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giovedì, 23 novembre 2006

IL NUOVO PARNASO SORRIDENTE DI VAGHENAS (di Elio Distefano)

Il poeta e docente di letteratura Elio Distefano mi invia questo ottimo intervento. Io lo ringrazio e pubblico il suo testo con immenso piacere.

In tempi di libero verso e di poesia sempre più simile alla prosa, diverse voci – e a volte anche autorevoli – si sono levate a rammentare la necessità di riferirsi comunque a uno schema metrico che dialoghi con la  tradizione. Fra queste voglio ricordare quella di Nasos Vaghenàs, poeta greco vivente nonché docente di Teoria della Letteratura all’Università di Atene il quale, proprio per la sua specifica competenza in questo campo, ha espresso pareri degni di essere proposti alla riflessione e diffusi con un mezzo capace di penetrazione capillare come la Rete telematica. Quella che Vaghenàs denuncia è la crisi del verso libero, che ha perso la sua urgenza perché bistrattato ormai da insipide creazioni di dilettanti le cui opere non dialogano più con un passato spesso non nemmeno conosciuto dai loro autori. La crisi della versificazione tradizionale, dunque, che a suo tempo ha rappresentato un aspetto dell’esigenza comunemente avvertita di innovare forme svuotate di senso da una tradizione troppo lunga e ingombrante, dopo il felice approdo al verso libero da parte di poeti che conoscevano fin troppo bene quella tradizione, è sfociata in una indegna banalizzazione anche ad opera di un’editoria di sottobosco, finta e senza scrupoli, che ha aperto le porte anche a chi non sapeva fare nulla.

Vaghenàs propone un riuso di certi accorgimenti tradizionali della poesia quale la rima che, lungi dal banalizzare il discorso poetico, gli restituiscono ciò che generi minori come la canzone leggera gli hanno rubato, e cioè la lepida grazia che gli antichi conoscevano e apprezzavano. La rima, come emerge dai testi che vi propongo in questa sede, non è lo strumento per la creazione di facili ritmi, bensì l’occasione privilegiata per accostamenti insoliti, favoriti dal formidabile uso dell’ironia. I testi che vi invito a leggere sono tratti da “Ballate oscure” (Crocetti, 2006) e qui anche il titolo fa riferimento a una forma antica di versificazione strofica, meno aulica della canzone, che si attesta su di un livello di raffinatezza senza sdegnosità, come il suo autore, il quale, pur nel rispetto di una poesia che sia quantomeno versificata, si vuole prendere la libertà di accostare, consapevolmente, contenuti legati parimenti ad esperienze quotidiane o sublimi, lessico a volte aulico e rima, nel contesto di una riflessione stupita sulla voracità del Nulla che tutto avvolge, con il risultato di ottenere una nuova grazia poetica,aristocratica ma leggera, con un recupero di tematiche legate alla tradizione greca classica che, unite alla sensibilità dell’autore, ne fanno dei gioielli la cui luce è  sospesa fra pessimismo e leggera ironia.

Nasos Vaghenàs (immagine tratta da una copertina della rivista Poesia)

V’invito a considerare, ad esempio, l’uso della rima in questa lirica (considerate che si tratta di traduzioni, per cui è tanto più lodevole l’opera del traduttore, che ha conservato lo spirito del componimento originario):

Ballata dell’amante insicuro

Scrivere il tuo nome sopra i vetri appannnati,

attendere in stazioni dove hai atteso per ore,

son cose che non danno né gioia né dolore.

Suono azzurro, ancestrale, altissimo profumo,

la tua voce scintilla come la lacrima angelica.

Ma il mio amore è l’amore degli Otelli.

E quando mi rinfocola e quando mi addormenta,

rabbrividisco e vedo innanzi Iago.

Mi dico: lega i giambi con lo spago.

Le poesie sono fiori molto esili,

nutriti dalla consona tristezza.

E l’ira, se li accumula, li spezza.

da “Ballate oscure”, traduzione di Filippomaria Pontani (Crocetti editore, 2006):

o ancora quest’altra, di carattere ironicamente programmatico:

Problemi con la Musa

La mia Musa da un po’ mi crea apprensione.

Non mi siede in braccio. Tiene il broncio.

S’annoia, mi rinfaccia ogni svarione

a me, che nella sua corporazione

ero l’amante più focoso (e sconcio).

Lei che una volta con dita odorose

mi accarezzava il capo, ora mi parla

con note non squillanti né armoniose

-vanno a ferire come frecce partiche

là dove prima lasciavano rose.

Credo le amiche l’abbiano convinta

con commenti malevoli e cattivi,

pieni d’odio per me, e l’abbiano spinta

a rendere gli incontri fra noi privi

dell’eros-ma che soluzione finta,

seguitare a vederci come cari

vecchi amici con simili interessi,

raffinati (al di sopra dei due sessi),

di spirito parlando, non di carne,

e, a volte, dell’amore e degli annessi.

