
ADDIO A PAPA FRANCESCO
Ci lascia il grande Pontefice amato dal popolo. Noi di Letteratitudine esprimiamo profondo cordoglio per la scomparsa di una figura così importante e centrale in questo delicato momento storico che stiamo vivendo.
Vogliamo ricordarlo attraverso questi due servizi video e questo libro autobiografico, uscito di recente: “Spera. L’autobiografia di Francesco” di Jorge Mario Bergoglio – a cura di Carlo Musso (Mondadori, 2025). In coda, un approfondimento sull’eredità che ci lascia Papa Francesco.
Papa Francesco, nato Jorge Mario Bergoglio (Buenos Aires, 17 dicembre 1936 – Città del Vaticano, 21 aprile 2025) è stato, dal 13 marzo 2013, il 266º papa della Chiesa cattolica e vescovo di Roma, 8º sovrano dello Stato della Città del Vaticano, primate d’Italia, oltre agli altri titoli propri del romano pontefice.
Di cittadinanza argentina, è stato il primo papa proveniente dal continente americano. Apparteneva ai chierici regolari della Compagnia di Gesù (Gesuiti) ed è stato il primo pontefice proveniente da tale ordine religioso. Nel 2018 la rivista Forbes lo ha classificato come il sesto uomo più potente del mondo.
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“Spera. L’autobiografia di Francesco” di Jorge Mario Bergoglio – a cura di Carlo Musso (Mondadori, 2025)
In libreria dal 14 gennaio, in più di 100 Paesi e nelle principali lingue SPERA, l’autobiografia di Papa Francesco, la prima realizzata da un Pontefice nella storia.
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«Un’autobiografia non è la nostra letteratura privata, piuttosto la nostra sacca da viaggio. E la memoria non è solo ciò che ricordiamo, ma ciò che ci circonda. Non parla unicamente di quel che è stato, ma di quel che sarà. Si dice comunemente “aspetta e spera”– tanto che nel vocabolario spagnolo la parola esperar significa sia sperare sia aspettare –, ma la speranza è soprattutto la virtù del movimento e il motore del cambiamento: è la tensione che unisce memoria e utopia per costruire davvero i sogni che ci aspettano. E se un sogno si affievolisce, bisogna tornare a sognarlo di nuovo, in nuove forme, attingendo con speranza dalle braci della memoria» commenta Papa Francesco nell’introduzione del suo memoriale, un documento eccezionale e di grande forza narrativa, che prende il via fin dai primi anni del Novecento, con la narrazione delle radici italiane e dell’avventurosa emigrazione in America Latina degli avi, per svilupparsi nell’infanzia, la giovinezza, la scelta vocazionale, la maturità, fino a coprire l’intero pontificato e il tempo presente.
Se in libri-intervista o testi a due voci con giornalisti – da El Jesuita, redatto quando Jorge Mario Bergoglio era cardinale di Buenos Aires, a Let us Dream, da Life a El sucesor – Francesco aveva fatto riferimento altre volte a episodi biografici, spesso in chiave di esortazione, SPERA è invece un autentico memoir, il primo di un Papa in carica: il racconto di una vita, tutta intera, in prima persona e con un’unica voce.
Scritto con Carlo Musso, già direttore editoriale non fiction di Piemme e Sperling & Kupfer e poi fondatore del marchio indipendente Libreria Pienogiorno, il volume per volontà di Papa Francesco avrebbe dovuto in un primo momento essere pubblicato solo dopo la sua morte, ma il Giubileo della Speranza e le esigenze del tempo lo hanno risolto a diffondere ora questa preziosa eredità, destinata a ispirare i lettori di tutto il mondo e a rappresentare un lascito di speranza per le generazioni future. «È stata una lunga, intensa avventura che ha impegnato gli ultimi sei anni: i lavori per la stesura sono iniziati fin dal marzo 2019 e si sono conclusi nei primi giorni di dicembre» commenta Musso.
