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Archivio del 6 maggio 2007

domenica, 6 maggio 2007

A CHE (A CHI) SERVE LA LETTERATURA?

Alessandro Piperno

Chi glielo dice ad Alessandro Piperno che questa sua presa di posizione – mantenuta con pervicacia – sulla presunta inutilità della letteratura a qualcuno fa un po’ sorridere?

Chi glielo dice che, pronunciata da lui, la frase “la letteratura non serve a niente” suona – alle orecchie dei più cinici e superficiali – un po’… irriverente? Della serie: da che pulpito… ?

Non so se vi ricordate, ma tempo fa – esattamente il 13 novembre 2006 – scrissi un post su Piperno e sulla sua inutilità della letteratura (che, badate bene, non significa sulla sua letteratura dell’inutilità… non fatemi dire cose che non ho detto, eh?).

Anzi, vi invito a rileggere quel post cliccando qui.

La questione, in verità, diciamolo (anzi, scriviamolo), non è poi così nuova – forse è vecchia come quella relativa alla cosiddetta morte del romanzo – ed già stata ampiamente dibattuta in altri tempi e in altre sedi.

Piperno – però – persevera, si fa paladino della suddetta tesi. La riporta in auge rispolverandola da vecchie incrostazioni e lucidandola – in ottica post-ideologica – con considerazioni che qualcuno potrebbe considerare quantomeno poco convincenti.

Piperno persevera e "lancia", o meglio, "ri-lancia" sulle pagine de L’Espresso. Scurati "raccoglie" e replica sulle pagine de La Stampa. Ne viene fuori una similpolemica che, al di là degli intenti promozionali (Piperno e Scurati si sono incontrati a dibattere sul palco, e sotto i riflettori, di "Officina Italia") merita di essere presa in considerazione come polemica vera, sebbene amicale.

Per quanto mi riguarda, quando sento parlare di inutilità della letteratura e morte del romanzo in genere sorrido. Sorrido e penso che, in fondo, la vacuità di questi dibattiti ha (forse) un valore apotropaico (termine caro a Piperno): fin quando si parlerà di inutilità della letteratura e morte del romanzo, letteratura e romanzo avranno, rispettivamente, utilità e vitalità.

Chiedo venia per il tono scanzonato – forse canzonatorio – e dissacrante delle mie parole. Rimedio subito, però, cedendo la parola ad Antonio Scurati che pochi giorni fa, come già accennato, ha ben replicato allo scrittore dandy (così è stato anche definito Piperno) sulle pagine de La Stampa.

Vi riporto, dunque, l’articolo pubblicato su Tuttolibri del 28 aprile 2007.

Antonio Scurati

Il borghese è l’uomo che ha trovato una sedia. Così parlò, a metà ‘800, Victor Hugo. Per questo motivo, è sempre esistito un romanzo borghese ma mai uno scrittore borghese. Almeno non mentre scriveva. Se mi si passa la boutade, stando a Hugo, un vero scrittore non scrive mai da seduto.

O, almeno, ciò è rimasto vero fino a qualche tempo fa. Lo scrittore, come figura distinta nell’ambito delle professioni intellettuali, nasce proprio nell’800, con il delinearsi del «campo letterario». Dapprima, questo nuovo soggetto serve gli interessi di classe della borghesia all’apice del suo trionfo: le fornisce un capitale culturale, uno strumento di autorappresentazione con il romanzo, un discorso di legittimazione. Molto presto, però, scaricato dalla borghesia, al cui mercantilismo è superfluo, quando non d’intralcio, lo scrittore passa all’antagonismo sociale. Viene marginalizzato e per questo fa del margine la propria collocazione d’elezione. Si separa dal corpo sociale – la sua «sacralità» è funzione della sua separatezza – per poterlo sottoporre a critica costante. Per più di un secolo e mezzo ogni scrittore sarà, perciò, il veleno del suo ambiente sociale. Ma ne sarà anche l’antidoto, proprio grazie alla sua strutturale anti-socialità.

