Cinquant’anni fa moriva Pier Paolo Pasolini
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Nel cinquantesimo anniversario della tragica scomparsa — avvenuta nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975, sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia — di Pier Paolo Pasolini, è inevitabile riflettere sull’eredità complessa e molteplice di una figura centrale della cultura italiana del Novecento. Ed è altrettanto inevitabile – se non doveroso – valutarne i percorsi creativi e polemici, interrogandosi sugli influssi della sua opera anche alla luce dei cambiamenti sociali e politici degli ultimi decenni.

Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922 e muore a Roma a 53 anni. È ricordato come poeta, romanziere, regista cinematografico, saggista e intellettuale militante. Il suo percorso artistico tra origine nella provincia friulana, a Casarsa della Delizia, dove si rifugia con la madre durante la Seconda guerra mondiale. Il contesto di una cultura contadina e minoritaria lo segna profondamente, dando forma a una sensibilità rivolta alle lingue dialettali, alla cultura popolare e ai mondi marginali, in contrapposizione all’Italia industriale e borghese degli anni della ricostruzione. Su queste basi si innestano opere come “Ragazzi di vita” (1955) e “Una vita violenta” (1959), in cui Pasolini dà voce a universi periferici, scomodi e spesso esclusi.
Nel cinema, Pasolini rinnova radicalmente il linguaggio cinematografico italiano: dall’esordio di “Accattone” (1961) all’adattamento evangelico de “Il Vangelo secondo Matteo” (1964), fino al film estremo e provocatorio “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (1975). Il suo cinema si pone sempre al crocevia tra tra impegno politico-culturale e un gusto estetico disposto a sovvertire le forme tradizionali.
Un punto essenziale del suo pensiero è la critica radicale del consumo di massa, della televisione, dell’uniformazione culturale e della perdita di valori autentici.
In articoli come “Io so” (1974), Pasolini rivolge un j’accuse alla classe politica italiana, denunciando un sistema che agisce nella zona grigia della moralità e della violenza sotterranea. Nella sua visione, la cultura dominante può diventare strumento di dominio, e le periferie — lungi dall’essere soltanto «luoghi poveri» — si configurano come indici di trasformazioni antropologiche profonde.
Come è noto, la morte di Pasolini è rimasta avvolta da ombre e controversie: Giuseppe (Pino) Pelosi fu individuato e condannato come autore materiale dell’omicidio, ma nel tempo sono emerse ritrattazioni, nuove versioni e indagini che hanno alimentato dubbi su possibili responsabilità o legami più ampi. È corretto presentare queste ipotesi come tali: i fatti giudiziari accertati — la condanna di Pelosi — convivono con interrogativi e teorie non dimostrate, e la vicenda viene spesso letta nel quadro delle tensioni politiche e sociali degli anni di piombo.
Tornando all’aspetto artistico, la pluralità delle discipline su cui Pasolini opera — poesia, romanzo, cinema, saggistica, giornalismo — non va intesa come semplice eclettismo, ma come tratto strutturale del suo progetto culturale; tenuto conto del fatto che egli concepiva la cultura come spazio di conflitto, come arena di scontro tra civiltà e sottoculture, tra verità e potere. Questa tensione rende il suo lavoro ancora oggi sorprendentemente moderno.
L’Italia del 2025, con diseguaglianze sociali, periferie dimenticate e il dominio delle reti mediali, riflette molte delle riflessioni pasoliniane sull’omologazione culturale e sul declino dello spirito critico.
Le iniziative commemorative — convegni, retrospettive, mostre — che attraversano città come Roma, Bologna e Ostia dimostrano come il “caso Pasolini” continui a stimolare riflessioni attive.
Tuttavia, l’accoglienza dell’opera pasoliniana non è lineare. Le sue posizioni — la celebrazione della cultura popolare in antitesi al sistema, il radicalismo sessuale e politico, l’estrema sincerità intellettuale — lo hanno esposto a marginalizzazione e contestazione.
Il cinquantesimo anniversario mette in luce queste tensioni: la memoria ufficiale talvolta trasforma la sua figura in icona, mentre l’analisi critica richiede di preservarne la radicalità e la complessità.
In ogni caso il senso storico e politico del suo lascito non può essere sottovalutato. Pasolini ha mostrato come la cultura possa essere terreno di battaglia, come l’arte possa denunciare l’ingiustizia e come la morte di un intellettuale possa assumere valore emblematico di una stagione intera. Ripensare temi quali il populismo, la crisi delle istituzioni e l’omologazione globalizzante alla luce delle sue opere resta una chiamata alla riflessione e al pensiero critico.
Pertanto, celebrare il cinquantesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini significa rendergli omaggio non soltanto come monumento culturale, ma come stimolo permanente a interrogarci su cosa significhi essere intellettuali oggi, quale rapporto abbiamo con la cultura popolare e con le periferie, e come affrontare il conflitto tra verità e potere.
La sua morte resta una ferita aperta per la Repubblica e, insieme, un monito: preservare una pratica intellettuale capace di dissenso e di autentico spirito critico.
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