
È morto lo scrittore e drammaturgo peruviano naturalizzato spagnolo Mario Vargas Llosa (Arequipa, 28 marzo 1936 – Lima, 13 aprile 2025), Premio Nobel per la letteratura 2010.
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di Claudio Fabella
Mario Vargas Llosa: la cartografia di un mondo perduto
Con la morte di Mario Vargas Llosa, avvenuta a Lima il 13 aprile 2025 all’età di 89 anni, si chiude una stagione della letteratura mondiale che aveva nella parola non soltanto uno strumento espressivo, ma un’arma critica, una forma di militanza, una responsabilità morale. Scompare l’ultimo titano del cosiddetto “Boom” latinoamericano, non solo una corrente estetica, ma un sisma culturale che ha riscritto la geografia del romanzo contemporaneo. Ma Vargas Llosa non fu solo un romanziere: fu un intellettuale nel senso più pieno del termine, ovvero uno scrittore che non ha mai smesso di interrogare il potere – e se stesso – attraverso la scrittura.
Il romanzo come campo di battaglia: origini e metamorfosi
Nato ad Arequipa nel 1936, cresciuto in un contesto familiare segnato dall’assenza paterna, Vargas Llosa costruisce fin dall’infanzia una visione del mondo lacerata, duale, popolata da autorità minacciose e da verità opache. Questa scissione si fa materia romanzesca ne La città e i cani (1963), opera d’esordio tanto dirompente da disturbare profondamente l’esercito peruviano: non un semplice romanzo sulla brutalità dell’accademia militare, ma un’archeologia della violenza istituzionale. La scrittura è qui già lotta e resistenza, testimonianza e sabotaggio.
Con La casa verde (1966), Vargas Llosa sfida ancora una volta la linearità narrativa, dissolvendo i confini fra centro e periferia, fra mito e cronaca, in una polifonia dove le voci si accavallano senza gerarchia, come in una giungla di linguaggi. È un romanzo-labirinto in cui la modernità si confronta con i suoi residui arcaici, senza riuscire a domarli. Questo senso di vertigine si radicalizza in Conversazione nella “Cattedrale” (1969), la sua opera forse più aspra e disperata, in cui la conversazione fra due personaggi si dilata in un’esplorazione spietata delle metastasi morali del regime di Odría. “In quale momento si era fottuto il Perù?”, si chiede il protagonista: è una domanda che attraversa tutta la produzione di Vargas Llosa, e che rimbalza, mutando forma, fino all’ultima pagina della sua carriera.
Il corpo del romanzo, il corpo del mondo
Il rapporto tra biografia e finzione è sempre stato, in Vargas Llosa, permeabile e dialettico. Non vi è romanzo che non rechi l’impronta della sua esperienza personale – o il suo rifiuto deliberato. La zia Julia e lo scribacchino (1977), ispirato alla sua prima moglie Julia Urquidi, è una celebrazione insieme tenera e ironica dell’amore e dell’invenzione, in cui la struttura alternata tra vita e soap opera suggerisce che la realtà e la finzione si contaminano reciprocamente in modo irreversibile. Ma è La guerra della fine del mondo (1981), ambientato nel Brasile del XIX secolo, a rivelare appieno l’ambizione epica dello scrittore: in esso, l’autore riflette sulla collisione tragica tra utopia religiosa e repressione militare, tra parola profetica e violenza statale. Non si tratta di un romanzo storico in senso tradizionale, ma di una riflessione metafisica sul fanatismo e sull’inevitabilità della sconfitta.
Con La festa del caprone (2000), Vargas Llosa torna al tema del potere assoluto, questa volta incarnato nella figura di Rafael Trujillo. Il dittatore non è più soltanto un simbolo politico, ma una presenza psichica che infetta la memoria, la sessualità, la narrazione stessa. Il romanzo – uno dei suoi più cupi e formalmente controllati – è anche un’esplorazione degli effetti della tirannia sul corpo femminile e sulla possibilità del racconto. La Storia, sembra dirci Vargas Llosa, non si lascia mai raccontare impunemente: ogni tentativo di rappresentarla implica una presa di posizione, un rischio, una ferita.
Dal romanzo alla res publica: lo scrittore e il cittadino
È impossibile separare l’opera di Vargas Llosa dal suo impegno civile. La sua adesione iniziale alla rivoluzione cubana, seguita da una dura presa di distanza, segnò una frattura simbolica e reale nel panorama intellettuale latinoamericano. A differenza di altri protagonisti del “Boom”, Vargas Llosa scelse il dissenso, il liberalismo, la democrazia rappresentativa – pagandone il prezzo in isolamento e critiche. La sua candidatura alla presidenza del Perù nel 1990, benché fallita, fu un gesto coerente con la sua idea di intellettuale come attore politico. Il pesce nell’acqua, il libro di memorie nato da quell’esperienza, è una riflessione amara sul rapporto tra idealismo e pragmatismo, tra parola scritta e compromesso politico.
Ma ciò che distingue Vargas Llosa dagli ideologi, è la sua costante capacità autocritica. Non è un pamphlettista travestito da romanziere, ma un narratore che sa che ogni potere, anche quello della scrittura, deve essere sottoposto a interrogazione. Le sue posizioni hanno spesso diviso, ma mai lasciato indifferenti, e proprio in questa tensione risiede la sua grandezza.
Il Boom, la frattura, la sopravvivenza
Nel pantheon del “Boom”, accanto a Gabriel García Márquez, Julio Cortázar, Carlos Fuentes, Vargas Llosa è la figura che più ha resistito al tempo. Non solo per longevità, ma per coerenza. Mentre altri si sono rifugiati nella nostalgia del magico o nella retorica del realismo, lui ha continuato a interrogare le strutture del potere, a decostruirne i miti. La rottura personale e politica con García Márquez nel 1976 – mai più sanata – fu anch’essa emblematica: due visioni del mondo, due idee della letteratura, due concezioni dell’impegno. Ma è proprio questa frattura che restituisce al “Boom” la sua vitalità: non come movimento compatto, ma come campo di forze divergenti, dove la letteratura è sempre una forma di conflitto.
Il Nobel e la sua eredità: “resistenza, rivolta, sconfitta”
Il Premio Nobel, assegnatogli nel 2010, giunse non come consacrazione tardiva, ma come riconoscimento di una coerenza intellettuale rara. La motivazione della giuria – “per la sua cartografia delle strutture del potere e le sue immagini incisive della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo” – coglie il nucleo della sua poetica. Vargas Llosa ha sempre guardato il mondo dal punto di vista di chi perde, di chi cerca di resistere pur sapendo di essere condannato. Ma proprio in questa sconfitta si annida la dignità dell’umano, e il senso ultimo della letteratura.
Oggi, mentre il suo corpo torna alla terra peruviana, il suo spirito letterario resta disseminato nelle biblioteche del mondo, fra le pagine che continuano a bruciare – non più nei falò della censura, ma nelle coscienze dei lettori. In tempi di slogan e algoritmi, Mario Vargas Llosa ci ricorda che scrivere resta un atto solenne, e leggere un atto politico.
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