Presento che mi scorderà ben presto,

che tra poco mi negherà anche questo;

già mi chiama “Thanassis”(come scrivo),

lei che aveva coniato sul mio petto

ogni più tenero vezzeggiativo.

da “Ballate oscure”, traduzione di Filippomaria Pontani (Crocetti editore, 2006):

Il resto v’invito a cercarlo nell’edizione cartacea dell’opera, sperando di avervi suscitato interesse per questo autore coltissimo, eppure brillante e leggero come sanno essere solo i grandi.

                                                                                    Elio Distefano


Scritto giovedì, 23 novembre 2006 alle 19:49 nella categoria EVENTI, INTERVENTI E APPROFONDIMENTI. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. I commenti e i pings sono disabilitati.

19 commenti a “IL NUOVO PARNASO SORRIDENTE DI VAGHENAS (di Elio Distefano)”

Ad esser sincera non conoscevo Vaghenas.
Ringrazio Elio per avermelo introdotto.
Belle le poesie. Un plauso anche al bravo traduttore.

Postato giovedì, 23 novembre 2006 alle 23:19 da Elektra


Anche a me è piaciuta la recensione del prof. Distefano.
Belle le poesie di Vaghènas.
Prendo spunto da quanto scritto da Elektra per chiedere proprio al prof. Distefano quanto conta la traduzione nella poesia.
Credo la traduzione sia molto importante in narrativa; ma in poesia mi pare fondamentale. Una traduzione approssimativa, soprattutto laddove c’è la rima, rischia di ammazzare la poesia originale. Lei che ne pensa?

Postato venerdì, 24 novembre 2006 alle 10:50 da Rosa


Nel corso dei secoli, la poesìa ha mutato spesso le sue forme: ha cantato
la gloria delle nazioni (poesia epica), i moti segreti dell’anima (poesia
lirica), l’urto delle passioni umane (poesia drammatica), ora legandosi a
rigide norme ritmiche, ora espandendosi in piena libertà. Talvolta, come dai
classici, è stata considerata sforzo per mettere ordine nel caos delle cose
e rendere luminoso ciò che è oscuro alle menti comuni; a volte, per esempio
dai romantici, come espressione tumultuosa delle aspirazioni profonde
dell’anima, ma anche impegno, riscatto, educazione a nuovi valori. C’è chi
ha ritenuto poesia vera soltanto quella pura con senz’altro scopo che quello
del bisogno e del piacere di cantare e chi ha ritenuto invece che essa abbia
un senso solo quando agisce sul mondo per renderlo migliore.
Le avanguardie portano proposte nuove (poesia visuale) che non
sostituiscono , per fortuna,
molte forme tradizionali.
Ma certamente il grande poeta è sempre stato fenomeno raro: la grande
poesia credo sia un avvenimento che ritorna solo di tanto in tanto a
interpretare, con la voce di uno solo, i sentimenti e la voce di tutti.

Postato venerdì, 24 novembre 2006 alle 21:09 da Maria Luisa Papini Pedroni


“Quella che Vaghenàs denuncia è la crisi del verso libero, che ha perso la sua urgenza perché bistrattato ormai da insipide creazioni di dilettanti”
il punto è: chi è che decide che una creazione è insipida? e chi è che decide chi è in possesso del potere di decidere?

Postato sabato, 25 novembre 2006 alle 16:32 da gigi


Il problema della traduzione è quantomai vivo e attuale: credo che tradurre comporti sempre il rischio di riscrivere , e questa è una violenza che non si può accettare; e tuttavia tradurre è necessario perchè chi non conosce la lingua originale di un autore possa fruire lo stesso della sua opera. Non credo alla neutralità totale dell’opera di traduzione come non credo alla possibilità di fare storiografia in modo imparziale, ma un’onestà intellettuale di fondo è sempre quantomeno auspicabile.Allora credo che la cosa fondamentale sia cogliere appieno lo spirito che anima un’opera: in modo tale si troverà la soluzione più acconcia per restituire intatto il mondo poetico in cui l’opera vive, al di là dei problemi posti dalle forme metriche, lessico e dalla sintassi, ma senza ignorare niente di tutto ciò . Nel caso di Vaghenas, è talora impossibile riprodurre in altre lingue rime che sono state “pensate” in greco, e pertanto è essenziale renderne lo spirito, cioè l’intenzione e l’intuizione che vi sottostanno, senza la pretesa di aver restituito la totalità degli echi di un testo, specie se -come in questo caso- esso vive in una leggerezza ironica che si nutre del confronto diretto con forme e testi della tradizione greca classica. Credo sia un’operazione un po’ di equilibrismo che deve mantenersi in bilico fra lettera e spirito, optando -ove non si possa rendere entrambi-decisamente per il secondo. Questo richiede una conoscenza approfondita della lingua di partenza e di quella di arrivo nonchè delle due culture , se è vero che la lingua è una parte integrante di quella storia della civiltà all’interno della quale è chiamata ad essere coscienza forte del proprio tempo e voce di chi non ha voce. Grazie infinite per l’interessamento e per la domanda di Rosa, alla quale nel mio piccolo spero aver dato risposta quantomeno chiara. Con profonda umiltà
Elio