Emozionante, intima, spesso commovente, ma anche capace di autentico umorismo, l’autobiografia di Francesco – che affronta con schiettezza, coraggio e profezia anche i più importanti e dibattuti temi della nostra contemporaneità, nonché i nodi cruciali del suo servizio come pastore universale della Chiesa – è densa di rivelazioni enarrazioni inedite.
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IL MIO COMPAGNO ASSASSINO E GLI ILLUMINANTI RACCONTI DEL BARRIO
Dagli illuminanti racconti della storia famigliare e del barrio della gioventù alla drammatica vicenda del compagno di classe che uccise un amico.
A GAZA E TERRA SANTA È L’URLO DI MUNCH, L’ATTENTATO SVENTATO IN IRAQ
Dal doppio tentativo di attentato nei suoi confronti durante il periglioso viaggio in Iraq («Mi era stato sconsigliato da tutti. Ma io volevo andare fino in fondo. Sentivo che dovevo») all’impegno concreto e costante di fronte agli orrori del conflitto ucraino e di quello israelo-palestinese. «Ho negli occhi un dipinto della fine dell’Ottocento, che rappresenta a pieno l’angoscia e la tragedia delle guerre del secolo successivo e di quelle dei nostri giorni» scrive. «Raffigura un uomo che si tiene la testa tra le mani, sotto un cielo innaturalmente rosso. A guardarlo meglio, non si sa se sia giovane o vecchio, e forse neppure se non sia piuttosto una donna; è un contorno senza età e senza genere, fatto solo di occhi e bocca spalancati, impossibilitato a fare altro se non urlare: è tutti. L’urlo di Edvard Munch è il sentimento di ciascuno di noi di fronte alla strage di innocenti e alla catastrofe umanitaria in Terra Santa».
IL NONNO ANTIMONARCHICO SUL PIAVE E IL RIPUDIO DELLA GUERRA
Il tema del ripudio della guerra è del resto una costante nella narrazione, a partire dalle esperienze del nonno paterno Giovanni, che l’aveva fatta sul Piave nel ‘15-18, in quel 78º reggimento di fanteria in cui al termine del conflitto si contarono a migliaia morti, dispersi e feriti, «suoi commilitoni, compagni, amici». Nel nonno, annota Francesco raccontandone le esperienze, la guerra «combattuta e quella che già s’addensava lasciò anche un radicato sentimento antimonarchico, che l’avrebbe accompagnato per il resto dell’esistenza. “Non è giusto!” diceva. “Non è giusto che il popolo debba mantenere questa consorteria di pigri mangiapane, e pagarne per di più sulla pelle i privilegi e le colpe! Che vadano a lavorare!”. Ricordo la sua felicità quando, nel giugno 1946, giunse la notizia della sconfitta del fronte monarchico al referendum che avrebbe proclamato in Italia la Repubblica, e nel quale per la prima volta votarono anche le donne».
IL PAPA È PASTORE, NON CAPPELLANO MILITARE DELL’OCCIDENTE
In molti viaggi apostolici, vividamente narrati nel volume, Francesco ha toccato con mano la barbara follia dei conflitti contemporanei: «Eppure», scrive significativamente, «a fronte di questa manifesta irrazionalità, la parola pace sembra essere diventata in questi tempi ancor più scomoda, a volte proibita, e gli artigiani di pace e giustizia guardati addirittura con sospetto, attaccati quasi fossero fiancheggiatori del “nemico” da una comunicazione che mostra in questo modo di non riuscire a sfuggire neanche col pensiero alla “logica illogica” e perversa della guerra, e che magari vorrebbe che la Chiesa utilizzasse il linguaggio di questa o quella politica e non quello di Gesù, o fare di un papa il cappellano militare dell’Occidente anziché il pastore della Chiesa universale. Niente a volte pare destare più scandalo della pace… Ma non bisogna arrendersi, non bisogna stancarsi di gettare semi di riconciliazione».
