mafiosa, fu il tragico epilogo di una vita spesa per il Vangelo e contro tutto ciò che Cosa nostra rappresenta in Sicilia. Ma quale interesse possono avere i rappresentanti di un’organizzazione criminale che movimenta decine di miliardi di euro dappertutto, si occupa di traffici internazionali di stupefacenti, decide la vita e la morte di migliaia di affiliati, a inserirsi nella vita di una parrocchia o, comunque, a intromettersi nelle vicende religiose dei suoi membri?

A titolo esemplificativo, si può rispondere a questo interrogativo raccontando una storia. Ciccio Pastoia era il braccio destro dello “zio Binnu”, cioè Bernardo Provenzano, l’ultimo capo dei capi di Cosa nostra (“zio” è un titolo onorifico abbastanza diffuso in Sicilia), arrestato nell’aprile del 2006. Grazie a questa fiducia don Ciccio, originario di un piccolo paese dell’entroterra siciliano, chiamato Belmonte Mezzagno, si era ritrovato a comandare in mezza Sicilia e a decidere su ogni genere di affari, dalle poche centinaia di euro per il pizzo di un negozio fino ai miliardi di euro per il futuro ponte sullo Stretto.

Ciccio Pastoia prendeva ordini solo dal capo e a lui solo riferiva. Ma aveva commesso un errore. Si era fidato troppo della sua autonomia e aveva ordinato un omicidio senza informarne Provenzano. Quando venne arrestato i giornali pubblicarono alcune intercettazioni telefoniche, in cui Pastoia metteva a punto il piano per il delitto e diceva chiaramente ai suoi complici che a Provenzano era meglio non dire niente. Decise di non attendere la punizione e di suicidarsi in carcere. Ma ciò non venne ritenuto sufficiente. Ha ricevuto la condanna fin nella tomba. All’indomani del funerale il loculo venne interamente distrutto; per ammonire e intimidire i vivi, certamente, ma anche per esprimere un giudizio sulla sorte ultraterrena del traditore. L’ambizione del sodalizio mafioso sembra essere quella di non fermarsi neppure di fronte alla morte, ma anche a questa apporre il proprio sigillo.

Quale altra organizzazione di malviventi si preoccupa del destino trascendente dei propri membri?

È un compito, questo, in genere riservato alle religioni. I terroristi legati al mondo dell’estremismo islamico, che abbiamo imparato a conoscere sotto la sigla di Al Qaeda, la rete criminale di Osama Bin Laden, ci hanno in effetti abituato all’immagine di uomini e donne che commettono azioni orribili, sgozzano, sequestrano, si fanno saltare in aria, massacrano vittime innocenti e sono disposti a farsi uccidere senza dubitare che, in cambio di ciò, riceveranno una ricompensa ultraterrena. Tutto questo ci disgusta ma, in un certo senso, ormai non ci stupisce più. Abbiamo familiarizzato con l’idea. È possibile che i mafiosi pensino ai loro crimini come azioni legittimate da una finalità religiosa?

Per rispondere a questa domanda dovremmo riuscire a pensare come pensa un appartenente a Cosa nostra. E non è facile.

Possiamo aiutarci con il lavoro di storici, psicologi e sociologi, ma ancora più utile potrebbe risultare lo studio di uno specialista molto particolare. Si chiama Sergio De Caprio, meglio conosciuto come “capitano Ultimo”. È l’uomo che ha catturato, dopo ventisei anni, Totò Riina, detto “’u curtu”, uno dei più feroci capimafia mai esistiti. Nel suo libro, un manuale di tecniche investigative destinato alla Scuola di perfezionamento di polizia, il militare espone il problema di come prepararsi a un conflitto asimmetrico, tra lo Stato e un nemico inferiore per forza e quantità, che però trova proprio nella sua presunta debolezza il vantaggio di cui servirsi sul terreno:

Il nemico invisibile, non strutturato, non convenzionale è la minaccia che stabilisce la nuova dottrina di lotta: non più muro contro muro, non più vuoto contro pieno, ma piccolo contro grande, leggero contro pesante, semplice contro complesso, poco contro tutto [...]. È immediata l’intuizione dell’importanza fondamentale che nei conflitti moderni assume la funzione dell’esplorazione nascosta by stealth e la tecnica che la spalma sul terreno. Vince chi ha la superiorità informativa sull’avversario, non chi ha maggiore capacità di fuoco (Ultimo, La lotta anticrimine.