Postato domenica, 26 novembre 2006 alle 00:12 da Elio


Caro Gigi,
la poesia , come qualunque altra attività umana, ha dei punti di riferimento, costituiti dalla retorica, dalla metrica e dalla tradizone stessa, che bisogna conoscere o almeno non si può ignorare. Non a caso, perciò, per parlarne, ho scelto un autore come Vaghenas, che è un accademico e un teorico della letteratura, e quindi un esperto al quale, senza proscinesi, bisogna pur dare voce in capitolo come si fa con qualsiasi specialista. Al di là di questo esiste poi un’intuizione , un senso nativo per la poesia che fa riconoscere a naso il dilettantismo di cui Vaghenas parla, e che è innegabile.

Postato domenica, 26 novembre 2006 alle 00:19 da Elio


Grazie mille prof. Distefano. Le sue precisazioni sono state davvero preziose.

Postato domenica, 26 novembre 2006 alle 11:27 da Rosa


La poesia puzza sempre più di cattedra.

Saluti
Giancarlo

Postato domenica, 26 novembre 2006 alle 21:10 da Giancarlo Cobino


Caro Cobino,
colgo spesso nelle sue parole una punta di acredine generalizzata che si appunta ora su un oggetto, ora su un altro e della quale non so dare piena spiegazione, non avendo la fortuna di conoscerla personalmente. Nel caso specifico: a quale poesia allude? a tutta quella attuale o a una parte di essa, magari diffusa da pseudo-editori? Se possibile, faccia riferimenti più precisi. Grazie
N.B. Nella tradizione consacrata dalla scuola spiccano almeno due nomi di poeti accademici: Pascoli e Carducci, e in entrambi i momenti migliori si hanno quando l’uomo prevale sul “professionista delle lettere” per così dire. Così nel Carducci intimista che dialoga con il paesaggio fieramente malinconico della sua Maremma o nel Pascoli quando si slancia verso la natura con lirismo nativo e autentico. Entrambi non rinunciano alla dignità esteriore della poesia anche nelle loro cose più felici. In tempi più recenti potrei citare Roberto Roversi e il suo recupero della forma-poema.

Postato martedì, 28 novembre 2006 alle 00:00 da Elio


Colgo l’occasione per ringraziare Maria Luisa Papini Pedroni per il suo intervento colto, garbato e interessante. Circa le attuali posizioni su poesia e non poesia, invito Maria Luisa e gli altri amici di questo blog a cercare, (qualora non le conscano già) in rete e in libreria le opere di Tiziano Salari, che si segnalano per rigore metodologico e profondità e acume critico. Possono essere un ottimo abbrivio per parlare di poesia oggi.

Postato mercoledì, 29 novembre 2006 alle 11:27 da Elio


Caro Elio,

L’acredine purtroppo non è limitata ad una sola punta, ma ad una superficie molto più ampia. Vivo male in questo mondo ed in questi tempi, ma probabilmente non avrei vissuto meglio in altri periodi.
Confessioni a parte, dichiarare che la poesia puzza sempre più di cattedra è un’espressione generale per dire, senza peli sulla lingua, che i cattedratici, i professori (tranne qualche genovese eccezione), i critici e soprattutto i lettori colti stanno rovinando molti versi. Parlano sempre più della metrica, della singola virgola, del punto in vece del doppio punto (tutti argomenti importanti) al posto del significato delle parole. E’ un percorso pericoloso quello che si sta percorrendo, pieno di altezzosa superiorità.

Non voglio fare nomi: non è il mio forte e poi sono convinto che voi più colti di me sappiate produrvi in una corrispondenza univoca tra accuse e poeti.

Quel nota bene è piuttosto un altro modo per far prevalere la conoscenza sulla mia oscura acredine. Cosa dovrei mai notare? Mi sfugge. Mi suona tanto come quando a scuola i professsori facevano prevalere la loro sapienza su ignari studenti (proprio con un badate, ascoltate, notate bene) con l’unico effetto di dire: a me mi piace più jovanotti di pascoli. E forse non avevano tutti i torti. Se non altro lo potevano capire senza intermediari e note a piè di pagina. Non è certamente un merito di Jovanotti o un demerito di Pascoli, quanto l’indifferenza e prosopopea del professore di turno.