L’URGENZA AMBIENTALE E L’IPOCRISIA DI FRONTE ALLE RIFORME
Così come trovano ampio spazio nell’autobiografia la questione ecologica e ambientale, sempre più urgente («Una giovane scienziata ha commentato che l’agenda politica sui temi ambientali le ricorda spesso la risposta di suo figlio ogni qual volta va a svegliarlo per andare a scuola: “Altri cinque minuti, mamma”, sempre “altri cinque minuti”. Ma non ci sono più altri cinque minuti, la campanella sta per suonare e il bidello sta per chiudere le porte»), il dramma delle migrazioni, le sfide della tecnologia e dell’intelligenza artificiale, e le molte affrontate per il presente e il futuro della Chiesa. A proposito delle quali commenta: «Alcune resistenze ci sono sempre, il più delle volte legate a una scarsa conoscenza o a qualche forma di ipocrisia. Torna alla mente quel capolavoro del cinema italiano con Marcello Mastroianni e Sophia Loren, Una giornata particolare, quella storia di due “scartati”, un omosessuale e una donna, che sono obbligati al confino in un palazzo deserto nel giorno in cui tutta Roma è impegnata per la visita a Mussolini di Adolf Hitler, che si prepara a trascinare il mondo nella catastrofe della guerra e nell’abominio degli eccidi. Quelli celebrati sfarzosamente nell’esaltazione della piazza, i primi due invece additati al pubblico ludibrio, relegati all’insignificanza. Che diabolico ribaltamento… È strano che nessuno si preoccupi per la benedizione a un imprenditore che sfrutta la gente, e questo è un peccato gravissimo, o per chi inquina la casa comune, mentre pubblicamente ci si scandalizza se il papa benedice una donna divorziata o un omosessuale. Le contrarietà alle aperture pastorali disvelano spesso queste ipocrisie».
LA ZIA “BARBONA” E LE FIDANZATINE DELLA GIOVINEZZA
Sono numerosi pure i racconti privati, famigliari, umanissimi, molti relativi all’infanzia e alla giovinezza, dalla zia “barbona” alle fidanzatine del barrio. «Anch’io provai attrazione per due ragazze in quel tempo, una a Flores, della parrocchia, e l’altra del barrio di Palermo, che è un po’ la Little Italy di Buenos Aires, con al cuore Plaza Italia e, al centro della piazza, il monumento equestre a Giuseppe Garibaldi. Avevo conosciuto quella ragazza perché i nostri padri erano amici e le famiglie avevano preso a frequentarsi. Ma non furono fidanzamenti ufficiali, uscivamo in compagnia, andavamo a ballare il tango. Avevo diciassette anni, e dentro di me già c’era l’inquietudine della vocazione e del sacerdozio […] Ma prima ancora, da bambino, ci fu l’infatuazione infantile per una ragazzina di Flores, una storia tenera che avevo dimenticato e che mi è stata rammentata poco dopo essere stato eletto papa. Era una mia compagna di scuola della primaria, Amalia Damonte. Le scrissi una lettera in cui le dicevo che ci saremmo dovuti sposare, tu o nessuna, e per dar forza a quella proposta disegnai pure la casetta bianca che avrei comprato e dove un giorno saremmo andati ad abitare, un disegno che incredibilmente quella bambina ha conservato per tutta la vita. Viveva in una casa di calle Membrillar a pochi metri dalla nostra, e anche la sua famiglia aveva origini piemontesi. Ma nonostante le comuni origini, sua mamma a quanto pareva aveva per lei altri progetti; e se mi vedeva da quelle parti mi cacciava agitando la scopa».