Intelligence e azione, Roma, Laurus Robuffo, 2006, pp. 48, 49).

Se c’è una cosa che la storia della mafia (e dell’antimafia) dovrebbe insegnare, è che Cosa nostra ha saputo costruire una «superiorità informativa sull’avversario», cioè sullo Stato.

Per dirla in altri termini, i mafiosi sanno chi siamo noi ma noi non sappiamo chi sono i mafiosi. Cioè, non sappiamo come pensano, come si muovono, cosa sta loro a cuore. De Caprio spiega che per lottare sul terreno dei mafiosi occorre imparare a «interiorizzare l’avversario per prevederlo».

Un analista del fenomeno criminale – la cui conoscenza non è finalizzata all’azione repressiva – potrebbe parafrasare questa formula così suggestiva: interiorizzare l’avversario per studiarlo.

In qualche misura, dovremmo fare come il protagonista di un celebre film, Donnie Darko. Il personaggio principale è un poliziotto che si infiltra nelle fila della mafia americana. Lo fa così bene che arriva a identificarsi con gli esponenti di quel mondo criminale, fino a creare un sincero legame d’amicizia con il piccolo mafioso che lo ha introdotto nella “famiglia”, impersonato da Robert De Niro. Tutta la sua vita ne esce sconvolta.

In una scena litiga con la moglie, che lo accusa di comportarsi come i criminali che dovrebbe arrestare, di essere come loro. Lui le risponde urlando: «Io sono uno di loro!».

Ovviamente, a nessuna persona normale verrebbe in mente di procurarsi una pistola, trafficare in droga e iniziare a chiedere il pizzo ai negozi sotto casa, per riuscire a carpire qualcuno dei segreti dell’universo mafioso. E infatti non è necessario arrivare a tanto. Secondo il popolare protagonista dei

romanzi di Sir Arthur Conan Doyle, il celebre Sherlock Holmes: «È difficile che una persona usi ogni giorno un oggetto senza lasciarvi impressa qualche traccia della sua personalità, che un osservatore esperto non può non decifrare». La mafia usa fin dalla sua nascita tradizioni e simboli della religione cattolica. Tracce del passaggio dell’organizzazione segreta Cosa nostra si possono rintracciare nelle sagrestie, negli archivi delle confraternite, nei santuari, nel silenzio dei cimiteri, nei chiostri dei conventi, nei percorsi delle processioni.

Un buon punto di partenza sono le “santine”, le immagini religiose, che vengono utilizzate per la “punciuta”, la rituale affiliazione degli adepti:

Sono entrato a far parte della famiglia nel 1974: io e Umina Salvatore. Ci portarono in campagna, da mio padre [...]. Poi hanno preso una candela accesa, hanno disinfettato un ago facendolo bruciare al fuoco e ci hanno punto il dito. Pigghiaru a santa, ci dettiru fuocu e nna’ misiru nna’ manu, poi ci fecero giurare: io giuro di essere fedele alla famiglia, se io dovessi tradire le mie carni saranno bruciate come brucia questa santina. Queste sono le modalità per potere entrare nella famiglia. Poi c’è stata la baciata (trascrizione di un interrogatorio in «Giornale di Sicilia», 16 maggio 1987).

È la descrizione della cerimonia di affiliazione dalla viva voce di un ex mafioso, un certo Vincenzo Marsala, diventato collaboratore di giustizia negli anni Ottanta del secolo scorso.

È un racconto fresco ed essenziale, dove il contaminarsi di dialetto siciliano, italiano scolastico e parlato rende, anche linguisticamente, la mescolanza di arcaico e di moderno di cui è impastata la mafia. Se Cosa nostra è abituata a descrivere se stessa come manifestazione della società tradizionale, indubbiamente in questa elaborazione ideologica ha un ruolo da definire l’adesione dell’uomo d’onore al cattolicesimo:

Per incoronare un capo non si sceglieva mai un giorno a caso. Per esempio a Riesi, tra le miniere di zolfo e il vino nero come inchiostro della contrada Judeca, un boss ha presentato pubblicamente il suo delfino nel giorno più importante di quella comunità: la festa della Madonna della Catena. E così fu anche nel 1963, quando Francesco Di Cristina si affacciò dal balcone della casa più grande e bella di Riesi e baciò suo figlio Giuseppe. Sotto quel balcone dodici uomini portavano a spalla la statua di gesso della Madonna. Non c’è mafia senza chiesa. Non ci sono mafiosi senza fede. In tempi antichi e in tempi moderni. Si possono scannare cristiani come capretti, si possono sciogliere bambini nell’acido, si possono strangolare uomini e poi gettare i loro corpi in fondo al mare e poi… pregare (Attilio Bolzoni, in «la Repubblica», 9 giugno 1997).