Passata la buriana della lotta per la Storia, l’onda di riflusso del secolo appena estinto lascia sulle nostre rive lo «scrittore borghese». Riconciliato con la società se non con se stesso, beato, compiaciuto, comodo. Al giro del XXI secolo, lo scrittore sembra aver trovato una sedia. E ci si è seduto.
Se rispolvero il vecchio arnese ideologico della polemica antiborghese è perché sono stato tirato in ballo da Alessandro Piperno in un articolo, apparso ieri su
L’Espresso, nel quale si sostiene l’inutilità della letteratura. L’inedito verrà letto il 4 maggio a Milano nel contesto di un nuovo festival letterario – Officina Italia – da me organizzato (www.officinaitalia.net). Forse è per questo che Piperno, nel sostenere che la letteratura non è mai servita a niente, mi parodizza nelle vesti di un rabbino delle lettere che, con prediche persecutorie, lo richiama alla responsabilità sociale di ciò che va scrivendo. Accolgo volentieri la polemica personale come espediente per drammatizzare uno scambio di idee. Piperno ricorre al repertorio classico del disimpegno: azzeramento della coscienza storica (le cose sono sempre andate così), apparentamento della letteratura ai lussi spirituali (la letteratura condivide la sublime irrazionalità della passione amorosa), autodissacrazione dello scrittore (la letteratura come patologia psichica), autocommiserazione crepuscolare («la letteratura è un ripiego per infelici che il tempo ha cronicizzato in vizio»). Tutto questo, però, va a maggior gloria dello scrittore: un «palpito di eroismo» accompagna l’intrinseca moralità della letteratura che, pur rifiutandosi di distinguere il bene dal male, si «configuri come tensione verso l’autentico».
Ora, al di là del fatto che l’autenticità – come Samuel Johnson ebbe a dire del patriottismo – è spesso l’ultimo rifugio delle canaglie (e non mi riferisco certo a Piperno ma, per esempio, agli spacciatori mediatici di real tv, reality show etc. etc.), trovo significativo che a farsi paladino dell’inutilità della letteratura sia proprio chi, in seguito al successo del suo romanzo d’esordio, è divenuto una sorta di incarnazione del nuovo idealtipo di «scrittore borghese», con tanto di servizi sui suoi luoghi di svago esclusivi e cravatte abbinate ai calzini. Lo trovo significativo perché, come tutti sanno, la superiore ideologia del ceto borghese è proprio l’utilità a ogni costo: l’utilità, l’efficacia, la capacità che le cose hanno di funzionare, di produrre reddito, l’autocrazia del successo sono l’unico metro di valore per la cultura borghese. Stando così le cose, o la letteratura non vale niente perché inutile o la tesi della sua inutilità è anti-borghese. Oppure, terza posizione, questa confessione d’impotenza, questa professione di inutilità sono, in verità, del tutto funzionali, sono utili e redditizie per chi le pronuncia, perché agevolano una pacifica reintegrazione dello scrittore all’ordine sociale, qualunque esso sia, e una piena identificazione con l’ordine simbolico delle logica culturale dominante. Come dire: accoglieteci, amateci, divertitevi con noi, fateci guadagnare un sacco di soldi; perché tanto noi scrittori siamo inutili, dunque innocui, non possiamo far bene ma non possiamo nemmeno far male, lasciateci ai nostri giochini e non vi recheremo nessun disturbo, le nostre piccole trasgressioni verbali sfiateranno in flatus vocis, siamo dei bambini che piangono, siamo dei bambini che cercano l’applauso del papà mentre fanno la cacca.

Considero Piperno un autentico scrittore, dunque non gli farò il torto di confonderlo con il suo protagonista, Bepy Sonnino – un commerciante ebreo, estetizzante ed edonista, che nel secondo dopoguerra accumula fortune illecite dopo aver rimosso la tragedia del suo popolo, considerato alla stregua di un imbarazzante parente povero – il cui universo mentale è il regno del kitsch, un cosmo da cui il male è del tutto assente non perché sia stato estirpato ma perché ne è stato espunto. Ma al Piperno ideologo dell’inutilismo cripto-borghese vorrei dire che non ci si può limitare ad affermare l’inutilità della letteratura, bisogna anche testimoniarne l’antiutilità, la disfunzionalità radicale, il suo essere irredenta e irredimibile, sconsolata, disturbante piuttosto che conciliante, struggente piuttosto che compiacente. E’ vero: la letteratura ha sempre preso partito per l’infelicità. In ogni epoca. Ma la sua infelicità non è ripiego, non estensione di una nevrosi ma esercizio di una specifica intelligenza del mondo, agone nel quale lo scrittore scende per la lotta. Nella sua stessa nevrosi d’uomo, d’altronde, lo scrittore legge la diagnosi clinica del proprio tempo. L’autoesilio dello scrittore sull’orlo della società non deve essere cuccia ma pulpito: lì è la fonte della sua autorità a parlare di essa e contro di essa. Antonin Artaud proclamava: io sono un uomo che ha molto sofferto. Poi però aggiungeva: ed è per questo che ho diritto di parlare.

Tutte queste cose lo scrittore Piperno le sa ma l’ideologo le dimentica. «La letteratura non serve a niente», ripete. D’accordo. Ma solo se il verbo «servire» significa «essere servo di». La letteratura non serve perché è sovrana.

A testimone dell’inutilità della letteratura, Piperno chiama la suprema autorità della morte. Dinnanzi a essa, dice, tornano più utili una preghiera, o una bestemmia. Ma la letteratura è quella bestemmia, caro Alessandro. Una bestemmia fervente. Piperno trova il suo campione in Nabokov, il parnassiano, l’inutilista. Lolita sarebbe un grande romanzo d’amore che ha avuto il merito di chiudere in bellezza la tradizione occidentale dell’amore romantico, giunta al capolinea «nell’abitacolo d’una macchina all’interno della quale si sfidano all’ultimo sangue Humbert e la sua ninfetta». Sottoscrivo, caro Alessandro, non ho bisogno di opporti altri campioni. Va bene Nabokov. A patto di ricordare che, come insegna Denis De Rougemont, nella tradizione Occidentale, l’amore romantico non è un insulso sdilinquimento, non uno squittio ma una protesta contro un mondo regolato dal male. Un mondo contro il quale la brama di assoluto degli amanti si scontra con furia ereticale. E vale anche per la letteratura.

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Il post è aperto per i vostri commenti.

A che (a chi) serve la letteratura?

A voi la parola.

Pubblicato in PERPLESSITA', POLEMICHE, PETTEGOLEZZI E BURLE   30 commenti »

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