L’UMORISMO, QUOTIDIANA PRATICA RIVOLUZIONARIA
E non mancano nemmeno episodi esilaranti. All’umorismo, del resto, è dedicato un intero capitolo, nel quale il Papa non solo narra la sua educazione familiare all’ironia, ma la fa vivere, raccontando quella di suoi predecessori al soglio pontificio, quella dei gesuiti, e perfino una barzelletta che lo riguarda. «Chi è sempre cupo, rigido, è bloccato» chiosa, «e l’umorismo è una strada maestra per invertire questo processo. Se potete sorridere di una cosa, potete anche cambiarla; per questo i bambini e i santi sono grandi rivoluzionari, e il Signore il più grande di tutti».
PENSAVO CHE IL PONTIFICATO FOSSE BREVE, MA L’OROLOGIO CE L’HA DIO
Tutte le 400 pagine dell’autobiografia, poi, sono imbevute di quella speranza invincibile che dà il titolo al volume. «All’inizio del pontificato avevo la sensazione che sarebbe stato breve: pensavo tre o quattro anni, non di più. Lo dissi anche in un dialogo con una giornalista della tv messicana» racconta il Pontefice. «Era un sentimento indistinto ma piuttosto forte, che nasceva dalla convinzione di essere stato eletto perché il conclave fosse rapido, non avevo un’altra spiegazione. Non credevo che avrei scritto quattro encicliche, e tutte le lettere, i documenti, le esortazioni apostoliche, né che avrei fatto tutti questi viaggi, in oltre 60 Paesi. Il primo in Brasile è stato già strabiliante per me. Eppure l’ho fatto, sono sopravvissuto. La verità è che è il Signore l’orologio della vita. Intanto, io vado avanti».
LO SCANDALO DEL PALAZZO DI LONDRA E LA FORZA DELLA SPERANZA
«Sento che tutta la mia esistenza è impastata di speranza e anche nei momenti più bui – penso alla notte oscura a Córdoba, dove tornai da confessore tra il 1990 e il ’92 – mai ho sentito di averla persa. E certamente è lo stesso da papa, perfino nei frangenti più complicati, più duri. La vicenda della compravendita del palazzo di Londra, il cosiddetto scandalo di Sloane Avenue, per esempio, è stata sicuramente dolorosa, davvero una brutta pagina, ma sempre ho sentito che dovevo andare avanti, e senza coprire proprio nulla. Le decisioni che ho preso in quell’ambito non sono state facili, ero sicuro che ci sarebbero stati dei problemi, ma so anche che la verità non va mai nascosta e che l’opacità è sempre la scelta peggiore».
Arricchiscono ulteriormente il testo alcune straordinarie fotografie, anche private e inedite, provenienti dalla disponibilità personale del Pontefice.
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L’EREDITÀ DI PAPA FRANCESCO
L’eredità del Papa amato dalla gente
Cantieri aperti all’uomo e non cattedrali richiuse in se stesse, tensioni aperte alla speranza e all’avvenire e non certezze radicate nella pigra nostalgia
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di Claudio Fabella
Nessun pontificato recente ha generato una frattura così visibile tra l’apparato e il profeta, tra l’istituzione e l’uomo che la abita, tra l’attesa di stabilità e l’urgenza della trasformazione. La fine del ministero di Papa Francesco – gesuita, argentino, uomo delle periferie e delle viscere urbane – non chiude soltanto un’epoca, ma apre un cratere ermeneutico nella storia della Chiesa cattolica. È lo spazio – irrisolto, a tratti scandaloso – in cui il Vangelo viene reinserito nel corpo del mondo, non come archetipo di purezza ma come ferita pulsante.
Non fu il primo latinoamericano, né il primo gesuita a stupire: fu il primo a rifiutare l’architettura stessa del potere pontificio. L’elezione di Jorge Mario Bergoglio fu presentata al mondo con un gesto di disarmante nudità: nessun trionfalismo, nessuna benedizione immediata, ma un uomo che si affacciava sulla loggia chiedendo preghiere. Il potere decostruito nella preghiera; l’autorità rifondata nel bisogno dell’altro. Un gesto liturgico, certo, ma anche un contraccolpo politico: Francesco inaugurava un papato che avrebbe spogliato la Chiesa delle sue armature liturgiche per reinserirla nelle fratture della storia.