Cosa intende l’affiliato a Cosa nostra con religiosità? Che ruolo ha questa religiosità nella cosiddetta cultura mafiosa? È esistita (o esiste) un’ideologia, o meglio, un sistema di valori condiviso, che ha fatto da cerniera tra mafia e parte del clero siciliano?

Possiamo rispondere a queste domande solo se partiamo da un presupposto: per un membro di Cosa nostra la mafia stessa esaurisce la sfera della religiosità. È una delle intuizioni di Giovanni Falcone: «Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi ad una religione».

Nulla viene prima e nulla viene dopo di essa. Nell’Ottocento lo avevano già capito. Scriveva un delegato di polizia in un suo studio, nel 1886:

Si è parlato lungamente di riti di iniziazione. Si racconta in tono leggendario che dopo il 1866 girava per vari comuni una specie di missionari, i quali andavano facendo proseliti per una causa che, camuffata a religiosa e politica, sotto le finte cioè di far trionfare la religione ed abbattere il governo usurpatore e scomunicato, metteva capo realmente al delitto. Furono da costoro introdotti riti tra il mistico e il settario, che con brevi varianti si resero poi comuni alle varie associazioni di malfattori [...]. I soci avevano segni di riconoscimento e ben presto il tenebroso sodalizio si sparse in vari comuni. Vuolsi che all’atto del giuramento l’iniziato dovesse anche tirare un colpo di pistola ad un crocifisso colà appeso, quasi per dimostrare che dopo aver sparato al Signore non avrebbe esitato ad uccidere qualunque persona, anche a lui cara (Giuseppe Alongi, La maffia, 1886, p. 102).

Sono storie e metodi che riguardano un mondo arcaico e ormai scomparso, sostituito dalle strategie di una moderna holding criminale-finanziaria, che opera in borsa e non si preoccupa più di crocifissi e giuramenti?

Forse. O forse no. L’onorevole Lo Giudice, un deputato regionale siciliano di una certa importanza, recentemente arrestato, intercettato al telefono durante un’indagine, parlava dell’organizzazione mafiosa con un suo amico: «Conosco i parrini, anche se non faccio parte della Chiesa».

I “parrini”, i preti in siciliano, sono i mafiosi; la Chiesa di cui si parla qui è la mafia siciliana, Cosa nostra. Con questa colorita espressione, il politico intendeva sottolineare la sua vicinanza, la sua intimità, con il mondo degli uomini d’onore, nonostante il fatto di non essere formalmente affiliato all’associazione. In maniera non molto diversa, un capomafia si rivolgeva qualche anno fa a un nuovo aderente dicendogli: «Non fai più parte di questo mondo»; per fargli intendere quale vita lo attendeva, quasi assimilandolo a un convertito a una nuova religione, più che a uno spietato sicario. Sappiamo inoltre che per riferirsi alla famiglia mafiosa di San Filippo Neri, un quartiere della periferia nord di Palermo, meglio conosciuto come ZEN, i seguaci della cosca usano un’espressione: la Chiesa.

No, non si tratta di procedimenti superati, come cercheremo di dimostrare. La gran parte della documentazione che useremo è basata sugli scritti degli esponenti ecclesiastici, sulle dichiarazioni di chi ha combattuto la mafia, sulle rivelazioni dei mafiosi divenuti collaboratori di giustizia, sulle comunicazioni e sulle lettere degli uomini d’onore. Una fonte primaria sono le interviste rivolte a religiosi che operano, con la funzione di parroco, in alcuni quartieri palermitani considerati ad alta densità mafiosa: Brancaccio, Ciaculli e Settecannoli.