Saluti
Giancarlo

Postato mercoledì, 29 novembre 2006 alle 14:34 da Giancarlo Cobino


Caro Giancarlo,
rispetto la tua opinione sullo scritto di Elio. Io, però, non sono molto d’accordo. A me pare che la sua disamina sia molto interessante. Ripeto, ognuno ha le sue opinioni ed ha tutto il diritto di esprimerle qui purché si mantengano toni civili (e, devo dire, non ho ravvisato problemi di questo tipo). Elio, per esempio, sulla querelle Orengo-Cucchi era dalla parte di Cucchi. Ed esprimeva un’opinione che può essere condivisa oppure no.
Forse l’articolo su Vaghenàs ti ha dato l’impressione che il buon Elio si sia lasciato andare ad atteggiamenti di saccenza?
Per quello che può servire posso garantirti (dico così perché conosco Elio Distefano molto bene) che trattasi di persona affabile, disponibile e, come si suol dire, alla mano. E questo nonostante sia un bravo poeta e uno (secondo la mia opinione) tra i migliori giovani intellettuali siciliani.
Ci tenevo a precisarlo. Però, ripeto, tu hai il diritto di esprimere la tua opinione con schiettezza.

Postato mercoledì, 29 novembre 2006 alle 17:11 da Massimo Maugeri


Grazie per la precisazione Massimo. Sono convinto che Elio sia una persona affabile e soprattutto intelligente, nonché un bravo poeta (a proposito, perché non cominciamo tra noi a far circolare i nostri scritti, gratis, in modo da creare davvero un gruppo di persone che si conoscono). Il mio post non era tanto indirizzato a lui – non solo, quanto meno – poiché non lo conosco e non posso sapere cosa pensa nel suo complesso; era più che altro legato ad un modo tutto scolastico di intendere la poesia e farla circolare. Probabilmente mi sbaglio, ma sono sicuro che se ognuno dice la sua ne vien fuori un bel dialogo. Se ho sbagliato nell’interpretare le parole di Elio lo prego di scusarmi: a volte mi lascio andare.

Saluti
Giancarlo

Postato mercoledì, 29 novembre 2006 alle 17:21 da Giancarlo Cobino


Un bravo cantante siciliano canta “siamo figli di un pensiero debole”. Questa è la croce e la delizia dei nostri tempi: viva la libertà e la sperimentazione, ma senza perdere di vista i punti fermi. Ciò che è bello è tale perchè lo riconoscono tutti come tale; il resto è gusto personale.

Postato mercoledì, 29 novembre 2006 alle 19:19 da Anonimo


La polemica e la saccenteria forse si vogliono vedere anche dove palesemente non ci sono, forse perchè si tende a proiettare all’esterno quello che si ha dentro!

Postato mercoledì, 29 novembre 2006 alle 19:21 da Elio


io di presenzialismo e arroganza ne ho talmente poche che ho dimenticato di firmare il primo di questi tre post.
Grazie ifinite, Massimo, per le belle e sincere parole che mi indirizzi.Gianca’, rilassati, ti prego!

Postato mercoledì, 29 novembre 2006 alle 19:23 da Elio


Elio, potrei dire lo stesso di te leggendo il penultimo post. Soprattutto: psicanalisi spicciola no, per favore!

Rilassati anche tu e sarò lieto di farlo, anche se devo sforzarmi poco: lo sono già.

Giancarlo

Postato mercoledì, 29 novembre 2006 alle 19:42 da Giancarlo Cobino


“Ciò che è bello è tale perchè lo riconoscono tutti come tale; il resto è gusto personale.”

Infatti la storia è piena di opere stupende subito riconosciute come tali da tutti, vero? Ma per favore… il bello è tale perché tutti lo riconoscono bello dopo che è diventato famoso: e nessuno di noi fa troppa eccezione.

Saluti
Un chianti delle colline di Calci mi attende
Giancarlo

Postato mercoledì, 29 novembre 2006 alle 19:44 da Giancarlo Cobino


a mio avviso nn si può dire cosa sia e cosa non sia poesia proprio perchè la poesia non può essere strettamente definita, se non come l’essenza più pura dell’anima, cosa che non ci aiuta molto. Se l’autore ha voluto mettere in versi un’emozione, un pensiero, un sentimento, una sensazione, vuol dire che questi l’hanno profondamente impressionato, e perchè questa non dovrebbe essere poesia? Se poi l’autore voule dare a questi versi un’impostazione metrica, ben venga, nche se per me è come mettere in gabbia un usignuolo, che canta sì, ma non può mai cantare come quado è libero.
In definitiva io credo che la poesia è strettamente legata all’epoca in cui viene scritta, perciò i componimenti in metrica andavano bene nell’età classica perchè apparteneva ad allora, ma oramai non ci appartiene più così strettamente.
Insomma, guardiamo avanti.

Postato venerdì, 3 ottobre 2008 alle 19:04 da giacomo



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