La sua non fu, come molti analisti riduzionisti vollero far credere, una svolta comunicativa o estetica. Fu un rivolgimento teologico. La povertà smise di essere un ornamento ascetico per diventare cifra antropologica e criterio interpretativo del reale. La misericordia – lungi dall’essere una deviazione sentimentale – divenne il fondamento stesso del giudizio ecclesiale. L’opzione preferenziale per gli ultimi, già enunciata dalla teologia della liberazione, fu da lui assunta in termini pastorali e geopolitici: non come ideologia ma come prassi incarnata. Francesco non allargò i confini della Chiesa: li dissolse, andando a cercare Cristo nei sobborghi, nelle carceri, nei naufragi del Mediterraneo.
L’opposizione fu immediata, e spesso spietata. Settori della curia, episcopati nazionali, intellettuali devoti al paradigma dottrinale reagirono come anticorpi. Eppure, fu proprio in questo attrito che si rivelò la profondità dell’azione francescana: ogni resistenza era la prova che la struttura veniva toccata nei suoi nervi più profondi. La riforma della Curia, codificata nella Praedicate Evangelium, non si è limitata a un’operazione di efficientamento istituzionale: è stata una rifondazione assiologica dell’architettura ecclesiale. Non un semplice riordino di competenze, ma lo spostamento del fulcro: l’annuncio del Vangelo anteposto alla macchina amministrativa, il dinamismo sinodale anteposto alla fissità gerarchica, la voce del popolo di Dio riconosciuta come matrice dell’autorità, anziché suo destinatario passivo. In questa rivoluzione silenziosa, Francesco ha decostruito l’idea stessa di potere sacro: l’autorità spirituale non come proiezione verticale di una sacralità intoccabile, ma come esercizio radicale di ascolto. Non chi proclama, ma chi si china e ode le voci sommerse – quelle escluse, spezzate, rifiutate – è, per lui, il vero mediatore del divino. Ha riaffermato che lo Spirito non parla solo ex cathedra, ma anche nei silenzi delle madri migranti, nelle grida dei disoccupati, nella preghiera disordinata dei detenuti. Il suo orizzonte è stato quello di una Chiesa in uscita, ospedale da campo piuttosto che cittadella della dottrina: una Chiesa che smette di parlare dal pulpito e ricomincia a chinarsi.
Sul piano geopolitico, la sua figura ha assunto contorni quasi profetici. Le encicliche Evangelii Gaudium, Laudato si’ e Fratelli tutti non sono semplici testi dottrinali: sono manifesti di un’etica globale, che interroga i presupposti stessi del capitalismo contemporaneo, la frammentazione dei saperi, l’ideologia dello scarto. In particolare Laudato si’ ha restituito centralità alla questione ecologica, non come appendice etica, ma come cuore pulsante di una teologia dell’interconnessione. La “casa comune” non è più metafora, ma spazio teologico e politico, dove la distruzione dell’ambiente si intreccia alla colonizzazione economica e alla violenza sociale.
Il dialogo interreligioso ha trovato in Francesco un artigiano instancabile. L’incontro con Ahmad Al-Tayyib e il Documento di Abu Dhabi sono atti di diplomazia spirituale, ma anche tentativi radicali di edificare una “fratellanza umana” fondata sulla differenza riconciliata. La sua visita in Iraq, in un contesto segnato da guerre e persecuzioni, non è stata solo un gesto simbolico, ma un atto di resistenza evangelica: entrare nei luoghi della frattura per testimoniare che il Vangelo non teme i deserti della storia.
E dunque, la pace. Il suo infaticabile, inesauribile, impegno per la pace. Le ultime parole che ci ha donato sono inequivocabili: “Faccio appello a tutti quanti nel mondo hanno responsabilità politiche a non cedere alla logica della paura che chiude, ma a usare le risorse a disposizione per aiutare i bisognosi, combattere la fame e favorire iniziative che promuovano lo sviluppo. Sono queste le ‘armi’ della pace: quelle che costruiscono il futuro, invece di seminare morte!”, ha sottolineato il Pontefice”. (…) “Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo”.