Un grande reporter, recentemente scomparso, ha scritto: «Esistono tre tipi di fonti, la principale delle quali è la gente. La seconda sono i documenti, i libri e gli articoli. La terza è il mondo che ci circonda e in cui siamo immersi: colori, temperature, atmosfere, climi, i cosiddetti elementi imponderabili e difficili da definire, e che tuttavia costituiscono un elemento importante del nostro lavoro» (Ryszard Kapuscinski, Autoritratto di un reporter, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 64).

È una fonte primaria anche l’esperienza e la testimonianza personale di chi scrive, e che in quel territorio vive e risiede.

Questo non è necessariamente un vantaggio, poiché la vicinanza con l’oggetto del mio studio ha richiesto uno sforzo ulteriore di lucidità durante l’analisi; dall’altro lato vi è il vantaggio di poter osservare, in determinati momenti, quella che è la vita quotidiana di Cosa nostra, sapendo leggere connessioni e significati di un mondo in cui si assiste, senza tregua, all’alternarsi di grigiore borghese e di follia omicida. Le fonti orali che ho utilizzato sono indispensabili quando si indaga su una realtà quale quella mafiosa, connotata da segretezza e da mancanza, il più delle volte, di fonti scritte. Il lavoro

di un ricercatore sulle tracce di Cosa nostra non è talvolta dissimile da quello di un normale investigatore, che deve sapere infiltrarsi, leggere le connessioni, lavorare con frammenti per ricostruire l’insieme completo: «Ricondotti ad un unitario sistema di coerenze interpretative, i vari elementi

“indiziari” acquistano un convincente valore probatorio» (G. C. Marino, L’opposizione mafiosa, 1996).

Nel caso dei rapporti tra chiesa e mafia, non mancano gli indizi per ipotizzare una strategia di Cosa nostra volta a infiltrarsi all’interno del tessuto ecclesiale. Per un mafioso non solo mafia e religione si conciliano perfettamente ma, si può dire, il problema in genere non si pone neppure. Un collaboratore di giustizia, in un’intervista a Rita Mattei, così spiega come poteva conciliare mafia e religione: «Io e mia moglie siamo religiosi. Mi hanno insegnato che la mafia è nata per amministrare la giustizia. Quindi, nessuna contraddizione. Anzi, sa che ora, davanti a Cristo, mi sento un traditore? Quando ero un assassino andavo in chiesa con animo tranquillo. Ora che sono un pentito no, non prego serenamente» (T. Principato – A. Dino, Mafia donna, 1997, p. 131).

E i sacerdoti cosa ne pensano? La Chiesa non è un monolite.

Le sue relazioni con la mafia non possono essere comprese sotto facili slogan. Da un lato vi è il religioso carmelitano Mario Frittitta, che ha ammesso di aver officiato i sacramenti e celebrato messa nel covo del padrino Pietro Aglieri; dall’altro vi è don Puglisi. Tra questi due poli vi è un ampio arco di posizioni che questa ricerca ha cercato di rappresentare, seppure parzialmente, nel modo più fedele possibile. La storia della Chiesa di Palermo è necessariamente diversa dopo l’assassinio di padre Pino Puglisi in una misura che forse ancora non cogliamo pienamente, ma la sua stessa figura per essere compresa appieno, va inquadrata nella storia del cristianesimo del Novecento. E poi vi sono le strategie che la mafia mette in atto nei confronti del clero, per cercare di strumentalizzarlo e indirizzarlo, là dove questo può essere utile ai suoi scopi. Gran parte del libro si preoccupa di indagare intorno ai metodi utilizzati da Cosa nostra per riuscirvi.

Una lettura che non vuole dimenticare un filo rosso di resistenza cattolica alla mafia, lungo tutto il Novecento, che va da don Giorgio Gennaro, ucciso dai Greco di Ciaculli nel 1916, a don Giuseppe Puglisi, e passa attraverso l’esperienza di una rivista come «Segno», nata a Palermo, quella del Centro studi Pedro Arrupe, creato dai gesuiti nel capoluogo siciliano, o di sacerdoti come il salesiano Baldassare Meli e il gesuita padre Antonio Damiani, nei quartieri palermitani dell’Albergheria e del Capo. Ciò che ci interessa non sono tanto le colpe degli uomini o delle istituzioni, ma le conseguenze delle loro decisioni. E precisamente le conseguenze, sul piano religioso ed ecclesiale, di una egemonia mafiosa in Sicilia che si è consolidata nell’arco di almeno due secoli.

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