Il nodo più controverso – e forse più fecondo – resta quello del rapporto con la modernità. Francesco non ha cercato compromessi dottrinali, ma ha aperto uno spazio pastorale nuovo: quello dove le questioni LGBTQ+, il ruolo delle donne, le famiglie “irregolari”, la bioetica non vengono rimosse o stigmatizzate, ma accolte come luoghi di discernimento. La sua pastorale è quella dell’incompiuto, dell’ascolto che precede la condanna, del cammino che non esige purezza all’ingresso. Non c’è relativismo in questa postura, ma un realismo spirituale: la verità come processo, non come possesso.
Nel cuore del pontificato, resta una nota mistica: la spiritualità ignaziana che lo anima, l’insistenza sul discernimento, sul silenzio, sulla preghiera come atto di resistenza. Non c’è nulla di ingenuo nel suo richiamo alla gioia evangelica: è la gioia del Cristo che ha attraversato la notte. La semplicità dei suoi gesti – l’abitare Santa Marta, il lavare i piedi a rifugiati musulmani – è il frutto maturo di una vita radicata nel Vangelo, non una strategia di marketing spirituale.
Papa Francesco ci lascia, dunque, un’eredità aperta, inquieta, non archiviabile in formule. Ha lasciato cantieri aperti all’uomo e non cattedrali richiuse in se stesse, tensioni aperte alla speranza e all’avvenire e non certezze radicate nella pigra nostalgia. Ha insegnato che la fedeltà al Vangelo non si misura nella conservazione, ma nel coraggio di riscoprirlo in ogni tempo. E in un tempo in cui la religione rischia di rifluire nel fondamentalismo o nell’irrilevanza, Francesco ha mostrato un’altra via: quella della prossimità come teologia, della fragilità come forza, del dubbio come spazio di grazia.
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La scheda del libro: “Spera. L’autobiografia di Francesco” di Jorge Mario Bergoglio – a cura di Carlo Musso (Mondadori)
Ricco di rivelazioni, di aneddoti, di illuminanti riflessioni, un memoir emozionante e umanissimo, commovente e capace di umorismo, che rappresenta il “romanzo di una vita” e al tempo stesso un testamento morale e spirituale destinato ad affascinare i lettori di tutto il mondo e a incarnare il suo lascito di speranza per le generazioni future. Il volume è arricchito da alcune straordinarie fotografie, anche private e inedite, provenienti dalla disponibilità personale di papa Francesco.
Per volontà di papa Francesco questo eccezionale documento avrebbe dovuto in un primo momento vedere la luce solo dopo la sua morte. Ma il nuovo Giubileo della Speranza e le esigenze del tempo lo hanno risolto a diffondere ora questa preziosa eredità. “Spera” è la prima autobiografia mai pubblicata da un papa nella storia. Un’autobiografia completa, la cui stesura ha impegnato gli ultimi sei anni, che procede dai primi del Novecento, con le radici italiane e l’avventurosa emigrazione in America Latina degli avi, per svilupparsi attraverso l’infanzia, gli entusiasmi e i turbamenti della giovinezza, la scelta vocazionale, la maturità, fino a coprire l’intero pontificato e il tempo presente. Nel raccontare con intima forza narrativa le sue memorie (non tralasciando affatto le proprie passioni), Francesco affronta senza alcuna dissolvenza anche i nodi cruciali del pontificato e sviluppa con coraggio, schiettezza e profezia i più importanti e dibattuti temi della nostra contemporaneità: guerra e pace (compresi i conflitti in Ucraina e Medio Oriente), migrazioni, crisi ambientale, politica sociale, condizione femminile, sessualità, sviluppo tecnologico, futuro della Chiesa e delle religioni.
A cura di Carlo Musso
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